Modernità e affetti nel Seicento letterario
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Modernità e affetti nel Seicento letterario
Modernità e affetti nel Seicento letterario Simona Morando Come ha osservato Ezio Raimondi nel saggio Lo specchio del barocco e le immagini del presente1, il concetto di modernità del tempo barocco è stato anzitempo discusso in campo artistico e musicale, nonché in quello scientifico, ma ha incontrato più resistenze per la letteratura, e per quella italiana in particolare. E forse in conseguenza di ciò, il barocco letterario, almeno quello italiano, non ha forse mai ricevuto una certificazione assoluta, un lasciapassare definitivo, per l’accesso al canone che regola (nel bene e nel male) la tradizione dei testi anche a livello scolastico. Perché? Forse perché non si sono sufficientemente spiegati i testi cardine del nostro tempo barocco con quelle «cause profonde» dell’eccentricità secentesca che, come suggeriva Andrea Battistini 2, andrebbero davvero reperite, e che renderebbero del tutto evidenti aspetti fondativi della modernità. Se per modernità s’intende l’insieme delle acquisizioni della coscienza più ancora che della conoscenza, che sono frutto di una frattura, ma meglio – e più correttamente, per il nostro sistema assai conservativo – di una maturazione rispetto al passato e alla tradizione, e che porta elementi di novità per i tempi successivi, allora dobbiamo riconoscere che il Seicento pone al centro della sua estetica e della sua poetica temi che poi saranno fondamentali nel tempo moderno, inaugurandolo, quindi. E mi riferisco in particolare a quel Seicento aurorale, il primo tempo barocco, o – se si preferisce – quel prolungato autunno del rinascimento, a cui Mazzacurati, per esempio, ascrive anche Marino, Tassoni e Chiabrera, accanto a Tasso3. Qual è, dunque, la modernità del nostro Seicento letterario? È indubbiamente centrale porsi questa domanda per un secolo che si è fatto attraversare dalla querelle tra antichi e moderni – argomento liminare su cui non mi soffermo data la diffusa e ben nota bibliografia, da Marc Fumaroli a Pasquale Guaragnella4) e che ha cercato di rimarcare da sola 1 E. Raimondi, Lo specchio del barocco e le immagini del presente, in Il colore eloquente, Bologna, Il Mulino, 1995, pp. 3-19. 2 A. Battistini, Il Barocco. Cultura, miti, immagini, Roma, Salerno, 2000, p. 8. Battistini è tornato sul significato del barocco in La cultura barocca tra vocazione al disordine e ricerca dell’ordine, in «Intersezioni», VXII, 2, agosto 2002, pp. 189-206. 3 G. Mazzacurati, Rinascimenti in transito, Roma, Bulzoni, 1996, p. 164: «Occorre ricordare sempre [.] che il Seicento di cui si parla, a proposito di Boccalini e di Tassoni (e di Marino e di Chiabrera, verrebbe voglia di aggiungere), è in realtà un tardo cinquecento che ritrae a sé l’ormai lunga coperta del secolo, senza che nessuno di questi protagonisti dia mai la sensazione o denunci comunque d’aver cambiato letto, d’essere immerso in un altro clima». 4 Mi riferisco ovviamente a La Querelle des Anciens et des Modernes, précédé d’un essai de M. Fumaroli, Paris, Gallimard, 2001. Edizione italiana della préface: M. Fumaroli, Le api e i ragni. La disputa degli Antichi e dei Moderni, la novità della sua contemporaneità, liberando il singolo e la cultura dal principio di imitazione rinascimentale e avviando di fatto un approccio storico nei confronti del passato. Per il Seicento siamo al cospetto di diverse “modernità”: il centrale libro di Battistini e il suo barocco ricco di antinomie, che cercano una via verso l’ordine e la clarté, hanno il pregio di rettificare le interpretazioni che calcano esclusivamente sull’instabilità, sulla mutabilità, sull’illusorietà del Barocco. Così la scienza e la trattatistica intorno alla nascita dei moderni stati hanno un ruolo privilegiato, ma, come già sottolineava Franco Croce, se però noi ci fermassimo a dire che la modernità del Seicento consiste nella scienza galileiana e nelle risoluzioni sulla ragion di stato, dovremmo constatare in sostanza il fallimento di un secolo letterario5. Anche perché si farebbe un grave torto alla stessa cultura secentesca, che – come ha ben spiegato Eraldo Bellini in un suo saggio galileiano6 – non poneva barriere tra scienza e letteratura, ma le distingueva per competenze di verità7. Mi è molto comodo allora richiamare una frase di Raimondi: nel Seicento, scrive, «Non si ha soltanto la scoperta della scienza moderna della natura, ma anche della scienza dell’uomo, dell’antropologia, con l’analisi dei comportamenti, delle apparenze, della guerra permanente dell’uomo con gli altri uomini, in una realtà complessa dominata dal potere, mentre la società si incammina verso la costituzione degli stati assoluti e il singolo deve imparare a governarsi in un universo divenuto più buio e minaccioso»8. La «scienza dell’uomo» quindi. Quella che si affaccia nel Seicento europeo e anche in quello italiano ha i connotati di un’indagine intorno alla persona umana che riunisce diversi campi di interesse: il corpo e le sue capacità sensoriali (già gli studi di Calcaterra era versati in questo senso), l’anima che vi si cela (e su questo tornerò), la capacità dell’individuo di agire sulla scena del mondo giocando le carte della finzione, dell’apparenza e della teatralità, nonché l’artificiosa invenzione, per buona parte italiana, – perché non abbiamo avuto nella nostra storia un Montaigne –della dissimulazione formulata da Accetto a tutto campo. Con essa la scienza dell’uomo ribadisce anche l’importanza dell’eloquenza e della retorica. Ma la via alla scoperta dell’individuo e delle sue problematiche più intime e invisibili è ufficialmente aperta. Milano, Adelphi, 2005; P. Guaragnella, Tra Antichi e moderni. Morale e retorica nel Seicento italiano, Lecce, Argo, 2003. 5 Su questo punto è fermo F. Croce, Introduzione al Barocco, in I Capricci di Proteo. Percorsi e Linguaggi del Barocco, atti del convegno di Lecce, 23-26 ottobre 2000, Roma, Salerno, 2002, p. 27. 6 Er. Bellini, Galileo e le “due culture”, in La prosa di Galileo. La lingua la retorica la storia, a cura di M. di Giandomenico e P.Guaragnella, Lecce, Argo, 2006, pp. 143-78. 7 Mi piace perciò la sintesi di A. Quondam in Il Barocco e la Letteratura, in I Capricci di Proteo, cit., p. 127, che riscontrando nell’inventario di casa Bernini la presenza di tantissima letteratura secentesca accanto al Dialogo galileiano conclude: «Marino con Galileo: l’indicazione è nitida, inequivocabile. Per recuperarla, al nostro occhio reso miope (o strabico) da astratti furori ideologici potrebbero tornare utili proprio i manuali di prospettiva pratica che questa biblioteca domestica raccoglie». 8 Raimondi, Il colore eloquente, cit., p. 12. Se, scrive Raimondi, il Seicento è il secolo della guerra dell’uomo contro l’uomo, esso è anche il secolo in cui l’uomo muove guerra contro se stesso. Dobbiamo pur sempre ricordare che due dei grandi miti di questa modernità sono Faust e Don Giovanni. Personaggi che innescano le procedure dell’individualismo, come ha scritto Ian Watt9, del dissidio interiore e dell’incongruenza del singolo col sistema armonico del mondo divino classico-cristiano. Personaggi di cui lo stesso Seicento ha paura e che esorcizza con le mille varianti teatrali comiche, tragiche, melodrammatiche, e che condanna con la punizione divina. Che non è ciò che poi alla fine importa. Importa invece l’atto di ubris intellettuale (Faust) e passionale (Don Giovanni) che i due miti mettono in campo prepotentemente. Mentre il terzo mito di questo frangente della modernità, Amleto, che a differenza degli altri due non può accettare variazioni, ma si affida ad un’incrollabile riproposta di sé in ogni tempo, cancella anche l’ultima parvenza eroica degli altri due, per inscenare ciò che li riguarda unitariamente: l’inizio della discesa dell’uomo dentro di sé10. Il Seicento è anche il secolo in cui all’evidenza della scienza galileiana (sono concetti che ha ben studiato Giacomo Jori11) si accosta altrettanto fortemente l’evidenza del dubbio (Cartesio), della fragilità tutta umana di poter far fronte alle grandi questioni, ivi compresa la propria identità razionale e sensitiva. Se poi questa riflessione insorgente intorno all’individuo si traduca anche in un’apertura alle ragioni della soggettività in letteratura, è questione ancora da dibattere: il «compiacimento» e la «finzione», sottolineate da Franco Croce, che di fatto assicurano l’apparente «insincerità» e la mancanza di una «passionalità immediata» 12 nei testi barocchi, negherebbe un approfondimento in tal senso. Tuttavia è in questo tempo che l’io e soprattutto l’io intellettuale, abbandonato dalle corti, trova strade oblique, non patentemente autobiografiche, per esprimere se stesso: le vite scritte in terza persona, i libri di lettere sospesi tra exempla retorici e biografia, gli elogi, gli aforismi, gli emblemi 13. La debolezza della ragione è un fatto acquisito (Don Chisciotte, altro mito moderno, la trasforma in romanzo e gioca sulla soglia della follia), che nessun autore seicentesco, neppure il più stoico, riesce a controvertire. I recuperi mistici e metafisici che giustamente Battistini sottolinea come novità moderne del tempo barocco sono possibili solo con l’accantonamento dell’intelletto, con 9 Cfr. I. Watt, Miti dell’individualismo moderno, Roma, Donzelli, 1998, in part. il cap. V. Individualismo, Rinascimento e Controriforma. 10 Tra le secolari interpretazioni scelgo arbitrariamente l’ultima frase letta: «Shakesperare non si limita a riprodurre un clichè dell’epoca [quello dell’uomo malinconico], ma delinea qualcosa di nuovo: descrive la sindrome dell’essere paralizzati dai propri pensieri, del non poter passare all’atto, come dimensioni essenziale della malinconia. Con lui inizia la lunga tradizione che riflette sull’abbandono riflessivo che tarpa l’azione, sulla coscienza che ci fa tutti vili»: da S. Benvenuto, Accidia. La passione dell’indifferenza, Bologna, Il Mulino, 2008, p. 44. 11 G. Jori, Per evidenza. Conoscenza e segni dell’età barocca, Venezia, Marsilio, 1998. 12 Croce, Introduzione al Barocco, cit., p. 28. 13 Su questo si veda M. Slawinski, Agiografie mariniane, in «Studi secenteschi», XXIX, 1988, p. 20, n. 3: «La mancanza di biografie di scrittori nel ‘500 si spiega in quanto finché la letteratura era pensata non come attività autonoma, ma come parte integrale o integrante di altre professioni, poteva esserci scarso spazio per una riflessione sul suo significato, sul carattere dei suoi praticanti, o quanto meno sul rapporto tra opera letteraria e vicenda personale dell’autore». E rinvia alla Pinachoteca di Eritreo del 1643 come origine delle biografie letterarie. quel salto («ictus totius cordis», diceva S. Agostino) che supera d’un colpo distanze insormontabili razionalmente. La chiamata in causa dell’Ingegno supplisce artificiosamente all’impotenza dell’Intelletto e, come ha dimostrato Elisabetta Graziosi in un suo acuto libro del 200414, l’ingegno porta con sé fortemente il problema delle passioni umane. Ecco quindi il punto di approdo più interessante e più futuribile della scienza dell’uomo secentesca: il cuore, sede aristotelica degli affetti e delle passioni 15, è terreno di conquista della letteratura e della riflessione filosofica barocca, all’insegna di una stringente simbiosi tra scienza e umanesimo. Remo Bodei nella Geometria delle passioni del 1992 analizzava gli apporti significativi in questo senso di Spinoza, Hobbes e Cartesio16. Soprattutto Cartesio e il suo trattato Passions de l’âme del 1649 rappresentano la proposta laica e razionale di una proposta di pace nella lunga guerra sul controllo dell’anima, pace che in realtà sarà foriera di un altro più moderno e sottile dibattimento, quello dell’analitica delle passioni e della scoperta dell’io come teatro di affetti. «Niente resta in noi da doversi attribuire alla nostra anima se non i pensieri», dichiara Cartesio: la sua modernità consiste nella nuova ottica fisiologica e meccanicistica delle passioni, capaci però di far arretrare la ragione finché esse fremono nel cuore; e la ragione, di per sé, non è chiamata a reprimere le passioni, ma a ben sceglierle, impedendone le sregolatezze «attraverso quella generosità che si fonda sulla stima di sé» 17; la modernità consiste nella fondazione di una morale scientifica scevra da dipendenze religiose, e nella netta distinzione fra corpo e spirito, che lascia quindi i pensieri autonomi, capaci di creare spazi mentali indipendenti18. Prima di Cartesio, prima del 1649, il dibattito in Francia è molto articolato, così come sono oggetto di indagini le ricezioni cartesiane in Italia19. Meno studiato è lo sviluppo pre-cartesiano in Italia, dove però il tema degli affetti innerva la trattatistica e la letteratura del primo tempo barocco, con una insistenza che merita una riflessione. E postula la conseguente domanda: è possibile attraversare le opere di questo tempo ponendoci dal punto di vista degli affetti? 14 E. Graziosi, Questioni di lessico. L’ingegno, le passioni, il linguaggio, Modena, Mucchi, 2004, pp. 42-9 in particolare. 15 Impossibile dare qui conto della lunga tradizione delle teorie delle passioni espressasi dall’Antichità alla Modernità, né della vasta bibliografia critica di riferimento. Rinvio a Teorie delle passioni, a cura di E. Pulcini, Dordrecht-BostonLondon, Kluwer Academic Publishers, 1989, Atlante delle passioni, a cura di S. Moravia, Bari, Laterza, 1993, Storia delle passioni, a cura di S. Vegetti Finzi, Roma, Laterza, 2004 (2° ediz.), alla voce Passione, desiderio curata da S. Micali nel Dizionario dei temi letterari, vol. III, a cura di R. Ceserani, M. Domenichelli, P. Fasano, vol. III, Milano, Garzanti, 2007, pp. 1845-56, alla quale rinvio anche per la selezionata bibliografia. 16 Rimando anche a A. Battistini, Vives e le passioni, in Vico tra antichi e moderni, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 63100. 17 E. Pulcini, Il declino dell’amour-passion in epoca moderna, in Teorie delle passioni, cit., p. 91. 18 S. Obinu, Descartes e il teatro delle passioni, introduzione a Cartesio, Le passioni dell’anima, Milano, Bompiani, 2003, p. 24. 19 S. Contarini, La retorica degli affetti: dall’epos al romanzo, Pisa, Pacini, 2006; A. Beniscelli, Le passioni evidenti. Parola, pittura, scena nella letteratura settecentesca, Modena, Mucchi, 2000. È indubbio che la musica, l’arte, la poesia sacra e mistica, l’oratoria del Seicento non siano leggibili a prescindere dalla questione degli affetti. Perché dunque l’ingegnosità “profana” dovrebbe avere chiavi di lettura diverse? Gli autori del Seicento non avevano dubbi in tal senso, poesia, pittura e musica avevano tutte lo stesso scopo, muovere gli affetti: e potrei addurre qui numerose citazioni d’autore, da Adone, VII, 1, che equipara Musica e Poesia, al Cesare Rinaldi di Pittura e Poesia suore e compagne, 1602, e molti altri; ma trascrivo questo passo efficace di Alessandro Guarini, 1596, uno dei primi, con Vincenzo Galilei 20, a porsi il problema del parallelo musica-poesia: «se il poeta inalza lo stile, solleva eziandio il musico il suono. Piagne, se il verso piagne, ride, se ride, se corre, se resta, se priega, se niega, se grida, se tace, se vive, se muore, tutti quegli affetti, ed effetti, così vivamente da lei vengono espressi, che quella par quasi emulazione, che propriamente rassomiglianza de dirsi» 21. Oppure basti rinviare, per il versante più praticato del parallelo artepoesia, al Trattato di Gian Paolo Lomazzo (1585) e in particolare al suo Libro secondo del sito, positione, decoro, moto, furia e gratia delle figure, con gli importanti paragrafi intorno alle passioni e ai moti dell’animo, oppure a L’Arte de’ cenni di Giovanni da Bonifaccio del 1616 che poggia essenzialmente su fonti letterarie, come ha sottolineato Paola Casella in un saggio del ’93 22. Esiste dunque un approccio culturale comune alla questione degli affetti nella letteratura e nella trattatistica del primo Seicento. Il punto di partenza condiviso è la teoria delle passioni come la consegna all’età moderna una salda tradizione platonica-aristotelica-cristiana23: una tradizione accademica “vulgata” che intreccia e salda le fonti primarie, tra le quali sono basilari il Platone del Timeo XIV e della Repubblica IV (la divisione delle facoltà dell’anima), il libro II della Retorica di Aristotele, con i suoi 14 affetti principali (piacere-dolore, ira-mitezza, amicizia-odio, paura-ardimento, vergogna-mancanza di pudore, compassione-sdegno, invidia-emulazione), Galeno e la teoria degli umori, di pura applicazione medica, ma anche fusa con l’etica per l’elaborazione fisiognomica24, la tradizione stoica con la terapeutica di ogni passione, e San Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, I-II parte 20 M. Donà, «Affetti musicali» nel Seicento, in «Studi Secenteschi», VIII, 1967, pp.79-8 (p. 79): «Già nel 1581 Vincenzo Galilei aveva scritto che “la parte più nobile importante e principale della musica… sono i concetti dell’animo espressi col mezzo delle parole, e non gli accordi delle parti come dicono e credono i prattici… ”». 21 Prose del Signor Alessandro Guarini [… ] Ferrara, per Vittorio Baldini, 1611, p. 142. Cfr. su questo L. F. Tagliavini, Gli affetti cantabili nella musica di Girolamo Frescobaldi, in Docere delectare movere. Affetti, devozione e retorica nel linguaggio artistico del primo barocco romano, atti del convegno Roma, 19-20 gennaio 1996, Roma, De Luca, 1998, p. 81. 22 P. Casella, Un dotto e curioso trattato del primo seicento: L’Arte de’ cenni di Giovanni Bonifaccio, in «Studi secenteschi», XXXIV, 1993, pp. 331-70 (p. 365). 23 Piuttosto consolidata e vasta la bibliografia sulle passioni dall’età antica alla modernità. Rimando qui solo a Storia delle passioni, cit., e in part. al saggio di M. Vegetti, Passioni antiche: l’io collerico, pp. 39-73, e sempre di Vegetti, L’etica degli antichi, Bari, Laterza, 1989. 24 Cfr. Galeno, Opere scelte, a cura di I. Garofalo e M. Vegetti, Torino, Utet, 1978, p. 966 per gli influssi del Quod animi mores corporis temperamenta sequantur nel Seicento. (II, q. 22-27 in particolare) con la condanna delle passioni, di per sé riconosciute utili, a favore della ragione amante di Dio. In ambito cristiano-cattolico va da sé che il catalogo delle passioni si scinde presto negli elenchi dei vizi capitali e delle virtù, con forza precettistica senza pari. Ed è per questo quindi che, se in età moderna il catalogo non cambia nella sostanza, vengono evidenziate tristezza, disperazione, malinconia come conseguenze nefaste del peccato umano; l’avversione inoltre è pensata anche nel senso della fuga (importante tema barocco) e quasi nullo spazio è dedicato alle passioni positive della gioia e del piacere (si erge solitario il laico elogio del riso di Tassoni, «brillante dilatazione di spiriti»). L’Amore, passione chiave, è ancor di più in questo frangente materia di conflitto per sottrarla alle declinazioni umane e terrene e direzionarla verso fini altri: Patria, Dio, Amicizia, Famiglia. La passione come affectus animi, come malattia che il soggetto razionale deve curare, è ancora un concetto condiviso; ma dietro il problema terminologico si apre un’altra chiave della modernità, consistente nella percezione non più soltanto passiva degli affetti, ma attiva nel meccanismo delle relazioni sociali 25. Credo che lo scorcio culturale cinque-seicentesco sia versato in questo senso, proprio perché il singolo viene agìto sempre in una dimensione pubblica, che da un lato gli impone la presa di coscienza e il controllo delle proprie passioni, dall’altro gli apre uno spazio di solitudine interiore in cui la dissimulazione può avere quiete e può sfogarsi una disamina privata. Nella trattatistica, su cui mi propongo di lavorare in modo più strutturato in futuro, la questione degli affetti, nel primo Seicento, è ancora frutto di un approccio filosofico e non psicologico, è incline a trasformarsi in precettistica morale, piuttosto che in indagine etica e psicologica. Lo spazio privato dell’io sembrerebbe obliterato in virtù di una sua evidenza pubblica. Ma è interessante sottolineare il passaggio da un approccio di tipo fisiognomico, argomento su cui sono centrali gli studi di Lucia Rodler26, che vede giustamente in Giovan Battista Della Porta, Della fisionomia dell’uomo, 1586 un punto di arrivo significativo27, ad uno studio teso finalmente ad entrare per invisibili finestre direttamente nel cuore umano. 25 Su questo punto: Pulcini, Introduzione a Teorie delle passioni, cit., p. 6. Rinvio a tutte le opere della Rodler, a partire dal 1991 al 2002, in particolare Il corpo specchio dell’anima. Teoria e storia della fisiognomica, Milano, Bruno Mondadori, 2000; G. Aleandro, G. Rocco, M. Giovannetti, Esercizi Fisiognomici, a cura di L. Rodler, Palermo, Sellerio, 1996, M. Biondo, Conoscenza dell’uomo dall’aspetto esteriore, a c. di L. Rodler, Roma, Beniamino Vignola Editore, 1995 (l’opera è del 1544), in part. p. 20: «non è ancora iniziato quel percorso di ricerca dell’individuale che si determinerà come malattia spirituale del moderno a partire dal Seicento». 27 G. B. Della Porta, Della Fisionomia dell’uomo, a cura di M. Cicognani, Parma, Guanda, 1988. Il trattato risale al 1586 e aggiunge alla trattatistica fisiognomica classica «due nuove varianti tipicamente rinascimentali e secentesche: l’elemento di instabilità delle passioni, spesso fuggitive ed insondabili, e la relatività storica dei costumi, sempre contraffatti dalle leggi dell’interazione sociale» (da L. Rodler, Una finestra aperta sul cuore, in Aleandro, Rocco, Giovannetti, Esercizi Fisiognomici, cit., p. 12). Cfr. anche G. Ingegneri, Fisionomia naturale nella quale con ragioni tolte dalla fisionomia, dalla medecina, e dall’anatomia, si dimostra, come dalle parti del corpo humano, per la naturale complessione, si possa agevolmente conietturare, quali sieno l’inclinationi, e gli affetti dell’animo altrui, Napoli, Giacomo Carlino, 1606 (poi per Giovanni Roncagliolo, 1611); A. Pellegrini, Della fisionomia naturale d’Antonio 26 La direzione è quella di una classificazione prima e coercizione poi delle passioni, che ben giustifica il giudizio complessivo di «esorcismo delle passioni» che Sergio Moravia sottoscrive per il Seicento28, o di una loro sistemazione all’interno di un quadro precettistico, a volte neo-stoico, che presuppone come dati acquisiti la fine della nobiltà dell’uomo (torniamo quindi al concetto della debolezza della ragione), e la sua collocazione in mezzo ai fortunali della storia. Quest’uomo debole e inerme deve essere fortificato con le Virtù - Prudenza, Fortezza, Costanza - o con la più totale delle abnegazioni a Dio. Cose che spesso coincidono se chi, come il vecchio Chiabrera (che non era un filosofo morale) nei Discorsi genovesi del 1629 ipotizza anche la debolezza della prudenza umana e la necessità di confidare nel Dio di David29. Con perfetta antinomia barocca, però, ciò che si vuole censurare viene esibito e teatralizzato in maniera eccessiva. E quindi, nonostante i propositi, la via alla disamina degli affetti, di tutti gli affetti, sul piano della letteratura è ufficialmente aperta. Abbiamo così lo sviluppo di diverse morali degli affetti, che non ho qui la possibilità di ripercorrere interamente. Una prima si muove in una dimensione latamente laica 30, e annoverando nomi vari, come quello di Tommaso Buoni (Accademiche lettioni di tutte le specie degli amori umani e Discorsi accademici delle grandezze del microcosmo, 1605)31, incontra l’importante libro VI dei Pensieri diversi di Alessandro Tassoni dedicato a Disposizioni, abiti e passioni umane32. Un libro che merita attenzione perché scombina le classificazioni antiche e perché rimanda all’ambito dell’Accademia degli Umoristi, molto interessata al tema degli affetti, come testimonia il ms. Pellegrini, nella quale con bellissimo ordine s’insegna da segni esterni della natura a conoscere gli affetti interni dell’animo dell’huomo… , Milano, Gio. Battista Bidelli, 1623. 28 S. Moravia, Esistenza e passioni, in Storia delle passioni, cit., p. 13. 29 Mi riferisco al discorso accademico Intorno alla debolezza della prudenza umana letto presso l’Accademia degli Addormentati di Genova intorno al 1629. Il discorso parte da un assunto pindarico: «Sorge per breve tempo a’ mortali la letizia, ed immantinente trabocca a terra. Siamo giornalieri. Che è essere? E che è non essere? Sogno di ombra sono gli uomini». Anche gli altri discorsi chiabrereschi ruotano intorno alle virtù cristiane capaci di temprare le passioni: Intorno alla Virtù della Fortezza, Intorno alla Intemperanza, Della Magnificenza, Come si muova, e come si quieti l’Ira e passa alle lodi della Rettorica, Della Tribolazione. Li leggo in Opere di Gabriello Chiabrera e Fulvio Testi, Milano, Bettoni, 1834. 30 Alcune premesse secondo-cinquecentesche: A. Firmani da Fano, De gli affetti del animo. Ragionamenti fatti sopra un trattato di Galeno, in che modo possa l’huomo conoscere se stesso, et emendare la vita sua, Roma, Officina Salviana, 1558; O. Castellano, Discorsi sopra le cause de i movimenti, et delli affetti, et di tutti i governi dell’animo, Vicenza, Perin libraro et Giorgio Greco compagni, 1585. Particolarmente interessante: T. Buoni, Accademiche lettioni di tutte le specie de gli amori humani, Venezia, Gio. Battista Colosini, 1605; Id., Discorsi accademici delle grandezze del microcosmo. Parte seconda de’mondi [… ] nella quale con stile copioso, ricco et eloquante si tratta dell’eccellenza della materia del microcosmo [… ] della nobiltà dell’huomo, de gli affetti in genere, et in specie delle virtù moderatrici di quegli… , Venezia, Gio. Battista Colosini, 1605. 31 Un capitolo a parte meriterebbe la trattatistica sull’amore, dal Casoni Della Magia d’amore, al già citato Buoni, al S. Florio, Ritratto d’Amore, dell’umana naturale felicità, della spirituale essenza e della mondana luce, Parma, 1602 (citato da Pozzi nel commento dell’Adone, Milano, Mondadori, 1976, vol. II, p. 351). 32 L’elaborazione più intensa di questo libro si ha con l’edizione 1612 (Bergamo, Giovanni Maria Verdi) della Varietà dei pensieri, in parallelo con le Considerazioni petrarchesche e con gli Avvertimenti. Cfr. P. Puliatti, Per un’edizione dei Pensieri del Tassoni, in «Studi secenteschi», XVII, 1976, p. 78 in part. la materia del libro VI causò un’aspra polemica con Camillo Baldi di Bologna a causa del patente antiaristotelismo. Pantaleo 44 della Nazionale Centrale di Roma segnalato da Laura Alemanno33. Le accademie romane del resto accendono il dibattito intorno agli affetti, collegando letteratura, arte e modelli antichi, come nell’episodio della interpretazione della Morte di Germanico di Nicolas Poussin34 o come nei discorsi dei Desiosi (Aleandro, Rocco, Giovannetti) raccolti da Mascardi e poi riproposti da Lucia Rodler in un piccolo Sellerio del 1996. In quest’ottica terrena rientrano anche quei saggi che accampano il dominio delle passioni per il buon governo (Il Moncada di Girolamo Pinello, 1608), o un comportamento eroico adeguato a principi e cittadini (segnalo il commento di Ansaldo Cebà ai Caratteri di Teofrasto, 162035). Si tratta di una trattatistica più studiata, che si intreccia con la ragion di stato e il comportamento del singolo, più che i suoi sentimenti (anche i Ragguagli di Boccalini possono stare in questa categoria36), che ha come approdi la Dissimulazione accettiana del 1641, che è anche un trattato sugli affetti, descrivendo quel «cuore nascosto» e virtuoso che preserva i propri sentimenti e la verità, e le profonde e amare riflessioni di Virgilio Malvezzi, sulle quali, dopo le acute analisi di Raimondi, la critica è attualmente molto impegnata. È stato poi merito di Pasquale Guaragnella rileggere i Pensieri medico-morali di Sarpi, intrisi di umori galenici e senechiani, per collocarli al centro di una riflessione interamente barocca sulla morale. Abbiamo infine lo sviluppo di un’importante morale cattolico-cristiana degli affetti, altra cosa rispetto alla trattatistica mistica, che escludo dal mio lavoro. Qui il caso eclatante è il Mascardi delle Romanae dissertationes de affectibus (1639)37, preceduto in questo, nove anni prima, dal Nicolas Caussin dell’Imperio della ragione sulle passioni, edito in Francia nel 1638 e tradotto e pubblicato 33 L. Alemanno, L’Accademia degli Umoristi, in «Roma moderna e contemporanea», III, 1, gennaio-aprile 1995, pp. 97 segg. L’autrice studia la Miscellanea di materiali dell’Accademia degli Umoristi (BNC di Roma, Fondo S. Pantaleo, 44) nella quale vede diversi scritti su «la religione, gli affetti, la definizione dell’Impresa, la politica, la poetica e la scienza» (p. 103). E aggiunge: «numericamente rilevanti sono i discorsi sugli affetti e gli Humori in armonia con il nome dell’Accademia: riso e pianto sono i due argomenti trattati più di frequente, sviluppando di volta in volta un aspetto particolare, come le lagrime, i luoghi della poesia tradizionale in cui si trovano espresse queste manifestazioni dell’animo, la liceità del pianto e del riso, i vari modi in cui si possono esternare» (p. 104). Specifica poi che i discorsi sugli affetti sono 8 per complessive 73 carte. A p. 114 riporta inoltre la notizia di un discorso del 1631 di Antonio Bruni Sulle passioni dell’animo, quali siano più efficaci ad esprimerle o le lacrime o i sospiri. 34 D. Aricò, «Vestire la persona de gl’altri». Le orazioni immaginarie di Virgilio Malvezzi, fra Tito Livio, Guicciardini e Mascardi, in «Studi secenteschi», XLVIII, 2007, pp. 3-4 in particolare. In cui si dice tra l’altro che «al dibattito non rimase estraneo Agostino Mascardi, che coi sodali Umoristi raccolto intorno al cardinale Maurizio di Savoia rifletteva su di una retorica laica delle passioni da avvicinare alle proposte di Nicolas Caussin e Famiano Strada. Questi contributi furono poi raccolti nelle Prose vulgari… » (p. 4). Vedi in particolare il discorso IV Come si permettano ad huomini le lagrime, e le doglienze senza danno della virtù, se più nobile sia la continenza, o la Tolleranza in riguardo della Fortuna o buona, o rea (parte I, discorso IV, pp. 63 segg dell’ed. 1653 delle Prose). 35 I Charatteri morali di Theofrasto interpretati per Ansaldo Cebà. Al Cardinale Federigo Borromeo, Genova, Giuseppe Pavoni, 1620. 36 Cfr. Guaragnella, Tra Antichi e moderni, cit., in particolare Arte del comportamento e sinceritas. 37 A. Mascardi, Romanae dissertationes de affectibus sive perturbationibus animi, Parigi, Cramoisy, 1639. Su questo testo: L. Rodler, Agostino Mascardi e la congettura fisiognomica, in Mappe e letture. Studi in onore di Ezio Raimondi, a cura di A. Battistini, Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 133-52, e l’introduzione ai già citati Esercizi fisiognomici; H. Lotthé, Eloquence et peinture dans la Rome pontificale: Agostino Mascardi, réformateur chrétien de la physiognomie, in «XVIIe siècle», 159, 1988, pp. 141-47. molteplici volte a partire dal 1645 in Italia38. E tacendo ora il lungo e diverso trascorso con il tema degli affetti di Mascardi, (dal Della Tirannide del Piacere dei Discorsi accademici39, ai Discorsi morali sulla tavola di Cebete Tebano, 162740), è con le Romanae dissertationes, che Mascardi compie un’operazione unica e destinata a incidere sulla percezione del sé nella cultura italiana. La fisiognomica diventa materia non delle forme esteriori dell’uomo, ma di quelle interiori: sfingi, centauri, mostri sono immagini persuasive dell’animo insondabile, labirintico, e peccatore dell’uomo. Rendere evidente l’anima agli occhi dei lettori tramite immagini forti è un’operazione di grande finezza barocca. Farla trasparire al di là della «prigione opaca» del corpo è la missione dell’uomo cristiano. La parola, il discorso, sono gli strumenti con cui l’uomo può raggiungere l’obiettivo: l’eloquenza si fa, nella nona dissertazione, come già nell’Arte istorica, strumento della visibilità del proprio cuore, thesaurus cordis. Mascardi da una parte e Accetto dall’altra rappresentano un punto di arrivo pre-cartesiano e agli antipodi di Cartesio; per la cultura barocca italiana un confine su cui sostare a riflettere. Dunque possiamo chiederci arrivati a questo punto: cosa si imprime nella poesia e nella letteratura del tempo di questo fervore gnoseologico intorno agli affetti? La domanda è assolutamente pericolosa e rischiosa, soprattutto se ci si intende muovere fuori dagli spazi del teatro, che come è prevedibile assume su di sé un ragionamento intenso intorno alle passioni e alla loro rappresentazione41. Eppure bisogna porsela se vogliamo dare contenuto, un 38 L’imperio della ragione sopra le passioni. Del Padre Nicolò Causino della Compagnia di Gesù, portato dal francese nell’italiano dal Padre Carlo Antonio Berardi dell’istessa Compagnia, all’Ill. Ecc. Sig. D. Ascanio Pio di Savoia, Bologna, Carlo Zenero, 1645. Sono 14 trattati che ricalcano il catalogo delle passioni secondo Aristotele-San Tommaso: odio, desiderio, avversione, piacere, tristezza, speranza, disperazione, paura, ardire, vergogna, ira, invidia e gelosia, misericordia e compassione. Importanti gli esempi storici offerti (in particolare indica in Maria Stuarda una «Historia dove è visibile il combattimento di tutte le passioni). Premessa ai trattati è Il Giuditio delli spiriti che serve di fondamento al discorso delle passioni, nel quale si ribadisce la divisione dell’anima in sensitiva (concupiscibile e irascibile) e razionale, col catalogo delle passioni ad esse collegate. 39 Cfr. l’edizione Genova, Franchelli, 1705, pp. 142-77. 40 In particolare la parte II, discorso II Delle cose indifferenti, e nominatamente de’ piaceri, e de gli affetti. La trattazione degli affetti è tutta svolta nel contesto del tema della «pazza Fortuna», madre di Libidine e Avarizia (discorso V), e da cui discendono affetti negativi (Adulazione, discorso VI e VII), e del forte giudizio vendicativo di Dio sui comportamenti umani (discorso VIII), da cui discendono Malinconia, espressione della colpa dell’uomo (IX) e lacrime (dovute alle scelleratezze, X), con conseguente disperazione (XI) e Infelicità (XII). Il ragionamento di Mascardi intorno agli affetti è comunque complesso e articolato, includendo anche l’Arte istorica in unione con la retorica. 41 Particolarmente interessante il testo di F. Gualandri, Affetti passioni vizi e virtù. La retorica del gesto nel teatro del Seicento, Milano, Peri, 2001, che molto sinteticamente mostra come una dotta precettistica gestuale per gli attori muova da fondamenti fisiognomici. Sulla forte espressività affettiva dei gesti attoriali si era già espresso del resto (come mi segnala Franco Vazzoler, che ringrazio) Flaminio Scala nel prologo al Finto marito, in R. Tessari, Commedia dell’Arte: la Maschera e l’Ombra, Milano, Mursia, 1981, pp. 120-22. E va da sé che la commedia dell’arte e la tecnica del recitar all’improvviso presuppongono una studiata e acquisita consapevolezza dell’espressività degli affetti tramite gesti, lazzi, e parole. Dal punto di vista teorico sulle passioni a teatro in Francia nella seconda metà del Seicento il panorama è molto complesso data la casistica di Corneille e Racine: cfr. ad esempio C. Gallotti, Un capitolo del confronto ragionepassioni: il dibattito sul teatro, in Teorie delle passioni, cit. pp. 75-88. In un contesto italiano cfr. Battistini, Le retoriche del Barocco, in I Capricci di Proteo, cit., p. 94, S. Contarini, “Il mistero della macchina sensibile”. Teorie delle passioni da Descartes a Alfieri, Pisa, Pacini, 1997; P. Cosentino, Oltre le mura di Firenze. Percorsi lirici e tragici contenuto e non secondario, all’ingegnosità retorica42, che resta la cifra del Seicento. Come ammoniva Franco Croce nella Introduzione ai Capricci di Proteo, non bisogna cercare altro senso profondo del barocco fuori dall’artificio retorico che lo determina. E infatti ingegnosità e affetti non vanno separati, come traspare dagli stessi teorici del barocco che definivano con Matteo Peregrini lo statuto eminentemente formale dell’acutezza, e assorbivano le passioni nelle classificazioni retoriche, come nelle Fonti d’ingegno sempre di Peregrini, nel 165043. Emanuele Tesauro, invece, che le stesse fonti d’ingegno omaggia, non intese subordinare gli affetti alle figure del dire, soprattutto quando il furore, alterazione della mente pronta alla poesia, è sollecitato dalla passione, dall’amore, dal dolore, dallo sdegno, dall’ira: «Egli è certa cosa, che le Passioni dell’animo arruotano l’acume dell’Ingegno humano: & come parla il nostro Autore, la perturbatione aggiunge forza alla persuasione. Et la ragione è, che l’affetto accende gli Spiriti, iquali sono favelle dell’Intelletto: & la imaginatione affitta a quel solo obietto; in quell’uno minutamente osserva tutte le circostanze benche lontane», così nel Cannocchiale aristotelico44, dove peraltro si osserva che se le passioni aguzzano l’Ingegno (quello speculativo e quello pratico), esse addormentano però il giudizio e quindi la capacità razionale di discernimento della Ragione. Nelle categorie argute, poi, le passioni dell’anima concupiscibile si declinano in figure patetiche tanto più forti quanto più utili sono le passioni a «avvivare» l’orazione. Dopo un riconoscimento al furor e all’afflato, quindi, ecco che la griglia metaforica torna a imbrigliare gli affetti, restituendo un quadro teorico compatto e molto sorvegliato. In Tesauro questo quadro, in mancanza del volume riguardante gli affetti sul secondo libro della Retorica di Aristotele, contempla anche il trattato La filosofia morale (1671)45, su cui la critica si è già spesa. In un primo tempo barocco però il tema degli affetti godeva spesso di un’autonoma visibilità anche nella definizione della poetica dei moderni. Conviene dunque rispettare alcuni punti fondamentali che gli stessi autori riconoscevano (ne elenco alcuni): del Classicismo rinascimentale, Menziana, Vecchierelli, 2008, in part. le sottolineature sulle virtù-passioni femminili nella tragedia cinquecentesca, ma con interessanti ricadute sulla scena secentesca, pp.117 segg. 42 E nello stesso avvertire sempre, sotto la coltre retorica, «il disorientamento di un vuoto interiore» (Battistini, Il Barocco, cit.). Vuoto che da solo ascriverebbe la poesia barocca all’espressività moderna. Siamo al paradigma poesia barocca = vacuità? Risponde a questa domanda sempre Battistini a p. 135: «Per quanto cerebrale e artificioso, il concettismo non è privo di passione, solo che questa viene riscaldata al calor bianco di un’implacabile intransigenza intellettuale, subito riversata in immagini sensibili nel tentativo di riconciliare l’altra frattura sorta tra le istanze pdagogiche dell’”utile” e quelle edonistiche del diletto». 43 Mazzocchi, La riflessione secentesca su retorica e morale, in «Studi secenteschi», XXXVIII, 1997, p. 21. 44 E. Tesauro, Il Cannocchiale aristotelico o sia idea dell’arguta et ingegnosa elocuzione [… ], Torino, Bartolomeo Zavatta, 1670, ristampa anastatica, Savigliano, Editrice Artistica Piemontese, 2000, p. 90. 45 Dove si assiste, come scrive la Mazzocchi, cfr. supra, ad una «”proverbializzazione” dell’etica, che riduce a norma assoluta il comportamento morale avallando pregiudizi e luoghi comuni» (p. 56). Sul nesso passioni-retorica cfr. anche Battistini, Retoriche del Barocco, in I Capricci di Proteo, cit., p. 76, dove si riconosce l’aporia della retorica secentesca di includere tutto, anche le materie più sfuggenti come le passioni. 1. Camillo Pellegrino definiva già nel 1598 (Del concetto poetico») il concetto, principio primo della poesia secentista, come «sentimento» oltre che come «sentenza», unendo così il contenuto, legato ai moti del cuore e dell’anima, all’invenzione retorica. 2. La poesia non eroica, non narrativa, non satirica, cioè la lirica, è definita proprio in base alla sua capacità di «descrivere passioni ed affetti», come sottolinea Alessandro Tassoni nel suo famoso libro X, cap XIV Poeti antichi e moderni dei Pensieri46. 3. La critica, e soprattutto quella a Petrarca, che è uno dei laboratori indiscussi della poetica barocca, si configura essenzialmente come critica degli/agli affetti di Petrarca. Si vedano in particolare le lezioni degli Essercitii accademici di Cebà, tese a sceverare ad esempio il sentimento della vergogna in Petrarca47… e si veda anche il commento tassoniano del 1609 pronto a scovare i concetti poco attendibili di Petrarca, tra cui l’espressione degli affetti . 4. Da qui ne deriva una messa in mora dell’affetto più praticato dalla poesia petrarchista, cioè l’amore: al di là delle apparenze, è l’affetto al quale si mette più volentieri il silenziatore o la maschera nel Seicento (Amore dormiente è anche uno dei grandi temi figurativi) a favore di una sua declinazione a 360° nei trattati e in poesia, da quello sensuale, esibito e castigato ad un tempo, a quello figliale, amicale, paterno e materno (per cui Marino gioca a confondere l’amante con la madre… ). E del resto la lirica si organizza in macrotesti che di per sé mimano un catalogo esploso di affetti derubricando l’amore (lugubri, sacre, amorose – cioè dolore, pietà, piacere), come peraltro i libri di lettere divisi in Capi: “severi”, “maninconici”, “giocosi e gratiosi”, secondo Giulio Cesare Capaccio, Il Secretario, 158948. 5. I generi nuovi come il romanzo e, soprattutto, la pastorale, con il suo sviluppo melodrammatico, si fanno carico di affrontare il tema degli affetti. La modernità del Seicento non consiste infatti nel fatto che nascono generi letterari nuovi, ma che questi generi nascono proprio con l’intenzione di portare anche nuovi contenuti. Per la pastorale a fare scuola sono i casi di Aminta, del Verrato di Guarini con la delega alla pastorale di rappresentare «gli affetti mossi ma rintuzzati» e di «purgar gli animi dal male affetto della maninconia» 49, o l’exemplum accademico della Filli di Sciro del 46 A. Tassoni, Prose politiche e morali, a cura di P. Puliatti, Roma, Laterza, 1977, vol. II, p. 316 Lettione sopra il sonetto del Petrarca Solo, e pensoso i più deserti campi, Lettione sopra il sonetto del Petrarca Vidi fra mille donne una già tale, in A. Cebà, Essercitii accademici, Genova, Pavoni, 1621: Cebà si rifà alla teoria delle passioni tradita dagli auctores: «imperoche amore, secondo che dicono tutti i Filosofi, non è altro che desiderio di bellezza [… ] l’altro amore [… ] è libidine (Pausania appresso Platone)… » (p. 3). 48 Cito da L. Matt, Teoria e prassi dell’epistolografia italiana tra Cinquecento e primo Seicento. Ricerche linguistiche e retoriche (con particolare riferimento alle lettere di Giambattista Marino), Roma, Bonacci, 2005, p. 37. 49 Guarini si basa su Aristotele, ma non si fa scrupolo di riscrivere le finalità della commedia e della tragedia, e di ragionare sul vero senso della parola “purgare”, da intendersi come i medici, cioè nel senso della moderazione e della riduzione delle affezioni e non nella loro dissoluzione per catarsi. Il suo punto di partenza scientifico è la teoria degli umori di galenica impostazione, ma è evidente poi la sua applicazione cristiana, quando sancisce le due vite dell’uomo: corporale e spirituale e punta tutto sulla purificazione dell’anima. Cfr. G. Guarini, Opere, a cura di M. Guglielminetti, Torino, Utet, 1971, pp. 763 segg. 47 Bonarelli. La tradizione melodrammatica, non a caso, si apre col ricordo del mito di Orfeo, poeta in grado di smuovere affetti fin nel profondo inferno. Sul romanzo poi, basti rinviare ai recenti studi di Roberta Colombi 50 e alla sua giusta scommessa sulla Stratonica di Luca Assarino per individuare quel filone del romanzo italiano, che esibisce elementi di analisi psicologica e di fisiopatologia amorosa. C’è inoltre un punto fondamentale da cui è opportuno partire per esplorare la dinamica degli affetti nella poesia secentesca. Risillabare Petrarca e sminuire la sua passione amorosa voleva dire anche spezzare il legame che unisce, nella nostra tradizione, il furor amoris alla natura dubbiosa e flemmatica dell’uomo, che da Petrarca passa per approdare direttamente a Tasso. Tasso, oggetto come è noto, di polemiche che costituiscono uno dei punti di avvio della modernità letteraria italiana (è l’inizio della querelle moderni-antichi) è ovviamente il bersaglio ideale e la pietra di paragone dei poeti del Seicento, che evitano la sua dinamica degli affetti, ritenuta troppo pericolosa. È ancora fondamentale a mio avviso la lezione di Giovanni Getto su Tasso, che individua il fulcro della poesia tassiana nel «ritmo sentimentale e in un’atmosfera interiore [… ] nella perenne illusione e delusione della vita»51, perenne, appunto, e impossibile a decidersi, in un’anima senza contorni, senza reali pentimenti (che è ciò che importa) e dunque da controllare nell’ottica barocca. Molto chiara era la dinamica ai poeti secenteschi: si pensi a quella canzone di Fulvio Testi in cui “Si celebra la continenza del Serenissimo Principe Alfonso d’Este - Già de la Maga amante) che comincia proprio con il ricordo dell’amore tra Rinaldo e Armida e si stigmatizza quella «reliquia ardente» che dopo il distacco dalla maga resta nell’«agitata mente» del cavaliere52. Se dunque la trattatistica sugli affetti si impegna a regolare e contenere i liberi impulsi delle passioni (pur descrivendoli con dovizia di particolari), la poesia coeva arretra di fronte all’eredità patetica tassiana, correggendola ove possibile. Un esempio per tutti: l’Erminia suicida di Chiabrera nell’eponimo poemetto del 1605, una fine quasi giustificata per il suo sentimento irrequieto53. 50 R. Colombi, Lo sguardo che «s’interna». Personaggi e immaginario interiore nel romanzo italiano del Seicento, Roma, Aracne, 2002; ha curato anche un’edizione di L. Assarino, La Stratonica, Lecce, Pensa, 2003. 51 G. Getto, Interpretazione del Tasso, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1967, p. 335. Cito anche da p. 352: «La poesia del Tasso è tutta in questo sentimento della solitudine dell’uomo, della sua romita concentrazione in una passione, in questa coscienza dell’inarrestabile labilità della vita e della fugacità delle sue amabili lusinghe». Trascrivo inoltre da T. Wlassics, Il Tasso del Galileo, in «Studi secenteschi», XIII, 1972, p. 124, n. 13 questa osservazione tratta a sua volta da J. G. Simpson, Le Tasse et la litterature et l’art baroques en France, Parigi, 1962, p. 37: «Cette tristesse epuisée [… ] est le ton meme de la poésie subjective du Tasse [..]. Elle nous rappelle les tourments du poète, et par les horizons illimités et solitaires qu’elle ouvre, nous sépare du mond clair et assuré de la Renaissance, pour nous plonger dans des espaces infinis. [… ] Mais après le Tasse, l’art baroque se fait en général plus joyeux, et personne ne l’a suivi alors dans l’expression intime de son propre désespoir». 52 Opere di Gabriello Chiabrera e Fulvio Testi, cit., p. 394. 53 G. Chiabrera, L’Erminia, in Id., Opera lirica, a cura di A. Donnini, Torino, Res, 2005, vol. I, pp. 345-51. Si può dunque avallare una sorta di anti-tassismo strutturale della poesia secentesca. Definendo così, in modo un po’ tranchant, le modalità con cui gli autori di poesia del primo tempo barocco decidono di non affrontare la sensazione di non-finito, di patetismo perdurante dei personaggi di Tasso, incapaci di farsi governare da una ragione più salda (il dolore di Tancredi per Clorinda, l’amore vero di Rinaldo, il vero smarrimento di Erminia), ma anche l’ «utopia erotica», come la definisce Borsellino, dell’Aminta, che stringe in un solo nodo l’amore naturale e la libertà individuale. Di fronte a questa situazione, non è fuori luogo affermare che a continuare il patetismo di Tasso in età barocca siano da una parte Claudio Monteverdi (Combattimento di Tancredi e Clorinda54), dall’altra l’ampia tradizione pittorica della Gerusalemme liberata. Poi bisognerà aspettare il forte e ripensato patetismo di Metastasio e del Settecento perché le passioni evidenti di Tasso – come ci ha spiegato Alberto Beniscelli – siano recepite e interiorizzate. Porto in conclusione l’esempio di Giambattista Marino e dell’Adone, di cui è nota la tensione al superamento dell’epos tassiano. La modernità del poema mariniano, sia confrontata con l’epoca in cui apparì, sia confrontata con la sua possibile attualità, è un argomento complesso e parallelo al suo inserimento nel canone della letteratura italiana. Io non entrerò direttamente nella questione: ricordo solo il Postscritto di Pozzi all’edizione Adelphi 1988 dell’Adone e la Conclusione di Guardiani al suo La meravigliosa retorica dell’‘Adone’o sempre di Guardiani la riflessione sul post-moderno mariniano55: e aggiungo però che se pensiamo, come Guardiani, di trarre una «lezione di vita» dal poema mariniano o se pensiamo, come molti, di avvertire l’unico fascino della grande macchina narrativa o anti-narrativa dell’opera, la modernità di Adone rischia di sfuggirci come Dafne in eterno. Proporre una chiave di lettura legata agli affetti non è altrettanto definitivo. Aiuta solo a scendere nelle «cause profonde» di questo poema, a cui deve qualcosa anche la nostra modernità. Marino si dimostra molto avvertito nella delicata questione degli affetti tassiani. Se la Gerusalemme liberata viene recepita nel Seicento come il poema degli affetti, l’Adone evita accuratamente questa possibilità (già Villani parlava dell’assenza degli «aculei degli affetti» nel poema). E si potrebbero citare ad esempio due sonetti, uno di Antonio Muscettola (1628-69) che dona la Gerusalemme liberata56 alla sua donna potendo rispecchiare totalmente nelle vicende del poema i moti del suo cuore («Il mio petto [..] ivi si vede»); l’altro di Gian Francesco Maia Materdona, pronto invece a 54 Si veda l’eloquente A chi legge preposto da Monteverdi a prefazione dei Madrigali guerrieri e amorosi del 1638, tra cui c’è il Combattimento (in Donà, «Affetti musicali» nel Seicento, cit., p. 83). 55 Guardiani, Anatomia di un gap: fra tramonto del rinascimento e alba della modernità, in «Studi rinascimentali», 2, 2004, pp. 115-20. 56 A. Muscettola, Queste a cui chiaro stil mille comparte, introdotto dalla didascalia Partendo dalla sua donna le dona la «Gerusalemme» del Tasso, in Lirici marinisti, a cura di G. Getto, Milano, Tea, 1990, p. 386. donare alla sua donna l’Adone, ma, pur ribadendo il plot dolente del poema (andiamo quindi nella direzione degli ultimi studi di Marco Corradini, sulla tragicità di Adone57), ribadisce la sola finzione del dettato mariniano contro la veridicità degli affetti reali: «tutte menzogne son, tutte son fole / Sol verace è l’amor, vago mio Sole, / Sol verace è ‘l martir ch’io nel cor sento; / là [nel poema] pinto è ‘l duolo, e qui vivo ‘l tormento, /qui traboccano affetti e là parole»58. Lo stesso Marino, in un passo dell’idillio Proserpina, non nasconde di concepire la sua poesia lontana dall’espressività passionale, delegando questa funzione alla pittura o a un miglior plettro: «Narrar gli affanni e i pianti / d’una madre, che perde / l’amata prole, et orba / d’ogni suo ben si lagna e s’addolora, / impossibil mi fora. / Quindi al pensier pietoso / quanto si tace, imaginar ne lascio; / e del greco pennello / imitator novello, /con l’accorto velame /d’un silenzio facondo / quel ch’esprimer non so, copro et ascondo»59. La voluta reticenza («copro et ascondo») credo vada responsabilizzata. C’entra con le modalità generali con cui Marino intende approcciare il tema degli affetti qui e nell’Adone. 1. Intanto egli si rifà, in generale, ad una teoria degli affetti neoplatonica e di lettura controriformistica60, di cui visibile traccia è la sintesi di Adone, VII, 1-3 a proposito delle «cure insane» insufflate nel cuore da musica e poesie accompagnate da «metro lascivo». Marino non è trasgressivo in questo. In perfetta linea con il clima pre-cartesiano e con le teorie degli affetti controriformistiche, l’uomo è per Marino un corpo-carcere di un anima divina. Carcere stupendo, i cui sensi – come è noto – vengono tutti esaltati; ma in questa esaltazione è l’anima, cosa salda e non aerea, a cedere. Come si preoccupa di stabilire in Adone, XV, 3, il corpo deve far trasparire i segni della bellezza interiore e non ingombrarla con i sensi: «Come la corporea beltà chiaro argomento / suol dar di non men bella alma gentile, / per cento indizi dinotando e cento / di nasconder in sé forma simile. / E quasi velo dilicato e lento / o qual cristallo limpido e sottile, / fa tralucer di fuor gl’interni lumi / de’ signorile e candidi costumi». Se i sensi prevalgono, allora succede quel che succede quando Lilla danza di fronte a Fileno innamorato, il quale sente la sua anima calpestata 57 M. Corradini, «Adone» tragico, in Instabilità e metamorfosi dei generi nella letteratura barocca, atti del convegno di Genova (5-7 ottobre 2006), a cura di S. Morando, Venezia, Marsilio, 2007, pp. 3-26; e poi molto ampliato in Adone il tragico e la tragedia, in «Studi secenteschi», XLVIII, 2007, pp. 39-87. 58 G. F. Maia Materdona, Queste carte che Pindo ammira e cole, didascalia Dona alla sua donna l’«Adone», in Lirici marinisti, cit., p. 313. 59 G. Marino, Proserpina, vv. 1170-1181, in La sampogna, a cura di V. De Maldé, Parma, Fondazione Pietro BemboUgo Guanda editore, 1993, p. 340. 60 Sui rapporti di Adone con la fisiognomica cfr. M. C. Cabani, Marino si diverte? Le armi del comico: gioco, scherzo e riso nell’«Adone», in Instabilità e metamorfosi dei generi nella letteratura barocca, cit., pp. 27-49. F.o Guardiani, La meravigliosa retorica dell’‘Adone’, Firenze, Olschki, 1989, p. 115: «Il dualismo tassiano tra corpo e anima, tra realtà sensoriale e assoluto ideale, rimane nell’Adone. Rimane, appunto, perché il Marino non si prova nemmeno a risolvere la dicotomia: accetta come fatto inalterabile lo status quo, contiene l’angoscia che aveva invaso il Tasso e rinuncia così alla disperazione. Questo si traduce, nell’elocutio, in una intensificazione cosciente e scaltra delle articolazioni verbali decentralizzanti nelle quali era “caduto” il Tasso ed in una fiducia totale nel potere evocativo della parola, anzi nel riconoscimento della sua autonomia». dagli stessi passi della ninfa. L’anima cioè è cosa finita, quasi materica, e in questo Adone è sulla stessa linea dei coetanei Don Giovanni e Faust: «Amor mio, tu mi porti in gloria l’anima», esclama el burlador mentre i suoi sensi fisici si accendono per Tisbea (prima giornata, scena XVI61); e Faust non può disgiungere corpo e anima nel suo impegno di sangue col diavolo, perdendo entrambi nello strazio, nonostante speri alla fine in una loro dissolvenza: «Corpo, trasformati in aria… Anima, mutati in piccole gocce d’acqua» (scena XVIII; V. III)62. 2. Per prendere le distanze da Tasso avviene una trattazione non in chiave interiore e psicologica del sentimento amoroso (da qui la percezione di assenza di sentimento di Calcaterra e altri63, e il suo rovesciamento nel pan-sensualismo sottolineato da Pozzi). Questa visione si lega anche ad una evidente linea moralistica, nonostante il fulgore carnale del poema, esplicita nel canto VI, allorché è Venere stessa ad ammonire Adone a star distante dal suo crudele figlioletto Amore descritto ferocemente per tutto il canto (Adone, VI, 155 segg.). Ciò significa che la festa dei sensi, la varia «expression des passion [… ] d’amour» già sottolineato da Chapelain nella préface, in realtà nasconde anche una forte censura dell’argomento sentimentale e un pesante giudizio morale: «smoderato piacer termina in doglia» (I, 10), come sappiamo. Non solo perché Marino ami sollecitare il conclamato nesso Amore-Lagrime (VI, 162), ma prorio perché quella che Pozzi definiva come «l’organizzazione dei sentimenti», o come «autentica disposizione al patetico» muove sempre da uno «smoderato piacer» per sfibrarsi traumaticamente nel lutto e nella separazione, seguendo un percorso così scandito da Pozzi: ebrezza, incanto, deliquio, spasimo. Come sostiene Corradini 64, Marino non crede alla possibilità della ragione di governare le passioni, può solo dissimularle con la parola e seguirne l’inevitabile tragedia finale, sanguinosa. Sul versante figurativo la pittura di Francesco Cairo65, segnalata da Pozzi nel commento, come pendant tragicamente passionale a Marino, potrebbe forse aiutarci a visualizzare lo sfondo scuro su cui Adone si muove. Ma è un accostamento che fa problema. Perché se è pur vero che Marino evita accuratamente il nesso amore-pietà tanto caro a Tasso (il suo Amore è abile nello «schernir pietate», VI, 167), è poi anche nel comico e nell’emblema che si ritrova, come nella romanzesca vicenda del 61 Cito da Tirso de Molina, Molière, Da Ponte, Horvàth, Don Giovanni. Variazioni sul mito, a cura di U. Curi, Venezia, Marsilio, 2005, p. 73. 62 Cito da C. Marlowe, Il Dottor Faust, a cura di N. D’Agostino, Milano, Mondadori, 1983, p. 169. 63 «Non c’è forse poeta che più del Marino sia fedele alla tematica amorosa e che a un tempo sia più alieno dal far vibrare la corda del sentimento amoroso nei suoi lettori. [… ] Vale spesso per ogni tipo di lirica, ma vale sempre per il Marino il principio che il tema amoroso è un pretesto per un altro discorso. Si constata anzitutto che questo discorso riguarda in molti casi la poesia stessa nel suo farsi, nel suo sperimentale procedere»: A. Martini, Introduzione a Giovan Battista Marino, Amori, Milano, BUR, 1995, p. 26. 64 Corradini, Adone il tragico e la tragedia, cit., p. 57. 65 Si veda F. Frangi, Francesco Cairo, Milano, Umberto Allemandi & C., 1997 e Francesco Cairo 1607-1665, catalogo della mostra di Varese, 1 ottobre-31 dicembre 1983, Varese, Bramante Editrice-Edizioni Lativa, 1983, Introduzione di Giovanni Testori, in cui particolarmente interessante per i raffronti con Marino è il saggio Le metafore dipinte di Francesco Cairo e le immagini oratorie dei predicatori, dei lirici e dei tragici di F. M. Ferro, pp. 39-52. canto VI e nella zuffa di Amore- Morte. Ossimoro tassiano, questo, carissimo a Marino, come ricorda Battistini in un saggio del 200766, che viene risolto però in chiave romanzesco-picaresca e morale. 3. Tasso, per Marino, si supera anche ovviando a quello che è il vero pericolo della sua dinamica degli affetti: lasciare campo libero all’immaginazione del lettore. Marino va oltre l’immaginazione e si affida ad una parola che racconta tutto, che dice tutto senza lasciare il lettore libero di lavorare con la propria testa e col proprio cuore, semplicemente trasformandolo in un voyer. Si supera Tasso con l’eccesso e l’oltranza, tanto meno pericolose del detto e non detto, dell’umbratile “sfumato” di Tasso. Si veda a questo proposito Adone, VIII (I Trastulli) dove c’è il topos della natura amante, su cui ha detto cose importanti Silvia Contarini a proposito degli affetti tassiani 67, e la visione, ottave 58-60, del satiro che possiede la ninfa sotto gli occhi di un Adone rosso di vergogna. A differenza che in Aminta atto III, scena prima, che viene richiamata esplicitamente da Marino68, qui lo stupro riesce. E la ninfa, ritrosetta in prima istanza, poi ricambia i baci furati: lo scavalcamento di Tasso si ha quindi ostentando l’amplesso e rendendo Adone testimone, il quale non sforza con lo sguardo, come Aminta, e con il turbamento del lettore, la ninfa denudata, ma come in un manuale meccanicistico sulle passioni, lascia che la semplice vista della scena inneschi in lui la perturbazione del desiderio amoroso e la conclusione ovvia del canto, gli amplessi con Venere69. 4. Ma l’invenzione davvero moderna e importante, da sottolineare in conclusione, che Marino congegna per rimarcare la sua “distanza” dal patetico tassiano, è implicita nel titolo stesso del poema. È lo stesso Adone, un personaggio anti-tassiano di per sé, non in grado di esprimere e trasmettere affetti: non virile, non eroico70, Adone rinvia ad un nuovo tipo di personaggio, inattivo, passivo e debole, che può portare anche ad una sua evidenza comica, come ha dimostrato la Cabani 71, e quindi ad uno smorzamento del pathos di per sé. Ma come già sollecitava a intendere Pozzi nel Poscritto adelphiano del 1988, il personaggio di Adone è anche un invito ad una «perlustrazione dell’inconscio», per il suo essere un novello Narciso, pericolosamente speculativo e perfettamente in sintonia con la «passione dominante» della modernità, come la definisce Elena 66 A. Battistini, «Paradiso infernal, celeste inferno». Ossimori d’amore nell’Adone di Giovan Battista Marino, in «Seicento e Settecento», II, 2007, pp. 99-110. 67 Contarini, Una retorica degli affetti: dall’epos al romanzo, cit., pp. 9-28 in particolare (“Et in Arcadia ego”: l’iscrizione degli affetti nella Liberata). 68 Si noti ad esempio come sia Adone che Tirsi e Aminta siano attirati sulla scena prima dai lamenti (suoni) e poi vedano («miriamo», in Aminta; «vide» in Adone con l’immagine comica degli occhi che cadono nel fonte per la vergogna… ). 69 Cfr. per questo passo e per la moralistica sentenza di Marino «Flora, non so, non so se Frine o taide» che chiude l’ottava del satiro cfr. Cabani, Marino si diverte?..., cit., p. 44. 70 Un interessante paragone tra l’umanità di Adone, appunto definita anti-epica e sessualmente ibrida, e il mondo animale è tracciato dalla Cabani, Le parole del cinghiale: Adone, XVIII, 236-239, in «Studi secenteschi», 2005, pp. 7189. 71 Cabani, Marino di diverte?..., cit. In particolare sulla natura di Adone p. 28. Pulcini: l’amor di sé72. In base a questo, Adone è artefice del suo destino, al di là del fato e del percorso di conoscenza offertogli, e al di là delle insistenti parvenze cristologiche imputategli dalla critica73. La modernità degli affetti nel poema mariniano sta a mio avviso proprio in questa evidente vacuità dell’io rappresentato da un Adone spesso in preda ad una moderna noia esistenziale74, notata anche da Russo nella sua monografia e da Cherchi in precedenza, o ai fantasmi dei sogni. E a sostegno di questa riflessione basti citare qui il c. III dell’innamoramento, dove Venere appare sempre descritta in atti e gesti (gli effetti degli affetti), mentre Adone, inerme, è descritto per sogni e pensieri che si legano col tema del meriggio, momento clou della riflessione statica e dell’akedia75, senza sbocco nell’Ira, e mai risolutiva e sublime per il garzone troppo candido, perso nel labirinto della sua libidine e come tale reso fragile e svirilizzato, inerme perché colpito nei sensi. «Muto veggioti e pensoso» lo incontra al canto V, 16 il nipote di Atlante, prima di raccontargli la favola di Narciso, anch’essa tragedia del meriggio (ottava 21). Ed è su questa soglia a mio avviso che Adone abbraccia i grandi miti del Faust e del don Giovanni, narcisi della mente e del corpo al punto da perdersi. Come si perde Adone, del resto. Ma, a differenza di don Giovanni e Faust, la sua morte è anche un momento di grande bellezza, che il Morazzone deve dipingere da par suo (XVIII, 99). La composta ed armoniosa bellezza inseguita da Marino sempre su per li rami della tradizione lirica raffrena il pathos, qui, nei languidi occhi morenti del giovane, come altrove. Estetica e inettitudine innervano il nuovo modello di personaggio di Adone, di cui si potrà inseguire la non labile traccia nella letteratura che verrà. Innamorato della sua immagine come Narciso, ma come Narciso incapace di scrutare le pieghe della sua anima, Adone porta sulla scena letteraria un individuo che non incide sulla storia, ma ne subisce le vicende passivamente, senza cavarne nemmeno una lezione, come resta ignoto a se stesso nello specchio torbido in cui si riflette. 72 «Dagli incerti e conflittuali scenari seicenteschi alle più serene prospettive settecentesche, l’età moderna sembra essere percorsa da una passione dominante, sintomo della emergente sovranità individuale: è l’amor di sé, espressione emotiva di un Io che si libera da involucri cosmici e da imperativi trascendenti e tesse autonomamente il proprio destino, diventando protagonista della propria vita e della propria storia»: Pulcini, La passione del moderno: l’amor di sé, in Storia delle passioni, cit., p. 133. 73 Anche Corradini, «Adone» tragico, cit., sulla scorta di Pozzi, che pensava anche ad una natura ascetica di Adone. Se Adone è cristoforme, allora l’eresia mariniana («relativizzazione delle certezze della fede») è parecchio disinibita: Adone-Cristo non agisce e non salva né se stesso né altri. Si tratta di un punto interpretativo da considerare ancora econ diversi strumenti in altra sede. Si veda anche la metamorfosi narrativa di Adone personaggio, in particolare all’altezza del canto XVII per P. Cherchi, La metamorfosi dell’Adone, Ravenna, Longo, 1996, cap. 3 Il Distacco e l’inutile rimedio. 74 E. Russo nel suo recente Marino, Roma, Salerno, 2008, p. 272, a proposito del canto XV e del ritrovarsi di Adone e Venere, parla di «ricucitura evidente, per giunta segnalata da un ingrediente premoderno come la noia». Di noia aveva parlato anche Cherchi per il canto IX della separazione. 75 Sull’accidia legata al tema del meriggio si veda ora Benvenuto, Accidia. La passione dell’indifferenza, cit., pp. 9 e segg.