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alfadifferenze
PER UNA LETTURA MATERIALISTA
DI RAZZA E GENERE
La composizione
politica delle
differenze
Collettivo UniNomade
1. Può la composizione di classe, nel capitalismo contemporaneo e
nella sua crisi, essere uno strumento valido per l’analisi del presente e l’organizzazione del conflitto? E soprattutto: che cos’è la classe
una volta criticamente assunta la sua impossibile omogeneità, dopo
avere cioè messo profondamente in discussione un’idea monolitica
della classe incapace di cogliere la complessità del lavoro vivo contemporaneo? È qui che si colloca l’esigenza di Uninomade di avviare una riflessione capace di portare al centro dell’analisi le differenze di razza e genere quali condizioni imprescindibili per la definizione della classe nel presente. Il seminario di Napoli (23-24 giugno), di cui presentiamo in queste pagine alcuni materiali, ha rappresentato un primo momento di lavoro in questo senso.
Da anni riflettiamo sulle trasformazioni produttive e sui nuovi
dispositivi della cattura capitalistica che agiscono sui corpi, sulle
emozioni, sui linguaggi e sulle relazioni. La ristrutturazione produttiva che ha seguito e accompagnato la globalizzazione e l’inarrestabile mobilità del lavoro così come le lotte anticoloniali e quelle delle
donne tanto nel mondo «occidentale» quanto al di fuori di esso
hanno imposto il colore della pelle, l’appartenenza geografica e nazionale, il sesso e la sessualità quali nuovi terreni della valorizzazione capitalistica. Ne sono esempio, tra altri, i processi di inclusione
differenziale che segnano l’ingresso di donne e uomini migranti in
questo come in altri paesi, al pari della sistematica dequalificazione
e del persistente sfruttamento del lavoro di ri-produzione, storicamente attribuito alle donne. La salarizzazione del lavoro domestico
e di cura, combinandosi con processi di etnicizzazione e segmentazione del mercato del lavoro, assume da questo punto di vista un
valore per molti versi esemplare. La composizione di classe, allora,
non può che essere segnata e scissa dalle differenze di razza e di genere che, con sfumature e intensità differenti descrivono, oggi con
rinnovata attualità, lo spazio dell’organizzazione e della gestione del
rapporto sociale capitalistico. Elementi di divisione e violenta gerarchizzazione del lavoro, razza e genere alludono anche a una nuova
definizione del soggetto politico, capace di fare delle differenze elementi di forza dentro una composizione irriducibilmente molteplice ed eterogenea. È qui che il nostro lavoro di questi anni attorno
alla categoria di «moltitudine» incontra le riflessioni delle componenti più radicali del movimento queer e Lgbt.
2. Tutta la storia del capitalismo è impregnata della presunta superiorità di bianchezza e mascolinità. È la norma del maschile bianco eterosessuale posta a fondamento della narrazione moderna e del
discorso coloniale di cui è intrisa la stessa identità nazionale ed europea. Detto altrimenti, non c’è capitalismo senza razzismo e sessismo. O meglio: non c’è capitalismo senza razzializzazione e genderizzazione, senza che la razza e il genere siano cioè assunti quale terreno per la costruzione di pratiche e discorsi che contribuiscono alla
dequalificazione e alla svalutazione del lavoro di alcuni gruppi sociali: storicamente le donne, i migranti, le «minoranze» e le popolazioni colonizzate.
In questo senso il razzismo e il sessismo che la crisi economica
globale ci mostra con particolare virulenza non sono da intendere
come una deviazione ideologica o una patologia sociale – come per
gran parte del dibattito scientifico e perfino di movimento in Italia
e in Europa. Nella loro indiscutibile ricaduta materiale, cioè nei termini di opportunità, aspettative e forme di vita dei soggetti che li subiscono, sono piuttosto uno strumento di controllo e frammentazione sociale: lo spazio imprescindibile dello sfruttamento del lavoro
che la crisi economica globale si è limitata a esacerbare. Lo stillicidio
della violenza sulle donne e le ripetute aggressioni a razziste e omofobe che riempiono le cronache di questo paese o i pogrom contro i
migranti che segnano in Grecia il violento incedere della crisi, non
sono altro che la declinazione più aberrante di un processo più complessivo e sistematico che ha storicamente fatto della razza e del genere lo spazio per la costruzione gerarchizzata di relazioni sociali e
del lavoro, senza le quali, la storia ci insegna, lo stesso modello di sviluppo capitalistico non sarebbe neanche immaginabile.
Razza e genere sono dispositivi di frammentazione e gerarchizzazione che mostrano una profonda adattabilità e la capacità di rideclinarsi dentro mutate condizioni storico-sociali. Si pensi alla
continua ricomposizione dei dispositivi di subordinazione patriarcale (tanto nella famiglia quanto nella società) a fronte delle lotte
delle donne e del loro tumultuoso ingresso nel mondo del lavoro.
Ma si pensi anche alla «mobilità» dei significanti razziali, spesso
sganciati dal colore della pelle come mostrano tanto i complessi
percorsi che hanno portato immigrati irlandesi e italiani a divenire
«bianchi» negli Stati Uniti tra la fine dell’Ottocento e il New Deal
(dopo avere subito per decenni la violenza dello stigma di razza)
quanto la storia italiana del secondo dopoguerra – con la razzializzazione prima dei lavoratori «meridionali» emigrati nel triangolo industriale e poi dei migranti «extracomunitari» (neri, arabi, albanesi,
romeni, secondo successivi slittamenti cromatici e «culturali»).
3. Le differenze di razza e genere ci permettono dunque di leggere la composizione di classe, proprio in quanto indiscutibili dispositivi di frammentazione e gerarchizzazione della forza lavoro.
Come costruire, su questo terreno, processi di composizione politica diventa la posta in palio, tutt’altro che data, delle lotte e della
produzione del comune. Pensiamo allo straordinario movimento
dei latinos, che nella primavera del 2006 ha attraversato gli Stati
Uniti contro la criminalizzazione e per la regolarizzazione e dei migranti irregolari e che ha improntato di sé e delle proprie pratiche
le mobilitazioni degli anni successivi a livello globale (da lì nasce, ad
esempio, il primo marzo dei migranti in Italia). Quel movimento,
nello stesso tempo, ci pone il problema della lotta ai processi di razzializzazione come semplice rovesciamento «identitario» del dispositivo, cioè come possibilità di capovolgere le gerarchie senza interrompere, anzi riproducendo in modo perverso, gli effetti della
frammentazione. Potremmo dire che la posta in palio e insieme il
principale elemento di potenza di quel movimento è il suo divenire Occupy, cioè la sua generalizzazione.
Pensiamo ancora alla difficile e mancata composizione tra la rivolta nelle banlieue parigine e il movimento degli studenti contro il
Cpe, tra il 2005 e il 2006. Per quanto le figure del banlieuesard e
dello studente spesso si sovrapponessero, i dispositivi di razzializzazione hanno agito per tenerle continuamente divise o addirittura
contrapposte. Se la risposta non può essere l’universalismo repubblicano, e se anzi questo è parte del problema e non della soluzione, il
nodo della ricomposizione delle lotte ci pone l’urgenza della rottura
di questi dispositivi, non con l’obiettivo dell’omogeneizzazione bensì
di quello che abbiamo definito il comune delle differenze, ovvero il
comune allo stesso tempo
come base e prodotto delle
differenze. Da questo
punto di vista, il femminismo postcoloniale (ad
esempio nell’elaborazione
di Chandra Talpade Mohanty) offre un’importante
intuizione: per le donne,
l’unica lotta di liberazione
possibile è quella che incrocia la lotta antirazzista e
si rivolge contro i dispositivi capitalistici di dominio e
sfruttamento. Per dirla con
altre parole, è impossibile
pensare a un semplice ribaltamento dialettico dei
dispositivi di razzializzazione e genderizzazione se
non pagando il prezzo di
un ripiegamento nella «politica dell’identità», nella
celebrazione narcisistica di
«identità» cristallizzate e se-
parate: è il processo della rottura dei dispositivi capitalistici che li determinano e dunque della segmentazione e frammentazione che innescano, a stabilire il campo della soggettivazione antagonista che
apre lo spazio del comune.
4. È in questo senso dunque che insistiamo nel leggere l’intima
relazione delle differenze di razza e genere con la classe. Senza classe, peraltro, razza e genere scadono facilmente non solo nella «politica dell’identità» e nella dialettica del riconoscimento ma anche nel
biologismo: diventano dato di natura piuttosto che costruzioni sociali fabbricate e dismesse ad hoc per gestire e governare la complessità sociale e le trasformazioni produttive. Nello stesso tempo, l’articolazione delle differenze di razza e genere dentro la classe permette anche di rovesciare il falso mito dell’uguaglianza universale che
«rende ciechi» rispetto alle differenze, rispetto cioè alle differenti opportunità materiali che i soggetti esperiscono a partire della propria
differenza di razza e/o genere. Per dirla altrimenti, con un riferimento marxiano: se denaro e forza lavoro indicano i due poli attorno a cui si definisce l’antagonismo di classe, razza e genere sono criteri essenziali nel definire (e nel differenziare) le condizioni attraverso cui i soggetti «divengono classe» – si rapportano cioè a forza lavoro e denaro.
Sfuggire alla chiusura identitaria senza, sul lato opposto, negare
le differenze vuol dire dunque praticare forme di antirazzismo e antisessismo che possano efficacemente interrompere i processi di
frammentazione sociale al cuore dello sviluppo capitalistico, facendo delle differenze un terreno di lotta e di accumulo di forza. Si tratta, in questo senso di fare innanzitutto i conti con la dimensione
strettamente materiale del razzismo e del sessismo ripercorrendo la
lunga storia dello sfruttamento e della marginalizzazione sessista e
razzista che rimanda alla narrazione «umanistico-borghese-coloniale» della nazione. Il punto è, in altri termini, assumere la razza e il
genere come dispositivi di dominio radicati nella materialità dei
rapporti capitalistici di produzione e articolare una critica serrata di
quelle letture, ancora oggi prevalenti in Italia e in Europa, che fanno
del genere e soprattutto della razza una mera credenza o un pregiudizio da combattere con un progetto illuministico di educazione
universale. Antirazzismo e antisessimo non sono e non possono essere mera solidarietà. Sono piuttosto un programma radicale di
cambiamento che deve investire la società tutta, donne e uomini,
bianchi e non bianchi, cittadini e migranti. È questa la «composizione politica» che, attenta alla razza e al genere, sa cogliere le sfide
del presente e praticare il comune delle differenze.
La fauna della notte, 1986. Acrilici su tela, 150 x 200 cm
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L’invenzione
della razza
meridionale
Enrica Capussotti e Francesco Festa
In Italia non si può discutere di razza e razzismo senza tematizzare uno dei tratti peculiari e costanti della storia nazionale, la razzializzazione del sud e dei suoi abitanti. Si tratta di un processo
carsico, in grado di emergere più o meno secondo le diverse congiunture storiche. Un processo che difficilmente viene affrontato
in quanto razzismo interno nel dibattito pubblico e politico, nonostante le vicende degli ultimi decenni, con i toni e le politiche
proposte dai governi leghisti, abbiano portato alla ribalta la categoria di razzismo.
L’idea dell’esistenza di «due Italie», del Nord e del Sud, classificate all’interno di un sistema gerarchico di differenze, è il prodotto,
in primo luogo, della storia europea. Come Nelson Moe ha argomentato, tra i molteplici processi che dal XVIII secolo hanno portato alla costruzione della cosiddetta modernità occidentale, vi era
anche l’individuazione dell’Italia, soprattutto delle sue regioni
meridionali (insieme al Mediterraneo e all’Europa del sud), come
periferia del continente, in equilibrio precario tra Europa e Africa, tra Europa e Oriente.
La riorganizzazione dello spazio e dei confini europei ha inchiodato l’area del Mediterraneo all’immagine di un luogo nello
stesso tempo affascinante e pauroso, scenario di un passato glorioso e di un presente all’insegna dell’arretratezza e della povertà.
Durante l’unificazione d’Italia le élite hanno condiviso e riprodotto il discorso europeo sulla modernità, identificando se
stesse con la civiltà europea e assegnando al «Mezzogiorno» il
ruolo di altro negativo non più solo del continente, ma anche
della nuova nazione.
Dai topoi circolanti nei carteggi e nei dibattiti parlamentari e in
genere nella pubblicistica del tempo, si avverte quanto il discorso
pubblico del Risorgimento sia imbevuto di termini come «barbaro», «degenerato», «inferiore», «degradato» per indicare le popolazioni meridionali. Al contempo, l’arretratezza diviene via via il significante complessivo del Mezzogiorno. Questo ne intride il terreno di costituzione: una parte dello sforzo simbolico nell’edificazione della nazione unita ha coinciso proprio col mito delle «due
Italie», del «difetto di modernità» posto dalla «questione meridionale» come sfida permanente intorno alla quale mobilitare risorse
ed energie, in un impeto paragonabile alla colonizzazione di un
territorio esotico e selvaggio, grado zero della civiltà. Alla pari, l’apparato ermeneutico, retto su una sorta di «orientalismo» in un solo
paese, ha accompagnato le aspre pratiche di governo che hanno seguito l’unificazione nazionale, ricalcando assai da vicino quelle
coeve, adottate da altre potenze europee nelle proprie colonie.
Simmetricamente, non mancano le versioni sull’alterità meridionale corroborate dal peso della scienza e dei suoi metodi: dalle
insopprimibili differenze etno-razziali invocate, sul finire del XIX
secolo, dalla Scuola di antropologia positiva e dall’invenzione del
«romanzo antropologico» alla stagione delle spedizioni etnografiche del secondo dopoguerra, con il «familismo amorale» evocato
da Edward Banfield o l’assenza di «cooperazione sociale» scoperta
da Milton Friedmann, fino al mito di un’atavica assenza di «senso
civico» della politologia a la Robert Putnam, in auge in anni piu
recenti. Una contiguità di discorsi di cui, con Gramsci, troviamo
le radici nei paradigmi dei sociologi positivisti: la miseria ad assumersi la responsabilità dell’autogoverno non risiede in «condizioni economico-politiche obiettive, ma interne, innate nella popolazione meridionale», ovvero nell’«incapacità organizzativa degli
uomini», nella loro «barbarie», nella loro «inferiorità biologica».
In tale cornice, misure eccezionali e leggi speciali diventano retorica costituente per l’accesso alla civiltà e alla modernità. La razzializzazione del meridionale, che va di pari passo con la repressione delle rivolte contro il latifondo, funge tuttavia da momento organizzativo della forza-lavoro necessaria alla «grande trasformazione» dell’economia italiana, del passaggio dalla rendita al profitto,
dall’agricoltura all’industria come forma principale di produzione. Si badi: Gramsci addita proprio i meridionalisti quali primi
responsabili, vuoi per difesa, vuoi per reazione, delle scelte di politica-economica compromesse con i postulati della scuola positivista. Non è un caso che nel primo decennio del XX secolo vada
diffondendosi l’urgenza di conoscere il Sud. Diverse sono le inchieste volte a indagarne proprio l’alterità. La più famosa è quella di Francesco Saverio Nitti ed Eugenio Faina, Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle province meridionali e
nella Sicilia. Si parla, qui, chiaramente dell’inferiorità del «contadino meridionale», impreparato ad assumersi la responsabilità
dell’autogoverno. Tale inferiorità, pur considerata un prodotto
storico e ambientale, viene segnalata con termini quali «frode»,
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«violenza», «basso livello intellettuale e morale». Vengono poi riproposte tipologie e «essenze» regionali sostanzialmente negative,
così come si sono configurate nel corso dei secoli. Nell’invenzione di un’identità meridionale, si avverte aleggiare l’influenza e il
peso proprio del «romanzo antropologico».
In tale cornice si istrada puntualmente il Manifesto della razza
del 1938 e la voluminosa pubblicazione sulla «questione meridionale» di Friedrich Vöchting a opera della Cassa per il Mezzogiorno. In un contesto storico-sociale e culturale profondamente mutato, e quando ormai le scienze sociali hanno fatto della razza un
tabù, le scorciatoie razziali rispetto al Sud sono alquanto persuasive. Vöchting spiega, ad esempio, l’«immutabile passività» della
popolazione meridionale e la sfrontatezza delle classi alte attraverso «l’esistenza di una differenza etnica dalle radici profonde». La
sfiducia e il pessimismo nelle possibilità di cambiamento e di rinnovamento delle popolazioni meridionali si situano nella tradizione della «razza maledetta». Anche il riferimento agli «incroci» con
altri gruppi etnici, visto come possibilità di approdo alle attività
civili superiori, ricalca, a distanza di oltre mezzo secolo, le soluzioni prospettate da Sergi, Niceforo, Lombroso eccetera.
Negli anni Sessanta del Novecento, pratiche che appartengono a questo orizzonte di senso sono utilizzate nei riguardi della
forza-lavoro meridionale emigrata al Nord, così come agiscono
oggi sulla forza-lavoro migrante. È una «proprietà transitiva dell’odio» che, in tempo di crisi, diviene pratica quotidiana anche in
territori che hanno conosciuto e subìto l’emigrazione, le discriminazioni razziali e il pregiudizio antimeridionale, ma anche le mescolanze e la solidarietà. Un fenomeno che Miguel Mellino chiama «inconscio coloniale delle strutture del sentire nazionale».
3. Alla luce di quanto brevemente esposto, non è un caso che la
critica all’idea di modernità europea sia così utile per criticare la
costruzione della «Questione meridionale». Gli studi postcoloniali e subalterni hanno evidenziato il portato ideologico che ha sostenuto la costruzione dell’idea di modernità, che tra XVII e XVIII
Make up, 1986. Acrilici su tela, 150 x 200 cm
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secolo ha ridisegnato in chiave egemonica il rapporto tra Europa
occidentale e resto del mondo. Dipesh Chakrabarty suggerisce di
«provincializzare l’Europa» in quanto questo cambio di prospettiva illumina i meccanismi politici e culturali attraverso cui l’Europa si è autodefinita come «il» capitalismo, «la» modernità e l’illuminismo, rimuovendo il ruolo e la complessità degli scambi con i
territori coloniali e periferici. In questo contesto lo storicismo ha
legittimato un’idea progressiva del tempo storico, impiegata per
misurare la distanza con il resto del mondo attraverso quel «non
ancora» (moderni, sviluppati) che collocava, e colloca, negli spazi
periferici ed è indispensabile per imporre la dicotomia svilupposottosviluppo.
Il racconto del Mezzogiorno come alterità negativa è stato uno
dunque dei protagonisti principali del nation building all’italiana.
La dicotomia tra settentrione e meridione, costruita sulla naturalizzazione di tratti corporei, culturali, geografici, ha plasmato
l’immaginazione dell’Italia come nazione. Per la ridefinizione di
un’identità italiana europea è funzionale l’immagine di un sud povero e immobile, «non ancora» collocato nei processi della modernità e in grado di riscattarsi attraverso l’opera civilizzatrice del
nord, perpetuata, negli anni Cinquanta, attraverso la Cassa per il
Mezzogiorno e l’acculturazione dei lavoratori meridionali nelle
fabbriche settentrionali.
Le migrazioni interne, e più in generale i meccanismi della
rappresentazione che intrecciano tra loro la nazione, il Nord e il
Sud, l’Europa e il cosiddetto «Terzo Mondo» confermano e invitano ad approfondire il ruolo della tensione tra modernità e subalternità nella costruzione delle diverse versioni di italianità.
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Vite illegali
e criminali
nella «metropoli
migrante»
Nicholas De Genova
Ci sono due forme emblematiche di stigma razzializzato, che circolano in maniera persistente nelle rappresentazioni dei latinos (e
in particolare dei messicani) negli Stati Uniti: lo straniero illegale
e la gang di strada. I migranti vengono così caratterizzati come invasori, mentre i loro figli sono ritenuti corruttori. Si tratta in ogni
caso di dinamiche generali che non sono confinate alle peculiarità etnografiche o socio-storiche degli Stati Uniti.
Su scala globale – ovunque si stato costruito un «problema immigrazione» – esiste un continuum ideologico che raggruppa i migranti «illegali» e certe categorie di cittadini «criminali». Questo
sembra essere particolarmente significativo in paesi dove la «seconda generazione» comprende non cittadini veri e propri ma semplici residenti «immigrati» che rimangono in una condizione permanente di «stranieri» ufficiali. La relazione tra migranti «illegali» e
cittadini «criminali» tende cioè a essere configurata come una relazione «di sangue’, intrappolata nelle odiose fantasie sulla razza
concepite come legami di una parentela comune. Inoltre, queste
due figure – l’«illegalità» migrante e la cittadinanza criminale –
tendono a essere collocate all’interno di spazi distintivi di segregazione razzializzata convenzionalmente denotati come «ghetti immigrati». La produzione dei migranti «illegali» deve quindi essere
vista nella sua relazione a una cittadinanza razzialmente demarcata che viene minacciata dalla criminalizzazione. Inoltre, nella misura in cui la collocazione specifica di queste connessioni è comunemente quella vituperata terra di nessuno conosciuta come la
«inner city» (o la sua controparte suburbana, come nel caso delle
banlieues che circondano città come Parigi), occorre che dirigiamo
i nostri immaginari critici verso le tipologie di spazio urbano differenziale che ho chiamato la metropoli migrante.
Congiunture spaziali transnazionali
Vorrei però precisare che cosi come non c’è un’esperienza di immigrazione generica o universale, non può esserci una metropoli
migrante generica, una generica «esperienza migrante» di vita urbana. Dobbiamo sempre guardarci dall’essenzialismo «immigrato». Ciononostante, il concetto della metropoli migrante al singolare permette di avere una lente teorica per guardare le città da
una nuova prospettiva sempre che non si riduca alla mera presenza fisica di alcuni migranti in una data città. Sulla base di una ricerca etnografica condotta tra i migranti messicani a Chicago
nella metà degli anni Novanta, ho avanzato l’idea di una Chicago
messicana che, seppur rimanendo fisicamente posizionata entro i
confini territoriali degli Stati Uniti, era divenuta elusiva, persino
irrecuperabile, per la nazione statunitense. Una Chicago che corrispondeva ai molteplici «presenti» e ai futuri immaginati delle innumerevoli comunità messicane di cui erano originari i migranti,
che continuavano in maniera materiale (oltreché simbolica) a sostenere relazioni sociali che eccedevano, o persino trascendevano,
il confine dello Stato-nazione. La sovversione del confine operate
dai migranti – fratturato e caricato di complessità impreviste –
non era semplicemente un evento isolato che
coincideva con gli attraversamenti fisici del confine, ma un vero e proprio modo di vivere parte
della loro «inclusione» o «incorporazione» illegalizzata come lavoratori nella vita quotidiana capitalista entro lo spazio degli Stati Uniti.
I migranti stavano producendo uno spazio
congiunturale con ripercussioni trasformative in
tutte le direzioni che stava mettendo in discussione la stessa stabilità epistemologica dello
Stato-nazione americano. Più che un avamposto
o una mera estensione dello Stato-nazione messicano, la Mexican Chicago era qualcosa di nuovo
che emergeva in maniera relazionale dall’incontro e dall’interazione dei lavoratori migranti di
origini messicane con l’ordine sociale e la politica economica razzializzata degli Stati Uniti. La
sua crescita avveniva in relazione a vari processi
sociali e pratiche spaziali, profondamente radicati nell’attività produttiva e nelle energie creative
di persone vere, situate all’interno della regione
metropolitana di Chicago che operavano a livello transnazionale in circuiti che interessavano località sparse su gran parte del territorio messicano: uno spazio reale irriducibile a un luogo in
particolare. Invece di un recinto, segnalava
un’apertura radicale e critica e, al più prosaico
spazio della città, sovrapponeva un’altra (altra)
metropoli.
Tuttavia, non si può comprendere adeguatamente il significato della metropoli migrante,
senza considerare, sulla scorta del lavoro etnografico di St. Clair Drake e Horace Cayton che essa
è anche una metropoli nera. Com’è ovvio, intendo l’essere nero/a come una categoria sociologica
razzializzata che comprende l’intero spettro delle
identità sociali prodotte specificatamente come
non-bianche. L’identità «nera» della metropoli
migrante è quindi sempre qualcosa di fondamentalmente nuovo che i migranti «scoprono» – e al
cui interno si «riscoprono» – sopportando e confrontandosi con forze sociali che lavorano alla
loro produzione come oggetti razziali e quindi
anche come soggetti (ri)razzializzati.
Riprodurre l’abiezione
È quindi negli spazi transnazionali di congiuntura, che definisco metropoli migrante, che possiamo meglio individuare e analizzare in maniera
critica i processi di inclusione per mezzo dell’esclusione che sono centrali nella produzione di nuovi
ordini sociali di classe, razza e cittadinanza e che
sono cruciali per produrre e sostenere l’«illegalità» dei migranti: forza lavoro vulnerabile di cui ci
si può facilmente disfare. Analogamente, queste
tecnologie di inclusione subordinata si riproducono nella trasmissione di una precarietà pro41
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nunciata e protratta per i figli di questi migranti che vengono ritenuti «indegni di contribuire alle future generazioni di cittadini».
Il lavoro declinato attraverso le categorie di genere (procreativo, riproduttivo, e affettivo) per la creazione e il sostegno delle famiglie e delle comunità migranti viene identificato con la proliferazione crescente di «minoranze» povere e razzialmente soggiogate. Questa confluenza dell’«essere straniero» del migrante con la
presunta «criminalità» di cittadini abietti (o, in alcuni paesi, noncittadini di seconda generazione) viene percepita nei termini di
una inesorabile coincidenza di razza, «cultura» e spazio. Sulla base
del fatto che gli «stranieri» riproducono le loro differenze culturali, ostili e incompatibili, attraverso la loro prole «di seconda generazione», emerge l’odiosa figura di una underclass patologica, disprezzata come il ricettacolo infettivo di «criminalità» pericolosa,
la cui fondamentale incorreggibilità e fatta derivare dall’atto originario di rifiuto compiuto dai loro progenitori migranti.
Tutta questa paventata incompatibilità «culturale» è di regola
attribuita a «gruppi etnici» giudicati come fortemente coesi al loro
interno in strutture clanistiche e «isolati» (a livello spaziale), apparentemente incapaci di (o restii a) produrre la propria «assimilazione». Ciò svela un discorso insistentemente razziologico per il
quale la «cultura» aliena è imprescindibile dal sesso e dal genere su
cui sono descritte le cifre aleatorie di «demografia», fertilità, genia,
parentela, e la traiettoria multi-generazionale dei «gruppi etnici».
Allo stesso modo, nella misura in cui ruota in maniera insistente
intorno ad alti livelli di concentrazione (e quindi visibilità) geografica specificamente urbana, questo discorso sui migranti e i loro
figli, inevitabilmente li colloca (e li limita) all’interno dei «ghetti»
a loro consoni.
Le donne migranti senza documenti, quindi, nella misura in
cui vengono identificate con la riproduzione biologica, sono centrali nel sostenere il nesso ideologico razzializzato tra l’«illegalità»
migrante e la cittadinanza abietta (o «criminale»). Negli Stati
Uniti, storicamente, la figura dello «straniero illegale» aveva sempre attributi di genere maschile e l’efficacia del suo sfruttamento
si basava sul mantenimento di «costi di riproduzione» relativamente bassi poiché affidati alle donne nei paesi di origine. Alla
fine del ventesimo secolo, tuttavia, attraverso la crescente presenza di donne migranti senza documenti con residenza permanente
è cresciuta negli Stati Uniti l’ossessione per una «demografia» in
cambiamento e per la proliferazione di nuove «minoranze» razziali. La fertilità delle donne senza documenti – la loro capacita letterale di «figliare» e «moltiplicarsi» – è diventata in modo crescente un «rischio per la nazione».
Perciò l’incorreggibilità degli illegal aliens rispetto a progetti
nazionalisti di «integrazione» e «assimilazione» ha negli ultimi decenni portato, come tangibile vendetta nativista, a rimodellare la
questione della «permanenza» dei migranti. Ribaltando le immagini dominanti dei primi del Novecento, per cui i migranti messicani arrivavano per lavorare negli Stati Uniti per periodi relativamente brevi e non cercavano di stabilirsi in maniera permanente, l’inizio del ventunesimo secolo vede un riemergere di iniziative promosse dai datori di lavoro per programmi di guestworker atti
a regolarizzare la disponibilità di lavoro migrante a breve termine.
Contemporaneamente, i dibattiti legali e le manovre legislative
per privare della cittadinanza i figli nati negli Stati Uniti da genitori senza documenti si sono tradotti in campagne politiche organizzate. La fertilità delle donne migranti «illegali» è stata cosi sempre più mobilitata per rappresentare la minaccia principe dei residenti impoveriti. Perciò la drammatica escalation delle deportazioni dagli Stati Uniti a partire dal 1996, associata a nuovi mandati per «rimuovere» i cosiddetti «stranieri criminali» – i cui esempi più sensazionali sono stati i membri delle gang di strada di latinos, cresciuti negli Stati Uniti ma senza documenti – prendono
di mira direttamente i figli (non cittadini) dei migranti senza documenti, ma servono in maniera più cruciale a re-inscrivere il presunto status di «straniero» nella «seconda generazione».
È quindi precisamente la metropoli migrante a fornire lo spazio differenziale in cui genere, razza, e riproduzione si intersecano
relegando i migranti «illegali» e i cittadini «criminali» in una condivisa condizione di protratta marginalizzazione. Ciononostante,
è nella metropoli migrante che, allo stesso tempo, il potere produttivo e riproduttivo e le capacita creative della vita dei migranti sono implicate in una ricomposizione di base della relazione capitale-lavoro. La forza e la vitalità dirompente delle mobilità migranti sta rimodellando lo spazio a tutti i livelli: dal quartiere alla
scala globale di regioni transnazionali complesse e di meta-regioni trans-continentali configurate dalle traiettorie di mobilità e relazioni sociali. In radicale contraddizione con i regimi di confine
securitari e militarizzati degli Stati-nazione ma sempre comunque
articolati attraverso i molteplici e necessariamente semi-permeabili campi di forza di questi regimi di confine, la metropoli migrante è emersa come una forma spaziale cruciale per la riformulazione della relazione della specie umana allo spazio del pianeta.
Traduzione dall’inglese di Irene Peano
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«Friabilità dei
suoli», ovvero
il rovello della
composizione
politica
Judith Revel
Nella lezione del 7 gennaio 1976 al Collège de France, Foucault
caratterizza la sua epoca come quella di un’«immensa e proliferante criticabilità delle cose, delle istituzioni, delle pratiche, dei discorsi» e la qualifica come l’era della «friabilità generalizzata dei
suoli». Ma la postura critica non può più essere quella delle teorie
totali, delle ideologie onnicomprensive, delle filosofie dell’Uno:
dobbiamo oggi pensare necessariamente in uno spazio e in un
tempo determinati, localmente, in nome di cartografie (e di periodizzazioni) che radicano la politica in situazioni materiali e storiche, che costruiscono linee di rottura dopo aver restituito la tessitura complessa dei poteri e dei saperi, dei rapporti di forza, delle
captazioni, dei saccheggi, dello sfruttamento, – insomma: che
fanno dipendere la discontinuità della lotta da un’analisi che deve
essere sempre diagnostica e locale. A questa «friabilizzazione» generale – che è certamente una messa a rischio delle nostre certezze, ma che rappresenta anche la condizione di possibilità dell’azione – i soggetti della politica non fuggono. Tutte le figure soggettive collettive che, una volta, venivano presentate come ovunque riscontrabili, a-storiche ma anche a-geografiche, universali e in
quanto tali non interrogabili, devono essere decostruite: se ne
deve produrre l’analisi accurata perché la loro imposizione sulla
scena dell’analisi politica corrisponde in realtà a un tentativo di
arginare la potenza del rifiuto, la mutabilità delle cose, la violenza della sempre possibile discontinuità. Non si tratta di una querelle squisitamente filosofica: imporre forme di soggettività collettive unitarie e considerate come universali, valide da sempre e per
sempre, significa semplicemente rifiutare due cose – che le cose
del mondo, domani, possano andare altrimenti di come vanno
oggi; e che la volontà di discontinuità che prende spesso il nome
di rivoluzione si costruisca a sua volta su una discontinuità soggettiva, cioè che provenga da nuovi soggetti, precisamente non ri-
ALFADIFFERENZE
ducibili all’unità, e che a sua volta renda possibili nuove aggregazioni soggettive.
Da questo punto di vista, il riferimento a «classe», «genere» e
«razza» difficilmente restituisce – quasi per triangolazione – uno
spazio omogeneo per l’analisi politica. Non si tratta di dire che i
tre termini non abbiano avuto, almeno in parte, una storia comune; né, d’altronde, che non possano essere incrociati o sovrapposti. Si tratta semplicemente di capire che se i due primi possono
sopportare – per necessità critica, per esigenza di efficacia politica
– ciò che Foucault indica come doverosa «friabilizzazione» del
proprio suolo, il terzo, forse, non è sempre in grado di reggere
l’operazione – perché si presenta in realtà su una dimensione che
molto spesso tende a escludere la storicità dei modi di soggettivazione. Detto più chiaramente: laddove «classe» e «genere» hanno
subito (concettualmente, ma anche molto concretamente, nell’uso militante che se ne è fatto) un processo di storicizzazione –
di relativizzazione, di dis-universalizzazione, e di reinvenzione in
funzione delle esigenze della lotta –, «razza», proprio perché nutrito da determinazioni biologiche, difficilmente sembra invece
poter sopportare lo stesso processo. Ciò non significa che il razzismo, o la razzializzazione dello sfruttamento, della discriminazione, dell’esclusione, non esistano; solo che la reversibilità del riferimento alla «razza» – da strumento di dominio e di saccheggio in
fondamento della rivolta – non ci sembra sempre, se non con le
dovute precauzioni, poter essere messa in atto.
Storicizzazione, relativizzazione, dis-universalizzazione dei
concetti di «classe» e «genere»: nella storia delle lotte recenti, in
particolare dal ’68 in poi, la friabilizzazione e la necessaria localizzazione/periodizzazione di questi riferimenti ha corrisposto all’introduzione di una dimensione esplicitamente costruttivista in
politica. Non si trattava solo di decostruire le forme “totali” e
universali dell’essere soggetto (vale a dire di produrre la critica di
tutte le opposizioni binarie attorno alle quali lo sfruttamento
stesso si organizzava – ben più fortemente, e ben prima, di quanto le eventuali sommosse potessero farlo a partire dalle medesime:
borghese/proletario, maschile/femminile, lecito/illecito, normale/patologico ecc.); ma bisognava pure affermare che, proprio
nella misura in cui nessuna forma-soggetto esiste in sé, da sempre
e per sempre, è possibile inventare nuovi modi di aggregazione
soggettiva. Questa invenzione, ovviamente, non doveva essere
pensata fuori dalla storia e dalla materialità dei rapporti sociali:
ne era letteralmente attraversata – ma permetteva di pensare la
soggettività politica come composizione. Il passaggio dalla classe
come dato alla classe come composizione (dettata dalla forma stessa dell’organizzazione del lavoro e dalla violenza del saccheggio
capitalistico) ha paradossalmente permesso di pensare anche la
composizione di classe come emergenza di nuove forme di organizzazione delle lotte. Composizione tecnica e composizione politica dicono, ciascuna a suo modo, che la «classe» non esiste indipendentemente dalla sua situazione (storica, geografica, sociale,
politica, epistemologica…); ma che proprio in quella situazione
si determina la potenza di forme di soggettivazione inedite, estra-
La versione francese, 1986. Acrilici su tela, 150 x 200 cm
42
nee alle identificazioni usate dagli stessi padroni o alle oggettivazioni di comodo necessarie al disciplinamento generalizzato della
forza-lavoro. Composizione: dall’interno delle determinazioni subite, potenza dell’invenzione di nuove configurazioni soggettive
irreducibili a esse. Solo a questa condizione, in nome di questo
costruttivismo politico nella storia, il richiamo a un «noi, proletari» potrà parlare un linguaggio diverso da quello dei padroni;
più attualmente ancora, solo a questa condizione la precarietà subita – in quanto condizione di sfruttamento estesa alla totalità
della vita, ormai generalizzata come vera e propria norma del lavoro – diventerà il nome di una soggettività che a questa condizione di sfruttamento e di esistenza si ribella. «Precariato» è ciò a
cui mi costringe chi saccheggia la mia vita; ma «precariato» è
anche il nome di una nuova composizione politica che si ribella
e inventa, all’altezza della sua novità, altri modi di organizzazione, di decisione e di lotta.
Lo stesso spostamento, la stessa reversibilità «compositiva»
possono essere letti a partire dal riferimento al genere. In realtà,
nel caso delle analisi e pratiche di genere, la «friabilizzazione» non
è solo ciò che si tratta di permettere a partire da una composizione di genere ma addirittura ciò da cui è emerso il concetto stesso.
Il genere è, nello spostamento volontario imposto alle tematiche
dell’identificazione sessuale, della «sessuazione», un concetto
compositivo in sé: il nome di un divenire strettamente legato ai
modi di vita, alle autorappresentazioni, alle necessità della lotta,
alle circostanze – drammatiche o festive, poco importa – nelle
quali, puntualmente, lo sbandieramento della propria (provvisoria, strategica, volontaria) appartenenza di genere prende senso ed
efficacia. «Genere»: nome di un’invenzione politica del sé – del sé
con altre/i, ma la relazione, lungi dall’essere data, è a sua volta effetto della sperimentazione politica, non condizione ma prodotto
della composizione stessa – e, al contempo, rifiuto di un’ingiunzione identitaria, di un dover-essere imperativo, che esso sia fondato in natura (il sesso biologico) o nei termini del diritto positivo. Genere: nome di una strategia di sottrazione all’identità, di un
processo di metamorfosi – voglio essere quello che voglio io, voglio la possibilità di non essere più quello che volevo ieri, di sperimentare, di differire da me, di reinventarmi altrove.
Nel caso del riferimento alla «razza», non sempre il costruttivismo della composizione, quella condizione della reversibilità
dello sfruttamento in lotta, sembra assicurato. Certo, Fanon insegna – la reinvenzione politica del colore è non solo possibile ma
assolutamente necessaria; e là come altrove, le maschere, le strategie di soggettivazione, le metamorfosi, il divenire politico di queste differenze che permettono la paradossale riappropriazione
delle identificazioni subite devono essere messe in atto. Nessuna
ambiguità in proposito: storicamente, questa reversibilità del
tema della «razza» nelle lotte costruite a partire da una «linea del
colore» si è effettivamente data con fondamentale importanza.
Eppure i problemi possono essere due. Da una parte: come estirpare dal pseudo-concetto di «razza» quel riferimento al sangue, al
biologico che, nonostante tutto, implica qualcosa come una natura? Come permettere la dis-essenzializzazione del colore e, al contrario, la
sua qualificazione sempre strategica,
sempre puntuale e provvisoria, come
prodotto di un agire politico determinato? Insomma: come pensare il colore
come autorappresentazione «locale» (in
funzione delle necessità della lotta),
come effetto di una composizione politica e non come fondamento di una coappartenenza già data? Dall’altra: come
impedire che la «razza», proprio perché
troppo spesso pensa se stessa come fondata in natura anche quando afferma
essersene liberata, cerchi di imporsi
come contraddizione primaria rispetto
alle altre, secondarie, di classe e di genere? Ovunque riappare la gerarchizzazione delle determinazioni, riemerge
l’essenzializzazione, l’ingiunzione identitaria, e scompare la politica. Ovunque si dice: la discriminazione razziale
conta di più – o di meno – di quella di
classe o di genere; oppure «razza»,
«classe» e «genere» sono tre punti di
vista che si escludono a vicenda e tra i
quali bisogna scegliere, si ricrea dall’interno delle lotte compositive un ordine
della prevalenza, un principio, una
causa prima; e si espelle la possibilità
del pullulare delle differenze sulla quale
si può invece l’infinita varietà delle possibili (e necessariamente provvisorie)
configurazioni del comune.
La questione storico-politica della
forma del «noi» non è solo condizione
di possibilità delle lotte. Ne è anche al
contempo la condizione, l’effetto e il
divenire.
alfabeta2.23
ALFADIFFERENZE
Il rapporto di
fatto tra genere
e razza
Anna Curcio
Negli anni Sessanta e Settanta le donne afroamericane, chicane, di
origine asiatica e portoricane, dentro i movimenti di liberazione
negli Stati Uniti, hanno imposto la necessità di spostare il terreno
delle lotte su un piano capace di tenere insieme la razza e il genere.
Dall’interno dei movimenti, stavano evidenziando un problema
che non si esauriva né nelle lotte antirazziste né nelle battaglie femministe. E, nel rintracciare la propria condizione di subordinazione
e sfruttamento dentro gerarchie sociali e del lavoro costruite sul terreno del genere, legavano intimamente questa esperienza alla subordinazione del lavoro nero dentro la narrazione della modernità coloniale e l’organizzazione produttiva capitalista. Stavano cioè ponendo la centralità del genere razzializzato come nodo conflittuale
irrinunciabile.
A distanza di alcuni decenni, la necessità di tenere insieme nelle
lotte la razza e il genere assume una rinnovata urgenza anche a queste latitudini. La salarizzazione della cura, che segue l’ingresso delle
donne nel mercato del lavoro, e i processi di razzializzazione che accompagnano l’accesso dei lavoratori e delle lavoratrici migranti nei
paesi di arrivo, spingono le donne migranti prevalentemente dentro ambiti produttivi che rimandano alla femminilità intesa come
domesticità ed eterosessualità. È la costruzione del genere razzializzato che si fa terreno della moltiplicazione dello sfruttamento, un
dispositivo oggi esasperato dai processi di ristrutturazione del welfare dentro la crisi.
In Italia, ad esempio, la progressiva dismissione dei servizi sociali non sta solo restringendo gli spazi di relativa autonomia delle
donne, sempre depositarie del lavoro di riproduzione, ma tende al
contempo a schiacciare su condizioni di crescente sfruttamento le
donne migranti che si fanno carico della gran parte del lavoro di
riproduzione salarizzato. Oggi, il lavoro «produttivo» deve sostenere anche i costi per l’esternalizzazione di una parte almeno del
lavoro di riproduzione e, chi si fa carico di questo lavoro, deve essere disposto ad accettare un salario al disotto della media, spesso
in nero e in assenza di tutele. Come ha notato Alisa Del Re, se
l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro aveva prodotto ciò
che negli anni Ottanta era stato definito il «doppio sfruttamento»
– una donna, un salario, due lavori – oggi si registra l’esistenza di
due donne, due lavori e un solo salario da condividere, con il conseguente impoverimento dell’intero contesto sociale. Dentro i
processi di precarizzazione e di smantellamento del welfare hanno
preso forma specifici dispositivi di subordinazione e controllo che
creano nuove gerarchie interne al genere e processi di frammentazione che separano le donne italiane dalle donne migranti e queste ultime tra loro.
La costruzione di discorsi e pratiche di razzializzazione si accompagna a meccanismi di specializzazione funzionale che coprono tutto lo spettro del lavoro di riproduzione. In Italia è opinione
diffusa che ucraine e sudamericane siano badanti premurose, le
donne caraibiche buone infermiere, le filippine scrupolose domestiche, mentre polacche e nigeriane sono considerate prevalentemente prostitute. Negli Stati Uniti, le tate dei bambini più piccoli sono
soprattutto latine o caraibiche, ritenute affettuose, attente, premurose oltre che largamente disciplinate nei dispositivi dell’illegalizzazione. Con i bambini in età scolare sono invece le donne afroamericane che parlano inglese a essere preferite. Si registra cioè un’accurata tassonomia su base razziale del lavoro riproduttivo salarizzato,
una sorta di ciclo produttivo nella fabbrica della cura.
3. Tuttavia, se la costruzione del genere razzializzato è indubbiamente spazio della valorizzazione capitalista, le ideologie di domesticità e femminilità e lo sfruttamento sul terreno della razza sono
continuamente sfidati e messe in discussione dalle pratiche concrete di vita e di lavoro delle donne. Alfonso De Vito, nel seminario di
UniNomade, sottolineava come a Napoli siano nate tra le badanti
ucraine esperienze di autotutela: sportelli di servizio e per il reclutamento al lavoro costruiti su una dinamica di genere e dentro processi di razzializzazione del lavoro. I luoghi spesso separati della socialità sono diventati lo spazio per la centralizzazione dell’intermediazione di lavoro. La cosa ha spiazzato la gestione di agenzie di reclutamento, caporalato tra connazionali e chiese, interrompendo la
concorrenza al ribasso sul salario. Negli Stati Uniti, dentro l’esperienza del sindacalismo militante delle Domestic Workers, le lotte
delle donne afroamericane, latine e caraibiche, cui è delegata la gran
parte del lavoro domestico, hanno portato all’approvazione (nello
Stato di New York nel 2010 e in California in questi giorni) della
prima legge che riconosce il lavoro di riproduzione e concede i diritti minimi: le otto ore lavorative, lo straordinario pagato, giorni di
riposo e protezione da molestie e infortuni.
Città italiana, 1988. Acrilici su tela, 200 x 300 cm. Collezione Fondazione Farmafactoring
Entrambi i casi, seppur dentro un terreno di lotta prevalentemente sindacale, definiscono la soggettività delle donne razzializzate
quale potenziale rottura dei dispositivi di dominio di razza e genere.
Resta da capire come questo spazio di soggettivazione possa produrre processi di ricomposizione. A Napoli le badanti ucraine disertano
le mobilitazioni antirazziste e le lotte dei migranti. A New York le
Domestic Worker hanno animato il movimento dei latinos del 2006
e attraversato attivamente Occupy. La costruzione di uno spazio comune di lotta che metta al centro il genere razzializzato, cioè la distruzione dei dispositivi di frammentazione del precariato contemporaneo, non è – ci ricorda il femminismo postcoloniale – un presupposto ma un obbiettivo da conquistare. Il nodo politico è come
distruggere i dispositivi di separazione dentro la composizione di
classe senza negare i dispositivi della stratificazione capitalista, ovvero come fare di una parzialità un punto di accumulo di forza.
Il gendering nel
capitalismo
contemporaneo
Simona De Simoni
Laboratorio Sguardi sui generis, Torino
L’ipotesi secondo cui genere e classe siano dispositivi di inclusione
differenziale finalizzati alla valorizzazione capitalistica fornisce la
cornice teorica entro cui collocare le riflessioni che seguono, con le
quali non s’intende tratteggiare un processo generale, ma piuttosto
mettere a fuoco alcuni elementi di una problematica più ampia e
complessa.
Gli studi femministi hanno ampiamente discusso e mostrato la
funzionalità straordinaria del genere come dispositivo di sfruttamento informale ed extragiuridico. Storicamente, nella topografia
sociale e politica del capitalismo, il luogo principe di questo sfruttamento è sempre stata la casa, la «sfera domestica» in cui la donna
lavora gratis per riprodurre il lavoro vivo. Tuttavia, nel capitalismo
postfordista, la questione si complica ulteriormente e la relazione
tra sfruttamento formale e informale – tra pratiche normate giuridicamente e regole codificate in forma extragiuridica – assume una
rilevanza peculiare. Le forme di «genderizzazione» (ovvero di gerarchizzazione della forza lavoro a partire dal genere), infatti, si possono raggruppare sotto due macro-tipologie: l’insieme dei dispositivi
manifesti e formalizzati e quello dei dispositivi «sotterranei» o non
formalizzati. Sotto il primo ricadono tutte le problematiche giuridiche e, in particolare, le questioni legate al welfare, mentre il secondo riunisce dispositivi eterogenei che innescano dinamiche di gerarchizzazione riconducibili a fattori più fluidi, ma non per questo
meno efficaci.
Si consideri, ad esempio, la questione spinosa della maternità.
A livello formale l’assenza di garanzie sociali costituisce un fattore
di genderizzazione delle lavoratrici nella misura in cui trasforma la
scelta di avere un figlio in un aut-aut tra impossibilità materiale o
43
possibilità dipendente (specialmente dalla famiglia d’origine) determinando ampiamente le scelte lavorative ed esistenziali delle
donne. Tuttavia, il problema non si esaurisce a questo livello poiché
si danno anche forme di marginalizzazione per così dire «strutturali». Queste ultime non vanno intese soltanto in termini culturali,
bensì analizzate a partire da una riflessione sulla compatibilità tra
vita e lavoro nel regime di produzione attuale.
Proseguendo su questo vettore d’indagine, le cosiddette «dimissioni in bianco» possono venir considerate un esempio paradigmatico dell’intersezione tra dispositivi formali e informali di «genderizzazione»: una firma in bianco, la sottoscrizione di un accordo tacito e privato che vanifica le garanzie di un contratto. Questo è il caso
lampante in cui a leggi pubbliche sul lavoro si sommano leggi private, una sorta di diritto del lavoro non scritto che l’analisi politica
non può trascurare. A ben vedere, dopotutto, la regolazione dei
processi sociali s’intreccia sempre alle pratiche informali di inclusione lavorativa con l’obietto non di uniformare, ma di gerarchizzare.
(Su questo nodo, il rinvio è agli studi sul rapporto tra cittadinanza
e lavoro che mostrano in che misura l’accesso alla sfera del diritto
sia connessa all’inclusione differenziale nel regime di produzione, o
come – per dirla altrimenti – la «nuda vita» vada anzitutto pensata
come forza lavoro).
L’opacità dei dispositivi che regolano i rapporti sociali entro il
capitalismo contemporaneo instaura una forte analogia tra i processi di «genderizzazione» e «razzializzazione»: l’inclusione lavorativa di
donne e migranti e le relative ricadute sulla cittadinanza si articola,
infatti, attraverso codici non scritti ma diffusi e condivisi nella pratica. Le formule linguistiche, dopotutto, non sono mai casuali e il
«chiasmo cromatico» che prevede «assunzioni in nero» e «dimissioni in bianco» nomina soggetti ben definiti. Entrare in nero nel
mondo del lavoro significa entrarvi senza diritti (come un nero, verrebbe da dire) mentre uscirne in bianco implica di andarsene senza
tutele (non come un bianco neutro, ma come una donna). Il divenire-donna del lavoro – a cui fanno riferimento le diagnosi di femminilizzazione del lavoro – indica forse anche questo: l’accesso al
reddito sempre e solo sotto ricatto come esperienza generalizzata.
3. Il peso sempre più determinante dei dispositivi informali,
sotterranei e privati è un dato che la realtà ci consegna in modo
quasi banale. Da questo dipende anche lo svuotarsi progressivo
delle parole d’ordine delle lotte del secolo scorso e la necessità di
trovarne di nuove: il terreno principale su cui si giocano gli equilibri sociali non è più quello delle garanzie e tutele formali, ma
quello dello sfruttamento informale dove la vita tout court è
messa al lavoro. A ben vedere, infatti, le varie leggi in materia di
lavoro (a partire dalla legge Biagi in avanti) non funzionano soltanto per il loro contenuto normativo specifico, ma soprattutto
per la loro capacità di rendere effettivi ed efficaci dispositivi extranormativi (o extralegali, extragiuridici). L’eccezione (se mai lo è
stata) diventa la norma: il rapporto di lavoro libero e salariato appare per quel che è, uno stereotipo fondato su una forzatura geografica e storica anziché il paradigma insuperabile dei rapporti di
lavoro entro il capitalismo. Questa considerazione conferisce
nuova centralità ai soggetti da sempre esclusi dal quel paradigma,
sostanzialmente le donne e i migranti. Sotto questa luce, la specificità del genere non costituisce l’insegna sotto la quale chiedere
aggiustamenti continui di un paradigma dato (per altro assumendo la subalternità di fondo inclusa nella «vogliamo essere trattate
come…»), ma piuttosto un grimaldello – non l’unico certamente
– con cui scardinare il paradigma stesso.
alfabeta2.23
La differenza
che cancella le
differenze
Alessandra Gribaldo, Vincenza Perilli,
Giovanna Zapperi
Concetto-chiave della filosofia, potente strumento di
assoggettamento, ma anche di rivendicazioni da parte di diversi
movimenti di lotta e di liberazione, «la differenza» sembra
sfuggire a ogni facile e conclusiva messa a punto critica.
In Italia il concetto di differenza ha ricoperto un ruolo
centrale – nel «pensiero della differenza sessuale»–, che ha avuto
un ruolo egemonico all’interno del femminismo per tutti gli anni
Ottanta e Novanta. La nozione della differenza sessuale era data
come costitutiva della differenza tout court, inglobando di fatto
una serie di altre differenze – che investono le sfere della classe
sociale, della sessualità, dell’etnicità e in cui la «razza» opera come
potente marcatore e produttore di soggettività – considerate come
secondarie, se non irrilevanti. Questa visione ha avuto l’effetto di
elidere una serie di rapporti di dominio che risultano illeggibili
attraverso la sola griglia della differenza sessuale. Paradossalmente,
l’effetto prodotto dalla focalizzazione sulla differenza nel
femminismo italiano è stato proprio quello di addomesticare le
differenze – la loro potenziale conflittualità – riportandole
all’interno di una rassicurante cornice di relazioni naturalizzate.
Nelle diverse espressioni del femminismo italiano degli anni
Settanta il concetto di differenza ricopriva invece una serie di
significati multipli e instabili, talvolta contraddittori, che riecheggiavano, almeno in parte, quelli espressi dai movimenti di
liberazione che hanno caratterizzato le lotte di quegli anni in
Europa come negli Stati Uniti. In quelle prime elaborazioni la rivendicazione di differenza o alterità sembrava acquisire il suo
senso dalle esigenze strategiche di rottura caratteristiche delle fasi
di costituzione di un soggetto di lotta.
Certo, come denunciava in quegli stessi anni il Black
Feminism, questo soggetto – «il noi donne» – come elemento
mobilitatore nei femminismi bianchi, era costruito sulla base di
un modello preciso, escludente, che era quello della donna
bianca, borghese ed eterosessuale. Tuttavia, in alcune espressioni,
il concetto di differenza – ricoprendo un insieme di significati
mobili ed eterogeneei – aveva anche condotto, sulla base di
rapporti non gerarchici, al riconoscimento della differenza tra le
donne, nel senso di una presa d’atto della moltepliità sistemi di
dominio.
Nel decennio successivo queste potenzialità si sono però
cristallizzate in una concezione rigida della differenza sessuale
espressa in particolare in alcuni testi del femminismo della
differenza degli anni Ottanta e Novanta in cui si teorizzava una
pratica di relazione tra donne fondata sul materno, sulla disparità
e sull’affidamento. Nel valorizzare le gerarchie, queste posizioni
escludevano la possibilità di costruirsi come soggetto politico al
di fuori di relazioni improntate all’autorità, alla parentela e alla
verticalità. L’elisione delle linee di conflitto che attraversano le
relazioni tra donne ha finito col risultare funzionale a pratiche di
addomesticamento delle differenze che coinvolgono una moltitudine di soggetti non necessariamente riconducibili alla categoria «donne».
In questo senso il genere femminile e la sua differenza si riallacciano ad altre differenze che riguardano sia l’orientamento sessuale che le appartenenze di classe ed etnico-razziali. La differenza
è ciò che crea, rappresenta, e allo stesso tempo produce, l’indigeno, il deviante, la donna. Assumere la differenza sessuale come
matrice di ogni differenza impedisce di riconoscere gli spazi di sovrapposizione tra genere, sesso e razza come dispositivi di dominio e momenti costitutivi dei processi di soggettivazione.
Nel contesto italiano, in cui vi è stata poca riflessione condivisa e
pubblica sul razzismo, la valorizzazione delle cosiddette differenze
culturali tende a scivolare su di una nozione di etnicità cristallizzata che ricalca per molti versi l’idea che la differenza sia qualcosa
di costitutivo
La cultura rappresentata come un elemento a sé stante e autentico, diventa ciò che determina l’altro/l’altra: la differenza
viene letta come un elemento di stabilità e non come un processo
che si struttura nell’intreccio con dimensioni storico-sociali.
Qui l’attenzione alla differenza si basa in fondo su di una preventiva identificazione dell’altro/altra, su una condizione data anteriormente alle relazioni storico politiche conflittuali e cangianti
che la producono incessantemente.
La cristallizzazione delle differenze in un contesto che non
problematizza la nozione stessa di differenza produce un pericoloso scivolamento dal riconoscimento alla valorizzazione, alla pro-
ALFADIFFERENZE
tezione, alla preservazione. basata sull’identificazione di categorie
di soggetti.
Cosa conta come differenza, chi decide chi è differente e da
chi, quali differenze sono più visibili o significative di altre, quali
differenze costituiscono un problema, quali sono negate, quanto
la nozione di differenza ingloba e rende invisibile la disuguaglianza, in che termini le differenze sono storicamente prodotte?
Domande che spostano il fuoco dalla valorizzazione della differenza sessuale in quanto dimensione ontologica dell’umano alle
modalità della sua produzione in termini di rapporti di potere e
di conflitto.
Agire le differenze come dimensione plurale e non come cornice naturalizzata permette di rimettere al centro le conflittualità che costituiscono la vitalità e l’attualità di una prospettiva
femminista.
tamento del corpo, dell’affettività, della capacità di relazione 24
ore su 24, già prima che diventasse una condizione generalizzata
del lavoro biopolitico.
Saltata ormai la distinzione tra lavoro produttivo e riproduttivo, per leggere la composizione di classe occorre leggere e praticare l’intersezione tra sessualità, genere, classe, razza.
Nelle nostre pratiche collettive cerchiamo di rendere visibile la
contraddizione per la quale le stesse banche e finanziarie che speculano sul debito e producono la crisi sono le più desiderose di rilegittimarsi e ripulirsi l’immagine attraverso politiche di pari opportunità o DM (pinkwashing). Se il DM gioca sul bisogno di riconoscimento delle differenze e sulla loro messa a valore, il nostro
obiettivo è di sottrarre le nostre singolarità dalle performance di
genere sostenute, imposte e riconosciute dal capitale. Cosa accadrebbe se dentro ai mille rivoli della precarietà e dell’autosfruttamento in cui è frammentato il lavoro, dentro al lavoro di cura retribuito e non, si praticasse uno sciopero dai generi? Ovvero da
tutte le aspettative, ripetizioni, atti, ruoli che performiamo conti-
Il corridore notturno, 1989. Acrilici su tela, 200 x 100 – 200 x 150 – 200 x 100 cm
Il divenire queer
del comune
Laboratorio Smaschieramenti
Lavorare all’incrocio tra dispositivo di sessualità e critica del capitalismo vuol dire, come scrive Cristian Loiacono, inserirsi in una
«corrente materialista sotterranea negli studi e nell’attivismo
queer che non ha mai smesso di interrogarsi su questo nesso» ed
è qui che si colloca il nostro lavoro collettivo.
L’approccio queer mette in gioco la sessualità dentro e contro
il genere e passa per una disidentificazione dalla struttura binaria
dei generi quali pilastri regolatori dell’eterosessualità obbligatoria,
della divisione sociale e sessuale del lavoro tra uomini e donne,
della famiglia come dispositivo regolatore delle sessualità, dello
spazio pubblico e politico come spazio maschile eterosessuale.
La disidentificazione, (parziale, strategica e contestuale), deve
riguardare ormai sia le stesse identità gay e lesbiche che, ripulite
dalla loro componente più minacciosamente sessuale nei rassicuranti discorsi «integrazionisti», funzionano come generi, sia l’ambigua valorizzazione capitalistica delle identità genderizzate o razzializzate, rese oggetto di inclusione differenziale attraverso il diversity management (Dm): se il capitale è nomade, i suoi apparati
di cattura sono mobili e flessibili e avvolgono tutte le soggettività, molto più dei movimenti che vorrebbero resistervi.
Come avverte Beatriz Preciado, la recente proliferazione di generi e identità sessuali contesta il potere egemonico senza realmente scardinarlo, in quanto coesiste «con l’imperialismo del
pene» a fondamento di «società fortemente omosociali nelle quali
il capitalismo postindustriale sembra promettere la trasformazione di ogni valore economico in pene e viceversa».
Nel contesto attuale, dunque, come ci invita a fare il manifesto del 2010 della Red PutaBolloNegraTransFeminista, è venuto
il momento di interrogarci sul fatto che tutti/e produciamo continuamente genere, e forse sarebbe meglio produrre libertà.
Il soggetto queer/precario non è una figura astratta della produzione postfordista: è un corpo parlante e sessuato che conosce la
ricattabilità politica, sociale e sessuale sul luogo di lavoro, lo sfrut44
nuamente per produrre l’ordine costituito dei generi e l’ordine costituito tout court?
Lo sciopero dai generi, come disidentificazione dalle performance di genere, dovrebbe essere pensato anche sul piano della ricomposizione politica. A partire dalle nostre molteplici esperienze di intersezione pratica nei movimenti siamo sempre più convinte che non basta una riappropriazione teorica, «disciplinare»,
delle teorie di genere e queer, buona per un aperitivo con annessa presentazione di libro. Quando si passa alla politica «vera» entrano in gioco l’ansia da prestazione, gli automatismi della militanza, la competizione tra gruppi maschili, la difesa del territorio.
Su questi aspetti, una pratica di disidentificazione, di sciopero
dalle ripetizioni del maschile più stereotipato potrebbe aprire (e
apre) nuove possibilità di agire politico.
Anche per noi attiviste lgbtiq/femministe a volte è difficile trovare la motivazione per stare in contesti che ci riconoscono solo parzialmente. Ci viene spesso la tentazione, di fronte a questa difficoltà, di trincerarci dietro a un forte identitarismo femminista e
LGBT in modi che possono anche essere di ostacolo alle pratiche
costituenti del comune: ma sappiamo invece che la cosa più giusta è cercare di mettere in crisi il piano omogeneo e identitario
maschile ed eteronormativo – poco inchiestato – sul quale è
fermo il movimento.
La costituzione di un piano di immanenza delle soggettività e
singolarità, infatti, deve passare per il superamento dei residui disciplinari, lavoristi, familisti e clanici che ancora ci costituiscono.
Ma anche da una decostruzione della militanza «neutra», ovvero
del maschile eterosessuale, e basata su pratiche, azioni e forme di
socialità ancora fordiste.
Gli strumenti sono tanti: l’inchiesta, le teorie dal basso, l’istituzione di un’altra economia dei corpi, dell’uso dei piaceri, della
cura delle relazioni, per costituire la «moltitudine come un corpo
aperto agli incontri con altri corpi». La composizione delle singolarità differenti, ben oltre la coalizione e le alleanze tra soggetti,
avviene attraverso concatenamenti tra le soggettività.
Se riteniamo che al nucleo della produzione capitalistica si
trovi la produzione di soggettività, quindi che il capitale si dia
non solo come comando ma come relazione sociale, dobbiamo
considerare i piani di soggettivazione, di relazione e le forme
della politica e dei processi decisionali interni, come piani eminentemente politici e biopolitici, così come le pratiche di intervento sociale.
alfabeta2.23
ALFADIFFERENZE
Lavorare
la vita
Cristina Morini
Zahia Dehar è nata ad Algeri ma è cresciuta in una banlieue alle
porte di Parigi. Ha vent’anni e un recente passato da escort, oggi
oggetto di un processo che vede coinvolti alcuni noti calciatori
francesi. Il suo pigmalione, lo stilista d’alta moda Karl Lagerfeld,
di lei dice: «È un oggetto di lusso. Ho subito riconosciuto la qualità del prodotto». Dall’altra parte dell’Oceano, negli Usa, ecco il
frammento di un’altra storia: l’attrice Jodie Foster ha scritto una
lettera aperta sul sito americano The Dealy Beast in difesa della
collega Kristen Stewart, travolta da una tempesta mediatica per
aver tradito il proprio compagno. Foster confessa: «Anch’io sono
abituata a essere un bersaglio in movimento. Ma allora erano altri
tempi… Potevi ancora guardarti allo specchio e dire: non parteciperò al mio sfruttamento. Se cominciassi oggi saprei sopravvivere emotivamente?».
La riproduzione-produttiva
Più ci addentriamo nei labirinti del biocapitalismo, meglio approfondiamo la cognizione di come lo sfruttamento contemporaneo
si consumi esattamente, immediamente, senza mediazioni, a livello della vita e dei corpi. È chiaro che l’utilizzo del termine «vita»
non intende evocare la forza vitale o qualcosa che abbia a che vedere con la «natura» (vocabolo che meriterebbe le medesime cautele) ma piuttosto quegli elementi che cessano di venir considerati spontanei e cominciano a essere trattati come processi sociali,
oggetto di politiche specifiche. Il pensiero delle donne e il pensiero queer hanno molto insistito, nel tempo, su questi elementi –
in passato confinati nel privato – con speciale riferimento a ciò
che si riferisce alla conservazione e alla riproduzione della vita,
compresa la sessualità. Oggi è esattamente questa materia che diventa oggetto delle analisi generali perché è esattamente lì che si
consuma la «cattura» di uomini e donne da parte del capitale ai
fini del profitto.
Può risultare utile riprendere alcuni passaggi di un libro di Sara
Ongaro, Le donne e la globalizzazione, Domande di genere all’economia globale della riproduzione. Con grande acume e grande anticipo Ongaro recupera la definizione di riproduzione sociale di
Mary O’ Brien, che ha, tra le prime, cercato di ribaltare teoricamente la gerarchia tra le due categorie di produzione e riproduzione, rivendicando quest’ultima come base reale della società, atto
originario della produzione: «Al quale anche gli uomini sono costretti a rivolgersi per costruire un senso per il loro agire pubblico».
Per O’Brien, il pensiero maschile ha reinventato e «disincarnato» la riproduzione, contemporaneamente «incarnando» la produzione, ovvero ha dato valore in termini capitalistici alla riproduzione della società, spostandola dal terreno biologico su cui poggiava
a quello teorico, facendone un processo pubblico, ordinato secondo le logiche del diritto e della produzione capitalistici. Allo stesso
modo, nell’analisi di Silvia Federici abbiamo un’analisi della crisi
della riproduzione sociale nel momento in cui essa si trasforma in
produzione tout court, come lei, a questo punto, la definisce. In realtà, come ha già chiarito Carole Pateman, il lavoratore che vende
la sua forza lavoro vende sempre, ogni volta, tutto se stesso, non
qualcosa di separabile da sé. E, tuttavia, nel dispiegarsi dei meccanismi della riproduzione-produttiva che oggi sempre più vistosamente osserviamo, le risorse umane, i corpi, le emozioni, sono
esplicitamente la merce stessa che viene venduta. «Oggetto» di
lusso, come la giovanissima Dehar o «prodotto» da immettere sui
tabloid di gossip e i social network.
Un corpo-macchina
Scrive Ongaro: «Ricordando come il capitale si garantiva la riproduzione sociale a costo zero grazie al lavoro gratuito delle donne
possiamo considerare la coppia marito/lavoratore salariato-moglie/casalinga come la figura fenomenologica del sistema fordista
e constatiamo che essa è venuta meno inaspettatamente a causa
della crisi della parte «produttiva» (secondo il punto di vista del
mercato) della suddetta coppia: il lavoratore salariato è diventato
un esubero», scrive Ongaro. Ecco il punto dirimente: la fine dell’operaio e la rivincita della casalinga. Le trasformazioni a cui assistiamo ci parlano di una produzione modellata sulla riproduzione e di come la vita costituisca il campo dei profitti più alti relativamente agli investimenti fatti: «La merce umana gode di una
straordinaria differenza rispetto a tutte le altre e cioè che mentre
queste ultime sono vendibili una volta sola essa lo è infinite volte,
spesso fino a morirne». In questa fase non interessa che cosa si produce ma chi produce e soprattutto come si riproduce: l’essere
umano e la vita in generale sono la materia prima e la «comunicazione» è la sostanza che viene scambiata all’interno di questi
processi, attraverso una commercializzazione di se stessi che avviene volontariamente.
Il tempo è ciò che si pretende di sussumere attraverso questi
processi, insieme alla potenza immaginativa delle esistenze sessuate dei corpi: l’ingresso nelle relazioni di mercato della riproduzione, intesa come insieme di attività che ricreano la vita, e gli elementi legati alla soggettività, alla sessualità, alla espressività della
persona modificano la produzione, trasformando anche la sostanza stessa del lavoro. L’organizzazione del lavoro en general si plasma oggi sul lavoro riproduttivo: da qui l’assenza di barriere di
tempo, di limiti all’impegno che, insieme alla ininterrotta reperibilità, istituisce l’eternità cronica della dimensione del lavoro. All’ambito della vita lavorata dobbiamo perciò guardare sempre più
e sempre meglio come all’unico vero ambito collettivo, giacché
non esiste più una categoria complessiva per definire il lavoro
contemporaneo, né il fatto di lavorare in sé garantisce, di per sé,
diritti duraturi nel tempo.
In questo quadro, Ongaro si domanda: quando il corpo e la
li dei nostri corpi. È evidente che la dimensione precaria delle nostre vite innerva interamente il discorso e si ricollega alla precarietà lavorativa, ma va posto l’accento sul nostro essere corpi sessuati di persone prima che lavoratori, detto che i nostri corpi sono lavoratori. La riproduzione sociale è veramente il comune nelle differenze e grazie alle differenze. Una comunità sociale produttiva
che vuole essere riconosciuta. Non più un’associazione di soggetti che viene data nell’unità dello loro funzione (il ruolo sociale, la
mansione, l’identità del lavoro) ma una comunità articolata che
ha le caratteristiche della molteplicità e che si oppone al potere
come insieme produttivo.
E così che diventa centrale il tema della disidentificazione
propedeutica a ogni ricerca di intersezionalità tra soggetti. La realtà che osserviamo è quella di un soggetto precario che si sforza
disperatamente di mantenere un’identità imposta, con i suoi vari
io, con i suoi ruoli, e con le sue responsabilità relative, limitate da
Il ballo dei filosofi, 1994. Acrilici su tela, 180 x 100 – 200 x 120 – 180 x 100 cm
vita divengono la materia prima, chi è materia prima può essere riconosciuto come lavoratore? Nel momento in cui l’attenzione del
capitale si trasferisce sulla riproduzione, come elemento centrale
della valorizzazione capitalistica che si esplica nel sociale, dentro
la dimensione precaria del bios, evidentemente la nozione di classe (intesa come classe dei produttori) ha necessità di essere aggiornata. Paradossalmente, ora che tutto è produttivo ovvero tutte e
tutti siamo infinitamente produttori, siamo tutte e tutti classe?
Possiamo parlare di una nascente, frastagliata classe dei riproduttori? Può darsi un comune nelle rivendicazioni di questa classe che
si dà facendo? Esiste la necessità di un processo di autocoscienza
che renda esplicitamente visibile ai riproduttori il valore negato di
ciò che svolgono? Può essere, tale processo, propedeutico a un
meccanismo di riappropriazione?
Politica per il presente
Sono queste le domande che dobbiamo porci ai fini di inchiestare la vita più che il lavoro o meglio questa vita che è diventata il
nostro lavoro. Essa va oltre, deve andare oltre le inchieste che abbiamo condotto sulla precarietà del lavoro. La precarietà del lavoro è stata analizzata in ogni suo recesso ed essa è stata a lungo considerata il possibile terreno ricompositivo delle lotte. Sarà necessario domandarsi se, nel momento in cui la narrazione della precarietà diventa vulgata generale e penitenza obbligata dalla crisi
economica, l’ipotesi non mostri un risvolto critico. Il lavoro viene
sempre più facilmente assunto come fosse un fine assoluto in sé.
E la precarietà e i bassi salari aiutano a sostenere questa «vocazione». Nel pieno del biocapitalismo cognitivo, proprio mentre il lavoro tende a configurarsi attorno al concetto di autonomia, ecco
che il capitale riesce, facendo leva sulla retorica emergenziale della
crisi, a ricondurlo alla dipendenza. La crisi dunque come forma
di riproposizione degli assiomi machisti del mercato e delle sue
convenzioni gerarchiche. Solo la contrizione, la preghiera al mercato e l’introiezione della norma ti consentiranno di salvarti dallo
spettro della povertà.
Non tutto è perduto, però. Mentre il lavoratore salariato è diventato un esubero, mentre il precario subisce senza rivolte la sua
trasformazione in disoccupato, noi assistiamo alla rivincita della
casalinga, intesa come soggettività prototipica della riproduzione.
Mentre l’ambito della produzione smette di essere il luogo del
conflitto, lo spazio sociale, riproduttivo, rappresentato dalle piazze, dalle strade della metropoli, laddove l’operaio e l’operaia sociale si muovono, tende a diventare il terreno della resistenza. Il conflitto si sposta dentro la vita. Ciò consente di condividere e combattere davvero per il comune, inteso come luogo della produzione innovatrice delle differenze generato dalle interrelazioni socia-
tali ruoli e quindi garantite da essi: «Tutto ciò è significativo della
rappresentazione sociale da cui siamo soggiogati: una persona, un
suo gesto, una sua parola, una sua decisione sono significative in
quanto rappresentano un certo ruolo, una determinata situazione
prevista, una figura comportamentale di rito», per usare le parole
di Ferruccio Rossi-Landi. Da un punto di vista politico va viceversa enfatizzata la dimensione della disidentificazione che comporta movimenti di riappropriazione della riproduzione sociale,
attraverso processi di controsoggettivazione, autodeterminati, al
di fuori dei diktat del capitale. La disidentificazione è tanto più
necessaria nel momento in cui il lavoro pretende, contro ogni
buon senso, un totale processo d’identificazione che rischia di
smarrire le soggettività. Il punto è prima di tutto rifiutare che cosa
ci viene imposto di essere (come è stato per le donne, come insegna il femminismo). L’unica strada per contrastare questo violento spossessamento delle nostre vite è immaginare e porre in pratica vie alternative, da sperimentare con i nostri corpi in relazioni
multiple con altri.
L’emergenza del vivere come ambito di regolazione, segnalata
nelle analisi sulla biopolitica di Foucault, sfocia nella visione di
una comunità umana il cui interesse comune è proteggere la vita
da un potere rapace. I movimenti femministi e queer sono stati
tra i primi a sottolineare il fatto che il pensiero e l’attivismo politico contemporanei devono fare appello agli immaginari situati
nell’identità «molare» dei soggetti, mettendo finalmente a critica
principi naturalizzati di discriminazione. Questi movimenti
hanno già da tempo politicizzato le questioni legate alla vita. Per
questo, oggi, ogni progetto di trasformazione sociale deve fare,
per forza, i conti con essi.
Oltremare, 1991. Acrilici su tela, 150 x 200 cm
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alfabeta2.23
L’etica
dionisiaca
del comune
Roberta Pompili e Giso Amendola
Il contributo del femminismo postcoloniale ha aiutato a mettere
in luce le forme dell’oppressione e dello sfruttamento, a partire
dall’intreccio di razza, genere, classe: non più il sesso o il colore
come terreni politici separati, segnati da identità omogenee, ma il
modo in cui sono stati «utilizzati» dal capitale e quello in cui noi
li ripensiamo. Genere e razza cominciano a essere considerati non
solo come terreni su cui intervenire attraverso esercizi di decostruzione e di critica, ma anche, in positivo, come linee di forza, utilizzabili come leve contro il capitale: intorno a essi si animano resistenze e prendono vita forme di controsoggettivazione.
Tra le identità tradizionalmente «gloriose», che oggi il capitale utilizza come blocco rispetto alla capacità creativa dei nuovi
processi di soggettivazione, pensiamo in particolare a quelle del
lavoratore e del cittadino, le soggettività pilastro del modello welfaristico classico. Oggi, lavoro e cittadinanza, dimessa oramai ogni
parvenza di «integrazione», funzionano piuttosto come dispositivi per bloccare eventuali incontri felici delle soggettività, per ricondurre la capacità trasformativa dei desideri alla «dura» disciplina dell’identità.
Proprio mentre, nella trasformazione postfordista, le forme
del lavoro si diversificano e si individualizzano, l’ideologia lavorista si pone ancora come la forma privilegiata del comando e del
controllo sociale. E se non c’è più bisogno d’esser bravi «lavoratori», come la fabbrica imponeva, il capitalismo cognitivo continua
a produrre, comunque, identità che bloccano la potenziale ricchezza delle soggettività, pietrificandola nelle nuove forme di etica
della prestazione, dell’autoresponsabilizzazione e dell’efficienza.
Oggi, la «sinistra» tradizionale si fa interprete della nostalgia del
modello tradizionale di welfare. Proprio l’opposto, invece, ci occorrerebbe. Ogni discorso su un welfare del comune, che liberi
tutte le potenzialità della cooperazione sociale, non può che portare sino in fondo la critica dei vecchi blocchi identitari: non può
che essere, senza riguardi, per la distruzione del Buon Cittadino e
del Lavoratore Responsabile, del Buon Padre di Famiglia e della
Brava Moglie, del Vero Maschio e della Donna per Bene.
Nel corso del seminario napoletano di UniNomade, per esempio, il Laboratorio Smaschieramenti ci ha rimandato una formula particolarmente felice: nelle acampadas degli Occupy, ci ha ricordato, queer si fa lotta di classe. Questo è il punto per noi fondamentale: nei movimenti che si producono ora dentro la crisi, si
danno insieme il rifiuto dei dispositivi identitari e la lotta contro i
dispositivi di sfruttamento, di precarizzazione e di messa a valore
delle differenze.
Scendiamo, per esempio, nel cuore del welfare, lì dove si prova
a gestire e a controllare la riproduzione. Le lotte sulla salute/sessualità/procreazione e sulla maternità/paternità consapevole, a cominciare da quelle intorno alla legge 194, oggi, ancora più che nel
passato, viaggiano su diversi e più articolati piani, sulla produzione di rinnovati immaginari, che decostruiscono i processi di identificazione. Le biopolitiche, in questo campo, si misurano con un
fronte trasversale pronatalista, sostenuto dalle retoriche dei mass
media e dei discorsi «scientifici», per le quali la bassa incidenza di
natalità nel nostro paese è costruita come un problema che deve
essere contrastato attraverso norme che rinvigoriscano la famiglia
tradizionale eterosessuale e autoctona. E ancora, nel tempo della
crisi, questi dispositivi di blocco del desiderio e di controllo sulla
vita si sposano con le retoriche fondamentaliste e religiose. La
produzione dei corpi di stato si situa dentro una miriade di dispositivi che riproduce le donne come naturalmente eterosessuali e
madri, moralmente orientate verso lavori e ruoli tradizionali di
cura, dentro una riprodotta gerarchia familiare.
Contemporaneamente, la produzione della soggettività autoctona fa i conti con la sua controparte, l’altra, la migrante, fino a
ieri figura centrale nel lavoro di cura, appaltato e razzializzato.
Come non pensare a tutte le retoriche invocate in riferimento ai
consultori, come luoghi dequalificati, in quanto, almeno nel recente passato, attraversati in gran parte dalle migranti? Genderizzazione e razzializzazione marciano di pari passo, nella riformulazione delle gerarchie, nella riproduzione dei dispositivi della cittadinanza e dell’inclusione escludente.
Ma queste gerarchie e questi dispositivi non detengono l’ultima parola. Anche nella crisi, il ritmo delle soggettività e della cooperazione sociale continua a battere un tempo del tutto diverso da
quello della riproduzione delle identità di genere e di razza, e delle
loro gerarchie. Mentre le strategie dei poteri pubblici e privati
riaffermano, con monotona ostinazione, la centralità «indiscutibi-
ALFADIFFERENZE
le» della famiglia tradizionale, la vita quotidiana si misura con le
innumerevoli varietà di forme di relazione, di coesistenza, di vita
che questo stesso tempo precario produce. La ricerca delle pluralità di forme di coabitazione può mettere a nudo, per esempio, diverse forme di relazioni, assolutamente impreviste dai vecchi format familistici. Nel biocapitalismo, ogni fuga dal modello egemone di vita rappresenta sempre un punto di forza da cui ripartire.
Parzialità, messa in gioco soggettiva dentro una produzione
eccedente condivisa, che si fa conricerca e sperimentazione. È un
approccio etico, che però rifonda politicamente la dimensione di
un sé, dentro la molteplicità e singolarità dei corpi e delle vite: relazioni che si pongono fuori dai rapporti di proprietà/identità, a
cominciare da quel grande dispositivo proprietario-identitario che
è la famiglia, lontane dalle forme delle gerarchie e burocrazie tipiche degli apparati pubblici.
Fiaba, 1995. Acrilici su tavola, 45 x 50 cm
LGBT a
denominazione
d’origine
controllata
Nina Ferrante
Bandiera italiana sullo sfondo, caciotte e salumi in primo piano e
una coppia che si bacia. «Civiltà prodotto tipico italiano». Questo
slogan ribadisce in modo pleonastico l’ispirazione nazionalista e
identitaria della campagna pubblicitaria dell’Euro Pride di Roma
del 2011; un episodio tutt’altro che sporadico ed isolato. Al contrario, globalmente assistiamo a un arruolamento materiale e simbolico degli omosessuali nel nuovo ordine post 11 settembre. Gay
e lesbiche, laddove non hanno orgogliosamente imbracciato le
armi rivendicando uno spazio nell’esercito, come negli Stati Uniti
o nello stato di Israele, si sono fatti relatori della retorica razzista
che legittima guerre, dispositivi securitari e la più autoritaria governance delle migrazioni.
Questi motivi hanno condotto Judith Butler a rifiutare il premio al coraggio civile offertole dal Pride di Berlino nel 2010:
«Devo prendere le distanze dalla complicità con il razzismo». Con
queste parole, ha denunciato la contiguità degli organizzatori
della Pride ad amministrazioni e associazioni di matrice razzista,
dando visibilità e sostegno alla critica queer of colour contro il razzismo, l’islamofobia, la guerra, la violenza poliziesca e l’apartheid
che sempre più spesso si celano dietro una vuota retorica della difesa dei diritti omosessuali. E, suscitando scalpore, ha più volte
sottolineato come gay, lesbiche, bi* e perfino le trans (generalmente le più discriminate anche all’interno del movimento stesso,
soprattutto per motivi di classe) possano essersi rese relatrici del
nuovo discorso discriminatorio.
La presa di posizione di Butler è stata degradata dai media a
posizione militante contro la commercializzazione della marcia
dell’orgoglio, ma in realtà squarciare un velo nel discorso politico
lgbtiq: si può essere gay e razzista? Negli anni, il confine che separa la rivendicazione dell’Orgoglio, con una presa di posizione
identitaria e nazionalista si fatto sempre più sottile. Jasbir Puar
parla di omonazionalismo.
Tra i gruppi queer antirazzisti si parla di omonazionalismo per
narrare questo sentimento di attaccamento alla Patria, fondato
per lo più sul terrore, come strumento del biopotere coloniale, foriero di un desiderio di potere su altri gruppi sociali ritenuti inferiori, pericolosi e vittimizzati allo stesso tempo. I soggetti queer,
«eccentrici» per la loro carica destabilizzatrice del sistema eteropatriarcale, oggi hanno barattato la loro critica all’ordine con un
processo di assimilazione subalterna. Si sono trasformati in «sog-
getti regolatori» di quella Patria che li ha sempre rifiutati, smettendo di decostruirne la logica discriminante e tentando di spostare un po’ più in la l’asticella dell’accettabilità. Da qui nascono
i corpi estranei, spaventosi, prodotti come criminali proprio perché fuori posto: i talebani da bombardare, i terroristi da torturare, gli immigrati da cacciare. Dopo l’11 settembre 2001, sul piano
dell’immaginario hanno descritto la vergine America stuprata dai
fondamentalisti misogini e, consolidando lo stereotipo del fondamentalista sodomita, l’immagine di un Bin Laden penetrato analmente dall’Empire State Building si è consolidata sino a tradursi
nella cruda realtà delle torture omofobe delle carceri di Abu
Ghraib. Dall’altro lato, in modo più pragmatico, gli omosessuali
si sono resi relatori del sermone islamofobico per legittimare il
nuovo ordine Imperialista.
Anche gli omosessuali europei si dedicano a coltivare questo
stesso sentimento di attaccamento alla Patria ed è così che notiamo, in tutta Europa, strane convergenze tra l’associazionismo
mainstream omosessuale e gruppi razzisti e di estrema destra. Il
caso più noto, in Olanda, è quello di Pim Fortuyn, leader di
estrema destra orgogliosamente islamofobo e dichiaratamente
omosessuale. Fortuyn morirà assassinato da un antispecista poco
prima di vedere la propria lista trionfare nelle elezioni per il parlamento olandese.
Allo stesso tempo, ma in modo decisamente più grottesco, assistiamo all’ascesa di una destra omosessuale anche in Italia, dove
non vi è alcun tipo di diritto riconosciuto agli e alle omosessuali, né dal punto di vista sostanziale, né tanto meno formale. Anzi,
il modello culturale dominante, profondamente intriso dei valori cattolici, è apertamente omofobo e misogino. Eppure anche in
Italia la soglia dell’inclusione/esclusione è spesso attraversata dai
discorsi di genere e dell’uguaglianza sessuale. La comunità lgbit,
per esempio, ha fatto proprio il discorso nazionalista, unendosi al
coro di canti risorgimentali che hanno celebrato i 150 dell’Unità, per potersi avvantaggiare di una migliore posizione rispetto
alla soglia inclusione/esclusione. Giocando anche sulla convinzione che bastasse spostare l’asticella dell’esclusione un po’ più in
là, magari a scapito di altri soggetti.
3. Aver barattato il ruolo di «soggetti eccentrici» che destabilizzavano l’ordine dell’eteropatriarcato, per ottenere l’assimilazione all’interno della comunità nazionale, ha rappresentato il terreno per un’assurda convergenza con i fascisti di Casa Pound. L’incontro della deputata lesbica Concia con Casa Pound, sebbene
abbia aperto una forte dialettica all’interno della comunità, ha
rappresentato un precedente importante per il movimento lgbtiq
italiano. Tollerare gli omosessuali, purché depotenziati della loro
carica destabilizzante l’ordine della comunità nazionale rimanda
alla necessità dei «fascisti del terzo millennio» di presentarsi come
«bravi ragazzi».
Senza alcuna possibilità di tirare le fila di un discorso tutto
aperto su cui c’è ancora troppo da dire, concludo azzardando una
suggestione: riappropriarsi del concetto di autodeterminazione
per leggere i percorsi di soggettivazione come conflitti multipli e
simultanei, allargando la prospettiva attraverso cui ri-leggere il capitalismo, in vista di una nuova ricomposizione che guardi alla
classe anche a partire dalle differenze sessuali e della razza.
Costituzione e nuovi orizzonti costituenti
Seminario di UniNomade
Roma, Teatro Valle Occupato, 27-28 ottobre 2012
Che cosa significa oggi, dentro la crisi, aprire una riflessione su temi “costituzionali”? Per noi significa essenzialmente due cose:
rilanciare la critica del diritto, la critica dell’economia politica della costituzione, e al tempo stesso sporgere lo sguardo oltre l’esistente, collocarci saldamente all’interno dell’orizzonte costituente che i movimenti e le lotte hanno pur contraddittoriamente aperto. Lo facciamo partendo da una certezza: non c’è niente da difendere. E lo facciamo ponendo un obiettivo: formulare collettivamente i nuovi princìpi, indisponibili e inalienabili, imposti dall’iniziativa della moltitudine: il comune, il reddito, il rifiuto del debito e
l’insolvenza, la libertà di movimento, l’esercizio cooperativo del sapere, il commontare, la riappropriazione della moneta.
Interverranno tra gli altri: Toni Negri, Michael Hardt, Sandro Mezzadra, Giso Amendola, Ugo Mattei.
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in Parlamento questa è la risposta. Va da sé, tanto è evidente, che anche un
bambino potrebbe ribattere che le condizioni non ci sono perché nessuno di
loro ha intenzione di crearle. Ed è facile capire il perché: da circa vent’anni
tutti i governi che si sono susseguiti, al di là del colore, hanno sbandierato il
vessillo dell’ossessione sicuritaria per attirare gli allocchi nel circuito della
paura generalizzata contro il diverso, l’escluso, le lotte sociali. Un generatore
di consenso sul piano del mercato elettorale. Una truffa evidente, se si pensa
che ogni statistica specializzata ci informa che i reati sono in calo considerevole e, guarda caso, la carcerizzazione in aumento. Insomma non vogliono
perdere voti e tantomeno, come nefasta conseguenza (per loro), poltrone, privilegi, denaro pubblico per finanziare i propri comitati d’affari, spolpare i beni
comuni per regalarli alle oligarchie finanziariste internazionali. Continuare a
gestire il potere val bene una strage, e per farlo occorrono milioni di voti: consenso a mezzo di terrore. Ogni partito fa la sua gara.
Altrove, dove ci si aspetterebbe un forte impegno, nulla si vede all’orizzonte. E sono la sinistra sociale, i movimenti, le singolarità più sensibili, coloro i quali, per condizione, dovrebbero essere i primi a preoccuparsi poiché
questa grave crisi economica prodotta dai cascami di un neoliberismo sempre più predatorio e di cui il governo Monti ne è l’esecutore in Italia, produrrà (si spera) a medio termine un conflitto sociale senza precedenti in seguito all’aumento irrefrenabile della povertà, della disoccupazione, della spoliazione definitiva dei diritti e della dignità di tutti coloro che non fanno
parte di una casta o di una corporazione dedite all’arrembaggio finale di ogni
bene pubblico. Sul perché di questa clamorosa assenza ci sarebbe molto da
discutere. Sarebbe ora di cominciare, prima che sia troppo tardi.
Sentirsi «traditi dallo Stato». La prima volta che ho ascoltato questa espressione
è stato durante una manifestazione di insegnanti precari contro il concorso
«truffa» della scuola. Centosessantamila persone abilitate, plurititolate e pluriesaminate saranno costrette a sottoporsi ad una lotteria fatta di quiz, prove scritte e orali e ad una lezione di mezz’ora per aspirare a uno degli 11.542 posti
messi a disposizione dal ministro Profumo. D’ora in poi le «graduatorie» dove
questi docenti sono iscritti da anni non avranno valore ai fini dell’assunzione. Il
concorso tornerà ad essere l’unico modo per avere un lavoro dignitoso. Anni di
esperienza verranno così bruciati e con essi la fiducia nelle indicazioni impartite dallo Stato a persone che si sono sottoposte ad un lungo, e tortuoso, percorso di qualificazione e autodisciplinamento che si è tradotto nel precariato di
massa che tiene ancora in piedi la scuola. In questo contesto, il tradimento è un
atto politico irrevocabile compiuto dallo Stato rispetto ad almeno due generazioni di insegnanti.
Nel concetto di «tradimento» esiste anche il significato di «consegnare». Per
il governo Monti il concorso nella scuola sancisce la fine di un’epoca: si consegna cioè la scuola degli insegnanti impreparati, vecchi e demotivati ai «giovani»
insegnanti brillanti e motivati. È ormai universalmente noto che questa è una
menzogna: i «giovani» neo-laureati non potranno partecipare al concorso, limitato dagli abilitati o ai laureati fino al 2004, cioè ai quarantenni Conoscendo la
realtà, il ministro Profumo ha continuato ad usare questa espressione per delegittimare chiaramente chi lavora nella scuola. Ma chi è il «giovane» al quale
viene «consegnata» la scuola italiana? Evidentemente un soggetto disincarnato,
asessuato, una pura idealità che non è collocabile in una delle immense tabelle
della burocrazia amministrativa privata e pubblica.
Nella retorica «meritocratica» che ha travolto dal 2008 la scuola, il «giovane» non è in nessun modo paragonabile alla figura classica del lavoro amministrativo, l’insegnante che ha rappresentato per buona parte della storia unitaria
l’ideal-tipo dell’«uomo dell’organizzazione», un soggetto razionale che poteva
fare gli interessi dello Stato seguendo una carriera tutto sommato prevedibile,
durante la quale poteva aspirare ad un ruolo sociale valorizzando le competenze acquisite con diplomi, specializzazioni, curriculum, assecondando un percorso di accumulazione di meriti e titoli che rientravano nella griglia delle qualifiche richieste.
Questo circolo virtuoso, dove il docente poteva persino maturare una sua
«vocazione», si è infranto dalla metà degli anni Settanta quando si è interrotto
il rapporto tra il mondo della formazione e quello dell’inserimento lavorativo.
Si tratta di un processo di dimensioni colossali che ha rovesciato la priorità della
formazione e dei saperi nella selezione sociale, ha trasformato la scuola da istituzione formativa a istituzione professionalizzante, ma ha soprattutto trasfigurato il ruolo del docente. Le modalità con le quali è stato convocato il nuovo
concorso della scuola rappresentano il condensato di questa trasformazione.
Il sintagma «giovane» è dunque l’espressione di una complessa operazione
governamentale che sancisce la fine del patto fiduciario con lo Stato: titoli, lauree, l’esperienza accumulata insegnando per anni non hanno alcun valore, così
come le graduatorie. Paradosso vuole che il concorso non sia più usato come
uno strumento per l’accesso democratico ed egualitario all’amministrazione statale, bensì come la negazione del ruolo degli insegnanti, persone che si sono sottoposte a esami, valutazioni continue, così come imposto dallo Stato. Quello
che vale oggi non sono più le qualità statutarie riconosciute ad un soggetto durante il suo percorso scolastico e professionale, ma il valore d’uso della sua forza
lavoro nell’istante in cui essa serve. Il concorso è solo uno dei molti alibi per assoggettare ad un nuovo regime di valutazione permanente.
L’obbligo a ripetere concorsi su concorsi, master dopo master, obbedisce al
principio cardine della «governamentalità» neo-liberista: quello dell’accountability. Nel discorso neo-manageriale che ispira anche il governo Monti esiste un
punto fermo: chiunque abbia l’aspirazione a condurre una vita sociale o professionale deve sottoporsi per tutta la vita ad un processo di valutazione continuo
e imprevedibile. Non conta ciò che è, o è stato, conta la performance che saprà
sviluppare durante la compilazione di un quiz, una prova di esame o una selezione del personale. In queste occasioni, il soggetto dovrà dimostrare auto-controllo e responsabilità. Sono questi gli obiettivi di una strategia che mira a trasformare la vita sociale in un percorso penitenziale di verifiche permanenti. Tuttavia, l’idea che lo studio, i titoli, il curriculum non abbiano alcun valore è assolutamente paralizzante. La schizofrenia delle decisioni dei governi sull’istruzione si rispecchia nella depressione in cui vivono gran parte degli attori che vivono nella scuola a cominciare dai «giovani» precari che realmente lavorano in
questa, come in altre, istituzioni.
Per queste ragioni sarebbe un errore pensare che le pasticciate decisioni del
ministro Profumo seguano solo un’urgenza propagandistica. In realtà, queste
scelte di governo obbediscono ad una razionalità politica dettata dalla necessità
di affrontare un problema strutturale nell’istruzione pubblica in tutti i paesi occidentali: un titolo di studio non dà diritto ad un posto di lavoro; la domanda
di forza-lavoro cognitiva è drasticamente inferiore rispetto all’offerta. Da quando la bolla formativa è esplosa, nei lontani anni Settanta, nessun governo è riuscito a trovare una soluzione. Salvo quella di ridimensionare l’università e la
scuola di massa al perimetro di un’agenzia di rating fondata sullo scambio tra
crediti e debiti, trasformando i docenti come gli studenti in soggetti traditi, illusi, alla ricerca permanente di una legittimazione che non otterranno mai. In
nome del «giovane» che è intorno a noi.
Roberto Ciccarelli
La scuola è finita
Per prima cosa, tanto per sapere con precisione di che si parla, occorrono alcuni dati come presupposto dal quale partire per qualsiasi discussione riguardante il pianeta carcere: dal gennaio 2000 al settembre 2012 nel circuito carcerario italiano si sono avuti 2.045 morti tra i quali, al momento in cui scriviamo, 732 suicidi (fonte: www.ristretti.it). Il resto sono da addebitare a malasanità e a «casi da accertare»; che già su quest’ultima espressione ministeriale ci sarebbe non poco da indagare. Stiamo quindi parlando, al di là di ogni
ragionevole dubbio, di una vera e propria strage. Una strage di Stato.
Da lungo tempo il Partito radicale, al quale si è unito il mondo dell’associazionismo carcerario e della cooperazione sociale che opera nello stesso
campo, ha lanciato in modo pressante la richiesta di amnistia e indulto per
fermare quella carneficina. Si tratta di riportare un minimo di legalità, in
quella che oggi è una fabbrica di morte, affrontando l’inumano sovraffollamento con la fuoriuscita dalle galere di almeno 25-30.000 detenuti degli attuali 67.000.
Contestualmente ai provvedimenti, per renderli efficaci nel tempo, occorre una radicale riforma della giustizia e l’immediata abrogazione delle tre principali leggi carcerogene: la Bossi-Fini, che ha riempito le galere di immigrati;
la Fini-Giovanardi, che le ha riempite di consumatori di sostanze; la ex Cirielli, che vieta i benefici della Legge Gozzini ai recidivi. Non ci sono altre strade, e bisogna fare presto.
Come risponde la politica alle nostre richieste? Con un’ipocrisia senza limiti, con una falsità dirompente: «Non ci sono le condizioni». Dal Presidente Napolitano (non a caso autore insieme all’allora collega Turco della prima
legge che istituiva i lager per migranti, i Cpt) ai segretari di tutti i partiti oggi
Valerio Guizzardi
Carcere: amnistia e ipocrisia
Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in Abbonamento Postale – D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) Art. 1, Comma 1, LO/MI
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