IL CONCETTO DI RUOLO IN DRAMMATERAPIA

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IL CONCETTO DI RUOLO IN DRAMMATERAPIA
IL CONCETTO DI RUOLO IN DRAMMATERAPIA
Di Robert J. Landy
Tratto dal volume: Essays in Drama Therapy. The Double Life.
Jessica Kingsley Publishers, 1996
Cura e revisione di Salvo Pitruzzella
Traduzione di Ezio Grassi
Due sono gli elementi essenziali nel processo della Drammaterapia: ruolo e storia. Essi
sono gli strumenti essenziali per la trasmissione dei messaggi tra il cliente e il terapeuta.
Tutte le comunicazioni che si attivano in Drammaterapia, sia intrapsichiche sia
interpersonali (almeno dal punto di vista del cliente) procedono attraverso questi media.
Essi possono essere chiamati media primari, giacché molti degli specifici mediatori
espressivi, come burattini e maschere, video e improvvisazione, prendono vita dalle fonti
di ruolo e storia. I mediatori specifici diventano quindi media secondari, che incarnano le
proiezioni del cliente mentre gioca un ruolo o racconta una storia.
I media drammatici sono delle interfaccia tra due livelli di realtà: quello della vita
quotidiana e quello dell’immaginazione. Giocando un ruolo o raccontando una storia, il
cliente in terapia drammatica entra nella realtà immaginativa (narrativa), allo scopo di
commentare la realtà quotidiana o di riflettere su di essa. I media secondari sono gli
strumenti pratici del trattamento, nel senso che essi possono illuminare la natura di ruoli e
storie dei clienti. È il compito del drammaterapeuta aiutare il cliente a trovare i ruoli da
giocare e le storie da raccontare, che possano fornire uno specchio che riflette la sua vita.
Un terzo importante elemento è l’atto creativo, la fonte da cui i media primari
prendono vita. L’atto creativo è l’illud tempus, il tempo delle origini, il momento dell’azione
spontanea: verbale, tonale o gestuale. Al cliente in terapia drammatica è proposta una
sorta di nascita, un chiamare all’esistenza parti di sé e del mondo, organizzando la propria
creazione.
Scopo di quest’articolo è esaminare ruolo e storia non solo come strumenti pratici
-“ferri del mestiere”- ma anche come concetti teorici, utili per una fondazione teorica della
Drammaterapia. I due concetti sono interconnessi, in quanto il cliente dà voce ai propri
ruoli attraverso una storia. Per storia non intendo solo una narrazione convenzionale con
inizio, svolgimento e fine. La storia è l’espressione, il gesto, il suono che informa il
terapeuta e i membri del gruppo sulla natura del ruolo giocato dal singolo partecipante. Se
ad esempio nel ruolo di un personaggio fiabesco, Tremotino, mi allontano
considerevolmente dal racconto classico, iniziando dalla fine e battendo rabbiosamente i
piedi a terra, insultando il terapeuta e accusandolo di avermi abbandonato, sto davvero
raccontando la mia storia. Il fatto che io abbia modificato la cronologia e la linea narrativa
della fiaba, è meno importante del fatto che io abbia trovato un modo di esprimere un
ruolo, il mio Tremotino interno, che si sente ingannato ed arrabbiato.
Il ruolo diventa allora il contenitore di quelle qualità dell’individuo che hanno bisogno
di essere manifestate. La storia è il testo verbale o gestuale, molto spesso improvvisato,
che esprime il ruolo, attribuendo un nome al contenitore. Il cliente, come creatore, inventa
storie -alcune basate su letteratura o media popolari, altre che prendono vita direttamente
dall’inconscio- come mezzo per rivelare il ruolo. Al termine della storia di ognuno, che a
volte ha bisogno di anni di terapia per essere interamente sviluppata, si dovrebbe essere
in grado di rispondere alla domanda: Chi sono io? E rendersi conto che la risposta
comprende sia un’identificazione dei ruoli individuali che gioco o che ho giocato, sia
un’integrazione dei miei molteplici ruoli. In quest’articolo si considera il concetto di ruolo,
derivato dal teatro, più adeguato a rispondere alle domande sull’identità che il concetto di
Sé, derivato da fonti psicologiche e filosofiche. Nelle prossime pagine, sosterrò che è
giunto il momento di spostarsi dal mito del Sé al mito del ruolo per dare un senso alla
storia personale di ciascuno.
L’interesse psico-sociologico sul ruolo risale agli anni 30 con i primi lavori di
G.H.Mead (1934), Ch. Cooley (1922) e R. Linton (1936). Tutti e tre indagavano intorno alla
dimensione sociale del Sé. Fu Mead ad usare per primo la locuzione role-taking
(assunzione di ruolo) per concettualizzare lo sviluppo del Sé attraverso l’interiorizzazione
di ruoli significativi presenti nel proprio ambiente. La nozione sociologica di Cooley del Sé
—specchio riecheggia la metafora poetica di Shakespeare del “porgere uno specchio alla
natura”. Per Cooley, ogni persona in un ambiente sociale diventa uno specchio simbolico
che riflette le immagini di sé. Quindi io arrivo a conoscere me stesso attraverso
l’interiorizzazione delle immagini altrui.
L’antropologo Ralph Linton (1930), ha ulteriormente definito il ruolo in termini di
status, definito come un insieme socialmente definito di diritti e doveri. Il ruolo diventava
l’aspetto dinamico dello status, la scintilla che mobilizza lo status trasformandolo in azione.
Successivamente, Linton ha definito due tipi di ruolo: uno, una collezione di ruoli specifici
basato su un determinato insieme di diritti e doveri sociali relativa a ciascun individuo;
l’altro, un ruolo generale, che rappresenta la totalità dei ruoli specifici che determina la
relazione dell’individuo con la società.
Queste due nozioni di ruolo ricordano l’“Io” e il “Me” di William James (1948) e
G.H.Mead (1934): il primo termine indica il Sé come oggetto, la più generale, primaria,
nucleare caratteristica dell’intelligenza centrale; il secondo indica il Sé come soggetto, i
ruoli specifici che l’individuo gioca in relazione alle particolari circostanze sociali.
Il lavoro di Mead e dei suoi colleghi colloca chiaramente l’origine del ruolo nella
società. Eppure il ruolo non è un concetto in sé e per sé significativo, ma è piuttosto è
sussidiario a un concetto più generale -il Sé- che dipende a sua volta dai concetti correlati
di mente e società. L’“Io” e il “Me” sono parti del Sé. Il ruolo è un processo di azione che
conferisce una direzione allo status e fornisce la sostanza sociale che la persona deve
interiorizzare per diventare un Sé a tutti gli effetti. Ruolo, quindi, diventava un’utile
metafora, presa in prestito dal teatro, ma di cui venivano disconosciute le specifiche radici
teatrali.
Moreno (vedi Fox 1987) tentò di restituire alla metafora la propria origine. Criticando
Mead e Linton per aver limitato la loro concezione del ruolo alle sue origini e funzioni
sociali, espanse il concetto di ruolo fino ad includere tre dimensioni: sociale, psicosomatica
e psicodrammatica. La dimensione psicosomatica del ruolo rappresenta gli aspetti
biologici della persona; la dimensione psicodrammatica gli aspetti psicologici. Per Moreno,
questi aspetti del ruolo precedono, in senso evolutivo, gli aspetti sociali.
Tuttavia la concezione moreniana del ruolo, come molti dei suoi scritti teorici,
rimane incompleta e inconsistente. Da un alto, critica Mead e Linton per l’eccessiva
limitatezza della loro comprensione del ruolo; dall’altro usa il loro orientamento
sociologico con molta frequenza (Fox 1987):
La forma (del ruolo) è creata da esperienze passate e da modelli culturali
della società in cui l’individuo vive… (p.62)
La funzione del ruolo è di penetrare l’inconscio da parte del mondo sociale e
portare forma ed ordine in esso. (p. 63)
Inoltre, Moreno sviluppa una concezione duale del ruolo non dissimile da quella del ruolo
specifico e generale espressa dal “Io” e “Me”. Nelle sue parole (Fox 1987):
Ogni ruolo è una fusione di elementi privati e collettivi. Ogni ruolo ha due
facce, una privata e una collettiva (p.62).
Il contributo più significativo di Moreno per la concettualizzazione drammatica del ruolo è
la sua nozione dell’essere umano come role-player (giocatore di ruoli). Per Mead e molti
dei suoi colleghi, al contrario, l’essere umano è primariamente una creatura cognitiva, che
sviluppa il Sé con e attraverso la mente in relazione ad altri significativi. L’essere umano è
quindi essenzialmente un role-taker piuttosto che un role-player. Questa distinzione,
all’apparenza sottile, è di grande importanza. La concezione di Mead è primariamente
cognitiva: io divento un sé nella misura in cui sono in grado di interiorizzare i ruoli degli altri
e vedere me stesso come essi mi vedono o mi hanno visto. La concezione di Moreno è più
attiva e drammatica: io divento una persona nella misura in cui sono in grado di
esprimere/giocare i miei numerosi ruoli e –attraverso il processo dell’inversione di ruolo- i
ruoli degli altri. A differenza di Mead, Moreno non fa affidamento su una nozione di Sé in
cui contenere il ruolo. Per Moreno (1953) il ruolo diventa il concetto predominante. L’Io, la
personalità o il Sé diventano troppo astratti e “velati di un mistero psicosociale” (p.75).
Questa concezione drammatica aiuta a rifocalizzare la nostra discussione
sull’origine teatrale del ruolo, la fonte della metafora così frequentemente usata dagli
psicologi sociali. Per seguire ancora Moreno, nell’antichità il termine ruolo era riferito ad un
legno di forma cilindrica su cui erano fissati fogli di pergamena. Il rotulus avrebbe facilitato
la lettura di un documento, svolgendolo man mano con la rotazione. Nel teatro classico
greco e romano, le parti degli attori erano scritte su questi “rotoli” e lette da suggeritori. In
questo modo, gli attori imparavano le parti. Più tardi, nel teatro elisabettiano, le battute del
personaggio erano scritte su fogli di carta. Questo testo, il ruolo del personaggio, venne
identificato con l’essenza della parte dell’attore in scena.
A partire da ciò, Moreno sviluppa un intero sistema di terapia, socioanalisi e
educazione che chiama sociodramma e psicodramma, basato su un concetto drammatico
del ruolo. Ciononostante, la rottura che Moreno effettua con le convenzioni della
letteratura drammatica da un lato e della riflessione psicosociologica dall’altro rispetto al
concetto di ruolo è una rottura parziale. Anche il suo modello è fondato su una teoria
sociale, per la quale la guarigione avviene in un gruppo in cui l’inversione di ruolo (i.e.
prendere il ruolo dell’altro) è la pratica predominante. Anche Moreno tentava di modellare
la sua narrazione epistemologica, il suo mito della creazione- biologica, psicologica e
sociale, ma in essenza drammatica.
I due più importanti scienziati sociali contemporanei che hanno sviluppato la
connessione teatro-vita sono Th. Sarbin ed E.Goffman. Nell’ormai classico studio di
Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, troviamo un’analisi della vita sociale
filtrata attraverso la lente della metafora drammatica. Goffman, all’inizio del suo libro,
espone una definizione di ruolo non dissimile da quella di Linton. Essa suona così: “La
messa in azione di diritti e doveri connessi con un determinato status”. Tuttavia, egli si
discosta in modo rilevante dai suoi antesignani, offrendo un’analisi globale della vita
sociale come giochi di ruolo. Infine, conclude che il Sé non è un costrutto cognitivo, ma un
artefatto da palcoscenico, un “effetto drammatico”:
Il sé, quindi, come un personaggio recitato, non è una cosa organica che ha
una collocazione specifica, il cui fondamentale destino è nascere, maturare e
morire; è un effetto drammatico, che scaturisce dalla scena rappresentata…
(pp.252-253)
Goffman non specifica la distinzione tra Sé e ruolo. Il suo linguaggio tende ad identificarli.
Fa comunque una distinzione tra i termini “personaggio” e “attore” (performer) che ricorda
l’“Io” e “Me” di Mead. Per Goffman, il “personaggio” è la parte più stabile della persona,
l’oggetto, l’“Io”, l’io.
L' "attore”, come il “Me”, è più flessibile e soggettivo, la persona come persona, il volto
come maschera.
Goffman inizia il suo libro con la seguente premessa: “Tutto il mondo non è,
ovviamente, un palcoscenico, ma i modi cruciali in cui non lo è sono difficili da specificare”
(p.72). e conclude smascherando la metafora theatricum mundi:
E perciò a questo punto il linguaggio e la maschera del palcoscenico devono
essere abbandonati. Le impalcature, dopotutto, devono servire per costruire
altre cose e dovrebbero sempre essere erette tenendo presente che vanno
poi smantellate (p.254; trad.it. p. 291).
È stato compito d’altri, come lo scrittore Philip Roth, un acuto osservatore dei
comportamenti sociali umani, rinforzare quelle impalcature, e conservare la qualità
drammatica essenziale del suo personaggio come performance, del suo Sé come ruolo, di
Roth come Zuckerman, il doppio immaginario, protagonista dei suoi ultimi cinque racconti.
Il gioco con i ruoli che si consente Roth va ben al di là di quello di Goffman. Nel crearsi un
alter-ego immaginario che compare ogni due anni in ciascuno dei racconti, Roth è in grado
di sbarazzarsi del Sé, lasciando intatti i due media “ruolo” e “storia”, in una sola azione:
quella dell’immaginazione. Attraverso la sua creazione di una “storia che cura” (vedi
Hillman 1983), Roth può rielaborare molte delle sue preoccupazioni concernenti identità
sessuale, nazionalità, religione e colpa. A conclusione di “The Counterlife (1986), Roth,
nelle vesti di Zuckerman, scrive:
Essere Zuckerman è una lunga performance: proprio l’opposto di quello che
comunemente si ritiene “essere se stesso”. Infatti, quelli che più degli altri
sembrano se stessi, mi appaiono come persone che impersonano ciò che
essi pensano di dover essere... Se ci fosse qualcosa come un essere
naturale, un sé irriducibile, dovrebbe essere molto piccolo, penso, ed essere
alla radice di ogni impersonazione – forse quest’essere naturale potrebbe
essere la capacità stessa, l’abilità di impersonare… E’ solo impersonare – in
assenza di un Sé, ognuno impersona dei sé… Quello che posso dirvi con
certezza è che io per primo non ho un Sé, e non ho né la voglia né la
capacità di perpetuare lo scherzo di un Sé… Quello che ho, invece, è una
varietà di impersonazioni, e non solo di me stesso – una troupe di attori che
ho interiorizzato, una compagnia permanente di artisti che posso chiamare in
scena quando ho bisogno di un Sé… Io sono un teatro e niente più che un
teatro… (pp.319-321)
L’idea di un Sé come ruolo recitato è un’idea potente, che pervade tutti gli aspetti della vita
sociale, psichica e perfino politica. Un libro recente, Landslide, the Unmasking of a
President 1984-88 (Mayer & McManus 1988), mette fuoco il ruolo di presidente come star
del cinema. La tesi del libro è che Ronald Reagan abbia recitato il ruolo di Presidente degli
Stati Uniti come avrebbe recitato altri ruoli al cinema o in televisione. Il tono peggiorativo
degli autori implica il loro sgomento a tale rivelazione. Ma perché dopo tutto avremmo
dovuto aspettarci da Reagan di essere diverso in questa particolare interpretazione? E’
stato sempre noto che era un attore mediocre, che ha affrontato le nuove parti con la
stessa mancanza di immaginazione. Si potrebbe dire che il suo stile di performance
scialbo tendesse a rendere i vari ruoli indistinguibili l’uno dall’altro. Secondo la teoria dei
ruoli implicita nel lavoro di Roth, il repertorio di ruoli di Reagan è, in effetti, piuttosto
limitato. Non è sorprendente quindi che l’attore Reagan interpreti il ruolo di Presidente
degli Stati Uniti: tutti gli individui eletti Presidente lo fanno. Quello che sorprende è la
qualità della performance, l’incapacità di lasciare il ruolo di attore di Hollywood, tanto
dipendente da copioni, registi e truccatori, per quello di Presidente degli Stati Uniti, ruolo
che, se recitato da interpreti più validi, è riempito di complessità, spontaneità e visione,
incorporando sia la maschera tragica sia quella comica. Da una distanza storica, il
Presidente Reagan, sarà indubbiamente dipinto come l’uomo con la maschera comica,
l’uomo familiare, dalla saggezza banale, che termina ogni messaggio presidenziale con il
credo: “e vissero per sempre felici e contenti”.
Durante le campagne elettorali, ascoltiamo le storie dei candidati cercando di
trovare un senso alle loro esibizioni nei dibattiti, nei discorsi, nei manifesti. Come facciamo
a sapere chi sono, e che cosa realmente farebbero se fossero eletti? Per rispondere a
queste domande, dobbiamo guardare i loro ruoli potenziali di rappresentanti eletti, che
basiamo non solo sul ruolo attuale di candidato, ma anche sui ruoli passati di
rappresentanti politici.
Per valutare la loro competenza passata, presente e futura nell’interpretare il ruolo
presidenziale, diamo un’occhiata al modello offertoci da Sarbin. Sarbin, come Goffman e i
precedenti socio-psicologi, vede il ruolo come un artefatto sociale basato su una metafora
drammatica. Egli usa il termine interpretazione di ruolo nel senso di nocciolo del
comportamento in ruolo. Sarbin e Allen (1968) specificano tre aspetti o dimensioni
dell’interpretazione di ruolo: numero di ruoli, coinvolgimento organismico e preoccupazione o tempo.
La prima dimensione, numero di ruoli, si riferisce al repertorio di ruoli dell’individuo.
Più ruoli uno è capace di giocare, meglio sarà in grado di rapportarsi con una varietà di
circostanze sociali. Questa nozione è simile a quello che molti drammaterapeuti vedono
come uno dei loro obiettivi primari (Emunah,1983, Landy 1986): l’espansione del
repertorio di ruoli.
La seconda dimensione, quella del coinvolgimento organismico, si riferisce al grado
di intensità o di distanza (vedi Landy 1983) nel giocare un ruolo. Il concetto di distanza in
Drammaterapia indica la misura del coinvolgimento affettivo/cognitivo del cliente nel lavoro
drammatico. Il punto ottimale di coinvolgimento è descritto come distanza estetica, un
equilibrio di affetto e cognizione.I punti di squilibrio sono identificati come
iperdistanziazione, uno stato compulsivo, manifestato da un eccesso di pensiero, e
ipodistanziazione, uno stato impulsivo, manifestato da un eccesso di emozione.
I gradi del coinvolgimento organismico variano da un minimo di non-coinvolgimento
(simile all’iperdistanziazione; Landy 1983), all’interpretazione casuale, all’ azione rituale,
all’assorbimento nell’azione (simile alla distanza equilibrata), al gioco di ruolo ipnotico, alla
nevrosi istrionica (simile all’ipodistanziazione; Landy 1983), all’estasi e infine agli stati di
possessione. Al livello più basso della scala, nei dintorni dell’iperdistanziazione, c’è un
coinvolgimento affettivo o cognitivo minimo, minimo sforzo, e un sé e un ruolo nettamente
differenziati. Al livello più alto della scala, nei dintorni dell’ipodistanziazione, ruolo e sé
sono indifferenziati, e la persona mostra il massimo coinvolgimento e un grande sforzo.
La terza dimensione del modello di Sarbin rappresenta la quantità di tempo
impiegata a giuocare un determinato ruolo confrontata con il tempo impiegato in altri ruoli.
Per prendere delle decisioni in merito ai nostri candidati, proviamo ad applicare il
modello di Sarbin. Qual è quello che dimostra di saper giocare i propri ruoli in modo più
incisivo ed equilibrato? Quale vedremo interpretare in modo efficace più ruoli, inclusi
quello di coniuge, genitore, negoziatore, patriota compassionevole, castigatore,
equilibratore di bilanci, e altri ruoli che gli elettori trovano essenziali? Qual è quello capace
di muoversi a livelli diversi di coinvolgimento organismico, trovando i momenti appropriati
per essere più o meno distante, senza indulgere negli estremi del non-coinvolgimento,
tipico dei capi di stato fantocci, o, all’opposto, dell’estasi e della possessione, tipici dei
leader di culti estatici e movimenti carismatici?
E infine, chi è in grado nel modo migliore di interpretare il ruolo di pacificatore o
comunicatore, senza essere così compreso dal ruolo al punto che la sua intera personalità
viene schiacciata sotto il suo peso? Jimmy Carter a Camp David, riuscì a tenere in
equilibrio con successo questi numerosi ruoli presidenziali, usando con cura il proprio
tempo per convincere Anwar Sadat e Menachem Begin a sottoscrivere lo storico trattato di
pace tra Egitto e Israele.
Rispondendo a queste domande, si potrebbe decidere con una almeno parziale
consapevolezza per chi votare. Ma bisogna anche ascoltare le storie dei candidati, la loro
visione dell’America, raccontata nel linguaggio del mito: l’ordine politico conservatore o
liberale, reazionario o progressista, minaccioso o pacifico.
Nel suo più recente lavoro, Sarbin (1986) trasferisce la metafora dal ruolo alla
storia. Gli esseri umani non sono solo giocatori di ruolo (role-players), ma anche narratori
(storytellers), che attribuiscono un senso alla propria vita prendendo in carico il doppio
ruolo di narratore e protagonista delle proprie storie, un’ulteriore variazione sul tema dell’
“Io” e “Me”. La metafora a della vita come racconto è stata così affascinante per Sarbin e i
suoi colleghi che essi hanno aperto un nuovo filone di studi, quello della psicologia
narrativa, che Sarbin (1986) ha sottotitolato “la natura narrativa della condotta umana”.
Nel costruire un modello del ruolo in Drammaterapia, allontaniamoci per il momento
da psicosociologi e sociopsicologi, psicodrammatisti, scrittori e politici, e andiamo a
guardare alla radice primaria delle metafora del ruolo: quella del teatro.
Nel suo uso più antico, come si è detto, ruolo era un termine teatrale. Lungo buona
parte della storia del teatro, questo termine ha indicato il personaggio come tipo, piuttosto
che un essere umano psicologicamente complesso. La persona – l’attore – era
abbondantemente celata sotto maschere, trucco o costumi o da apparati vocali e gestuali
esagerati, allo scopo di presentare la persona, il tipo di carattere universale incarnato nella
finzione drammatica.
Il ruolo dell’attore nella Grecia classica era fortemente determinato dalla sua
maschera, che diventava l’essenza del suo personaggio, il legame tra la natura religiosa
del teatro e la forma drammatica in sé (Harrop & Epstein 1982). Ogni ruolo, quindi,
diventava una sorta di archetipo, più ampio della vita, fissato dalla natura della maschera,
e proiettato all’esterno verso un pubblico numeroso. Il ruolo non era necessariamente
unidimensionale; Antigone e Edipo, ad esempio, sono personaggi riccamente delineati,
capaci di una vasta scala emozionale. Piuttosto, il drammaturgo greco sottolineava e
oggettivava una particolare qualità comportamentale o psichica: la sofferenza di Antigone,
la malvagità di Clitemnestra, l’astuzia e la saggezza di Lisistrata.
Per lungo tempo, la maschera concreta – figurativa – continuò a determinare i ruoli
dei personaggi. Durante il Rinascimento italiano, troviamo uno straordinario uso dei tipi
nella Commedia dell’Arte. Gli attori, anch’essi in maschera, assumono ruoli tipici, come
Pantalone, il vecchio mercante avaro, il Dottore, la cui medicina preferita era l’oro, il
Capitano, le cui imprese coraggiose rivaleggiano con il Leone Codardo del Mago di Oz, gli
eterni innamorati, e Arlecchino, l’enigmatico trickster, forse il ruolo più complesso di tutti.
Anche nel Rinascimento inglese troviamo una serie di personaggi caratterizzati, tra
cui molti tipi della Commedia dell’Arte. Gli shakespeariani Puck, il Matto, Feste e Falstaff
possono essere visti come personaggi arlecchineschi.
Dal 17° secolo fino a parte del 19°, i ruoli teatrali continuarono ad essere altamente
stilizzati. L’attore assumeva il ruolo come una maschera sociale, sottolineando ancora un
aspetto predominante di una persona più che la persona nella sua interezza.
E nel 20° secolo, con la notevole e fastidiosa prominenza del realismo psicologico,
il ruolo ancora viene fuori come maschera, suggerendo agli attori una gestualità
esagerata, un linguaggio stilizzato, ed assumendo ruoli come Ham e Clov di Finale di
partita di Beckett, o Madre Courage e Schweizerkas in Madre Courage e i suoi figli di
Brecht.
Anche nei personaggi psicologicamente più complessi, presenti nella tradizione
moderna del realismo psicologico, dai primi ritratti ibseniani di Hedda Gabler e Nora
Helmer, attraverso lo Jamie Tyrone di O’Neill, la Blanche Dubois di Williams, il Willy
Loman di Miller, fino ai perdenti dei lavori contemporanei di Lanford Wilson, David Mamet
e Sam Sheppard, anch’essi sono diventati una qualche specie di tipi. Anche se su una
tradizione diversa da quella della Commedia dell’Arte, questi personaggi realistici, spesso
recitati da attori che hanno studiato tecniche teatrali basate su presupposti psicologici,
sono ciononostante ruoli drammatici. Ed ogni ruolo drammatico esiste in un universo in
qualche modo determinato, limitato da fattori quali genere teatrale, concezione e stile della
produzione, e predeterminati dialoghi, movimenti e organizzazione scenica.
Stanislavskij (1961), tentò di delineare i vari fattori e dimensioni di un ruolo nel suo
libro Il lavoro dell’attore sul personaggio. Egli menziona la dimensione esterna, di fatti e di
eventi; la dimensione sociale, che comprende classe, nazionalità e contesto storico; la
dimensione estetica e letteraria, che ha a che fare con idee, stili e scenografia; la
dimensione psicologica, che concerne sentimenti, azioni e caratterizzazioni interiori; la
dimensione fisica, centrata su azioni fisiche e caratterizzazioni esterne; e la dimensione
dei sentimenti creativi personali, focalizzata sull’attore come persona.
Il ruolo, quindi, dal punto di vista di Stanislavskij, è determinato da fattori sociali,
psicologici, fisici e comportamentali, oltre a quelli estetici e storici. Questo punto di vista
non è lontano da quello di Moreno, che concepiva il ruolo basato sui tre piani
dell’esperienza biologica, sociale e psichica.
I teorici del teatro del 20° secolo hanno aggiunto ulteriori piani che si intersecano
nell’universo del ruolo. Gordon Craig (1919) immaginava l’attore come una gigantesca
marionetta, una uebermarrionette. Brecht (Willett 1964) concepiva l’attore come narratore,
raccontatore di storie, dimostratore e catalizzatore sociale. Per Artaud (1958), il ruolo
dell’evento teatrale è quello della peste, una purificazione attraverso l’auto-immolazione.
David Cole (1975) vedeva l’attore come uno sciamano, e Robert Wilson e Heiner Muller
ne concepivano il ruolo come un segno, un frammento della decostruzione del testo.
Con la notevole eccezione di Stanislavskij e dei suoi abili seguaci che hanno
contribuito a diffondere la sua concezione di una creazione psicologica del ruolo, gran
parte del teatro, antico e moderno, è basato su una tipologia di ruoli, un senso del ruolo
come maschera e tipo, un senso dell’attore come dio, sciamano, simbolo e indicatore di
segni, che rivela agli spettatori i modi in cui essi hanno vissuto i propri ruoli nella vita di
ogni giorno e raccontato le proprie storie.
In Drammaterapia il ruolo, che, come abbiamo detto, è uno dei due media primari,
dev’essere preso, assunto. Senza l’assunzione di ruolo, la Drammaterapia non può
esistere. Quando una persona assume un ruolo in Drammaterapia, riduce la propria
complessa umanità ad un tipo particolare, un unico status, un unico “Me”, un unico tempo
e spazio, un unico simbolo o immagine, una maschera, un nome, una serie discreta di
azioni. Il ruolo è il contenitore di questa unicità. Più definita e particolareggiata è la
costruzione del ruolo, più il cliente può essere in condizione di esplorarne l’infinitezza delle
sue dimensioni, comprese le sue qualità archetipiche e le sue relazioni col proprio globale
sistema di ruoli. Poiché il ruolo, in teatro e in Drammaterapia, contiene un paradosso
centrale: riducendo un ruolo alle sue azioni essenziali e ai suoi essenziali sentimenti ed
emozioni, l’attore/cliente apre un universo di possibilità. Questo paradosso, come
l’immagine di Blake del “vedere il mondo in un grano di sabbia”, trova l’universale, il
generale, incarnato in piccole, specifiche azioni umane.
Nel costruire un modello di ruolo in Drammaterapia, iniziamo a lavorare dalle radici.
In principio è il ruolo, e il ruolo nasce in teatro, e il teatro nasce con l’atto immaginativo del
raccontare una storia in ruolo. In accordo con le proprie radici teatrali, il ruolo è maschera
e tipo, una particolare forma di azione e caratterizzazione che incarna una concezione
universale.
Il ruolo è primario in Drammaterapia perché il cliente è alla ricerca di quei ruoli,
frammentati o sepolti, che lo metteranno in grado di riequilibrare la sua compagnia di attori
interna. Come nei testi teatrali più doviziosamente costruiti, ha bisogno di scoprire quelle
parti di sé che sono eroe e vilain, innamorato e odiatore, ingannatore e ingannato, sciocco
e saggio, viaggiatore tragico e comico sedentario, sognatore romantico e buffone
farsesco. Nella pratica della Drammaterapia, il cliente si impegna in una forma particolare
di azione e di caratterizzazione, attraverso media secondari come maschere e
improvvisazione drammatica, allo scopo di scoprire la natura di questi tipi.
Applicando le dimensioni del ruolo di Stanislavskij, possiamo vedere come un
cliente che lavora sul ruolo di Tremotino, ad esempio, si muove verso una simile scoperta.
La fiaba classica, come raccolta dai Grimm, narra di una ragazza di umili origini offerta dal
padre al re, nella speranza di un matrimonio. Il re la mette alla prova affidandole compiti
straordinari: se sarà capace di filare la paglia trasfomandola in oro, diventerà la sua sposa.
Alla fanciulla disperata appare un nano, di nome Tremotino, e le propone un baratto. Lui
farà il lavoro se lei acconsentirà a dargli in cambio il suo primo nato. Lei acconsente, il
lavoro è completato, e la fanciulla, ormai regina, dà alla luce il suo primo figlio. Tempo
dopo, il nano ricompare, e chiede di consegnargli il bambino. Alle suppliche della regina di
permetterle di tenere con sé il figlio, Tremotino acconsente ad una condizione: che ella
indovini il suo nome nell’arco di tre giorni. Dopodiché, si ritira nella foresta. La regina
manda degli uomini a seguirlo, che riescono ad ascoltarlo mentre ripete il suo nome.
Quando il nano riappare a palazzo, la regina indovina il suo nome, e il nano, per la rabbia,
batte il suo piede a terra talmente forte che il pavimento si sfonda, trascinandolo con sé
sottoterra.
Quello che segue è un esempio ipotetico di lavoro con la fiaba, basato su
esperienze reali di gruppi di Drammaterapia condotti dall’autore. La sessione inizia quando
tutti sono d’accordo al lavorare sulle fiabe. Rispetto alla dimensione esterna, la storia è
raccontata dal terapista o da un cliente, e personaggi e oggetti della storia sono delineati:
il padre e la figlia, il re e il nano Tremotino, il bambino, e alcuni oggetti come la paglia e
l’oro.
Un uomo, che si è identificato con il personaggio di Tremotino, inizia a sviluppare
una particolare caratterizzazione. Rispetto alla dimensione sociale, inventa un contesto
per Tremotino che lo vede come un onesto lavoratore, favorito dagli spiriti con poteri
magici per far del bene, che, a causa di una serie ripetuta di rifiuti da parte dei suoi
colleghi, è stato costretto a vagare per le campagne in cerca di persone più degne delle
sue offerte. La dimensione sociale si interseca con quella letteraria nella misura in cui egli
costruisce una storia complessa intorno alla sua concezione del personaggio. Rispetto alla
dimensione estetica, egli crea una maschera di Tremotino, decorata con orecchino e
cappello, e colorata con tonalità di terra.
Sviluppando la dimensione psicologica, il cliente, in ruolo, parla del proprio sentirsi
isolato, una persona dalla vita semplice, che dalla propria devozione agli altri ha ricevuto
esigue ricompense. Inizia a creare una vita interiore dell’omino attraverso i suoi monologhi
e dialoghi con la fanciulla, che egli aiuta a filare l’oro e infine a diventare regina. Poi
intraprende un dialogo con il bambino, il figlio del re e della regina. Parla del significato del
suo nome, Tremotino, e del desiderio di rimanere senza nome per rivendicare la propria
paternità. E infine, parla della sua rabbia e del bisogno di scomparire piuttosto che
rivendicare quello che gli spetta da contratto.
Rispetto alla dimensione fisica, il cliente esamina la sua immagine mascherata in
uno specchio, e lascia che essa stessa gli suggerisca dei movimenti. Sentendo la propria
piccolezza e il proprio isolamento, proietta queste qualità nel proprio passo, facendo
passetti veloci, spesso muovendosi come un animale in gabbia.
Al termine della sessione di Drammaterapia, il terapista aiuta il cliente ad uscire dal
ruolo e conduce una discussione finale, che mette a fuoco le emozioni dell’attore come
persona, la dimensione dei sentimenti creativi personali. Durante la chiusura, il cliente,
fuori ruolo, è in grado di identificare la parte di sé contenuta nel personaggio di Tremotino.
Dando a questa parte il nome di “Omino ”, può vedere quanto spesso nella vita si sia
sentito arrabbiato e sfruttato, e quale parte egli stesso ha giocato nel permettere che
questo accadesse – indebitandosi con gli altri per non riscuotere i propri crediti, e avendo
bisogno di nascondere la propria identità per reclamare i propri diritti.
Quindi, attraverso la particolarizzazione del ruolo giocato, secondo le varie
dimensioni del modello di Stanislavskij, il cliente è in grado di giocare il ruolo/tipo di
Tremotino e di scoprire un ruolo personale, chiamato da lui “Omino ”, che rassomiglia al
ruolo modello. Nel percorso successivo in Drammaterapia. Il cliente verrà incoraggiato a
scoprire come “Omino” lavora insieme con molti altri ruoli nel suo repertorio interno.
Tornando al modello psicosociale, il ruolo non è solo maschera e tipo, ma anche un
costrutto cognitivo e sociale. Assumendo questo punto di vista, il drammaterapista può
aiutare il cliente dell’esempio sopracitato a concettualizzare il suo ruolo di “Omino”
attraverso una comprensione delle identificazioni che ha compiuto e dei modelli di ruolo
significativi che ha interiorizzato. Nel vedere suo padre, ad esempio, come un personaggio
nello stile di Tremotino, il cliente può provare a prendere il ruolo del padre, per scoprire le
origini del proprio vedere sé stesso come “Omino”. Inoltre, può esaminare lo status
sociale di “Omino” da una prospettiva più distante, come quella di Tremotino, o più
ravvicinata, come quella del padre.
Per tutto questo articolo, un punto rimane imbarazzante –quello della relazione tra
ruolo e Sé. In una pubblicazione precedente (1986), avevo scritto:
Il Sé è un’unicità che distingue una persona dalle altre. Come mediatore tra il
Sé e l’altro, tra il Sé e il mondo sociale, il ruolo incarna le qualità di pensiero,
sentimento e comportamento derivate dall’altro e rappresentate in un modo
prescritto da una convenzione sociale. (p.92)
Così concepito, il Sé appare più ampio del ruolo. Per citare ancora una volta i miei lavori
precedenti: “il Sé ha la capacità di prendere in carico una miriade di ruoli”. Nondimeno,
adesso il concetto del Sé, alla luce di una concezione del ruolo più decisamente
drammatica, appare fuori posto e non necessario. Se quella drammatica è una visione di
flusso, di movimento dentro e fuori del ruolo, e se la Drammaterapia si occupa di aiutare le
persone a conquistare una fluidità, una capacità di giocare in modo eccellente nella
complessità di un singolo ruolo e di integrare quel ruolo in un repertorio di ruoli
pienamente sviluppato, perché, allora, sovrapporre ad essa un concetto non-drammatico,
“metapsicosociale”, abusato e implicante stasi?
Il mito del sé come primo motore si è esaurito. Narciso annegò in esso, Freud lo
divise in tre pezzi, e Jung in seguito lo spezzettò in una moltitudine di archetipi
dell’inconscio. Sarbin lo abbandonò a favore del ruolo e della storia. Azioni politiche di
genocidio ed azioni psicologiche di suicidio, abbandono ed abuso hanno affrettato la sua
fine. In assenza del Sé, esiste comunque un processo primario di identità. Secondo Philip
Roth, è “l’innata capacità di impersonare”. E questa capacità è espressa attraverso il
ruolo, l’assunzione e l’esternazione di eroi e demoni, stolti e saggi, figli e amanti e figlie e
genitori. I ruoli sono i contenitori di tutti i pensieri e i sentimenti che noi abbiamo riguardo a
noi stessi e agli altri nel nostro mondo sociale e in quello della nostra immaginazione.
Quando a questi pensieri e sentimenti viene data una forma drammatica, ed essi possono
essere giocati in una cornice sicura, ciascuno ha la possibilità di vedere chiaramente se
stesso, ma non come un Sé, non come un “Io”. E’ nel fare e vedere e accettare e integrare
tutti i ruoli, le parti “Me” che la persona emerge intera. “Io sono un teatro e nient’altro che
un teatro”, dice Zuckermann, immaginario narratore di uno dei ruoli di Roth. E il
drammaterapeuta, nella ricerca di una collocazione del proprio ruolo e di una teoria che
metta insieme le proprie tecniche ed i propri obiettivi, dovrebbe guardare al teatro che è la
sua fonte e a ruolo e storia che sono i suoi media primari. Perché è lì che inizia il nostro
lavoro: nel ruolo, nella storia, nell’azione immaginativa.