Islam politico e primavera araba: alcune griglie di lettura

Transcript

Islam politico e primavera araba: alcune griglie di lettura
Islam politico e primavera araba: alcune griglie di lettura
di Khaled Fouad Allam, da Italianieuropei - La Primavera araba ha portato le forze politiche dei
paesi interessati dalle rivolte a confrontarsi con la fondamentale questione del significato che
può avere la democrazia in un contesto islamico e di come agire per favorire lo sviluppo delle
dinamiche democratiche in quell’area. È uno scenario inedito per il mondo arabo, in cui, per la
prima volta, sono i protagonisti dell’Islam politico a dover cercare l’equazione tra Islam e
democrazia. A un anno dall’inizio della Primavera araba, si impongono una serie di riflessioni
sul nuovo capitolo della storia del mondo arabo che si è aperto, un capitolo di cui non
misuriamo ancora tutte le implicazioni e le possibili conseguenze, sia sull’evoluzione e i
cambiamenti di quell’area sia sugli assetti geostrategici mondiali.
Nel corso dell’anno passato, su questo argomento sono stati pubblicati – in Europa, negli Stati
Uniti e anche nei paesi arabi – numerosissimi saggi appartenenti a generi diversi, dal
giornalismo d’inchiesta ai tentativi di analisi sociopolitica e storica. Ma, per vari motivi, non tutta
questa produzione è stata di grande qualità scientifica.
Il primo di questi motivi va rintracciato nel fatto che, trattandosi di un processo storico non
ancora concluso nella maggior parte dei paesi interessati da quegli eventi, manca la distanza
critica necessaria per una lettura complessiva e organica dei fenomeni in atto, che appaiono
ancora estremamente fluidi. Inoltre, i cambiamenti che si sovrappongono, con cadenza quasi
settimanale, nel quadro delle singole storie nazionali – Libia, Tunisia, Yemen, Siria ecc. –
sottendono in realtà non solo rivalità tra gli attori politici, ma anche costanti proprie della civiltà
arabo-islamica. Il prevalere della notizia come punto di partenza per l’analisi di situazioni così
complesse impedisce un’elaborazione compiuta e una proiezione di ciò che potrebbe
succedere nei prossimi anni.
Il secondo motivo riguarda invece il fatto che gli aspetti storici, sociopolitici e antropologici non
sono sempre immediatamente visibili, e l’analista o l’esperto si trovano a dover operare come i
biologi che usano il microscopio per riconoscere le diverse cellule e analizzarle. Sottolineo
questo punto perché, in questo caso, è necessaria una conoscenza approfondita della lingua e
dei dialetti arabi e la conoscenza della realtà sul terreno – persone, protagonisti, luoghi – per
poter capire a fondo un fenomeno rivoluzionario o una serie di rivolte. Paradossalmente, oggi i
tentativi di analisi peccano per la scarsa conoscenza di questi aspetti, contrariamente a quanto
avveniva per gli esperti del secolo scorso che conoscevano perfettamente lingua, usi e costumi
di questi popoli. Oggi la notizia tende a prendere il posto dell’analisi: il risultato è sotto gli occhi
di tutti, e può condurre a gravi errori di valutazione politica e di scelta delle strategie. Infine,
nell’analisi dell’Islam politico, non possiamo più ricorrere a una serie di contrapposizioni
ampiamente utilizzate nel passato, come ad esempio quella fra Islam e modernità, religione e
laicità, individuo e comunità ecc. I concetti vanno riconsiderati alla luce dei cambiamenti in atto
nelle singole società, anche se ovviamente permangono alcune costanti che rappresentano i fili
conduttori della storia. Ciò non è esclusivo del mondo arabo e dell’Islam, ma rappresenta un
fenomeno universale: ad esempio, nella storia della Russia non si può prescindere da
un’opposizione costante tra slavofili e modernisti.
1/5
Islam politico e primavera araba: alcune griglie di lettura
L’intero processo della Primavera araba è scaturito da un atto inconsueto nella cultura
arabo-islamica – un ventenne, venditore ambulante, si è immolato dinanzi alla casa del
governatore della sua provincia, a circa duecento chilometri dalla capitale, Tunisi –, atto che ha
subito destato stupore e indignazione, trasformatisi velocemente in una sollevazione generale,
dalla Tunisia all’Egitto. È interessante che tutto ciò sia partito dalla periferia e non dal centro, e
la velocità della sollevazione collettiva ha sorpreso tutti. In realtà avevamo dimenticato che,
oltre le frontiere nazionali, i diversi paesi arabi sono accomunati dalle stesse condizioni di vita:
disoccupazione, povertà, mancanza di prospettive per i giovani, discriminazione fra musulmani
e minoranze religiose (innanzitutto in Medio Oriente), diseguaglianza socio-giuridica tra uomini
e donne.
È vero che inizialmente non sono apparsi gli slogan tipici dell’Islam politico, che prevalevano
sino a un paio di anni fa, come “L’Islam è la soluzione” o come quelli indirizzati contro lo Stato
d’Israele. Qualche tempo dopo l’euforia iniziale di questi movimenti l’Islam è però diventato la
questione centrale, che ha portato con sé una serie di problematiche irrisolte: come costruire la
democrazia? Quale deve essere il rapporto tra shari’a e Costituzione? Cosa si intende per
società plurale? Qual è il rapporto tra diritto civile e diritto musulmano? Che ruolo devono avere
le minoranze etniche e religiose? Una serie di problematiche che comunque si riassumono in
un’unica e fondamentale questione: che significato può avere la democrazia in un contesto
islamico e come fare per costruirla. Sulla questione vi sono ovviamente visioni discordanti, ma
ciò che va sottolineato è che, in modo inedito per il mondo arabo, sono i protagonisti dell’Islam
politico a dover cercare, insieme ad altre forze politiche e culturali, la soluzione dell’equazione
tra Islam e democrazia, perché storicamente i movimenti islamisti sono passati dalla
contestazione alle istituzioni, in vari paesi attraverso il processo elettorale.
Coloro che si trovavano in esilio fino a pochi mesi fa sono tornati, come il leader tunisino Rashid
al-Ghannushi – che alla fine degli anni Settanta aveva fondato la rivista “XV/21”, il cui titolo
evidenziava che il quindicesimo secolo dell’egira, corrispondente al ventunesimo secolo
occidentale, sarebbe stato il secolo dell’Islam – è stato accolto all’aeroporto di Cartagine da un
bagno di folla, acclamato da oltre cinquemila persone. In quasi tutti i paesi investiti dalle rivolte
si è visto trionfare l’Islam politico; le forze laiche sono apparse piuttosto emarginate ma non
prive di grinta, come i movimenti delle donne in Tunisia, Yemen ed Egitto.
Il trionfo di questo Islam politico esige comunque un ripensamento della nozione stessa di
islamismo, dal momento che oggi esso partecipa alla cultura istituzionale: questo islamismo è
eguale a quello di vent’anni fa oppure no? Si è riformulato di fronte alla questione del pluralismo
e della società globale, oppure occulta il suo vero volto e la sua partecipazione al processo di
democratizzazione è solo un paravento? Sono domande cui si può rispondere con valutazioni e
ipotesi diverse.
Su questo punto le analisi più suggestive sono quelle di Olivier Roy, oggi il maggiore specialista
dell’Afghanistan e delle trasformazioni dell’Islam contemporaneo. Oltre dieci anni fa Roy
formulò il concetto di postislamismo: che non significa scomparsa dell’Islam politico, ma un suo
mutamento e una sua riformulazione dinanzi alle grandi trasformazioni sociali e culturali in atto
su scala globale. Roy notava, in un recente articolo pubblicato sulla rivista “Esprit”, come nel
linguaggio della Primavera araba una delle parole più scandite fosse stata karama, che significa
2/5
Islam politico e primavera araba: alcune griglie di lettura
“dignità”, che si contrappone al termine (desueto per le nuove generazioni) murawa, vale a dire
“onore” nel senso di “onore del gruppo, della tribù”. Questo cambiamento lessicale secondo
Roy – con cui mi trovo d’accordo – indica un cambiamento nell’ambito dei legami sociali: la
dignità si riferisce all’individuo, l’onore riguarda la comunità. La prospettiva di Olivier Roy è che
nel post-islamismo ha luogo un’individualizzazione della politica, e dunque l’emergere, seppure
lento e graduale, della nozione di individuo nel senso kantiano della parola. Sta scomparendo
dunque una delle matrici dell’Islam classico, che era stata ripresa dall’ideologia dell’islamismo:
l’olismo, nel quale l’identità dell’essere è data dall’appartenenza al proprio gruppo.
Naturalmente questi processi non sono ancora giunti a una “massa critica”, ma nondimeno
sono in atto; e lo saranno ancor di più in futuro, anche perché la costruzione democratica
implica il conflitto, nel nostro caso, fra identità individuale e appartenenza a una comunità. Ma la
novità è che la costruzione della democrazia implica che il conflitto si debba svolgere non più
attraverso la violenza politica – la strada o la guerra civile – ma attraverso le istituzioni che un
paese si dà.
La democrazia trascina dunque con sé, nel contesto islamico, le grandi domande legate
all’eguaglianza: per le donne e le minoranze etnico-religiose, che spesso sono discriminate. Ciò
avviene perché democrazia significa soluzione del conflitto fra maggioranza e minoranza: non
trattare nello stesso modo, sul piano giuridico e politico, maggioranza e minoranza, in
qualunque contesto storico-culturale, significa impedire la realizzazione stessa della
democrazia. Oggi l’Islam politico si trova a doversi confrontare con questo problema. I futuri
dibattiti su questo tema nel mondo arabo saranno estremamente interessanti. In ciò la Tunisia è
stata ed è un laboratorio per il mondo arabo: perché qui si intravede abbastanza chiaramente
un inizio di scissione fra coloro che vogliono misurarsi con la democrazia e coloro che la
rifiutano totalmente (salafisti e altre frange del radicalismo islamico). Ciò non significa che la
situazione non possa portare a future perturbazioni, resistenze e conflitti: ogni processo
“rivoluzionario” si misura con le incognite della storia, come ci insegnano tutti gli sconvolgimenti
del passato.
La situazione dunque è estremamente complessa, perché oscilla fra mutamenti profondi, non
percepibili immediatamente, e costanti proprie della storia del mondo islamico e dei contesti
locali, che sono diversi tra loro.
Appare evidente come il contesto tunisino, per storia e cultura, sia diverso, ad esempio, dal
contesto yemenita. Rimangono ancora moltissimi interrogativi: rispondere a tutti è impossibile,
perché non esistono certezze scientifiche ma solo ipotesi cui si può associare una certa
probabilità.
Appare dunque necessario considerare alcuni dati che spesso l’Occidente – e l’Europa in
particolare – ignora o considera marginali. In primo luogo il fatto che la religiosità delle nuove
generazioni sta cambiando, e si afferma un Islam di tipo pietista, che investe e investirà sempre
più la sfera individuale. Non è ancora una privatizzazione totale della sfera religiosa, ma un
avvicinamento a questo fenomeno; e, per quanto suoni paradossale e contraddittorio, lo stesso
Islam politico diventerà il vettore inconsapevole di questo cambiamento, anche se nella sua
narrazione e nella sua prassi politica tende a occultarlo.
3/5
Islam politico e primavera araba: alcune griglie di lettura
Un altro dato è che le nuove generazioni – il 70% della popolazione nel mondo arabo ha meno
di 25 anni – si ispirano molto più al modello turco che a quello dell’Arabia Saudita. Queste
nuove generazioni sono parte della società globale, anche se è spesso impedito loro di
viaggiare; vivono nel mondo globale, viaggiano via internet da Beirut a New York, da
Casablanca a Tokyo. Si tratta di qualcosa che sta trasformando la loro relazione, anche
psicologica, con il mondo, e tende a spezzare il confronto/conflitto con l’Occidente. Per loro la
Turchia non incarna più la frattura fra Oriente islamico e Occidente, ma l’intersezione tra due
aree di civiltà.
Ciò che l’Europa non ha ancora compreso è che nella società globale vengono meno le vecchie
frontiere culturali su cui la geopolitica si era costruita. Certo, si tratta di un fenomeno in corso di
attuazione, che si inscrive nella prospettiva dell’intero XXI secolo. Oggi si assiste a un errore
geopolitico dell’Europa: non aver capito la funzione della Turchia in quanto intersezione fra
Europa, Asia e mondo arabo. In Europa abbiamo la memoria corta: dimentichiamo che la storia
del mondo arabo, con la sola eccezione del Marocco e della Mauritania, è inseparabile da
quella del mondo turco e ottomano; la stessa Tunisia, che dista mezz’ora di aereo da Palermo,
fu provincia ottomana dal 1554 fino al 1881. Oltre tre secoli di presenza turco-ottomana non
possono essere cancellati, ed è evidente che la Turchia nei prossimi anni è destinata a
diventare una potenza regionale per gran parte dell’area mediterranea. Questo l’Europa non
l’ha capito oppure, non avendo un’idea di sé, non riesce a proiettarsi oltre i propri confini. Tutto
ciò, nell’odierno scardinamento generale, si tradurrà in un enorme problema, sia riguardo
all’immigrazione che riguardo alla costruzione di un Islam europeo.
Le ipotesi di lavoro su queste tematiche rimangono numerose, in un contesto in cui si è
assistito, negli ultimi venti anni, a una sorta di divorzio tra cultura e politica. Esperti e politici non
riescono più a comunicare, sembrano quasi vivere in circuiti paralleli, ed è sotto gli occhi di tutti
l’accumularsi degli errori. Il caso libico ne è un esempio: l’assenza da parte europea di iniziative
di accompagnamento alla transizione democratica sta lasciando libero corso all’irrompere di
forze centrifughe che poco a poco minano la ricostruzione dello schema statale, attraverso
etnicismo, contrapposizione tra arabi e berberi, tribalismo, clanismo, radicalismo islamico di
varie provenienze ecc., creando il rischio di una sorta di nuova Somalia a breve distanza dalle
coste italiane.
Ho detto all’inizio che la tesi più interessante sull’Islam politico è quella di Olivier Roy del
post-islamismo; ma è una tesi che condivido fino a un certo punto, perché si basa su un dato
socio-antropologico che non ha ancora una traducibilità politica. Se pure ci sono delle costanti
che riguardano tutta l’area arabo-islamica, le strategie dell’Islam politico attualmente sono
diverse da paese a paese; e ciò porterà a un nuovo schema politico che, in un articolo apparso
su “Il Sole 24 Ore” un anno fa, ho definito “islamo-nazionalismo”.
Un altro aspetto, più complesso, investe i punti nevralgici della costruzione della democrazia nei
paesi arabo-islamici: nell’attuale contesto appare percorribile la costruzione della laicità, ma più
difficile è la problematica della secolarizzazione nell’Islam, perché una secolarizzazione implica
una soggettivizzazione della religione: e in ciò la valenza, prima di essere politica, è culturale. E
ci vorrà ancora molto tempo perché possa realizzarsi; ma forse l’Islam inventerà una propria via
alla secolarizzazione.
4/5
Islam politico e primavera araba: alcune griglie di lettura
5/5