I fiadoni di patate americane

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I fiadoni di patate americane
I fiadoni di patate americane
“Valiera, patate bòne
Belombra, basgana bòna
Papòsse a gh'è le dòne co' le gambe grosse
Panarèla i parla pr'el el buso dla canèla
ai Santi i fa l'amor coi guanti"
Anche il detto popolare prende atto della bontà delle patate di Valliera, specializzatasi nel
tempo in colture orticole che avanzavano in modo invidiabile sui fazzoletti sabbiosi,
strappati alle antiche valli di Adria. 1
A dire il vero, le patate avevano faticato a farsi accettare sulla tavola; basti pensare che
alla fine dell’Ottocento erano considerate, ma si trattava delle comuni, un alimento così
vile da essere ritenuto adatto solo agli animali, accettato di malavoglia persino da chi
chiedeva l’elemosina. Comunque, la patata si affermò come cibo di sussistenza e
succedaneo della rapa, coltivata sui paleo-alvei e nelle aree più elevate, perciò di più
antica emersione. Per venire alla americana, la sua importanza per la dieta quotidiana fu
colta proprio in Polesine: “Nel 1880, quando cominciavano ad appalesarsi i primi sintomi
della crisi di mercato dei cereali, crisi particolarmente sentita nelle zone a vocazione
cerealicola come le nostre, un illuminato imprenditore, il conte Antonio Donà dalle Rose
nelle sue tenute polesane di S. Martino di Venezze, bagnate dall’Adige, ebbe la brillante
idea di iniziare la coltivazione a pieno campo della patata americana. Un modo per
affrontare le difficoltà della globalizzazione di quei tempi. In pochi anni, affinata la tecnica
produttiva, il dolce frutto dimostrò tutte le sue peculiarità. L’iniziativa ebbe successo, tanto
che in breve la coltura dilagò per il Medio Polesine e per le “terre” a cavallo del Fiume a
cominciare da Anguillara Veneta e paesi rivieraschi.” 2
Il favore incontrato fu tale che, nel 1882, la sua coltivazione era già diffusa ampiamente
nei distretti di Adria ed Ariano, così come riferisce
Giacomo Bisinotto, estensore della relazione per
l’Inchiesta Agraria: “Le principali piante tuberose che si
coltivano sono: la patata dolce detta Americana
(convolvolus batata), e il pomo di terra comune a tinta
gialla e a tinta violacea. Della prima, della patata dolce,
se ne fa abbastanza estesa coltura, ed alcuni vi dedicano
sino ad un ettaro e più, e ciò specialmente nei terreni
Il contadino è amatissimo di tal
della prima zona. 3
frutto, e lo mangia allesso senza alcun condimento. Se
ne fa un bel consumo locale, ed una quantità, non però
rilevante, viene esportata. Da un ettaro si possono ritrar
mediamente quintali 50 ed il prezzo di vendita oscilla
dalle lire 8 alle 16 per quintale”. 4
Ottimo sostitutivo del pane, la patata americana è stata
per molti anni pranzo e cena, merenda e colazione per i
bambini che andavano a scuola: "Per colpa della patata
che mi portavo nella saca rimasi ignorante! Agli esami la
maestra mi interrogò sul libro di lettura. ‘Apri la tal pagina
e leggi’, mi disse. Ma la pagina non c'era: ‘Mi manca la
pagina, signora maestra!’
E così finii bocciato. La mia patata, finita in mezzo al sillabario ed io avevo strappato le
pagine per potermi mangiare la mia patata. Che dovevo fare? Buttarla via? E così per
colpa della patata americana rimasi vilàn inculto". 5
Si mangiava, quindi, lessa o arrostita; integrava la farina di frumento nella panificazione; si
faceva fritta come le attuali patatine. E ancora: non si è mai del tutto smesso di
impiegarla, proprio per essere dolce, nella confezione degli gnocchi detti màneghi, conditi
con burro, zucchero e cannella; si continua a preparare una pinza, pinza di patate
americane, che nel corso del tempo è andata a colmare il vuoto lasciato dai migliacci,
diventando un dolce autonomo. Assai meno noti sono i fiadoni. 6
Racconta la signora Luigia Rossi: “I fiadoni si mangiavano la vigilia di Natale o l’ultimo
giorno di Carnevale. Sono tortelli con il ripieno di patate americane, mostarda, pane
grattugiato, latte, uvetta, una fiala di rhum, una bustina di lievito ed un po’ di fior di farina.
Una volta che ho lavorato bene l’impasto, faccio la sfoglia e avvolgo il ripieno conferendo
al fiadone la forma rettangolare o triangolare. Poi li friggo. Quando cade il tempo, ne faccio
sempre in abbondanza perché ho tanti nipoti di bocca buona. A casa mia li abbiamo
sempre fatti e chiamati sempre fiadoni”.
Semplici ed elementari nella fattura, ma di un sapore elegante e gentile, assicurano coloro
che li hanno gustati, i fiadoni rivelano una storia lunga e tortuosa di adattamento
all’ambiente che conferisce loro il crisma della “tipicità” perché, per dirla con Piero
Camporesi, possono essere tipici soltanto piatti poveri, connaturati ed incarnati
nell’ambiente, perciò combinati e combinabili in mille modi, e consumati in precise
scadenze calendariali. Come i fiadoni adriesi, appunto.
E’ vero che appartengono alla storia europea perché li troviamo un po’ ovunque, come
torta, come tortelli ripieni di formaggio fresco, di pasta di mandorle, e di sapa e di tutto ciò
che il territorio poteva offrire. Sono presenti altresì nella cucina rinascimentale, seppure
notevolmente diversi dai nostri. Cristoforo Messisbugo, cuoco cinquecentesco alla corte
estense, annota nel suo “Libro novo”, li presenta in quattro modi: fiadoncelli de morolla,
fiadoncelli d’altra sorte, fiatoni grandi d’uova e formaggio, fiatoni grandi di frumento, farro,
o riso. 7
E dove sta la tipicità adriese, allora? La singolarità adriese è costituita dal nome,
documento evidente di un’origine lontana, e dalla presenza della patata americana, non
documentata altrove. Poi come di solito avviene, quando subentrano nuove forme del
gusto, gli arcaici fiadoni si sono sedimentati nella cucina povera, di resistenza, finendo per
preservarsi soltanto nella memoria orale. E lì sono rimasti pronti a riapparire nelle date
fondanti dell’anno.
Paolo Rigoni
(Grafica: Giorgia Stocco)
1
Non è casuale il nome Orticelli, proprio per la presenza degli orti che, nella disposizione urbanistica della
città medievale si trovavano nelle immediate adiacenze del centro abitato, funzionali alle Piazze delle erbe.
2
Corrispondenza del dr. Orazio Cappellari.
3
I terreni erano censiti secondo tre categorie, in relazione alla produttività del suolo. La prima zona
assommava a “29.880 ettari, costituita dalle parti alte e medie dei due distretti, è formata dai comuni di
Corbola, Adria, Bottrighe, Fasana, Pettorazza, Papozze, Loreo, e piccola parte dei comuni di Rosolina,
Donada, Contarina, e Taglio di Po”, G. Bisinotto, Monografia Agraria dei Distretti di Adria ed Ariano in
Polesine, Estr. dagli Atti della Giunta per l’Inchiesta Agraria, Vol. V, fasc. II, Roma, Forzani e C. Tipografi dl
Senato, Roma, 1882, p. 16.
4
5
IVI, p. 28
Fonte: Ferro Ginetto.
6
Il termine deriva dal tardo latino “flado”, accusativo “fladonem”, favo di miele.
7
Cfr. Christofaro di Messisbugo, Libro novo nel qual s’insegna a far d’ogni sorte di vivande secondo le
diversità de i tempi così di carne come di pesce, Forni, rist. anast, dell’edizione di Venezia del 1557,
Bologna, 1982, ff. 49-50.