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Articolo tratto da “Il Corriere della Sera” (ed. Nazionale) pag. 47 31 Ottobre 2014 Elzeviro/Il Romanzo di Vecchioni DALLA PARTE DI AIACE EROE TRADITO Di Ranieri Polese Molti anni fa — era il 1972 — Roberto Vecchioni scriveva le parole di una canzone destinata a un cantante di cui oggi non ci si ricorda nemmeno il nome. Titolo, Aiace, sì proprio l’eroe greco cantato da Omero, il combattente senza paura a cui sarebbero dovute toccare le armi di Achille morto sotto le mura di Troia. Ma il calcolo dei potenti dispose altrimenti: le armi andarono all’astuto Ulisse. Ad Aiace restò solo la rabbia di vedere che in questo mondo il valore e la giustizia non contano niente, che «per un mondo che è un porcile/ ti val bene la pena di morire». Il protagonista di quella lontana canzone (Vecchioni l’avrebbe ripresa in un album del 1997) torna ora nel nuovo libro del cantante, autore, professore, scrittore. È Il mercante di luce che esce in questi giorni da Einaudi (pp. 124, € 15). Come Aiace, il protagonista Stefano, docente di letteratura greca, è in guerra con il mondo degli approfittatori e dei corrotti. Crede nei valori che rendono la vita, per noi uomini, degna di essere vissuta. Nonostante le riprove che ogni giorno la vita ci dà di come i furbi e i cinici vadano avanti, a scapito di chi invece ne avrebbe il merito. L’insieme di questi valori, di questi principi che rendono umano l’uomo, per Stefano (e per Vecchioni) è consegnato alla poesia greca, Omero, Sofocle, Euripide. Sono loro, prendendo in prestito un’espressione che Harold Bloom usò per Shakespeare, gli inventori dell’umano. E a loro occorre tornare, non solo perché maestri di sapienza, ma anche perché supremi esempi di bellezza e armonia, creatori della forma perfetta in cui esprimere passioni idee sentimenti. Ma la vita di Stefano non è solo punteggiata dallo spettacolo ignobile di carrieristi senza scrupoli che vincono sempre (quando il maestro di Stefano, il professor Achille, si ritira, la sua cattedra viene affidata all’accaparratore Ulisse, amico dei politici), è anche funestata dalla malattia dell’unico figlio, Marco, affetto da un male che non perdona. È la «progeria», il morbo che provoca un invecchiamento accelerato e farà morire anche Marco, a soli 17 anni. Stefano, che intanto si è separato dalla moglie, passa lunghe ore con il figlio. Gli vuol dare, in un corso accelerato come la sua malattia, la conoscenza di quelle cose in cui lui, Stefano, ha creduto. Così gli parla di Antigone e di Fedra, delle donne troiane cedute come schiave ai Greci vincitori, della terribile vendetta di Medea e, appunto, di Aiace. Cerca di fargli immaginare che cosa fu la scena delle grandi tragedie, l’effetto che le storie di uomini e donne sventurati avevano sugli spettatori, come le parole, quelle parole, rivelassero a chi le ascoltava, allora e per sempre, il significato dell’essere uomini. Ma poi, parlando di amore, della passione e del rimpianto, del desiderio e del dolore, ecco la voce e le liriche di Saffo che occupano interi pomeriggi (spesso è lo stesso Vecchioni a tradurre i versi), ripetendo che a quei versi, a quei personaggi, a quelle parole è consegnato per sempre il nostro concetto di umanità. In questo difficile rapporto fra padre-insegnante e figlio-allievo, in cui entrambi sono abitati dalla paura di una morte che non si potrà evitare, accade che i ruoli si scambino. Che cioè alla fine sia il ragazzo a dare luce al padre. Prima Marco ha detto al padre che quello di cui gli parla è letteratura, non è la vita. Eppure quella letteratura forse gli è servita a sentirsi, a dispetto di tutto, uomo. Al padre invece rimane da vivere in un mondo dove tutto «fa tanto schifo, ho tanto freddo, non ne posso più». La rabbia antica di Luci a San Siro, contro chi ha successo perché china la testa e dice sempre sì, c’è ancora. E c’è ancora quell’Aiace che viene fregato. Ma sulla cui tomba, dice la leggenda, le onde del mare riporteranno le armi di Achille. © RIPRODUZIONE RISERVATA