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vita quotidiana e cultura materi 11 Italo M. Muntoni 144 Bibliografia • Si forniscono qui di seguito alcuni titoli in lingua italiana relativi ad argomenti trattati nel testo: Dall’argilla al vaso. Sistemi di fabbricazione in una comunità neolitica di 7. 000 anni fa, a cura di S. M. Cassano, I. M. Muntoni, C. Conati Barbaro, Àrgos Edizioni, Roma 1995. N. Cuomo di Caprio, Ceramica in archeologia 2, “L’Erma” di Bretschneider, Roma 2007. B. Fabbri, A. Gianti, L’avventura della ceramica, CNR-ISTEC, Faenza 2003. D. Labate, La ceramica. Una storia millenaria, Comune di Fiorano Modenese, Fiorano Modenese 2001. I. M. Muntoni, Modellare l’argilla. Vasai del Neolitico antico e medio nelle Murge pugliesi, Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, Firenze 2003. M. Saracino, Prima del tornio. Introduzione alla tecnologia della produzione ceramica, Edipuglia, Bari 2005. Storie d’argilla. Alle origini della ceramica in Terra di Bari, a cura di A. Damato, F. Radina, Museo Civico Archeologico “G. e P. Didonna”, Rutigliano 2004. M. Vidale, Ceramica e archeologia, Carocci, Roma 2007. La prima ceramica All’inizio del Neolitico, in Italia meridionale già a partire dalla fine del VII millennio a.C. (in cronologia calibrata) e, successivamente, a breve distanza di tempo verso nord lungo tutta la penisola, la ceramica compare come una novità nell’ambito delle attività dell’uomo preistorico. Proprio la sua presenza è uno dei principali indicatori dell’acquisizione da parte delle comunità preistoriche di forme di economia produttiva (agricoltura e allevamento). Da parte di alcuni studiosi è stato ipotizzato che l’origine della ceramica nel Neolitico antico possa non essere necessariamente connessa ad esigenze alimentari (conservazione e cottura). In alcuni contesti della Grecia continentale, l’assenza di tracce di esposizione al fuoco sulle superfici ceramiche, nonché il numero limitato e le ridotte capacità volumetriche dei vasi, hanno suggerito una loro destinazione ad attività di carattere rituale, inducendo quindi ad attribuire un significato di prestigio alla produzione vascolare.Ad ogni modo, nella maggioranza delle comunità neolitiche del Mediterraneo, è indubitabile il ruolo particolarmente importante svolto dalla ceramica per la conservazione, la cottura e il consumo dei prodotti della coltivazione di cereali e leguminose e della macellazione degli animali allevati (caprovini, suini e bovini). Le caratteristiche di resistenza meccanica e termica consentono, infatti, la manipolazione e l’esposizione ripetuta al fuoco dei contenitori in ceramica, permettendo così la conservazione e/o il trasporto e soprattutto la trasformazione (mischiare e/o impastare), la cottura e il consumo (bere e mangiare) dei cibi. La bollitura, infatti, in particolare dei prodotti vegetali, ne aumenta i valori nutrizionali, la digeribilità e l’appetibilità, riducendo al contempo le tossine presenti in alcuni cereali e legumi. Purtroppo ancora molto scarsi sono i dati diretti – ottenuti attraverso l’analisi delle tracce d’uso e dei residui organici – sugli originari contenuti dei vasi, sull’uso e sulla specifica funzione delle diverse forme ceramiche. Estremamente rari sono i casi di ritrovamento di vasi in contesti integri, tali da poter più facilmente dedurne la specifica funzione. Più spesso si possono formulare solo ipotesi più o meno verificabili sulla base dell’analisi delle proprietà morfologiche e/o tecnologiche, relative alle caratteristiche dell’impasto (tipo di scheletro, granulometria, porosità…), al trattamento delle superfici esterne ed interne, al grado di cottura e al colore, alle dimensioni e alle forme dei vasi. Queste ultime nel Neolitico sono piuttosto semplici e ripetitive (scodelle, ciotole, olle, vasi a collo/fiaschi…) e lasciano presupporre che non fossero rigidamente definite da un punto di vista funzionale, ma che si caratterizzassero per una evidente multifunzionalità. È inoltre probabile che molte attività legate all’alimentazione potessero ancora essere svolte con contenitori non ceramici. La produzione della ceramica rappresenta il primo caso, nella storia dei materiali, di trasformazione di una materia prima – l’argilla – con specifiche caratteristiche fisiche e chimiche, in un prodotto – la ceramica – con qualità diverse. In tale processo di trasformazione svolgono un ruolo fondamentale due dei principali elementi naturali, quali l’acqua e il fuoco. Si può ottenere con una tecnologia piuttosto semplice e, infatti, la ceramica è estremamente diffusa presso moltissime popolazioni che ancora oggi la producono con metodologie tradizionali (figg. 1 e 2). Nelle più antiche comunità neolitiche è probabile che la produzione ceramica fosse un’attività di tipo essenzialmente domestico, svolta dalle donne per le necessità delle proprie famiglie. L’arte della ceramica poteva es- md ale sere così tramandata di madre in figlia (fig. 3), con un lento processo di apprendimento che iniziava con la semplice osservazione dei gesti e con il gioco, fino ad acquisire le tecniche e l’abilità necessarie per produrre vasi.Alcuni elementi fanno ipotizzare che nel corso del Neolitico possa essere cambiata l’organizzazione della produzione, con l’imporsi di figure di vasai esperti, sia uomini che donne, che lavoravano non tanto per le esigenze del proprio gruppo familiare, quanto per l’intero villaggio. I vasi, infatti, acquisito un proprio valore di scambio, potevano essere più ampiamente utilizzati all’interno della comunità o tra diversi gruppi su aree più vaste, anche se questo difficilmente poteva portare gli artigiani ad acquisire uno status sociale o economico più elevato. La materia prima per la produzione della ceramica è dunque l’argilla, un tipo di roccia sedimentaria clastica composta dai prodotti, a granulometria più fine (< 2÷4µ m), dell’alterazione e della disgregazione di rocce preesistenti. Piuttosto frequenti in natura, in un’ampia varietà di colori e con diverse proprietà, la gran parte di esse sono argille di trasporto, formatesi per il dilavamento di rocce preesistenti e la deposizione del sedimento fine, a seguito di un lungo trasporto prevalentemente in acqua, in ambienti marini, lacustri o fluviali, posti a distanze più o meno grandi dal luogo di origine. Poiché le argille sono molto pesanti da trasportare, i più antichi vasai neolitici sfruttavano i depositi esistenti nei pressi dei villaggi, a breve distanza (entro pochi chilometri) dal luogo di abitazione o di lavoro. Per la realizzazione di prodotti di particolare qualità, i vasai potevano utilizzare anche fonti piuttosto lontane dal luogo di manifattura, anche se questo implicava un maggior dispendio di tempo e di energia. L’acquisizione di argille particolarmente adatte alla produzione ceramica avveniva in associazione, probabilmente, all’approvvigionamento di altri tipi di materie prime, soprattutto litiche (quali selce, pietre verdi, ossidiana…), che nel Neolitico erano oggetto di scambi a medio e lungo raggio. D’altra parte nelle comunità neolitiche la lavorazione dell’argilla non era esclusivamente finalizzata alla realizzazione di vasi in ceramica, ma anche di altri tipi di oggetti con diverse valenze funzionali, dai cucchiai ai manufatti per la Fig. 1 Battitura dell’argilla presso i gruppi Kalinga – Filippine (Archivio Museo delle Origini, Università di Roma “La Sapienza”). Fig. 2 Montaggio a colombino di un vaso presso i gruppi melanesiani dell’isola di Papua Nuova Guinea – Oceania (Archivio Museo delle Origini, Università di Roma “La Sapienza”). Fig. 3 Lucidatura della superficie presso i gruppi Kalinga – Filippine (Archivio Museo delle Origini, Università di Roma “La Sapienza”). Fig. 1 Fig. 3 Fig. 2 145 vita quotidiana e cultura materi 11 • Italo M. Muntoni • La prima ceramica filatura fino alle figurine antropomorfe o zoomorfe, in cui evidentemente erano del tutto prevalenti aspetti di tipo simbolico o cultuale. Sedimenti argillosi erano inoltre ampiamente utilizzati – anche se probabilmente con una minore attenzione alla loro preparazione – come materiale da costruzione per le abitazioni: le pareti delle capanne erano, infatti, spesso costituite da pali o travi ricavati da rami e/o tronchi di piante arboree nonché da fusti di graminacee (canne) legate o intrecciate, frequentemente ricoperte da un impasto argilloso con funzione di isolamento e di legante. Tali strutture a graticcio sono ampiamente attestate in contesti etnografici sia nelle zone calde afro-asiatiche, sia nelle zone artiche molto fredde, dove costruzioni con pareti continue terrose garantiscono un efficiente isolamento termico. La frequente presenza di un cordolo o di un basamento in pietra consente, inoltre, un buon isolamento della parete terrosa dal terreno e quindi dall’umidità ascendente. L’aridità di questi ambienti, infatti, assicura una maggiore durata delle strutture terrose, soggette a deterioramento sotto l’azione delle piogge. L’utilizzo di materiali misti (terra, legno, sassi) quali materiali da costruzione sem- 1 • La tecnologia della ceramica neolitica 146 L’argilla, se prelevata umida, può essere subito lavorata per eliminare le impurità di grosse dimensioni; se secca, invece, deve essere prima frantumata e quindi bagnata. Le argille potevano essere depurate facendole decantare in acqua, oppure si aggiungevano i cosiddetti sgrassanti (sabbia, rocce o minerali triturati, materiali organici, frammenti di ceramica già cotta) per conferire alla ceramica maggiore robustezza ed elasticità, riducendo la contrazione di volume e aumentando la porosità. Il vaso poteva essere realizzato con diverse tecniche (a pressione, a colombino o a stampo), utilizzate da sole o in diverse combinazioni (la lavorazione al tornio compare in Italia molto più tardi, solo nella tarda età del Bronzo). Le pareti del vaso venivano poi regolarizzate con diversi strumenti (dita, spatole in legno o in osso, conchiglie, lame di selce, ciottoli). I più antichi vasai neolitici decoravano le superfici dei vasi probabilmente non tanto per abbellire l’oggetto, ma per maneggiarlo senza perdere la presa o per ragioni di tipo simbolico. Gli stili erano molto diversi poiché seguivano i gusti del tempo e potevano variare da gruppo a gruppo. Sono ampiamente documentate diverse tecniche: la più diffusa è quella impressa, ottenuta effettuando con uno strumento o con le dita una semplice pressione sulla pasta molle del vaso. L’incisione e il graffito, invece, venivano effettuati con strumenti appuntiti fatti scorrere sulla superficie del vaso rispettivamente “a consistenza cuoio” oppure completamente secca. La decorazione dipinta, infine, veniva realizzata utilizzando come coloranti materiali naturali triturati e diluiti in argilla molto liquida. Il vaso veniva poi posto prima ad essiccare in ambienti asciutti e all’ombra, e dopo cotto a temperature di almeno 500-550 °C che trasformano permanentemente il corpo argilloso in ceramica. Le procedure di cottura sono sostanzialmente di due tipi (figg. 1.1 e 1.2): all’aperto – a fuoco diretto –, in cui i vasi vengono cotti a diretto contatto con il combustibile, o in ambiente chiuso – in forno –, in cui i vasi vengono tenuti lontano dal combustibile, talvolta in spazi separati. Fig. 1.1 La cottura all’aperto presso i gruppi Kalinga – Filippine (Archivio Museo delle Origini, Università di Roma “La Sapienza”). Fig. 1.2 Vasaia dell’Alto Egitto mentre copre il forno (ARgile éditions, France). Fig. 1.1 Fig. 1.2 ale md bra rispondere, inoltre, alle difficoltà di reperimento di materiale arboreo in zone aride/semiaride o molto fredde, prive di estese coperture forestali. Da un punto di vista più strettamente archeologico, la ceramica è indubbiamente la classe di materiali più abbondante nei contesti di scavo. È un materiale piuttosto fragile, soggetto a rotture e frequente ricambio, molto sensibile quindi a variazioni di tecniche e di gusto nel tempo e nello spazio, di cui è possibile perciò seguire la storia per intervalli di tempo e spazio piuttosto brevi. D’altra parte è poco alterabile e può conservare anche per millenni le proprie caratteristiche originarie, sia tecnologiche sia funzionali. Per queste ragioni viene considerato dagli archeologi un indicatore ad alta potenzialità di informazione, soprattutto da un punto di vista tecnologico e funzionale. In questa prospettiva la ceramica è in primo luogo un prodotto, esito di una serie di operazioni distinte e separate nel tempo (vedi Scheda 1) che vanno dalla provenienza delle materie prime alla preparazione dei materiali, alle tecniche di montaggio e alle modalità di cottura. In secondo luogo è un manufatto oggetto di uso (conservazione breve/lungo termine; trasformazione a freddo/caldo; trasporto breve/lunga distanza) e di scambio nell’ambito di specifici gruppi. Proprio la crescita di tale consapevolezza negli studiosi di ceramica ha fatto sì che agli approcci più tradizionali di tipo classificatorio e tipologico, si siano affiancati studi di tipo tecnologico e funzionale, in cui grande importanza hanno assunto l’archeometria, l’etnoarcheologia e l’archeologia sperimentale. L’archeometria è un ambito disciplinare piuttosto ampio, che in senso stretto indica l’applicazione dei metodi di misura e quantificazione propri delle scienze sperimentali all’archeologia. Si tratta, in altre parole, di dare misura e parametrizzazione ai materiali archeologici, al fine di definirne localizzazione, età, provenienza delle materie prime e tecnologie di produzio- Fig. 4 ne. In essa rientrano conseguentemente i metodi di prospezione, quelli di datazione e quelli di caratterizzazione: proprio lo studio dei manufatti in materiale inorganico (quali ceramica, pietre, metallo e vetro) rappresenta uno dei settori di interazione più fecondi tra archeologia e scienze naturali. Le prospettive di integrazione sono molto proficue, in quanto negli studi di archeometria ceramica si sta conseguendo un rapporto molto stretto e davvero interdisciplinare tra le “domande” storico-archeologiche e le “risposte” analitiche che le metodologie naturalistiche possono fornire. Molteplici sono le metodologie fisiche, chimiche e mineralogiche proprie delle scienze sperimentali, che possono essere utilizzate per caratterizzare le ceramiche preistoriche ai fini di definirne tipo e provenienza delle materie prime utilizzate, tecniche di preparazione degli impasti e di cottura dei vasi. La selezione del metodo, o più spesso delle metodiche analitiche più appropriate (vedi Scheda 2) è in stretta relazione con le finalità dei diversi programmi di ricerca. Fig. 4 Interno della bottega di Vito Rocco Lamparelli di Rutigliano (BA), con il figulo Leonardo Del Vecchio mentre lavora al tornio a pedale (foto famiglia Lasorella). vita quotidiana e cultura materi 11 • Italo M. Muntoni • La prima ceramica Gli studi finora condotti sulle ceramiche neolitiche, pur nella diversità di prospettiva dei vari progetti di ricerca, ha comunque permesso di indagare, sin dalle sue prime manifestazioni, sia le scelte, da parte degli antichi vasai, delle materie prime più adatte e/o più facilmente reperibili (argille e sgrassanti), sia le tecniche di preparazione dei materiali (raramente utilizzati allo stato naturale, ma con diversi gradi di depurazione e in alcuni casi con l’aggiunta intenzionale di smagranti minerali – come quarzo, calcite, gabbro, pomice –, chamotte o, più raramente, fibre vegetali), sia il controllo dell’atmosfera e della temperatura nella cottura dei vasi, sia infine le modalità di utilizzo dei vasi stessi (cottura, conservazione, trasporto…). 148 Per etnoarcheologia della ceramica si intende la diretta osservazione delle scelte nella preparazione dell’impasto argilloso o delle tecniche di cottura dei vasi presso numerosi gruppi che ancora praticano sistemi tradizionali di produzione ceramica, localizzati prevalentemente in Africa,Asia e Oceania. La possibilità di uno studio “dal vero” permette anche di conoscere le motivazioni (sociali, economiche o rituali) di ogni decisione, le cause che inducono ad apportare cambiamenti nei manufatti e, più in generale, il comportamento e l’organizzazione delle società tradizionali. Lo spiccato tradizionalismo che caratterizza l’attività del ceramista, sia nel passato che in tempi attuali, permette di formulare ipotesi di ricerca da applicare a società preistoriche, anche se ovviamente non si possono direttamente confrontare società del passato e contesti viventi differenti da un punto di vista ecologico, socioeconomico e culturale. Per questo, in ogni ricerca di questo tipo, vanno ben chiariti la valenza e i limiti dell’analogia istituita e la sua applicabilità a contesti archeologici noti. Altrettanto utile può essere, in questo campo, lo studio delle produzioni tradizionali di ceramica, in Italia molto diffuse sino a pochi anni fa e di cui, quindi, 2 • Le metodologie di analisi archeometrica della ceramica Le metodologie analitiche solitamente utilizzate per la caratterizzazione delle ceramiche preistoriche sono molteplici e la selezione del metodo o, più spesso, dei metodi più adatti, è in stretta relazione con il tipo di dati sulle caratteristiche delle materie prime utilizzate e sulle tecniche di preparazione degli impasti e di cottura dei vasi, che si aspetta di poter ottenere dalle stesse analisi. L’analisi petrografica su sezione sottile al microscopio ottico (MO) a luce polarizzata trasmessa, che utilizza le proprietà ottiche dei minerali, consente l’identificazione delle diverse specie mineralogiche costituenti lo scheletro, lo studio dei caratteri strutturali del campione e l’analisi di particolari aspetti tecnologici. L’analisi mineralogica per diffrattometria di raggi X su polveri (PXRD), che sfrutta le proprietà dei piani cristallini dei minerali, consente di identificare i minerali argillosi presenti nella matrice, a granulometria molto fine (< 2µm), e le trasformazioni delle fasi cristalline generatesi durante la cottura dei manufatti. Le analisi chimiche consentono la misurazione quantitativamente dettagliata degli elementi chimici presenti all’interno dell’intero corpo ceramico, spesso altamente significativi nel discriminare diverse aree di produzione. Le metodologie, distinte per il tipo di radiazione utilizzata, si differenziano in rapporto agli elementi da dosare e al grado di precisione della misura: molto utilizzate sono l’analisi per fluorescenza di raggi X (XRF) e l’attivazione neutronica (NAA). ale md è possibile recuperare una grande quantità di informazioni (figg. 4, 5 e 6). Oltre ai documenti scritti (quali contratti, inventari, atti giudiziari, liste di prezzi…) e alle fonti iconografiche (quali progetti, piante con impianti produttivi, raffigurazione di botteghe…), esiste tuttora – ma non per molti anni ancora – la possibilità di conoscere e parlare con artigiani tradizionali che possono offrire dal vivo preziose informazioni sulla localizzazione delle materie prime, sulle tecniche di preparazione dell’impasto argilloso o di cottura dei vasi, e sulle diverse funzioni dei vasi stessi.Tali dati possono anch’essi, con la dovuta cautela, essere utilizzati per formulare ipotesi di ricerca da applicare a gruppi preistorici che, pur in assenza di fenomeni di continuità, hanno occupato gli stessi territori, in un ambiente ecologicamente simile e con la stessa qualità e disponibilità di materie prime. L’archeologia sperimentale è intesa come metodo diretto a replicare nel presente processi che pensiamo siano avvenuti nel passato ed è una delle vie più efficaci per affrontare l’interpretazione dei comportamenti tecnologici e funzionali individuati nei contesti archeologici, consentendo più in generale di elaborare modelli interpretativi delle società del passato. Solo replicando la realizzazione di un vaso, si può comprendere dal vivo come un vaso veniva fabbricato, quale poteva essere il periodo dell’anno eventualmente più adatto, quanto tempo ed energia era richiesta per la sua fabbricazione, quali funzioni assolveva e come poteva essere utilizzato. Ripercorrere i tempi e i modi della costruzione di un vaso può aiutare gli studiosi a comprendere perché il vasaio neolitico avesse utilizzato una particolare materia prima non sempre di qualità ottimale, talora non facilmente reperibile, spesso dalle caratteristiche variabili. Ovviamente l’attività sperimentale viene sempre condotta con un rigoroso controllo dell’iter seguito, con scopi e modi diversi in relazione a specifici programmi di ricerca. Fig. 5 Fig. 5 Il figulo Vito Romito rifinisce alcuni tegami, nell’atrio della bottega Lasorella di Rutigliano (BA), sistemati su assi di legno durante la prima fase di essiccazione (foto famiglia Lasorella). 149 vita quotidiana e cultura materi 11 • Italo M. Muntoni • La prima ceramica È molto importante sottolineare però che l’archeologia sperimentale non implica automaticamente che esista un solo processo per raggiungere il risultato noto, né che questo processo possa essere interamente ricostruito, ma piuttosto che: a) possono esserci stati diversi modi consapevoli e sperimentati per raggiungere un dato risultato; b) ogni strumento (in ceramica così come in pietra o in osso) rappresenta l’esito di un processo creativo che riflette il livello tecnologico e i modelli culturali del gruppo, oltre che le scelte individuali; c) non tutte le conoscenze tecnologiche sono così esplicite da poter essere colte e interpretate da chiunque pratichi la sperimentazione; d) è ineliminabile, inoltre, la componente della soggettività del ricercatore nel tentare di riprodurre oggetti del passato, anche quando la metodologia adottata aspiri al massimo livello di obiettività. Fig. 6 150 Fig. 6 La cottura nella fornace della bottega Lasorella di Rutigliano (BA): il fuoco viene alimentato, dal figulo Vito Lasorella, a getto quasi continuo con cortecce di mandorle (foto famiglia Lasorella).