La pace nella storia del pensiero politico

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La pace nella storia del pensiero politico
Eiris n. 4 - 2009
Dalla pace da lamentare alla pace da costruire:
percorsi evolutivi di un’idea di convivenza
Luigi Mastrangelo
Sunto. L’articolo ripercorre lo sviluppo dell’idea di pace attraverso
autori direttamente riferibili al pensiero politico ma anche richiamando
considerazioni di altri pensatori che si sono occupati di questa specifica
categoria, troppo spesso analizzata in contrapposizione con il suo
corrispettivo negativo, la guerra.
La pace, in realtà, si rivela nella sua specifica autonomia soprattutto
nella seconda metà del Novecento, quando la globalizzazione della guerra
che, in ben due occasioni, prima di “raffreddarsi”, era divenuta “mondiale”,
mostra la necessità di riorganizzare la convivenza internazionale su nuove
basi valoriali di salvaguardia e sviluppo della persona umana nella sua
dimensione relazionale, sia individuale sia istituzionale.
Parole Chiave. Pace, guerra, politica, diritto, nazioni.
1. Lasciare la dicotomia per l’autonomia
Si vis pacem, para bellum. Il motto riconducibile a Vegezio
(Epitoma rei militaris, III, XXVI) apre una lunga serie di definizioni o
spiegazioni della pace in parallelo con il suo termine dicotomico, la
guerra, per una coppia antitetica (Bobbio, 1984) nella quale,
frequentemente, è la parola di accezione positiva a costituire il lato
debole.
Termine forte, nel pensiero politico, è stato, infatti, quello
negativo: emblematica, in questo senso, è la nota definizione, divenuta
paradigmatica, della guerra come “continuazione della politica con
altri mezzi” derivata dal Vom Kriege di von Clausewitz (1832),
trattato che traeva le sue considerazioni dall’esperienza napoleonica
estendendole a un piano generale, esponendo un principio di fondo
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Ricercatore di Storia delle dottrine politiche, Università degli studi di Teramo.
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che, all’approssimarsi del nazismo, sarà fatto proprio, anzi esacerbato,
da Carl Schmitt che, ne Il concetto di politico (1932), mostrerà una
visione del mondo divisa tra amico e nemico.
D’altra parte, il pensiero politico moderno si era aperto anche con
una teorizzazione, scritta tra il 1519 e il 1520, Sull’arte della guerra
da parte di Machiavelli che, nell’opera, torna su un punto centrale di
tutta la sua produzione, nella quale non manca mai di sottolineare
come uno stato possa reggersi non solo con le “buone legge” ma
anche con le “buone arme” che non sono altre che le armi proprie,
senza le quali nessun principe può dirsi realmente sicuro.
La polemica del Fiorentino è nei confronti di quei reggitori che si
affidano alle armi mercenarie: costoro non potranno mai mantenere il
loro dominio nei pericoli perché i soldati a pagamento, privi
dell’ardore che può essere garantito solo da chi combatte per la
propria patria, nel momento decisivo negheranno l’estremo sacrificio,
pensando piuttosto a salvare se stessi.
A prescindere dalla guerra, la pace era stata già considerata dal
pensiero politico medioevale: il primo autore ad analizzarla,
distinguendo tra Pax Babilonis e Pax Christi, era stato Agostino che
aveva separato la pace terrena, provvisoria e vista come mezzo, dalla
pace celeste, duratura e considerata come fine.
Tommaso, che, invece, vedeva la pace come quiete, si era
soffermato anch’egli sulla guerra, definendo come “giusta” quella che
fosse dichiarata dall’autorità legittima, che avesse una giusta causa e
per la quale il belligerante avesse mostrato una retta intenzione, non
essendo possibile provvedere altrimenti.
La Monarchia dantesca (la cui datazione oscilla tra il 1302 e il
quindicennio successivo) era un vero e proprio progetto di costruzione
politica della pace, condizione in cui l’uomo poteva raggiungere la
felicità. La pace era resa possibile dall’imperatore, la cui potestas
discendeva direttamente da Dio (concezione discendente del potere,
Ullmann, 1975) e la cui funzione era proprio quella di garantire l’unità
e la concordia, presupposti imprescindibili per il conseguimento e il
mantenimento della pace, attraverso le competenze legislative (cui
devono conformarsi i singoli ordinamenti territoriali) e giurisdizionali.
La pace era possibile sotto il governo di uno e di uno solo, assunto
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dimostrato dal fatto, per Dante inequivocabile, che il Cristo avesse
vissuto la sua vicenda terrena sotto il Principato di Augusto, ossia
quando l’autorità romana raggiunse una dimensione praticamente
universale.
Con Marsilio da Padova – sulle cui vicende, anche personali,
legate al comune patavino, alla permanenza parigina nella quale
conseguì il rettorato alla Sorbona e, poi, al soggiorno presso la corte di
Ludovico il Bavaro, si sono soffermati studiosi come Battaglia (1929)
e Vasoli (1983) – il concetto di pace si era secolarizzato e diventava
possibile non solo nell’impero universale, ma in qualsiasi ordinamento
politico particolare.
Nel Defensor pacis (1324), la pace è, dunque, problema politico,
anzi è il compito stesso della politica. L’uomo può vivere una vita
degna solo con la pace ed è, dunque, l’organizzazione politica che
deve garantirla. Marsilio sottolinea come l’Italia sia esempio del fatto
che, fin quando i suoi abitanti hanno vissuto pacificamente, hanno
potuto godere dei buoni frutti dell’armonia: con l’inizio delle
discordie, sono cominciate le sventure e le dominazioni straniere.
Il compito del governo (che è composto dall’intero corpo dei
cittadini, o dalla sua valentior pars, espressione che è stata intesa in
senso quantitativo, qualitativo o, rectius, come combinazione di questi
due significati) è proprio quello di rendere possibile questa armonia,
ponendo norme e dirimendo i conflitti che sorgevano dallo
svolgimento umano delle varie arti liberali e punendo eventuali
trasgressioni.
Una grave minaccia alla concordia civile, per Marsilio, è costituita
dal Pontefice romano che ha la pretesa di costituire una giurisdizione
alternativa, dal suo punto di vista superiore perché basata su
presupposti trascendenti. A questa “peste rovinosa” deve, pertanto,
opporsi l’Imperatore nella sua funzione di “difensore” della pace.
Anche Machiavelli riprende, come è noto, la polemica contro la
Chiesa come stato temporale, troppo debole per unire l’Italia ma
anche troppo forte per impedire ad altri principi di farlo. Il Fiorentino,
in un noto passo dei Discorsi, considera la religione cristiana
colpevole di rendere gli uomini deboli, educandoli all’abiezione e allo
spregio delle cose umane, al contrario dell’apprezzata religione dei
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Romani, che rendeva i cittadini forti e dediti alla causa della res
publica, domi e, se necessario, militiae.
2. Tra lamenti e diritti
Senza se e senza ma è la proposta politica di Erasmo da
Rotterdam, per il quale l’ufficio del principe non può che basarsi (al
contrario di quanto sostenuto dal contemporaneo Machiavelli) su una
educazione cristiana e su una stretta aderenza ai principi morali del
cristianesimo: l’Olandese, nella sua Querela pacis (1517), sottolinea
che proprio l’etimo di “umano” sta a significare “tendente al reciproco
affetto”, “amorevole”, “concorde”: cosa che stride con i conflitti non
solo interstatali, ma anche familiari, personali e, persino, risiedenti
“nel petto di un sol uomo”. L’esempio di Cristo, richiamato da
Erasmo, non lascia adito a dubbi: è una lezione assoluta di pace,
dimenticata però anche dalla Chiesa (“unanimità” per definizione),
lacerata da conflitti materiali e addirittura impegnata militarmente in
guerre che, per il vero cristiano, sono assolutamente “vergognose”.
Per Erasmo la più iniqua delle paci è, in ogni caso, preferibile alla
più giusta delle guerre, alle quali non deve poter trascinare neppure la
suprema autorità del pontefice romano. Se il compito del sovrano è il
perseguimento dell’interesse pubblico, questi non sceglierà mai la
guerra, pensando alle sofferenze e ai lutti che essa, inevitabilmente,
porterà ai suoi cittadini.
Con Ugo Grozio ha tradizionalmente inizio (non però per Bobbio,
che lo fa partire da Hobbes) il giusnaturalismo moderno: nel De iure
belli ac pacis del 1625, sebbene i due termini abbiano pari dignità nel
titolo, non altrettanto sarà nello svolgimento, dove la guerra avrà
spazio nettamente prevalente. Ugo Grozio, richiamando principi
razionali di diritto naturale, propone un concetto di “guerra giusta”
che sia inevitabile, legale (iniziata con una dichiarazione formale),
moderata (si introduce un criterio di proporzionalità tra le offese e la
tutela, per quanto possibile, delle popolazioni civili) e che sia volta a
ristabilire la pace. Considerata come una prima forma di diritto
internazionale, in effetti l’analisi groziana mette in primo piano gli
stati come realtà sovrane e indipendenti che si relazionano tra loro
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sulla base di un “diritto delle genti” che, seppur privo di una positività
cogente, richiama principi generalmente condivisi dall’umanità.
Secondo Grozio, l’esito di una guerra può essere affidato dai
contendenti a un arbitrato oppure all’esito di un duello, tra singoli
(Enea e Turno) o gruppi (Orazi e Curiazi).
Considerato il fondatore della “psicologia politica”, secondo la
definizione di Anna Maria Battista (1982), Thomas Hobbes, nato
come egli stesso sottolineava “gemello” della paura (quella della
madre che lo partorì, prematuramente, sull’onda del timore
dell’annunciata invasione dell’armata “invincibile” degli spagnoli,
respinta nel 1588 dalla flotta inglese guidata da Francis Drake) pone,
invece, la guerra combattuta permanentemente che caratterizza gli
uomini nello stato di natura (nel quale essi sono reciprocamente
“lupi”), quale necessità basilare per cedere al Leviatano (1651) tutti i
poteri che consentano a questo uomo artificiale di porre fine al
costante e generale pericolo per la vita degli uomini, situazione
caratteristica del naturale bellum omnium contra omnes.
Creando questo “uomo artificiale”, si passa allo stato civile,
conferendogli ogni potere e ogni facoltà: una sola disobbedienza è, da
quel momento, riconosciuta possibile, quella che sia necessaria per
tentare di conservare la propria vita, che poi è il fine per il quale lo
stato è stato appunto istituito.
Non essendoci un Leviatano che governi i rapporti tra gli stati,
questi, tra loro, si trovano in una condizione simile a quella degli
uomini nello stato di natura e, pertanto, si fanno la guerra ritenendo
ognuno di possedere uno ius in omnia.
3. Progetti di lungo periodo
È necessario pensare a un progetto per rendere la pace perpetua:
cosa che farà, con riferimento all’Europa, l’abate di Saint Pierre
(1713) prevedendo la creazione di una federazione tra stati e di un
“senato europeo”.
Il testo si diffonderà attraverso la mediazione dell’estratto di
Rousseau (1761): il Ginevrino, però, sarà consapevole che, nei
gabinetti dei ministri, tali discorsi pacifisti sono oggetto di sarcasmo e
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cercherà, quindi, di impostare la questione su basi realistiche (SaintPierre aveva parlato solo dei vantaggi morali della pace) sottolineando
come la guerra indebolisca anche il vincitore che, in ogni caso, arretra
rispetto alle potenze rimaste neutrali: ecco, dunque, l’opportunità di
una politica dell’equilibrio e di una durevole alleanza.
Alla fine del Settecento, anche Immanuel Kant scriverà il suo Per
la pace perpetua (1795), sottolineando come l’aggettivo debba essere
considerato pleonastico, auspicando la scomparsa degli eserciti
permanenti e il mantenimento, anche in guerra, di un comportamento
tale che consenta di mantenere comunque la fiducia in un
ristabilimento della pace futura.
Kant ha una prospettiva chiaramente liberale: gli eserciti
permanenti devono scomparire perché l’individuo non può essere un
mezzo del quale lo stato dispone.
Le guerre novecentesche dimostreranno tragicamente l’importanza
di quest’ultima affermazione.
Kant porrà come base per instaurare relazioni pacifiche tra gli
stati, che dovrebbero riunirsi in una federazione, l’ordinamento
repubblicano, fornendo un argomento assai persuasivo: in uno stato
repubblicano, la decisione sull’intraprendere una guerra è, infatti,
presa da coloro che ne pagheranno le maggiori conseguenze, i
cittadini che, di conseguenza, rifletteranno a lungo prima di iniziare
“un gioco così brutto”. Negli stati monarchici, invece, a decidere della
guerra è chi, comunque, continuerà la sua vita di agiatezze e che potrà
pronunciarsi più a cuor leggero affidando, poi, al corpo diplomatico il
compito della giustificazione teorica.
4. Un secolo dalla pace troppo breve
La pace come problema politico diviene questione cardine nel
Novecento, secolo caratterizzato, per ben due volte, da un fenomeno
senza precedenti nella storia umana, la guerra mondiale, che arriva a
configurarsi come totale e addirittura nucleare, mettendo in dubbio
l’esistenza stessa della specie umana, dimostrando quella che, secondo
la nota definizione di Hannah Arendt (1963), è la Banalità del male.
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Il pensiero politico, nella prima metà del secolo, si trova a
interrogarsi sulla crisi della democrazia e nel suo sfociare
nell’aggressività bellicistica, interna ed esterna, propria dei
totalitarismi, attraverso l’affermarsi di quei poteri carismatici di cui
aveva parlato Max Weber (1947).
Un contributo rilevante, chiudendo una linea ideale che, da Grozio
porta a Saint-Pierre e poi a Kant, è quello di Hans Kelsen. Il Praghese,
nella sua Pace attraverso il diritto, scritta nel 1944, dunque
all’approssimarsi della fine della seconda guerra mondiale, individua
il limite delle proposte precedenti, basate sul diritto ma (per restare nel
linguaggio giuridico, “imperfette”, senza sanzione), perché prive di
forme di coercizione in grado di obbligare i recalcitranti e punire i
trasgressori. Tale era stato il limite della wilsoniana Società delle
Nazioni, dal 1923 presieduta dal londinese Edgar Cecil che pure
l’aveva definita A great experiment (1941) e per la quale gli viene
conferito, nel 1937, il premio Nobel per la pace.
Per Kelsen è necessaria l’istituzione di una corte di giustizia
internazionale che ponga le basi per uno stato mondiale, dotata di tutti
gli strumenti per esercitare la sua funzione, al di sopra degli stati
nazionali: in altri termini, Kelsen pensa a un “Leviatano dei
Leviatani”, realizzando anche tra gli stati il passaggio hobbesiano
dallo stato di natura allo stato civile. Ma, in fondo, è anche il ritorno,
in chiave moderna, alla proposta universalizzante della Monarchia
dantesca, impero superiore e comprendente i regni particolari.
Il problema, però, non sarà risolto dal nuovo organismo
interstatale: l’Organizzazione delle Nazioni Unite – come rilevato da
Norberto Bobbio, per il quale “la pace passa attraverso il diritto” –
rimane un’associazione dalla quale ogni stato aderente può staccarsi
quando vuole, facendo permanere quella condizione di “diritto
provvisorio”.
Bobbio esplicita il carattere coercitivo del “pacifismo giuridico”
richiamando i passi di Hobbes nei quali si ironizza sui patti senza
spada che non sono altro che parole (noto è il gioco linguistico
hobbesiano tra le inglesi sword e words). È proprio con l’autore
inglese che Bobbio spiega il rapporto guerra-pace e la condizione di
reciproca diffidenza e stallo tra le due superpotenze, Usa e Urss, nella
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guerra fredda: tra loro i due stati che (secondo una nota previsione
tocquevilliana) hanno affermato la loro egemonia mondiale fino a un
secondo fatidico “89”, (l’anno 1989 in cui cade il muro di Berlino), si
trovavano nello stato di natura hobbesiano, fronteggiandosi come lupi
ringhianti.
Seppur si tratta di un autore che non rientra tradizionalmente nel
pensiero politico, si può in questa analisi sul tema della pace citare
Pierre de Coubertin: l’inventore delle Olimpiadi moderne ha, infatti,
avanzato la proposta di una pacificazione globale attraverso la
conoscenza reciproca derivante dall’esercizio in comune della pratica
sportiva e dalla vita comunitaria degli atleti nel “villaggio” durante gli
eventi olimpici. Il Francese, nel 1935, due anni prima della morte,
scrive Lo sport come costruttore di pace per ricordare il vero senso
cosmopolita dei Giochi Olimpici alla vigilia dell’edizione berlinese
del 1936 che Hitler aveva, invece, pensato come occasione per
magnificare il suo terzo Reich e che invece registrano il trionfo di un
atleta afro-americano, Jesse Owens, capace di mortificare le pretese
ariane di superiorità, conquistando addirittura quattro medaglie d’oro.
Coubertin sottolinea la differenza tra la “tregua olimpica” degli
antichi che era solo una sospensione dei conflitti per permettere agli
atleti e al pubblico gli spostamenti in occasione delle gare, e la
moderna “pace olimpica”, una filosofia umanistica che, nata nel
mondo sportivo, assurge a valore politico di integrazione universale.
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