rassegna stampa - ASL 4 Chiavarese
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RASSEGNA STAMPA Lunedì, 23.02.2015 Il Sole 24 Ore 1 Nuova strategia su contanti e fattura elettronica 2 Psicologhe Asl, maternità piena La Repubblica 1 “Basta ospedali come caserme” la lotta per avere più comfort in corsia 2 Umanizzare le cure per renderle migliori 23.02.2015 pag. 03 Nuova strategia su contanti e fattura elettronica Allo studio incentivi per le ricevute online tra privati - Annunciato l’aumento a 3mila euro della soglia per le banconote Altro che bollo sui versamenti in banca. L’obiettivo del governo è riportare i limiti per l’uso del contante al livello europeo, alzandoli da mille a 3mila euro. L’annuncio del premier Matteo Renzi è arrivato subito dopo le anticipazioni su una possibile imposta proporzionale ai versamenti giornalieri allo sportello superiori a 200 euro. E poco importa che le anticipazioni – subito travolte dalle proteste – siano state smentite dal ministero dell’Economia come «un’ipotesi di scuola» e liquidate dallo stesso Renzi come «un’idiozia galattica». Quello che conta, in questa storia, è il susseguirsi di ipotesi, proteste, smentite e annunci di segno contrario. Che lasciano intravedere un cambio di passo nella lotta al contante (che è, anche, lotta all’evasione). I più attenti ricorderanno che cosa è successo poco più di un anno fa: 29 ottobre 2013, l’allora ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, sottolinea in Senato l’importanza della tracciabilità, innescando l’ipotesi di un abbassamento a 500 euro della soglia per il contante. Polemiche nel governo, proteste dei commercianti, marcia indietro ufficiale. Ma si possono citare altri esempi. Il 1° gennaio 2014 entra in vigore la norma che vieta di pagare in contanti il canone di locazione delle abitazioni, di qualsiasi importo. Soddisfazione dei tre parlamentari che l’hanno proposta, incertezza dei proprietari. Poi, a febbraio, il Tesoro spiega che per rendere tracciabile il pagamento – e rispettare la legge – basta una ricevuta cartacea. E dunque, anche per gli affitti, resta la regola generale. E che dire delle soglie per gli stranieri? Fin da quando il governo Monti a fine 2011 ha vietato l’uso dei contanti da mille euro in su, albergatori e negozianti hanno chiesto di non penalizzare i turisti stranieri – russi in testa – abituati a fare acquisti a suon di banconote. Così nella primavera del 2012 il governo ha eliminato con un decreto legge qualsiasi vincolo di spesa per gli extracomunitari, salvo introdurre un tetto di 15mila euro due mesi dopo, con la legge di conversione. Ma rimaneva (e rimane) il problema dei cittadini dell’Unione europea, soggetti al limite di mille euro: da qui l’iniziativa di due senatori, che l’estate scorsa hanno tentato di introdurre soglie legate alle regole vigenti nel Paese del cliente; ma alla fine l’emendamento, nonostante un primo ok del Senato, non è entrato nella legge di conversione del Dl competitività. Ce n’è abbastanza per cogliere alcune tendenze generali. Intanto, i tecnici sono più duri dei politici quando c’è da togliere spazio a banconote, titoli al portatore e assegni circolari. Anzi, ogni volta che spunta l’ipotesi di una stretta, c’è sempre qualche parlamentare o ministro pronto a offrire una sponda alle proteste. Dal canto loro, commercianti, albergatori, imprese e professionisti utilizzano due argomenti ricorrenti per opporsi alle limitazioni al contante: «freno ai consumi» e «regalo alle banche». Ma alla fine si scopre che il contante piace molto anche ai consumatori. Secondo gli ultimi dati disponibili – ripresi dall’Abi in un’audizione alla Camera a gennaio – in Italia solo il 13% delle transazioni viene saldato con mezzi di pagamento elettronici, contro una media del 40% nell’Unione europea. Mentre in termini di operazioni pro capite con strumenti elettronici di pagamento l’Italia è davanti solo alla Grecia. In questo scenario, l’annuncio del premier Renzi non rappresenta necessariamente una contraddizione. Dopotutto, all’estero il tetto al contante è mediamente più elevato che in Italia – o addirittura assente, come in Germania – e i pagamenti elettronici sono più frequenti. E, d’altra parte, nel momento in cui una transazione viene “tracciata”, per esempio con una fattura elettronica o uno scontrino immediatamente visibile al fisco, l’eventuale incasso in contanti non dovrebbe creare problemi. 23.02.2015 pag. 03 Non è un caso che Renzi abbia condizionato l’aumento della soglia a 3mila euro al varo del decreto delegato sulla fattura elettronica, inizialmente atteso in Consiglio dei ministri venerdì scorso. Nel testo dovrebbero esserci incentivi alla fatturazione online e un credito d’imposta fino a 100 euro per aggiornare o acquistare i nuovi registratori di cassa da collegare in rete con il fisco. La stessa delega fiscale, all’articolo 9, non fa leva su divieti, ma su «disincentivi all’utilizzo del contante» e su incentivi per la moneta elettronica e la fatturazione elettronica, oltre che sul potenziamento dei sistemi di tracciabilità dei pagamenti. L’idea, insomma, dovrebbe essere quella di favorire gli scontrini e le fatture online, puntando sull’arma degli incentivi anche per incrementare la diffusione di card e bonifici. Anche perché - va detto - le imposizioni si sono rivelate finora politicamente molto difficili da gestire: valga per tutti l’obbligo per i professionisti e le imprese di dotarsi del Pos, in vigore dallo scorso 30 giugno dopo rinvii e polemiche, ma privo di sanzioni. Perché la nuova strada permetta davvero di raggiungere dei risultati, però, bisognerà percorrerla con coerenza, evitando di ripetere i tanti cambi di direzione degli anni scorsi. © RIPRODUZIONE RISERVATA Cristiano Dell’Oste 23.02.2015 pag. 23 Psicologhe Asl, maternità piena L’Enpap deve versare interamente l’indennità alle professioniste Le psicologhe che esercitano la libera professione e, contemporaneamente, intrattengono un rapporto di consulenza a tempo indeterminato con l’Asl, non possono vedersi negato il diritto al godimento dell’indennità di maternità, sulla base del presunto divieto di cumulo tra le somme pagate dalla Asl in caso di maternità e quelle dovute dall’ente di previdenza (Enpap) per lo stesso evento. Con questa decisione, il Tribunale di Torino (5 dicembre 2014, relatore Mancinelli) ha esteso in maniera rilevante la tutela economica spettante, in caso di maternità, alle psicologhe che esercitano la libera professione e, allo stesso tempo, hanno un rapporto di consulenza (sempre su base libero professionale) con una Asl. Il Testo unico sulla maternità prevede in favore delle lavoratrici il diritto al godimento di un’indennità di maternità, di importo pari all’80% dei cinque dodicesimi del reddito percepito e denunciato ai fini fiscali dalla professionista nel secondo anno precedente a quello della domanda; questa indennità è pagata dai contributi degli iscritti all’ente di previdenza di settore, in misura proporzionale al reddito professionale complessivo dichiarato. La legge fissa, tuttavia, un divieto di cumulo di questo trattamento con altre indennità con funzione analoga. Come previsto dal Testo unico sulla maternità e ribadito dal regolamento Enpap, il diritto al trattamento di maternità è escluso in presenza di analoghe prestazioni percepite in qualità di lavoratrice dipendente, autonoma, imprenditrice agricola, artigiana e commerciante. Se la psicologa svolge un lavoro part-time, l’ente - in base alla normativa interna - integra la prestazione percepita, fino alla concorrenza della misura minima che spetterebbe in assenza di trattamenti ulteriori. Il divieto di cumulo, secondo il Tribunale di Torino, non si può applicare alle lavoratrici che hanno una convenzione di natura libero professionale con le Asl, perché è applicabile solo verso i rapporti di lavoro subordinato: in questa categoria non rientrano certamente le psicologhe professioniste. L’attività svolta in regime di convenzione costituisce, infatti, a tutti gli effetti attività di esercizio della libera professione di psicologa, pur nell’ambito di un rapporto di collaborazione continuativo con la struttura sanitaria. Sulla base di questa ricostruzione, il Tribunale esclude che possa far scattare il divieto di cumulo il fatto che per tali professioniste esista una disciplina (accordo collettivo nazionale per i medici specialisti ambulatoriali, articolo 37) che riconosce allo specialista ambulatoriale e al professionista a tempo indeterminato che si assenta dal servizio per gravidanza, il diritto a godere del compenso per periodo massimo complessivo di 14 settimane. L’erogazione, osserva ancora la sentenza, è diversa dall’indennità di maternità (e quindi non fa scattare il divieto di cumulo) perché ha contenuto, natura e modalità di determinazione diversi, non provenendo da un ente previdenziale cui è iscritta la professionista, non essendo rapportata al reddito libero professionale complessivo ma solo al corrispettivo della prestazione, ed essendo limitata a un arco temporale inferiore. Queste somme, secondo la sentenza, rientrano fra le condizioni di maggior favore stabilite da leggi, regolamenti, contratti collettivi e da ogni altra disposizione, espressamente fatte salve dall’articolo 1, comma 2, del Dlgs 151/2001, e non impediscono quindi il sorgere del diritto a percepire integralmente l’indennità di maternità dovuta alle libere professioniste iscritte all’Enpap. © RIPRODUZIONE RISERVATA Giampiero Falasca 23.02.2015 pag. 23 “Basta ospedali come caserme” la lotta per avere più comfort in corsia Sveglia all’alba, pasti a ore impossibili e troppe limitazioni alle visite dei parenti Anche i medici ora chiedono di cambiare MICHELE BOCCI SVEGLIA alle sei per il prelievo del sangue, pranzo a mezzogiorno e cena alle 18. Alle 20, luci spente e tutti a dormire. Ed è andata bene se i parenti sono rimasti tutto il pomeriggio, e non un paio d’ore come previsto in certi reparti. Oggi come quaranta o cinquant’anni fa, gli ospedali italiani sono organizzati come fossero caserme. Si potrebbe pensare che la rigida disciplina, con orari anticipati di almeno un paio d’ore rispetto al normale, abbia a che fare con la salute del paziente. Non è vero: i ritmi sono più che altro legati ad esigenze organizzative, a questioni di turni dei lavoratori. Vari studi scientifici hanno dimostrato i danni provocati ai malati dagli orari, e anche nel nostro Paese è nato un movimento eterogeneo di società scientifiche, ma anche aziende sanitarie o singoli primari, che propongono di cambiarli. «Sa quali sono le tre cose di cui si lamentano di più la maggior parte dei ricoverati in Italia? Che mangiano male, non dormono e non vanno al bagno». Nicola Montano dirige una medicina interna del Sacco di Milano e si augura che medici, infermieri e assistenti sanitari ripensino insieme il sistema dell’accoglienza. Del resto per molti ricoverati la sveglia suona alle sei perché a quell’ora dei prelievi e della consegna dei farmaci si occupano gli infermieri della notte, che smontano alle sette, e non i colleghi che iniziano a lavorare la mattina, gravati da altri impegni. Stessa cosa vale per gli orari del pasto, legati ai turni di chi distribuisce il cibo. «Bisognerebbe riorganizzare gli ospedali a misura dei pazienti, rispettando la loro fisiologia. Altrimenti finisce che oltre a soffrire di una determinata malattia, devono affrontare gli effetti pesanti dell’alterazione dei ritmi di vita». Di recente negli ospedali statunitensi è partita una campagna incentrata soprattutto sulla qualità del sonno. Non deve essere interrotto durante la notte e neanche la mattina presto, pena un peggioramento delle condizioni dell’assistito. Se i pazienti dormono regolarmente, senza risvegli dovuti a luci accese e rumori vari nel reparto oppure a terapie che possono essere rinviate, il loro benessere aumenta. Più di uno studio scientifico ha dimostrato che la privazione del sonno o l’interruzione del ritmo sonno-veglia sono fattori che provocano danni alla salute, addirittura un quarto dei ricoverati anziani vanno incontro al “delirium”, che è uno stato di confusione mentale acuta, se non riposano bene e in modo regolare. Niccolò Marchionni è professore di geriatria all’Università di Firenze e presidente della società di cardiologia geriatrica. Da sempre lavora per migliorare l’accoglienza dei pazienti. Nei suoi reparti di degenza ordinaria e terapia intensiva a Careggi l’orario di visita dura 12 ore, da mezzogiorno a mezzanotte. «Abbiamo anche pubblicato uno studio per dimostrare come la presenza di parenti e amici non mette a rischio i malati ma fa bene. Purtroppo nel nostro Paese ci sono ancora tanti reparti aperti ai visitatori poche ore. Lavoriamo anche sui pasti. Per chi non ha problemi particolari, intanto, teniamo in caldo i vassoi della cena e li facciamo consumare anche alle 20. E poi abbiamo abolito l’usanza barbara di far mangiare a letto anche chi si può alzare. Non ci dimentichiamo che i nostri sono luoghi di cura dove, per assurdo, tanti anziani sviluppano problemi di denutrizione, anche a causa degli orari e del modo in cui vengono consumati i pasti». Una visione di insieme la dà Francesco Ripa di Meana, che guida la Fiaso, la federazione delle Asl. «Varie aziende sanitarie e ospedaliere si stanno muovendo verso l’umanizzazione dell’assistenza, migliorando l’accoglienza. Ma per intervenire sui ritmi delle mense o sulla diversificazione dei menu ci vogliono risorse, e purtroppo siamo in un periodo di tagli orizzontali. Bisogna comunque ricordare che non stiamo parlando di alberghi. Determinati orari devono esistere, perché sono dettati dai tempi di altri servizi, come ad esempio dei laboratori di analisi». È vero, non si parla di alberghi, ma tra queste strutture e le caserme esistono vie di mezzo. © RIPRODUZIONE RISERVATA GENOVA 23.02.2015 pag. 23 UMANIZZARE LE CURE PER RENDERLE MIGLIORI IREGOLAMENTI da caserma sono nel Dna ospedaliero. In origine, infatti, reparti, divisioni, padiglioni e perfino latrine obbedivano a criteri organizzativi militari. La sanità pubblica è cominciata così: camerate, rancio e gerarchie rigide. Difficile capire perché dell’impostazione iniziale, si sia conservato un nucleo così inossidabile, basato sul sistematico disprezzo per le fragilità del paziente. In troppi ospedali è meno d’un soldato semplice, ha l’obbligo di obbedire, adattarsi ad attendere, facendo quel che gli si dice senza discutere. Disagi? Poco importa se gli orari della sveglia e dei pasti obbediscono ai bisogni del personale e siano stabiliti su criteri sindacali a tutela di turni e week end. Poco importa che i tempi risicati di ascolto di pazienti e familiari, siano giustificati dall’interminabile serie di incombenze di medici e infermieri stressati, precari, frustrati dagli interessi privati di chi comanda. L’importante è dare ai cosiddetti “luminari” l’agio di fare i propri comodi, visitare in privato, incassare più danaro di quanto previsto dallo stipendio. La legge regionale ligure, per esempio, giustifica la concessione della libera professione ai responsabili delle Unità Operative come argine alla “fuga dei cervelli”. Nessuno dei migliori, infatti, s’accontenterebbe del salario. Il cliente è chi paga, insomma. Gli altri, che con le tasse mantengono la struttura, sono a carico della Regione o dello Stato, più sono a disagio e più si rivolgono al privato. Ecco perché chi dirige in Ospedale non può avere interessi altrove. Nelle Facoltà di Medicina non si insegna quasi nulla sulla relazione di cura e sull’ascolto, niente su umanità, compassione, presa in carico, conforto, consolazione. Eppure una Medicina efficiente sa che i costi si contengono solo se le persone hanno una buona relazione coi curanti, se la salute si conquista attraverso un progetto compreso, condiviso, prudente, sobrio. Se i ricoverati mangiano e dormono decentemente e vanno regolarmente al gabinetto. Chi insegna di tutto ciò non sa granché o preferisce ignorarlo. PAOLO CORNAGLIA FERRARIS © RIPRODUZIONE RISERVATA