4/2006

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4/2006
Quale immunosoppressione
per i pazienti HCV-positivi?
RIASSUNTO
Severità e prevalenza di ricorrenza di malattia virale post-trapianto sono fortemente influenzate dall’entità dell’esposizione alla terapia immunosoppressiva
post-operatoria. Mentre nell’epatite severa ad impronta fibrosante-colestatica
(FCH) i meccanismi fisiopatologici del danno sono verosimilmente su base prevalentemente citopatica virale diretta, nell’epatite cronica ricorrente il pattern di
risposta è di tipo indiretto sostenuto dalla risposta Th1 (IL-2, interferon-α), con
una reazione rivolta al graft che si somma alla risposta anti-virale. Ad oggi non è
possibile sostenere la superiorità di un immunosoppressore primario sugli altri
in termini d’impatto sulla recidiva virale, anche se la ciclosporina (CyA) ha recentemente dimostrato capacità antivirali indipendenti in vitro. Analogamente, è
difficile riconoscere priorità ad alcuno degli antimetaboliti finora in uso. In generale, le terapie di combinazione hanno performance peggiori rispetto alle monoterapie, soprattutto se inclusive di steroidi, verosimilmente in virtù di un globale aumento del carico immunosoppressivo. Una strategia protettiva nei confronti della recidiva potrebbe prevedere la minimizzazione dell’esposizione immunosoppressiva globale con modificazioni graduali dei carichi farmacologici,
in particolare steroidei, per evitare deleteri rebound d’immunocompetenza. Nell’esperienza del Centro di Padova l’unica variabile immunosoppressiva con impatto negativo sulla prevalenza e la gravità della progressione fibrotica da recidiva virale su 184 casi è rappresentata dal carico eccessivo d’immunosoppressione.
Parole chiave
Trapianto di fegato, HCV, recidiva, immunosoppressione, inibitori delle calcineurine, steroidi.
What is the best immunosuppression for HCV patients?
SUMMARY
The prevalence and severity of post-transplant HCV disease recurrence are strongly
related to immunosuppression. Post-transplant severe fibrosing cholestatic hepatitis
(FCH) is likely the result of a direct viral damage, whereas graft chronic hepatitis is due
to a CD4+ Th1 cell response pathway (IL-2, interferon-α). To date, there are not enough
data to support the superiority of one of the different primary immunosuppressants, even
though cyclosporine A (CyA) has proved an in vitro anti-HCV activity unrelated to its
immunosuppressive profile. Similarly, no conclusion is possible for antimetabolites.
Combination therapies seem to be associated with worse results than calcineurin inhibitor
(CNI) monotherapy, due to the overall higher level of immunosuppression. On these
grounds, we think that a beneficial strategy is the one based on minimization of
immunosuppression, with stepwise dose tapering in order to avoid detrimental rebounds
in patient immunocompetence. In our experience with a series of 184 HCV-positive
recipients, the only variable statistically related with both the prevalence and severity of
early fibrotic progression of the liver graft was the net level of immunosuppression.
Key words
Liver transplantation, HCV, recurrence, immunosuppression, calcineurin inhibitors,
steroids.
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Umberto Cillo
Elisa Degli Esposti
Sara Boninsegna
Stefano Fagiuoli
Alessio Bridda
Davide F. D’Amico
Dipartimento di Scienze
Chirurgiche
e Gastroenterologiche
“G.P. Cevese”,
Università degli Studi
di Padova, Padova
Quale immunosoppressione
per i pazienti HCV-positivi?
Fisiopatologia dell’impatto immunosoppressivo sulla
replicazione virale HCV post-trapianto
Immunopatogenesi della recidiva da HCV ad impronta colestatica
Esistono sufficienti osservazioni sperimentali che legano alti livelli immunosoppressivi con l’insorgenza di sindrome colestatica severa
post-trapianto correlata al virus dell’epatite C (hepatits C virus,
HCV). L’elevata immunosoppressione determinerebbe, infatti, un
drammatico rialzo viremico con possibile effetto citopatico diretto.
Le cellule mononucleate di questi pazienti sarebbero non responsive agli antigeni HCV-correlati con franca assenza di risposte CD4+
HCV-specifiche. Analogamente, la risposta citochinica intraepatica,
in questi casi, sarebbe compatibile con una risposta T helper sottotipo 2 (Th2) (IL-4, IL-10), compatibilmente, appunto, con un quadro
di citopaticità diretta1-4.
Non esistono evidenze che mettano in relazione diretta particolari regimi immunosoppressivi con l’insorgenza di sindrome colestatica severa post-trapianto. Tuttavia, vi sono oramai numerosi dati che indicano come l’utilizzo ripetuto di boli steroidei – non infrequentemente
sulla scorta di un quadro istologico falsamente suggestivo per rigetto
cellulare acuto (acute rejection, AR) – soprattutto se seguiti da somministrazione di OKT3, costituisca un fattore di rischio importante nel
determinismo della sindrome.
È opinione di molti che in presenza di una forma colestatica ad andamento rapidamente progressivo sia di fondamentale importanza eseguire una rapida riduzione del carico immunosoppressivo per permettere, nei tempi più brevi possibile, un recupero d’immunocompetenza HCV-specifica con conseguente relativa riduzione della viremia, in questi casi solitamente molto alta. Resta ancora aperto il dibattito relativo all’opportunità di utilizzare ribavirina (RIBA) in monoterapia per coadiuvare a questo fine la riduzione dell’immunosoppressione4.
Immunopatogenesi dell’epatite cronica post-trapianto
Contrariamente alle forme colestatiche fibrosanti, l’attivazione epatitica
cronica sembra associata, in un’alta prevalenza di casi (85%), ad un
pattern di risposta di tipo Th1 (IL-2, interferon-α), analogamente a
quanto avviene in ambito non trapiantologico. L’entità della risposta
sembrerebbe essere correlata con il livello di citolisi e la progressione fibrotica5. Ulteriori studi hanno messo in evidenza un’associazione tra maggiore aggressività della recidiva post-trapianto, incremento di livelli di CD69+ (linfociti attivati) ed aumento d’espressione di
molecole d’adesione intracellulari – vascular cell adhesion molecole
(VCAM) – e molecole del complesso maggiore d’istocompatibilità
(major histocompatibility complex, MHC). In altre parole, a differenza
di quanto avviene nelle forme ad impronta colestatica, l’epatite cro-
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nica post-trapianto HCV-correlata si avvicina fisiopatologicamente ai
fenomeni tipici del setting non trapiantologico con una risposta infiammatoria Th1 (IL-2, interferon-α) non specifica associata al tentativo di controllo della replicazione virale HCV, e caratterizzata da
eventi apoptotici ed evoluzione fibrotica. Nei pazienti sottoposti a
trapianto di fegato (liver transplantation, LT), tuttavia, il carico virale,
la proliferazione cellulare ed i processi apoptotici sono significativamente più alti rispetto a quanto osservato nell’epatite cronica in ambito non trapiantologico. Vi sono dati a supporto dell’ipotesi che la
biologia dell’epatite sia in grado di precipitare una risposta anti-donatore che, sommandosi alla risposta anti-virale, può rendere ragione dell’evoluzione dell’epatopatia6. I quadri anatomo-patologici di
sovrapposizione tra AR e ricorrenza virale rappresentano un’ulteriore sfida diagnostica e terapeutica, anche se il gruppo di Pittsburg riporta recentemente un valore predittivo positivo della biopsia per rigetto del 91% e per recidiva del 100%, mentre suggerisce un significativo overlap tra i meccanismi immunologici responsabili della clearance dell’HCV da una parte e quelli che conducono a rigetto acuto
dall’altra7.
In questo contesto fisiopatologico risulta subito evidente l’alto livello di
complessità derivante dall’intervento immmunosoppressivo nelle diverse fasi del post-trapianto. Alcuni immunosoppressori, come steroidi (S) ed OKT3, si sono dimostrati in grado di incrementare i livelli viremici dell’HCV (tabella I). Sebbene quest’effetto sulla viremia non sia tipico di tutti gli immunosoppressori, è diffusamente accettato che un’eccessiva immunosoppressione (ad esempio, la prosecuzione di una triplice terapia con azatioprina oltre il 12° mese) si
associa in generale ad un incremento dei livelli viremici, il ché a sua
volta si riverbera in un incremento dell’attività di malattia8. D’altra
parte, è altrettanto diffusamente riconosciuto che una rapida riduzione della copertura immunosoppressiva si associa ad un rebound
d’immunocompetenza in grado di peggiorare significativamente il
decorso della malattia epatica HCV-correlata, come dimostrato nei
pazienti sottoposti a rapida riduzione del carico steroideo. Altri due
Variabili
Monovariata
Multivariata
Età al LT <55 aa.
Trapianto ≤1996
0,02
ns
0,01
0,01
Coinfezione HBV/HDV
0,02
ns
<0,001
0,02
0,03
ns
OKT3/>3 boli di steroidi
0,02
0,01
Ischemia totale <500 min
0,005
0,03
Ischemia fredda <454 min
0,03
ns
Non risposta a terapia antivirale
0,008
ns
ALT 2 e 3
CyA
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Tabella I. Analisi uni e multivariata dei fattori predittivi dell’evoluzione cirrotica post-trapianto.
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elementi entrano nell’articolato gioco del rapporto tra immunosoppressione ed epatite cronica HCV-correlata post-trapianto. Da una
parte, il rischio che un regime immunosoppressivo troppo basso
conduca ad episodi di AR con possibili problemi legati alla difficoltà
diagnostica in presenza di quadri misti e alla conseguente necessità
di utilizzare boli steroidei o, peggio, anticorpi monoclonali per il
trattamento del rigetto stesso. Dall’altra, il ruolo diretto – spesso
non ancora completamente chiarito – che alcuni immunosoppressori sembrano dimostrare su replicazione virale, attività fibrogenetica e
proliferazione miofibroblastica, certamente merita ulteriori approfondimenti. Tale è il caso di farmaci come ciclosporina (CyA), tacrolimus (TAC), micofenolato mofetile (MMF), rapamicina (RAPA)
(vedi sezione speciale)10-12.
Ruolo dei singoli immunosoppressori
Inibitori delle calcineurine
È relativamente recente l’attenzione della comunità scientifica verso il ruolo giocato dai singoli immunosoppressori nel determinismo dell’outcome post-trapianto dei pazienti portatori d’epatopatia HCV-correlata. Ancor più recente è l’avvio di studi prospettici randomizzati di comparazione che si pongono come obiettivo primario la determinazione di prevalenza e severità della recidiva virale HCV post-operatoria.
Nel 2003 Watashi mette in evidenza per la prima volta un’efficacia soppressiva della CyA sulla replicazione genomica di HCV in epatociti in
coltura13. In un sistema di coltura di replicon cells, la CyA sopprime il
livello di HCV replicon RNA e l’espressione di proteine HCV specifiche (NS5A, NS5B) in queste cellule. Questa azione sembrerebbe indipendente da quella immunosoppressiva e non riscontrabile in un
setting analogo in presenza di TAC. Le concentrazioni di CyA necessarie all’inibizione di HCV in vitro sarebbero comparabili a quelle gestite nella pratica immunosoppressiva del post-LT. Quest’osservazione è stata suffragata da un successivo lavoro in vitro di Nakagawa14
che conferma un’azione soppressiva sulla replicazione di HCV a concentrazioni superiori agli 0,2 mg/mL non evidente per il TAC. La
trasferibilità di questi meccanismi all’ambiente in vivo è attualmente
oggetto di studio.
In ambito clinico quest’azione di controllo sulla replicazione virale è
stata indagata solo indirettamente. In uno studio prospettico randomizzato su 120 pazienti affetti da epatite cronica HCV-correlata la
coorte di studio è stata trattata con interferon (IFN)-alfa 2b in associazione a CyA a dosi scalari per 24 settimane, mentre il gruppo di
controllo ha ricevuto la sola terapia interferonica15. Il gruppo di studio con terapia di combinazione ha dimostrato una prevalenza significativamente maggiore di risposta virologica sostenuta (sustained virological response, SVR) (in termini di negativizzazione dell’HCV-
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RNA) e risposta biochimica sostenuta (sustained biochemical response,
SBR) (ALT). Questa risposta favorevole alla terapia d’associazione è
risultata nettamente più significativa nel sottogruppo di pazienti con
genotipo 1b ed alti livelli di HCV-RNA pre-trattamento. Altri studi di
letteratura supportano un ruolo positivo della CyA nel trattamento
dell’epatite cronica HCV-correlata, anche se i dati relativi alle modificazioni dei livelli di HCV-RNA non sono sempre consistenti16. Alcuni autori riportano un’azione soppressiva della CyA sull’HCV anche
nei pazienti sottoposti a trapianto di midollo17.
Gli studi clinici relativi al potenziale impatto positivo della CyA sulla recidiva virale post-trapianto sono invece più controversi ed articolati.
Una serie di studi di comparazione tra gruppi di pazienti HCV-positivi trattati con CyA o TAC non mettono in evidenza differenze statisticamente significative in termini di sopravvivenza del paziente e
del graft18. Alcuni di questi studi risalenti agli ultimi anni ‘90, pur includendo un numero significativo di pazienti, sono retrospettivi,
non randomizzati e non finalizzati alla determinazione della gravità
della recidiva virale post-trapianto18. Uno dei primi studi prospettici
randomizzati di comparazione è stato eseguito dal gruppo di Miami,
non mettendo in evidenza differenze tra i due immunosoppressori
se non nella prevalenza di AR, che risulta maggiore nel gruppo CyA.
Va detto tuttavia che la coorte globale è però solo di 50 pazienti19. In
un più recente studio randomizzato su 79 pazienti assegnati con valutazione anatomo-patologica alla cieca, la probabilità cumulativa di
ricorrenza HCV a 12 mesi è risultata sovrapponibile nei due bracci
di studio (a CsA o tacrolimus), analogamente alla sopravvivenza di
pazienti e graft20. In questo stesso studio nei pazienti trattati con CyA
si è osservato un incremento significativamente maggiore nei livelli
di HCV-RNA ad 1, 6 e 12 mesi.
Il più ampio studio prospettico randomizzato di comparazione tra CyA
microemulsione (ME) con monitoraggio dei livelli a 2 ore dalla somministrazione (C2) e TAC è il LIS2T (studio internazionale, multicentrico, non-investigator-driven), su quasi 500 pazienti e che si prefiggeva come obiettivi primari la prevalenza di AR e la sopravvivenza di
pazienti e graft. In questo studio si è evidenziata una sopravvivenza
di pazienti e graft significativamente superiore nel gruppo di pazienti trattati con CyA rispetto a quelli immunosoppressi con TAC (6%
CyA vs. 15% TAC di graft loss o decesso a 6 mesi dal LT). Questo studio, peraltro, pur numericamente importante, non risulta conclusivo, dal momento che l’incremento di perdita di pazienti e graft nel
gruppo TAC rispetto al gruppo di confronto non è sembrato imputabile – né direttamente né indirettamente – a fattori riconducibili
alla recidiva virale20. Recentemente (comunicazione al congresso
dell’International Liver Transplantation Society 2005), Villamil ha
presentato i risultati relativi ad un approfondimento di studio sulla
coorte di pazienti del LIS2T con estensione del follow-up e dati aggiuntivi di tipo virologico. Questo approfondimento ha messo in evidenza solo tendenze verso la superiorità della CyA rispetto a TAC in
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termini di severità e prevalenza di recidiva HCV-correlata, senza che
però si raggiungesse mai la significatività statistica.
Sulla base dei dati sino ad oggi disponibili, in sintesi, non si è in grado
di sostenere una provata superiorità della CyA sul TAC nel ridurre
incidenza e severità di recidiva di malattia epatica nei pazienti HCVpositivi. Esistono, invece, dati che giustificano un approfondimento
clinico, che richiederà coorti sufficientemente ampie e studi disegnati con la finalità di evidenziare prioritariamente in questi pazienti l’assetto virale, biochimico ed anatomo-patologico nel medio e
lungo termine.
Antimetaboliti
L’MMF è – tra gli antimetaboliti – il farmaco di maggiore interesse clinico degli ultimi anni. In particolare, parallelamente alle significative capacità immunosoppressive della molecola, oggi in più centri testata in un regime di monoterapia dopo trapianto di fegato, vengono rimarcate da più parti le sue potenzialità antivirali ed antifibrotiche22,23. Il farmaco ha, infatti, un’azione anti-flavivirus (dimostrata in
vitro) sulla base della quale si è ipotizzata anche un’azione anti-HCV.
Di fatto, tuttavia, studi finalizzati ad ottenere quest’evidenza non
hanno confermato questo ruolo antivirale HCV-diretto. In particolare, in uno studio prospettico condotto su pazienti affetti da epatite
cronica HCV-correlata e sottoposti a tre differenti regimi di trattamento con MMF per 8 settimane, non si sono riscontrate significative riduzioni del livello di HCV-RNA o d’attività citolitica rispetto ai
controlli24. Analogamente, in uno studio prospettico di cross-over, in
cui 13 pazienti con recidiva di HCV dopo LT sono stati convertiti da
AZA a MMF per un periodo di 3 mesi, si è addirittura rilevato un innalzamento delle viremie dopo conversione, anziché una riduzione
e nessuna sostanziale differenza in termini di citolisi e funzionalità
epatica25. Su di un piano puramente speculativo è possibile ipotizzare che l’eventuale azione antivirale di MMF possa risultare meno evidente, o completamente non rilevabile, in virtù del potenziale immunosoppressivo del farmaco.
Indipendentemente dagli effetti di MMF sulla viremia, i dati clinici relativi all’impatto sull’outcome post-trapianto ed in particolare sulla
recidiva da HCV sono relativamente contrastanti. Jain, infatti, nel
contesto di un’analisi prospettica di comparazione su oltre 100 pazienti HCV, non rileva differenze statisticamente significative in termini di graft e patient survival, incidenza e gravità di recidiva HCV a
4 anni dal LT tra pazienti trattati con TAC, S e MMF e pazienti sottoposti a duplice terapia con TAC e S26. D’altra parte, in una revisione di oltre 3400 casi di pazienti trapiantati per cirrosi HCV-correlata dal 1995 al 2001 a cura dello Scientific Registry of Transplant Recipients, il gruppo di pazienti cui alla dimissione era stato aggiunto
MMF alla terapia con TAC e S ha dimostrato una sopravvivenza di
pazienti e graft significativamente maggiore a 4 anni e una minore
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incidenza di rigetti acuti rispetto al gruppo di pazienti trattati con
duplice terapia.
Relativamente all’impatto di MMF o AZA su prevalenza e gravità della
recidiva virale HCV, gli studi ben condotti non sono molti. In un’analisi di Kornberg su 21 pazienti con recidiva virale post-trapianto,
se da una parte nel gruppo di pazienti trattati con MMF si è rilevato
un ritardo nella comparsa di citolisi virus-correlato, dall’altra la progressione fibrotica a 6 mesi è risultata significativamente maggiore
rispetto al gruppo ai controlli trattati con AZA27. Al contrario, il
gruppo di Neuhaus ha recentemente dimostrato come nei pazienti
con recidiva d’epatite HCV-correlata istologicamente dimostrata,
l’introduzione di MMF e la progressiva riduzione dei livelli di CNI
siano associati ad una sostanziale stabilità di grading e score istopatologico (Metavir) e ad una riduzione della citolisi, mentre nel gruppo
di controllo (pazienti non trattati con MMF) si è assistito ad una progressione sia di flogosi che di fibrosi28.
Risulta evidente come la contraddittorietà dei risultati riportati sia frutto di un approccio disomogeneo dei diversi studi, sia dal punto di vista metodologico che da quello degli obiettivi primari29,30. Appare lecito affermare, tuttavia, che laddove l’MMF venga utilizzato senza
aumentare significativamente il carico immunosoppressivo (mediante graduale riduzione dei CNI), il suo utilizzo possa risultare favorevole, sia in termini di sopravvivenza a lungo termine sia di severità di
recidiva di malattia virale. In aggiunta, la potenziale maggiore capacità di controllo da parte dell’MMF sugli episodi di AR permetterebbe una strategia di “risparmio steroideo” certamente importante nell’ottica del controllo della recidiva virale.
Relativamente all’AZA, alcuni report – anche recenti – segnalano un
possibile ruolo positivo di una terapia di mantenimento con questo
antimetabolita, anche se utilizzato semplicemente come induttore e
poi sospeso31-33. Queste osservazioni troverebbero una spiegazione fisiopatologica in alcune recenti segnalazioni relative ad un effetto antivirale anche di AZA sull’HCV34. È da segnalare che la repentina sospensione di MMF o AZA può, analogamente a quanto descritto per
gli S, innescare un rimbalzo d’immunocompetenza, precipitando
una ricorrenza virale più severa.
Le terapie di combinazione
La numerosa variabilità d’associazione tra i diversi immunosoppressori
giustifica la difficoltà di trarre conclusioni omogenee e di raggiungere standardizzazioni, in particolare nel gruppo di pazienti trapiantati
per cirrosi HCV-correlata. Alcune esperienze internazionali hanno
approfondito il ruolo degli approcci immunosoppressivi combinati
rispetto alle monoterapie. È il caso di uno studio condotto su 59 pazienti HCV-positivi sottoposti a triplice (CNI, AZA, S), duplice (CNI,
S) o monoterapia (CNI) e valutati istopatologicamente ad oltre 12
mesi dal trapianto35. La percentuale di sviluppo di fibrosi severa o
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cirrosi è risultata associata con il tipo d’immunosoppressione iniziale e, in particolare, è stata significativamente maggiore nei pazienti
trattati con duplice o triplice terapia (37%) rispetto ai pazienti sottoposti a monoterapia (7,7%).
In uno studio nettamente più ampio di recente pubblicazione la comparazione tra triplice terapia (TAC, AZA, S) vs. duplice (TAC, AZA),
pur non finalizzata allo studio dei soli pazienti HCV, ha messo in evidenza una significativa maggiore prevalenza di rigetti nel gruppo
duplice (48% vs. 2% nei soli pazienti HCV). Questo dato non ha
però influenzato la sopravvivenza dei pazienti, che è risultata tendenzialmente migliore proprio nel gruppo duplice36.
L’utilizzo di anticorpi anti-recettore per IL-2 in varia associazione è stato indagato relativamente all’impatto sulla recidiva virale HCV. Secondo Nelson, il daclizumab (DAC), in particolare in associazione
ad MMF nel post-operatorio precoce, indurrebbe una maggiore attività necro-infiammatoria, più alta viremia ed un più significativo sviluppo di recidiva avanzata entro 1 anno (45%)37. Nel 2004 è stato
pubblicato uno studio collaborativo multicentrico italiano relativo
alla comparazione in doppio cieco tra una quadruplice terapia (basiliximab, CyA, AZA, S) vs. una triplice (basiliximab, CyA, AZA e placebo)38 in pazienti sottoposti a trapianto per cirrosi HCV-correlata.
Seppure non siano state rilevate differenze significative in termini di
recidiva virale istologicamente comprovata, la prevalenza di fallimenti della terapia antivirale è risultata significativamente superiore
nel gruppo basiliximab e S. In questo stesso gruppo, peraltro, si
sono registrati significativamente meno episodi di AR. È questo solo
uno dei numerosi studi focalizzati sul ruolo degli S nelle terapie di
combinazione per i pazienti HCV. Questa tematica verrà ampiamente affrontata nella prossima sezione. In questo contesto è utile rimarcare che valgono per la terapia steroidea gli stessi principi comuni al
più generale ambito immunosoppressivo. Su questa base nasce il razionale di molti studi prospettici che hanno rilevato il ruolo protettivo dei protocolli “steroid free” nei pazienti HCV-positivi, così come
di quei protocolli che tendono alla riduzione o alla sostituzione dell’utilizzo del bolo steroideo nel trattamento dell’AR in questi pazienti. Peculiare degli steroidi è, però, il ruolo di controllo della risposta
flogistica che giustifica un recente ritorno d’interesse verso protocolli includenti dosaggi steroidei relativamente modesti mantenuti a
lungo nel post-operatorio e con riduzioni lente e progressive, allo
scopo di evitare un improvviso recupero d’immunocompetenza antivirale, potenzialmente assai dannoso per la progressione del danno
epatico da recidiva.
Minimizzazione dell’immunosoppressione
È la prospettiva più interessante e la direzione futura razionalmente
più corretta in questo particolare ambito. Segnaliamo a tal proposito i numerosi studi clinici che prevedono riduzioni significative
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(fino al 50% ed oltre) dell’esposizione a CNI in associazione ad altri
immunosoppressori o gli stessi protocolli steroid-free di cui sopra, o i
numerosi trial di weaning riportati in letteratura o ancora in corso.
Tra questi riportiamo una recente ed interessante esperienza di Marcos in cui 58 riceventi HCV-positivi sono stati trattati prima dell’intervento con unica dose di alemtuzumab e successivamente sottoposti a monoterapia immunosoppressiva con progressivo aumento degli intervalli tra le dosi (spaced weaning), fino alla totale sospensione
nei pazienti con funzione epatica stabile. La sopravvivenza di graft e
pazienti a 22 mesi è risultata significativamente maggiore rispetto ai
controlli con, al termine, 62% dei pazienti in spaced weaning e 4 immunosuppression-free39.
l
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L’esperienza del Centro di Padova
Su di una serie globale di 706 pazienti trapiantati a Padova dal 1990 ad
oggi, nel 46% dei casi l’indicazione è stata una cirrosi HCV-correlata
con una prevalenza dell’81% di genotipo 1b. Sulla scorta di dati attinti da un database prospettico sono stati retrospettivamente analizzati i dati di 184 pazienti HCV-positivi con un follow-up minimo di
24 mesi e biopsie epatiche di protocollo a 3, 6 mesi e successivamente a cadenza annuale. I pazienti sono stati sottoposti a protocolli immunosoppressivi e terapeutici anti-HCV non omogenei. L’83% di
questi pazienti ha sviluppato segni istologici di ricorrenza di malattia
HCV-correlata ed una franca cirrosi si è diagnosticata nel 10%, nel
13% e nel 17% dei casi a 3, 5 e 7 anni dal LT, rispettivamente. Allo
scopo di determinare i fattori prognostici rispetto all’insorgenza di
cirrosi post-trapianto, sono state prese in considerazione una serie di
variabili relative al ricevente, al donatore e al graft. Tra queste, l’utilizzo di OKT3 nel trattamento di episodi di AR non responsivo a S e
la ripetuta somministrazione di boli steroidei sono risultati fattori
predittivi d’evoluzione cirrotica con significatività statistica all’analisi
multivariata (tabella I). Analogamente, l’OKT3 associato a boli steroidei multipli ha dimostrato un valore predittivo indipendente
d’insorgenza di cirrosi precoce post-LT (tabella II). Nessun particolare regime immunosoppressivo ha avuto un impatto statisticamente
Variabili
Monovariata
Multivariata
ALT 2 e 3
0,006
0,001
# rigetti
0,005
ns
# rigetti entro 30 gg.
0,01
ns
# rigetti > 60 gg.
0,04
ns
OKT3
0,01
Ns
OKT3/>3 boli di steroidi
0,02
0,01
Ischemia calda > 50 min
0,03
0,04
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Tabella II. Analisi uni e multivariata dei fattori predittivi di recidiva precoce d’evoluzione cirrotica post-trapianto.
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significativo pur essendo stati utilizzati protocolli a duplice o a triplice terapia includenti CNI ed alternativamente AZA o MMF. Questi
dati confermano ulteriormente il ruolo giocato dal carico immunosoppressivo nel determinismo del danno fibrotico da ricorrenza virale HCV.
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