Siddhartha Mukherjee L`imperatore del male. Una biografia del cancro

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Siddhartha Mukherjee L`imperatore del male. Una biografia del cancro
Siddhartha Mukherjee L'imperatore del male. Una biografia del cancro
Intervista di Mara Accettura pubblicata il 28 agosto su D, la Repubblica delle donne, all’
oncologo americano della Columbia University che ha vinto il Pulitzer 2011
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Luccicano nella capsula di Petri come stelle nel buio. Alcune verdi, altre viola, formano
costellazioni di una terrificante bellezza. Sono cellule cancerose. «Leucemia. Le abbiamo
prelevate da un topo in cui abbiamo impiantato un gene umano di leucemia. Ma la cosa carina
è che, per seguirne i movimenti, gli abbiamo messo dentro anche un gene di medusa. È per
questo che brillano così».
Camicia aperta bianca a quadretti rossi, stivali, un ciuffo di capelli corvini che gli ricade
continuamente sulla fronte Siddhartha Mukherjee, nato a Delhi 40 anni fa, studi a Oxford, una
moglie artista (Sarah Sze), non sfigurerebbe affatto come rubacuori in un epica bollywoodiana.
Invece è un oncologo che passa la maggior parte delle sue giornate a studiare cellule staminali
tra i microscopi e i frigoriferi dei laboratori della Columbia University di New York.
Un oncologo con un grande talento letterario: la sua monumentale biografia sul cancro,
risultato di sei anni e mezzo di ricerche, L’imperatore del male (in uscita con Neri Pozza l’1 settembre) ha vinto il Pulitzer. È un libro
così esagerato (600 pagine l’edizione americana, ma in prime bozze erano 1800) che un
blogger gli ha educatamente suggerito di fare anche un bignamino. Assolutamente no! La forza di questo libro, il primo nel suo genere, sta nella narrazione: la capacità di tenere
insieme in modo avvincente 4000 anni di storia della malattia. Mukherjee dice che la
motivazione principale è venuta dal rapporto con i pazienti, in particolare una donna,
Germaine, con un tumore all’addome. Rispondeva alle cure per un po’, poi il cancro tornava.
Era come giocare a scacchi, “un gioco morboso, ipnotico - un gioco che si era appropriato della
sua vita. Riusciva a schivare un colpo per poi essere presa in pieno da un altro”. «A un certo punto mi
disse. “Voglio continuare a curarmi ma per favore mi spieghi contro cosa esattamente sto
combattendo”. È stata una frase che mi ha mortificato e commosso, nemmeno io sapevo rispondere in pieno. Non potevo neanche indicarle un libro che l’avrebbe aiutata a
comprendere. L’ho scritto semplicemente perché non c’era».
Medicina e letteratura non sono così lontane come si crede. «In effetti la medicina è
storytelling», dice. «Curare una persona comincia con un atto sciamanico, il dottore che chiede
al paziente di raccontargli la sua storia, il paziente che la spacchetta, il medico che cerca di
spiegare. Senza quel racconto, quell’apertura dell’anima, non c’è vera cura».
L’imperatore del male è un grandissimo affresco sociale, ambientato soprattutto negli Usa,
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fatto di storie più piccole, diagnosi, pazienti, scienziati, cure. Speranze, vittorie e sconfitte: un mosaico complesso per catturare le diverse facce della malattia. Deve essere così, perché
«quello che noi chiamiamo cancro è un termine ombrello per malattie che si comportano in
modo diversissimo. Persino due tumori al seno non si somigliano affatto, perché ogni genoma
del cancro è unico, e tuttavia c’è una grammatica comune. L’analogia migliore è quella umana:
ci sono caratteri fondamentali che connettono me a lei e la sua psiche alla mia e tuttavia
rimaniamo sostanzialmente molto diversi».
La cosa certa è che durante la vita ognuno di noi ne fa un’esperienza, diretta o attraverso
qualcuno che amiamo. Qualche mese fa il magazine di The Guardian, anticipando un brano del
libro, ci ha fatto una cover piuttosto inquietante. Era una foto ambientata in un supermercato
affollato dove tutti, dalle cassiere ai clienti erano calvi, come reduci da una chemio. Il titolo era
Cancer: The New Normal? Quelle teste pelate di giovani, vecchi e bambini non alludevano alla
possibilità di contrarlo o meno durante la vita. Il punto era sul “quando”. Un’inevitabilità
raggelante no?
Le statistiche sembrano corroborare questa affermazione: i casi di cancro nel mondo sono in
aumento. Negli Usa una donna su tre e un uomo su due, a un certo punto della loro vita,
scopriranno di averlo. Questa previsione, a prima vista inquietante, si spiega soprattutto con l’allungamento della
vita. «Il cancro è connesso all’invecchiamento, alle mutazioni che accumuliamo nel tempo nei nostri corpi. Ma anche all’aumento di carginogeni nell’ambiente e al fatto che abbiamo
eliminato molte altre malattie killer, come il tifo, il vaiolo...», dice Mukherjee. Quindi «È alquanto
possibile che questa malattia diventi normale, e che il destino intrinseco di tutti sarà
caracollare verso una fine maligna».
La storia della malattia è raccontata attraverso figure chiave: c’è la Regina persiana Atossa,
protagonista della prima mastectomia che si ricordi, fatta da uno schiavo nel 500 BC, il
patologo Sidney Farber che, negli anni 40, mise a punto la prima chemioterapia per la leucemia infantile, e Mary Lasker, l’instancabile fundraiser e filantropa che, chiamando in causa
Nixon, lanciò la prima guerra nazionale contro la malattia. C’è George Papanicolau, a cui
dobbiamo il Pap test e Bert Vogelstein, che ha studiato per primo le mutazioni genetiche, fino
all’attuale Atlante del Genoma del Cancro, la mappa futura di tutte le alterazioni genetiche delle
forme più comuni della malattia.
Ma sono le storie dei pazienti come Barbara Bradfield, il primo tumore al seno in stadio
avanzato curato con l’Herceptin da Danny Slamon negli anni 90, viva ancora oggi, a
commuovere di più. Le loro speranze sono le nostre. «Mentre scrivevo il libro non sapevo se
una delle mie pazienti, Carla, sarebbe sopravvissuta. Quando l’ho finito ero felicissimo che
fosse viva, ovviamente, ma non ho voluto concluderlo con il suo delizioso trionfo, bensì con la storia di Germaine, che non c’è più e che ha motivato la mia vita nella ricerca».
Il modo in cui abbiamo “conversato” con questa malattia durante i secoli riesce a dirci molte
cose su di noi. Negli anni 50 avevamo una grandissima paura e la parola cancro non si poteva
nemmeno menzionare: Fanny Rosenow chiamò il New York Times per metter un annuncio su
un gruppo di supporto per pazienti sopravvissute al tumore al seno. Le fu risposto che quelle
ultime due parole non era proprio possibile pubblicarle. Perché non scrivere invece di generiche “malattie della cavità toracica?”. Nei 70 i progetti nello spazio inaugurarono un
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periodo di delirante ottimismo: il cancro poteva essere conquistato come la luna! Evviva! Era
solo una questione di budget! Una delle cose che mi ha colpito di più è che la lotta contro il
cancro negli anni 80 deve moltissimo agli attivisti dell’Aids. Con lobby e campagne quella
minoranza rumorosissima ha fatto uscire una parola impronunciabile dalla clandestinità e ha
dato voce ai diritti dei pazienti, facendo sì che per la prima volta cure sperimentali fossero
disponibili per un vasto numero di loro.
Molto interessante è anche un capitolo dedicato alle statistiche, dove spesso, nella raccolta
dei dati, “la nostra speranza interferisce con la comprensione della verità”. «Prendiamo quelle sulla sopravvivenza nel tempo. Se scopri un tumore molto presto con un test sembrerà che, in
virtù di quel test, la sopravvivenza sia maggiore, ma questo non ha nulla a che vedere con la
sopravvivenza reale. Nel libro faccio l’esempio di due gemelle: Hope e Prudence che sviluppano la stessa forma di tumore allo stesso momento: nel 1990. Hope fa un test e lo scopre nel 1995, sopravvive 5 anni, si riammala e muore nel 2000.
Prudence non fa nessun test, si accorge di essere malata nel 1999 e muore nel 2000. Chi ha
vissuto più a lungo?». Detto questo, e rimossi tutti i pregiudizi, negli Usa, da dieci anni la mortalità per tutti i tipi di
cancro è caduta al ritmo di 1-2 per cento all'anno.
Ci ha fatto piacere trovare delle pagine dedicate agli italiani Umberto Veronesi e Gianni
Bonadonna come ottimo esempio di collaborazione tra chirurgia e chemioterapia in un
momento storico, gli anni 70, in cui queste due branche si facevano la guerra. Ricercatori italiani ce ne sono tanti anche qui all’istituto e Mukherjee ci tiene a dire che il piano
di sotto lo chiamano “il piano di Milano”, perché è al 100 per 100 italiano, e il grande capo è Riccardo Dalla Favera. In questo periodo la sua ricerca si concentra sui microambienti che rendono possibile lo sviluppo della malattia. «Le cellule non vivono in isolamento ma si creano
delle case, dei piccoli santuari. Comunicano con le cellule dei vasi sanguigni, con quelle dei
muscoli. Se cambi questo microambiente cambi anche il comportamento del cancro. Stiamo cercando
di creare delle medicine che rendano inospitali questi santuari. Il vantaggio è che le loro cellule
sono soggette a meno alterazioni di quelle cancerogene e quindi il comportamento è più
prevedibile».
Se biografia significa storia di una vita, il cancro raccontato da Mukherjee è l’essere vivente
più resiliente ed elusivo che ci sia, un furbissimo Osama Bin Laden con le aspirazioni
espansionistiche di un Alessandro Magno, braccato nei secoli da generazioni di scienziati. Un terrorista che appare all’improvviso e quando meno lo si aspetta, semina panico e
distruzione, scompare in improbabili nascondigli, riappare a distanza di tempo in un luogo
diverso, viene rimesso in fuga da nuove strategie.
Il terrorista vero ha fatto la fine che sappiamo. Questo, è ancora tutto da vedere. «Il cancro è
“embedded” nei nostri corpi, cucito nel genoma. Una macchina antichissima costruita per
sopravvivere. Questo è un fatto. La grande ironia è che sono gli stessi geni che ci permettono
di far crescere gli embrioni, le mani, le facce, se li muti e li attivi in modo inappropriato - e qui
entra in gioco il fattore ambientale, vedi il tabacco - a creare anche il cancro».Da un certo
punto di vista “l’imperatore del male” è la nemesi di una società che aspira alla eterna
giovinezza e per cui la morte è un mero optional. I nostri desideri somigliano a quelli delle 3/5
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fantastiche cellule colorate nella capsula di Petri, coi geni che dialogano con altri geni
producendo una musica dal ritmo perfetto e letale. Quelle cellule che crescono a dismisura per
rimanere immortali sono una versione più perfetta di noi stessi. Non è ironico? Il cancro è il nostro
doppelganger, quel lato ombra che ci ricorda il nostro peccato di hubris.
Forse i nostri goal dovrebbero essere più modesti. Mukherjee rimette a posto le cellule nel
frigorifero. Le sue previsioni hanno i piedi per terra.
«Alcuni cancri saranno curabili, altri diventeranno cronici, e questo traguardo è in sé
importantissimo. Per altri ci saranno solo cure palliative. Ma l’idea che potremo sradicarlo dal
corpo così come abbiamo fatto per la poliomelite è pura fantasia. Amo quell’aforisma di
Richard Doll che dice: “la morte in vecchiaia è inevitabile, la morte prima della vecchiaia no”. È
su questo che bisogna lavorare. Prolungare le vita, non eliminare la morte: è proprio ridefinendo il concetto di vittoria che
possiamo vincere la guerra contro il cancro».
Libro vincitore del Premio Pulitzer 2011.
Tra i cento migliori libri del 2011 scelti dal New York Times.
L'epica lotta contro il cancro. Una guerra millenaria fatta di incessanti battaglie, piccole vittorie
e grandi sconfitte, medici ed eroi, geni della ricerca e gente comune, illusioni e speranze,
certezze e millanterie.
«Un libro davvero di pregio, affascinante - nonostante la complessità della materia -, da cui
traspare l'impegno, la dedizione e la passione di chi per lungo tempo l'ha maturato, curato,
seguito in tutte le sue fasi di realizzazione».
Umberto Veronesi
«Una biografia del grande nemico che ci assedia da 4500 anni... una lotta millenaria, dove
ogni conquista è stata la faticosa risposta dell'uomo alle sconfitte precedenti».
Giuliano Aluffi, Il Venerdì di Repubblica
«La forza di questo libro, il primo nel suo genere, sta nella narrazione: la capacità di tenere
insieme in modo avvincente 4 mila anni di storia della malattia».
Mara Accettura, D di Repubblica
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«L'autorevole e ambiziosa storia del cancro di Mukherjee è il racconto epico di un autore che
sembra mosso da un'assoluta necessità, come un giovane prete che scriva la biografia del
Maligno».
The New York Times
«Non sono molti i libri per il grande pubblico che sappiano offrire un'immagine della scienza e
della tecnologia moderna con la stessa intelligenza, chiarezza e partecipazione».
The New Yorker
«Ogni tanto arriva sulla scena letteraria uno scrittore che ci aiuta a comprendere sia le
complessità sia la portata umana di una disciplina scientifica. Autori come Lewis Thomas,
Sherwin Nuland e Oliver Sacks. A loro si aggiunge ora Siddharta Mukherjee».
Elle
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