Dispensa sulla Seconda lettera ai Corinzi

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Dispensa sulla Seconda lettera ai Corinzi
Movimento “Presenza del Vangelo”
Seminario biblico sulla Seconda Lettera di S. Paolo ai Corinti
Motta D’Affermo (ME), 13-17 luglio 2012
Composizione della lettera
Venerdì 13 sera:
L’analisi della pericope di 2Cor 5,11—6,10, condotta secondo il metodo storico-critico,
prevede anzitutto la rilevazione del contesto letterario, nel quale si inserisce, il che conduce
inevitabilmente ad affrontare la complessa e spinosa questione della composizione e dell’unitarietà
o meno della lettera medesima.
L’individuazione del contesto letterario muove anzitutto dalla constatazione che la
particella conclusiva ou&n del v. 11 riprende il v. 1 del cap. 4, dove si afferma: Diaè tou%to, e!contev
thèn diakoniéan tauéthn. Paolo sta, perciò, continuando l’apologia del suo ministero apostolico, nel
tentativo di legittimarlo teologicamente e di difenderlo da coloro che dolou%ntev toèn loégon tou%
Qeou% (4,2) e che kaphleuéontev toèn loégon tou% Qeou% (2,17, richiamato e strettamente correlato al
precedente 4,2 anche per la caratterizzazione di questi oppositori), annunciando se stessi. Infatti,
nella difesa svolta al negativo in 4,5 si legge: ou\ gaèr e|autouèv khruéssomen a\llaè Cristoèn
Ihsou%n Kuérion.
In 4,6 Paolo si avvale di Gen 1,3 (la divisione delle tenebre dalla luce)1 per rafforzare la
differenziazione tra lui e i suoi collaboratori2 e coloro che annunciano se stessi. Gli “accecati nella
mente” sembra, però, da riferire non agli oppositori, ma agli stessi corinti, o ad alcuni di loro, che a
quelli prestano fede. È chiaro che la disputa si svolge tenendo presente il piano della conoscenza
delle Scritture, nelle quali Paolo risulta maggiormente versato sia dal punto di vista contenutistico
1
Il richiamo tenebre - luce non rimanda necessariamente alla polemica anti – gnostica: così G. BARBAGLIO, Le Lettere
di Paolo, Borla, Roma 1980, 554: «Invano vi si cercherebbero i tratti della crisi di natura gnosticizzante che aveva
travagliato la chiesa di Corinto». In tal senso, gli oppositori rappresentano un fronte diverso dagli spiritualisti di 1Cor.
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In questo passo riteniamo che Paolo parli di sé e dei suoi collaboratori, non dei membri della comunità, di fronte ai
quali deve legittimarsi. Della comunità si parlerà in 5,16 a proposito della conoscenza non secondo la carne, sempre con
un riferimento agli oppositori.
1
sia da quello esegetico ed interpretativo: così pare che 3,7-18 debba considerarsi un’interpretazione
midrashica, svolta secondo il procedimento rabbinico del qal wāhômer (indicato dalla presenza del
poll§% ma%llon ), dei passi scritturistici, riferiti alla Legge e a Mosè «il quale poneva un velo sul
volto, perché i figli di Israele non vedessero la fine di ciò che era solo effimero». Nel volto di Paolo,
al contrario, risplende, a viso aperto, la gloria del Signore: si passa, infatti, dal fwtismoèn tou%
eu\aggeliéou di 4,4 al fwtismoèn th%v gnwésewv th%v doéxhv tou% Qeou% e\n proswép§ [ \Ihsou%]
Cristou% di 4,6; il “nel volto di Cristo” rimanda a 3,18, dove Paolo afferma che egli e i suoi
collaboratori (ma vi sono compresi anche i corinti) riflettono senza velo nel volto la gloria del
Signore, e a 5,12 (il nostro brano), dove si mettono in luce coloro che si vantano nel volto, ma non
nel cuore. Ancora, la conoscenza di cui si parla in 4,6 è da relazionarsi alla conoscenza, prima
secondo la carne, adesso non più così, di 5,16 (sempre il nostro brano).
La conoscenza della gloria di Dio, che risplende sul volto di Cristo e nel vangelo e che è
propria di Paolo e dei suoi3, rimanda al “per questo” e alla “diaconia, questa qui” di 4,1, spiegandoli
entrambi con il richiamo del cap.3 così diviso:
3,1-3
la lettera di raccomandazione4 di Paolo;
3,4-18
la diaconia della kainh% diaqhékh. Questa sezione è divisa in tre sottosezioni:
4-6, 7-11, 12-18, di cui le prime due danno il contenuto della “diaconia, questa qui” di 4,1.
Il verbo sunistaénein è presente nei seguenti passi:
3,1: Arcoémeqa paélin e|autouèv sunistaénein;
4,2d: sunistaénontev e|autouèv proèv pa%san suneiédhsin;
5,12: paélin e|autouèv sunistaénomen5 u|mi%n (preceduto da e\n tai%v suneidhésin u|mw%n
pefanerw%sqai);
6,4: sunistaénontev e|autouèv w\v Qeou% diaékonoi6;
10,12: sugkri%nai e|autouèv tisin tw%n e|autouèv sunistaénontwn;
10,18: o| e|autoèn sunistaénwn /o$n Kuériov suniésthsin;
12,11: u|f \ umw%n suniéstasqai.
3
Intendo per suoi non solo i collaboratori dell’Apostolo, ma anche i corinti.
È la comunità stessa di Corinto, contro le lettere credenziali degli oppositori, utili per ottenere il sostentamento. Anche
se il termine non compare nei capp.10-13, il problema delle credenziali apostoliche in ordine al sostentamento sembra
essere il nodo centrale della questione. Inoltre, c’è da notare una corrispondenza lessicografica nell’uso del verbo
sunistaénein che compare, in ordine allo stesso problema, sia in 3,1 sia in 10,12, per citare un esempio.
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Riprende alla lettera 3,1.
6
Rimanda a 4,1, che a sua volta si lega a 3,4-6: si parla dell’idoneità diaconale avuta da Dio. Il senso di “come diaconi
di Dio” sarà poi illustrato da 5,19, di cui parleremo analizzando il nostro brano.
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2
Sembra così che la lettera sia costruita sulla falsariga di un’orazione giudiziaria7, della
quale il verbo sunistaénein delimita 5 sezioni:
3,1—4,2: 1° sezione, dove si colloca la piéstiv (prova) scritturistico - midrashica;
4,2d—5,12: 2° sezione, dove si colloca la piéstiv (prova) soteriologica - escatologica;
5,13—6,4: 3° sezione, dove si espone la diaconia della riconciliazione;
6,5—10,18: 4° sezione, dove trova posto il motivo della colletta;
11,1—12,11: 5° sezione, dove si ha la piéstiv (prova) apocalittica personale.
Da notare che alle due prove iniziali stanno in parallelo il motivo della colletta e la prova
finale: al centro la diaconia della riconciliazione, che dalle prove trae il suo motivo ed il suo
contenuto. Anche il motivo della colletta potrebbe essere definita una prova, giacché qui Paolo si
difende dal sospetto che lui ed i suoi collaboratori si approprino con l’inganno di denaro altrui,
fingendo di destinarlo a nobili fini (8,20). Per cui si potrebbe ravvisare nella divisione in cinque
sezioni il movimento ABA' del discorso semitico in questo modo:
1° sezione+2° sezione=A
3° sezione=B
4° sezione +5° sezione=A'.
La divisione della lettera qui operata non vuole risolvere o trascurare i problemi sollevati
dall’indagine storico–critica, la quale rimane essenziale, non solo per i rilievi esegetici che essa sola
può offrire, ma anche per l’avvio dell’indagine retorica, la quale viene così a fornire un contributo
complementare e sussidiario: è certo comunque che quest’ultima non si situa solo a livello
redazionale, giacché lo studio della struttura del discorso interessa e conduce alla sua stessa origine.
A questa analisi si può rimproverare il fatto che essa tenga conto solo dei richiami lessicografici
generali, trascurando altri punti più complessi, come ad es. i bruschi passaggi da 7,16 a 8,1, che
però non pare essere tale a causa della formula di notificazione, la quale normalmente opera uno
stacco all’interno di una stessa lettera; lo stesso dicasi per 8,24 a 9,1. I due capitoli non sembrano
essere due biglietti distinti, anche se al cap. 8 sono i macedoni l’esempio, al cap. 9 i corinti. Così
7
F. YOUNG – D. F. FORD, Meaning and Truth in 2Corinthians, Biblical Foundations in Theology, London 1987,
dividendo la lettera secondo la struttura tipica della retorica greca, la individuano come una difesa forense, di cui i capp.
10-13 sono la peroratio finale. Così affermano l’unitarietà della lettera. La difesa di quest’ultima, svolta non secondo il
metodo storico-critico, ma secondo quello linguistico e strutturale, si ha pure in G. SEGALLA, Coerenza linguistica ed
unità letteraria della 2 Corinzi, in Teol. 13 (1988) 149-166; ID., Struttura letteraria e unità della 2 Corinzi, in Teol. 13
(1988) 189-218. Una buona presentazione pro e contro l’unitarietà della 2Cor si ha in G. BARBAGLIO, La Teologia di
Paolo. Abbozzi in forma epistolare, EDB, Bologna 1999, 214. La presente divisione ci è stata suggerita dall’articolo di
J. N. ALETTI, La disposition rhétorique dans les épîtres pauliniennes, in New Test. Stud. 38 (1992), il quale afferma:
«Quant à 2Co, sa division en trois grandes sections de longeur restreinte (1—7; 8—9; 10—13), indépendantes elles
aussi les unes des autres, appuie manifestement mon hypothèse sur la longueur moyenne des macro-unités
argumentatives pauliniennes et permet de conclure, avec suffisamment de certitude, que l’Apôtre raisonne par unités
relativement courtes. Cela ne signifie évidemment pas qu’il est incapable de relier fermement entre elles ces macrounités et de conduire une argumentation cohérente» (400). La retorica greco - latina, come anche il movimento ABA'
della locuzione semitica, è al servizio della progressione teologica ed è un fatto comune a Paolo ed ai suoi ascoltatori.
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pure la sezione 2,14—7,4 non è ritenuta con sicurezza un’altra lettera che spezzi l’unità di 1,1—
2,13+7,5-16: c’è chi sostiene che essa rappresenti un’intenzionale digressione di Paolo volta a
difendere la sua azione missionaria, salvo poi a riprendere il discorso lasciato volutamente in
sospeso. Anche il controverso passo di 6,14—7,1, che pare debba appartenere alla lettera perduta
menzionata in 1Cor 5,9, sembra di marca paolina o ripreso ed adattato da Paolo stesso. Rimane,
invece, aperto il problema della “lettera delle lacrime” (2,3-4; 7,8-13) e della sua individuazione:
qualcuno pensa che sia stata conservata nei capp. 10-13 o che comunque sia stata inserita nella
2Cor. Non è invece fondata la sua attribuzione alla 1Cor e l’identificazione dell’offensore con
l’incestuoso. I capp. 10-13 non la conservano, poiché in essi non si parla dell’offensore.
Oggi si è soliti dividere la lettera in tre parti: 1—7; 8—9; 10—13, oppure in due parti: 1—9
e 10—13, salvo a dover dimostrare quale delle due sia stata scritta prima. Hausrath è l’iniziatore
della teoria secondo la quale furono redatti prima i capp. 10-13 e successivamente quelli 1-9, con i
motivi della riconciliazione e della colletta. La sua teoria fu diffusa in ambito anglosassone da
Kennedy (cf. Barbaglio, 214 e Thrall). La diversità di toni non si spiega con l’arrivo di notizie da
Corinto, delle quali non si fa cenno nei capp. 10-13, anche se l’assenza potrebbe essere determinata
dal fatto che tutti sapevano cosa gli era stato riferito e da chi. Ma Paolo non lo tace nelle sue lettere
(cf. la gente di Cloe in 1Cor 1,11). Paolo poi si rivolge in tutta la lettera ai corinti, non agli
avversari, sui quali ragiona con i Corinti (contro chi vede i capp. 10-13 una lettera agli avversari).
Spiegare la disunità della lettera con la diversità di toni (conciliante la prima parte, polemica e
mordace la seconda) non sembra essere una pista convincente: Paolo attacca i suoi oppositori anche
nella prima parte e non è affatto dolce. In rapporto a questa lotta/difesa, diversi temi, quale quello
del vanto, della raccomandazione, dell’antitesi forza-debolezza nella vita dell’Apostolo, si
corrispondono in entrambe le parti. Tema unificante la lettera è perciò la legittimità del ministero
paolino8.
Le macro - unità argomentative di lunghezza media di Aletti ci permettono di suddividere
ulteriormente i capp.1—7 della lettera, sempre seguendo lo schema di un’orazione giudiziaria:
1,1-14: Prooémion:
1,3-5: eulogia;
1,6-14: captatio benevolentiae.
1,15—4,12: Dihéghsiv (narratio) con notizie storiche e due argumentatio, nella loro
duplice fase di confirmatio e confutatio, articolate in due difese ciascuna:
8
Così G. Barbaglio, La teologia, cit., 217. Per una panoramica della discussione sull’unitarietà o meno della 2Cor si
può attingere ad un buon commentario o ad una presentazione degli scritti neotestamentari.
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1° Argumentatio:
1,17—2,11: 1° difesa
2,12-13: notizie storiche
2,14—3,6: 2° difesa
3,7-18: piéstiv sritturistico–midrashica
2° Argumentatio:
4,1-5: 3°difesa
4,6: richiamo scritturistico di Gen 1,3
4, 7-12: 4° difesa
4,13—5,10:
piéstiv soteriologica-escatologica
5,11—6,10: Dihéghsiv: la diaconia della riconciliazione
6,11—7,16: Peroratio9 in tre parti:
6,11—7,4: esortazione
7,5-7: notizie storiche
7, 8-16: il motivo della tristezza e della gioia10.
Il nostro brano si inserisce come seconda narratio, dopo la seconda piéstiv, a specificare la
diaconia della riconciliazione, compresa entro la diaconia della nuova alleanza di 3,6, richiamata
qui dalla “creazione nuova” inaugurata dall’evento narrato al v. 21 dello stesso cap. 5 e che è
anticipato proletticamente in 5,14-16.
Paolo, dopo l’invio della 1Cor (53 d. C.), effettuò una seconda visita nella città dell’istmo,
quella durante la quale venne offeso. I corinti lo criticano per i cambiamenti del suo piano di
viaggio (2Cor 1,15—2,2). Si sconosce il piano originario, forse quello conservato in 2Cor 1,15-16
(Corinto – Macedonia – Corinto), di cui sarebbe venuta a mancare la seconda visita a Corinto. O
forse, andò a Corinto da Efeso, annunciando un’altra visita dalla Macedonia; dopo l’offesa,
annuncia una visita immediata dalla Macedonia, come previsto, ma poi va a Efeso, da dove scrive la
9
Così G. BARBAGLIO, La Teologia, cit., 231, che restringe la peroratio in 6,11—7,4, mentre nota al contempo il
carattere esortativo della pericope, caratterizzata dalla ricorrenza di imperativi (6,13.14; 7,2) e da un congiuntivo
esortativo (7,1).
10
Fa da pendant a 1,17—2,11.
5
lettera delle lacrime (54 d. C.). A Efeso subì forse un linciaggio o un imprigionamento dopo
processo (Cf. At 19,23—20,1). Decide, pertanto di passare a Troade (2,12) e da lì in Macedonia,
dove incontra Tito che gli narra la reazione di corinti alla lettera delle lacrime (2,13 e 7,5). In 2Cor
12,20-13,2 vi è l’annuncio di una terza visita, durata tre mesi (At 20,1-3). In 12,16-18 Paolo parla di
Tito inviato a Corinto con un altro fratello come di un fatto passato; Tito è citato insieme a due altri
fratelli (o è lo stesso di 12,16-18, che così risulta lettura di amalgama di ordine redazione per la
lettura del cap. 8? Cf. il “quell’altro fratello”) nella visita a Corinto in 8,6.17, dove gli aoristi sono
presenti storici ed indicano una realtà attuale. La lettera è occupata dalla difesa che Paolo opera del
suo ministero di fronte agli oppositori, variamente interpretati (giudaizzanti, spiritualisti, parte degli
stessi corinti), svolta secondo il motivo teologico della diaconia della riconciliazione.
Si delineano così le seguenti ipotesi:
i fautori dell’unità della lettera ritengono che essa sia stata scritta nel 55, in Macedonia,
poco prima della terza visita a Corinto;
chi sostiene la collazione di più lettere o ritengono perduta la lettera delle lacrime o la
identificano con i capp. 10-13, scritti ad Efeso ed anteriori ai capp. 1-9, scritti in Macedonia.
Secondo altri ancora, Paolo scrisse a Efeso la lettera apologetica di 2,14—7,4 e quella delle lacrime
dei capp. 10-13, poi in Macedonia la lettera di riconciliazione di 1,1-2,13+7,5-16 e i due biglietti dei
cc. 8-9. Questo tra il 54-55, se la 1Cor risale al 53, e visti i dati di viaggio in Atti.
Sabato 14 mattina:
Lettura esegetica della lettera
Apertura: essenziale somiglianza con 1Cor 1,1-3. Si tratta di una formula di prescritto
peculiare alle lettere greche in età ellenistica, ma grazia e pace hanno un altissimo valore teologico
e tradiscono la matrice ebraica.
Il nome Paolo:
Secondo la notizia lucana di At 21,39 Paolo era cittadino di Tarso in Cilicia e godeva, oltre
che della cittadinanza locale, anche di quella romana11. Entrambi gli vennero dal padre, che, da
liberto, acquistò la prima per la somma di cinquecento dracme, forse aiutato dai parenti, secondo
11
Ci basiamo qui e di seguito, per tutte le notizie presentate, sull’ottimo studio di M. HENGEL, Il Paolo precristiano,
Paideia, Brescia 1992.
6
l’obbligo che imponeva il diritto giudaico, mentre ottenne la seconda come schiavo affrancato. È
certo, comunque che Paolo appartenesse alla comunità giudaica tarsese. Anche se il termine
poliéthv, con cui Paolo si definisce in At 21,39, può semplicemente significare non la cittadinanza,
ma solo la provenienza, come è in Luca, in Giuseppe Flavio e nei LXX, tuttavia è chiaro che Paolo
fu condotto a Roma proprio in quanto cittadino tarsese, consentendogli la cittadinanza romana di
venir processato dinanzi ad un tribunale romano non necessariamente nell’Urbe.
Paolo non cita mai in alcun luogo il suo nome romano completo in tre membri: ciò non si
deve ad una scelta particolare dell’Apostolo, in realtà si tratta di una consuetudine in uso presso i
romani, i non romani dell’Oriente greco e i giudei, come ha dimostrato l’archeologia12. In un solo
luogo compaiono i due nomi, quello ebraico Saulo e quello romano Paolo: in At 13,9, dove Luca
riflette l’associazione dei nomi che si ha nei papiri e nelle iscrizioni. Saulo sottolinea la nobile
origine del giovane ebreo dalla tribù di Beniamino; il nome romano Paolo rimanda a relazioni
patronali di cliens del padre dell’Apostolo con il suo patronus, forse un esponente della gens
Emilia, per cui Paolo sarebbe cognomen e Saulo signum o supernomen, mentre il nome completo
dell’Apostolo suonerebbe Lucius Aemilus Paulus qui et Saul. Che Paolo sia cittadino romano lo
dimostra anche la sua visione geografica, che influenzò totalmente i suoi viaggi missionari: nel suo
campo visivo, Paolo ha difatti presenti solo le province dell’impero, partendo dalla Giudea,
attraverso la Siria, la Cilicia, la Galazia, l’Asia, la Macedonia, l’Acaia e l’Illirico sino a Roma, alla
quale guarda dall’inizio della sua missione, per poi spingersi da qui sino ai confini del mondo, cioè
la penisola Iberica.
La famiglia di Paolo era costituita da liberti benestanti, se si erano potuti permettere
l’acquisto della cittadinanza tarsese; inoltre essa vantava nobile ascendenze, risalenti alla tribù di
Beniamino. Non sappiamo con certezza se i membri della sua famiglia fossero, come lui,
skhnopoioié: Paolo avrebbe potuto benissimo apprende il suo mestiere durante gli anni della sua
formazione farisaica a Gerusalemme. Qui era infatti decaduto lo sprezzo per il lavoro manuale,
proprio del Qohelet e del Siracide, ed ogni fariseo doveva lavorare per potersi mantenere e vivere
con una certa serenità. Paolo, molto probabilmente, lavorava il cuoio ed il cilicium, una stoffa
spessa e ruvida fatta di pelo di capra cilicia, per la quale Tarso era famosa; la sua attrezzatura era
molto semplice, essendo costituita da utensili da taglio e da aghi, facile da trasportare, il che gli
permise sempre l’indipendenza economica.
A Tarso Paolo dovette frequentare le scuole elementari di lingua greca, ma non le grandi
scuole di retorica: Paolo è un giudeo a tutti gli effetti, che parla e scrive in greco pensando alla
12
G. FUKS, Where have all the Freedmen gone? On an Anomaly in the Jewish Grave – Inscriptions from Rome, in JJS
36 (1985) 25-32 ha dimostrato che su oltre cinquecento epitaffi romani di giudei non se ne trova neppure uno recante il
nome a tre membri, pur appartenendo il 10% di essi a cittadini romani acquisiti tali.
7
maniera giudaica in maniera preponderante, anche se l’orizzonte greco non gli manca, anzi si
direbbe che stia sullo stesso piano di quello giudaico. Da At 22,3 sappiamo che frequentò a
Gerusalemme la scuola del grande Gamaliele I, principale maestro farisaico del suo tempo: ed
infatti, Paolo appartenne alla corrente farisaica, come compare in Atti e come egli stesso ammette
nelle sue lettere13. Proprio in 2Cor 11,22, nella sua apologia e nel suo folle vanto di fronte agli
oppositori, ci fornisce la sua carta d’identità: è israelità, quindi non è un pagano, ed è ebreo, parla
cioè la lingua sacra e l’aramaico e, pur nella diaspora, è legatissimo alla madrepatria. È discendente
di Abramo giacché appartiene alla tribù famosa di Beniamino, essendo i suoi genitori per nascita
appartenenti al popolo d’Israele e stretti osservanti della legge, come si deduce dalla circoncisione
di Paolo stesso avvenuta puntualmente l’ottavo giorno dalla sua nascita (Fil 3,4-6b). Della sua
formazione farisaica e del suo zelo per la legge (cosa comune in Palestina dopo l’età maccabaica)
abbiamo notizia in Gal 1,13: si desume con certezza che il luogo e l’ambiente di formazione
farisaica di Paolo furono le sinagoghe gerosolimitane, non certo le scuole tarsesi. Eppure non si può
fare di Paolo un palestinese alla stregua di Giacomo: usa, infatti, il greco con molta padronanza e si
muove molto a suo agio nella versione greca (la LXX) della Bibbia ebraica. Lo stile semplice,
lontano dall’atticismo, delle sue lettere, è accompagnato da una serie di espedienti retorici che
coniugano concetti giudaici e forme espressive greche in maniera a dir poco unica ed efficace.
Questa tecnica letteraria Paolo l’apprese non dal giudaismo palestinese e neppure da quello
ellenistico, ma da un giudaismo ellenofono presente a Gerusalemme dai tempi dell’ellenizzazione
della città. È nelle sinagoghe di questi ebrei che parlano e leggono in greco14 che Paolo apprese le
nozioni fondamentali di una retorica greco–giudaica15 differente sia dalle normali scuole greche sia
da quelle ebraiche, posta a sevizio della predicazione sinagogale, come pure alcuni concetti che
costituiranno gli asserti primi e fondamentali del nascente cristianesimo e che Paolo farà suoi16.
Sono inoltre i membri di queste sinagoghe farisaiche ellenofone a fornire, accanto alla rigorosa
osservanza della legge, una serie di istruzioni concrete sull’adempimento dei comandamenti per i
pellegrini della diaspora, consci che molte norme non erano né valide né praticabili fuori dalla terra
13
At 22,3; 23,6; 26,4; Fil 3,4-6; Rm 9,3b-5a; 11,1.
Si tratta delle sinagoghe di cui si parla in At 6,9, nate dai liberti della diaspora grecofona ritornati in patria, a
Geusalemme e lì stabiliti da lungo tempo: romani, cirenei, alessandrini, cilici, giudei della provincia d’Asia.
15
Alla formazione sinagogale ellenofona alludono i termini sofoév (hākām), grammateuév (sôfēr), suzhththév
(daršān/dôrēš) di 1Cor 1,20, come pure la formula di saluto delle sue lettere, il midrash di Abramo in Rm 4 e Gal 3 e
l’elenco potrebbe continuare.
16
Così ad es. le categorie giuridiche con le quali si comprende la natura della morte di Gesù e si esprime l’opera di
riconciliazione. Su questo M. Hengel, Il Paolo, cit., 129: «L’uso linguistico giuridico di Paolo, che si orienta secondo la
‘giustificazione del peccatore senza le opere della legge’, già per questo non dovrebbe venir considerato, come oggi
invece di nuovo piace fare, quale teologumeno tardo, secondario, del primo teologo cristiano, poiché proprio le forme
linguistiche e le categorie di pensiero connesse risalgono al tempo dei suoi studi nella casa di studio farisaica a
Gerusalemme e, come indicano Gal 1-3 e Fil 3, furono determinanti per la svolta della sua vita. Essi l’hanno
accompagnato per tutta la vita».
14
8
d’Israele: questo dovette far nascere nel Paolo cristiano il suo senso di libertà dinanzi alla legge
nella sua missione ai gentili, pur mantenendo la santità della legge stessa, oltre a renderlo aperto a
tutti, pronto a farsi tutto a tutti (1Cor9, ).
Da questi ambienti sorsero i giudeo-cristiani ellenofoni17 di Stefano e di Filippo, contro i
quali, proprio a Gerusalemme, si riversò tutta l’ira del giovane Saulo (At 7,58: neaniéav)18, pieno di
zelo per la legge.
Il termine apostolo compare in Rm 1,1; 1cor 1,1; Gal 1,1; Col 1,1; Ef 1,1; manca in Fil,
1Ts, Filemone; 2Ts. A Roma e a Colossi non era conosciuto di persona, mentre a Corinto e in
Galazia doveva difendere la legittimità del suo essere apostolo. Paolo sa che si è eletti ad apostoli
per un incontro diretto con il Cristo Risorto che lo invia (1Cor 9,1; 15,1-10; Gal 1,11,24 (da notare
il termine apocalypsis “rivelazione” che è legato al vedere). Sottolineare la volontà di Dio è un
rivendicare la legittimità di Paolo.
Strana la presenza di Timoteo (Cf. At 16,1: secondo viaggio missionario di Paolo): viene
menzionato in 1Cor 4,17 e Paolo si preoccupa della sua accoglienza in 16,10-11. In 2Cor non si
riferisce l’esito della sua missione. Tito come organizzatore della colletta è più presente in 2Cor.
Il termine fratello fa risaltare quello di apostolo senza discreditare Timoteo: non sembra
però avere valore tecnico ad indicare un gruppo di missionari distinti dai cristiani, come una certa
ermeneutica di 1Cor 16,19 (Cf. anche i vv. precedenti dal 10) e Fil 4,21 potrebbe pensare.
Il termine chiesa indica la comunità locale di Corinto e, forse, alle altre chiese greche che
alla comunità della città dell’istmo facevano capo (Cencre: Rm16,1; Atene: At 17,34 e cf. 1Ts 3,1).
Paolo parla, infatti dei santi che sono in tutta quanta l’Acaia. Il termine santo per definire i cristiani
compare 33x nelle lettere paoline e deuteropaoline. Il termine pare sia stato assunto dai cristiani di
Gerusalemme. Paolo, infatti, nei biglietti per la colletta definisce i cristiani di Gerusalemme con il
termine i santi: 1Cor 16,1; 2Cor 8,4; 9,1.12. Definizione estesa in seguito ai cristiani della Terra: At
9,32.41, inusuale nel suo stile. È termine tipico della letteratura apocalittica intertestamentario per
17
M. HENGEL, L’ellenizzazione della Giudea nel I secolo d. C., Paideia, Brescia 1993, 56: «È comunque probabile che
la traduzione in greco di parti della tradizione su Gesù come pure la creazione di uno specifico lessico teologico
propriamente cristiano, con termini quali a\poéstolov, eu\aggeélion, e\kklhsiéa, caériv, caérisma, o| ui|oèv tou%
a\nqrwépou ecc., abbiano avuto inizio a Gerusalemme già assai presto, forse come conseguenza immediata dell’attività
di Gesù, che attirò anche giudei della diaspora, e che non debbano aver avuto luogo alcune decine di anni dopo al di
fuori della Palestina, ad Antiochia o altrove. In altri termini: le radici della comunità “giudeocristiana–ellenistica” o, più
esattamente, giudeocristiana grecofona, presso la quale il messaggio portato da Gesù venne formulato per la prima
volta in lingua greca, vanno chiaramente ricercate in Gerusalemme stessa ove, conseguentemente, deve anche aver
avuto luogo una prima elaborazione linguistica del kerygma e della cristologia propri della comunità in questione».
18
ID, Il Paolo, cit., 60: «Sha’ul poteva avere allora da venticinque a trentacinque anni; non era più un semplice talmid,
bensì già aveva, presumibilmente come maestro, una certa responsabilità nell’ambito delle sinagoghe grecofone di
Gerusalemme, quando fu strappato ad una carriera piena di speranze ed ambizioni e la sua vita assunse una direzione
completamente nuova».
9
indicare il gruppo eletto, rimasto fedele a Dio, che avrebbe ottenuto la sovranità. Tutti, compresi i
gentili venuti alla fede, non soltanto gli ebrei credenti in Cristo, sono santi, costituiscono il popolo
eletto, sono eredi della regalità messianica e partecipano di essa. I corinti sono definiti santi in 1Cor
1,2. L’espressione richiama la definizione di Israele, il popolo eletto, in Es 19,6 e Lv 11,44ss.
L’Acaia comprende la Grecia centrale ed il Peloponneso: Corinto era la capitale, come si evince da
alcune lettere amministrative ritrovate.
La benedizione sostituisce il rendimento di grazie, tipico di alcune lettere paoline dopo il
prescritto (Rm 1,8-15; 1Cor 1,4-9; Fil 1,3-11; 1Tm 1,2-10; Col 1,3-11). Essa si estende
propriamente sino al v.7, cominciando al v. 8 una rivelazione ai destinatari della lettera da parte
dell’apostolo. La benedizione potrebbe sottintendere il verbo essere all’indicativo, come in Rm 1,25
e 2Cor 11,31 oppure al desiderativo, che in questo caso esprimerebbe la volontà dell’orante di
benedire, non certo il desiderio che Dio sia benedetto come essenza.
Il genitivo “delle misericordie” è aggettivale e intende “misericordiso”. Oiktirmoi deriva
dall’ebraico rahamim tradotto così dai LXX: 2Re (2Sam) 24,14; Sal 24,6; Is 63,15. Ricorre in Rm
12,1; Fil 2,1; Col 3,12 e, come aggettivo, in Lc 6,36 e Gc 5,11.
Consolazione tribolazione sono termini e temi della lettera:
tlibo in 1,6; 4,8; 7,5;
tlipsis in 1,4; 2,4; 4,17; 6,4; 7,4;
paràklesis in 1,3-7;7,4.7.13
Secondo Barbaglio, Paolo, lasciata Efeso, dove aveva corso pericolo di morte (2Cor 1,810) va in Macedonia, dove attende Tito inquieto, come testimonia 7,5. Tito porta buone notizie e
l’apostolo rinnova la sua fiducia sui corinti (7,5-16). Vede, pertanto, nelle tribolazioni passate
l’opera consolante di Dio che gli ha ridato gioia attraverso i corinti.
La tribolazione è termine ampiamente usato nella LXX per indicare qualsiasi tipo di
sofferenza, da cui è colpito ogni categoria di uomo, e più specificamente, in senso teologico, indica
l’oppresione d’Israele e la sofferenza dei giusti. A parere di Schlier, il termine si lega al giusto
sofferente. Nel NT indica le afflizioni dei credenti (Mt 13,21; 24,9; At 11,19; 14,22; 1Ts 1,6; 3,3),
come pure le angosce escatologiche (Mt 24,21.29; 1Cor 7,28). La tribolazione misura l’autenticità
dell’apostolato (Fil 1,17; 4,14; 1Ts 3,7), essendo legata al mistero pasquale di Gesù (Fil 3,10). Il
nostro brano rinvia al cap. 4,7ss. che studieremo e a 7,5-6. L’Apostolo nella tribolazione partecipa
al mistero pasquale di Gesù e testimonia dell’autenticità del suo ministero: questo non perché imita
le sofferenze di Cristo, ma perché Cristo vive in lui. Il “come” del v. 5 non è comparativo se non
con la seconda parte della frase, ma intende esprimere che l’Apostolo ha tribolazione perché Cristo
10
vive in lui. Il genitivo è soggettivo e le tribolazioni sono di Cristo che vive in lui. Ecco perché la
tribolazione misura l’autenticità dell’apostolato (Cf. cap. 12 della 2Cor).
La paràklesis, la consolazione, ricorre sei volte in 2Cor 1,3-7, mentre 4x ricorre il verbo
parakalèin. La fonte della consolazione è Dio. Il termine traduce l’ebraico nacham, che si ha in Is
40, apertura del libro isaiano della consolazione. In 2Cor a paràklesis è associato il termine soterìa:
la consolazione è in ordine alla salvezza, guarda al futuro, nonostante le tribolazioni del presente,
che sono di Paolo apostolo e, con lui, di ogni cristiano (il v.6), in questo caso i corinti, associati a
lui. Accostamento di paràklesis ed elpìs in 2Ts2,16 e Rm15,4. “Sopraffatto dalla consolazione
divina, Paolo consiglia ai Corinzi di «perdonare e consolare» il suo offensore (2Cor 2,7)” (Schmitz,
671). Per questo il dato del v. 9 rimane allusivo. Paolo vuole esaltare Dio, fonte di consolazione in
mezzo alle tribolazioni. Negli aspetti di consolazione e tribolazione sente solidali i Corinti, i quali
collaborano al suo ministero pregando per lui. I frutti del ministero levano il coro della lode verso
Dio, in un capovolgimento di ciò che è abituale nelle lettere paoline: mentre è l’Apostolo a lodare
Dio per i destinatari, qui è viceversa.
Si aprono poi quattro sezioni:
1. 1,12-22: Paolo difende il suo comportamento;
2. 1,23-2,4: il motivo della non visita;
3. 2,5-11: regolamentazione nella carità del caso dell’offensore;
4. 2,12-13: ansia per la reazione dei corinti.
Paolo risponde, appellandosi alla propria coscienza (1,12), a Dio (1,23) e al giuramento
(1,18.23; cf. pure 1Ts 5,24 e 1Cor 1,9) a quanti lo denunciano di doppiezza nel parlare e di
volubilità nelle decisioni, giudicandolo uno che agisce secondo una sapienza carnale, quindi
attento a se stesso, per cui non è un apostolo. Oltretutto è debole, si raccomanda da sé e non ha
lettere, lavora con le proprie mani e non si fa sostentare dalla comunità. Paolo insiste nella
difesa dinanzi ad una comunità che è per lui vanto e per la quale spera di essere lui il vanto. La
motivazione della sua difesa è cristologica e si potrebbe alludere a Mt 5,37. L’espressione figlio
di Dio non ricorre spesso in Paolo, ma è importante per sottolineare il rapporto che corre tra
Gesù messia e il Padre, oltre che per definire il contenuto dell’annuncio (Rm 1,4; 8,3.32; Gal
2,2; 4,4; 1Ts 1,10).
Il sì di Cristo è il sostegno e l’Amen (Cf. Is 65,15) per il sì di Paolo. Lo Spirito conferma questo
sì, Egli che è all’origine del sì di Dio sulla fede dei corinti (sigillo, unzione, caparra). Sulla fede
non si spadroneggia: si è diaconi per la comune gioia.
L’offensore, un membro della comunità o un missionario, che ha forse offeso Paolo o un suo
collaboratore o ha incrinato i rapporti tra l’Apostolo e i Corinti, è stato punito. Adesso Paiolo fa
11
prevalere il punto di vista dell’amore (agape: 1Cor 13). Le macchinazioni di Satana sono in
ordine all’atteggiamento dei corinti che, se troppo severo, condurrebbe l’offensore a disperare o
ad abbandonare la fede.
Giunto a Troade, Paolo spera di trovarvi Tito per avere notizie dei Corinti e sapere anche della
colletta (si riannoda il filo del racconto interrotto dalla vicenda dell’offensore con digressione).
Laboratorio: 2Cor 3, 1-18
Domenica 15 mattina:
Strutturalmente il brano si presenta così articolato:
5,11-13: la manifestazione a Dio, il motivo del vanto e la non–raccomandazione
1° sottosezione:
5,14-18: l’amore di Cristo morto per tutti fonda la conoscenza non secondo la
carne, ma secondo la nuova creazione (a\poè tou% nu%n...nu%n...i\douè)
2° sottosezione:
5,18—6,2: il ministero della riconciliazione e l’esortazione alla salvezza
(duplice i\douè nu%n)
6,3-10: i contenuti della manifestazione di 5,11, del vanto e il perché della non–
raccomandazione; ed ancora:
i luoghi della diaconia: 6,4-5 fino a e\n nhsteiéaiv;
i modi della diaconia: 6,6-7a fino a e\n dunaémei Qeou%;
i mezzi della diaconia: 6,7b-8 fino a eufhmiéav;
le espressioni della diaconia: 6, 9-1019.
Da notare ancora il collegamento creato dalle particelle e da un verbo al participio presenti
nelle sezioni in cui abbiamo diviso il brano. Per cui si ha:
ou&n di 5,11
gaèr di 5,14
deè di 5,18
didoéntev di 6,3.
19
Per questo cf. G. BARBAGLIO, Le Lettere, cit., 655-660.
12
Il legame tra le particelle serve a spiegare il legame tra le diverse sezioni: ciò che è
affermato prima (ou&n) viene spiegato dopo (gaèr); la spiegazione è motivata (deè), così che
l’affermazione iniziale (ou&n) risulta perfettamente in linea con le conseguenze (didoéntev). Ancora,
6,3-10 si lega a 5,11-13 per la presenza del verbo sunistaénein e dipende dalle due sottosezioni
giacché riscontriamo queste corrispondenze semantiche e lessicografiche:
6,3: mhdemiéan e\n mhdeniè didoéntev
5,16 (1° sottosezione): ou\dena oi!damen kataè saérka
e
6,4: diakoniéa-diaékonoi
5,18 (2° sottosezione): diakoniéa th%v katallagh%v.
Da notare ancora che il participio didoéntev ricorre in 6,3 e in 5,12: e poiché 6,3 dipende da
5,16 (1° sottosezione), fa entrare anche 5,12 (il motivo del vanto per i corinti contro gli oppositori)
nella 1° sottosezione e, di conseguenza, anche nella 2° sottosezione; per cui, il motivo di vanto dato
da Paolo ai corinti diventa il suo stesso ministero della riconciliazione avuto da Dio, che lo ha
instaurato nella nuova creazione, compiuta con la morte di Cristo, la quale elimina il modo (kataé)
della carne, e che si esprime nei termini che Paolo sottolinea in 6,4-10. Quest’ultima sezione è
parallela a 4,7-12 e a 11,23-29, di modo che ne risulta affermata l’unitarietà dei motivi persistenti e
del motivo fondamentale della lettera: la legittimità del ministero paolino.
La tradizione testuale dei manoscritti, che sembra essere l’unico punto a favore
dell’unitarietà della lettera20, presenta alcune varianti che qui illustriamo e spieghiamo. Anzitutto in
5,17 alcuni codici onciali minori inseriscono un taè paénta come parallelo al v. 18: non ha senso
perché kainaé è parallelo a taè arcai%a. L’assenza dell’articolo, cioè dell’individualità, esprime la
natura e l’universalità. In 5,19 P46 ha toèn eu\aggeélion al posto di toèn loégon. Ma Paolo ha parlato
di toèn loégon in riferimento ai suoi oppositori: cf. 4,2 e 2,17. Ancora P46 registra in 6,1 un participio
parakalou%ntev invece dell’attuale parakalou%men, per analogia con sunergou%ntev. Ma
quest’ultimo dice la condizione di Paolo verso i corinti, la stessa di 1,24, e ne giustifica
l’esortazione al presente.
La lettura progressiva della pericope, che manterremo anche nell’esposizione esegetica ed
interpretativa del paragrafo seguente, dovrebbe in seguito lasciare il posto ad una lettura regressiva,
al fine rispettare così il movimento teologico della pericope stessa: dopo i vv. 14-15 del cap. 5 si
dovrebbe partire dal v. 21 del medesimo capitolo, al quale i due vv. sopra citati peraltro rimandano,
20
ibid., 568.
13
giacché in esso è contenuto il motivo originante tutte le realtà espresse prima, dalla conoscenza non
secondo la carne alla nuova creazione alla diaconia della riconciliazione.
3. Esegesi ed interpretazione della pericope
Il foébov tou% Kuriéou si lega in Paolo alla coscienza del suo ministero, come ben mostra la
particella ou&n che lega la pericope a 4,2: Paolo riprende il discorso sul suo ministero, difendendolo
dagli oppositori, subito dopo la piéstiv soteriologica–escatologica sulla resurrezione, alla quale
l’ou&n si collega, ma non principalmente. Non si ha, infatti, una corrispondenza con il bh%ma tou%
Cristou% di 5,10, il che sarebbe una proiezione nostra, quanto invece con il v. 7 del cap. 4, dove
Paolo è ben cosciente di avere il tesoro del ministero in vasi di creta (cioè lui medesimo), perché
l’iperbole della potenza del ministero sia fatta risalire a Dio, non a lui.
Il richiamo in 5,14 dell’a\gaéph, unito al foébov mediante la corrispondenza delle particelle
ou&n…gaèr, dimostra come il foébov in Paolo non sia parenetico, ma si tratti di una risposta
all’amore di Dio21. Di questo foébov Paolo ha una conoscenza esperienziale, derivata dal suo
manifestarsi in lui: ei\doétev indica appunto tale tipo di conoscenza22. In virtù di ciò, Paolo si sforza,
cerca di convincere23 gli uomini tutti24, non solo i corinti, riguardo sia la legittimità del suo
ministero sia la verità del suo vangelo sia la necessità di accogliere il kairoév della riconciliazione
con Dio (6,2). Agli uomini, perché dinanzi a Dio egli è ormai “manifestato” (ppf.); ma nutre la
speranza di essere manifestato pure ai corinti, perché essi lo conoscano interamente, non solo in
parte (Cf. 1,12-14), così che il vanto reciproco venga messo dinanzi a quegli oppositori che si
vantano nel volto e non nel cuore.
Il proswép§ di 5,12 è in parallelo alla conoscenza secondo la carne degli uomini e di
Cristo che gli oppositori hanno (5,16) e si contrappone al proswép§ dell’Apostolo e dei suoi
collaboratori che lasciano trasparire la gloria di Dio (Cf. 3,18)25. Gli oppositori si caratterizzano26
Così H. BALZ, foébov, in H. Balz – G. Schneider (a cura di), Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento (DENT), I,
Paideia, Brescia 1995, 1817: «Egli stesso (Paolo) però, nel suo servizio apostolico, è influenzato dal foébov tou%
Kuriéou (2Cor 5,11), ossia è preso e al tempo stesso incoraggiato ad avere fiducia […]. Il loro (dei credenti) timore di
Dio è però una risposta non al potere ma all’amore di Dio».
22
Il verbo si ripete in 5,16 a proposito della non–conoscenza di alcuno secondo la carne e si differenzia da gignwéskw,
giacché quest’ultimo indica una conoscenza che il soggetto acquisisce dalla sua parte attraverso un atto unitivo
integrale. Questo atto unitivo di conoscenza nei confronti di Cristo in Paolo è però sempre preceduto e, dunque,
determinato dal fatto di essere lui conosciuto da Cristo e di conoscere nella maniera in cui è conosciuto: così in 1Cor
13,12. Il verbo oi!da indica sì una conoscenza unitiva ed esperienziale, ma motivata più dall’esternazione formale
(ei!dov) dell’oggetto conosciuto.
23
Peiéqomen è presente di conato.
24
In a!nqrwépouv manca l’articolo.
25
La gloria della nuova alleanza di 3,6 è fatta rifulgere dallo pneu%ma Kuriéou che ricorre qui e in:
21
14
come coloro che mercanteggiano la parola di Dio (2,17), falsificano la medesima (4,2), predicano se
stessi (4,5: in una frase al negativo), si raccomandano da sé (10,12), predicano un Gesù, un vangelo,
uno spirito diverso (11,4-6), sono ministri di satana (11,13-15), sfruttano i corinti (11,19-20), si
vantano di essere ebrei (11,22-23). Ad essi fa da contrappeso Paolo nella sua a\sqeneiéa, della quale
si vanta in 11,30 e in 12,5-6.9-10. Un motivo, quello della debolezza, che ritorna applicato alla
morte di Cristo in 13,3-5, quest’ultimo da legare a 5,21 e a 8,9, il quale ultimo, a sua volta, richiama
5,14. Paolo, infatti, è debole in Cristo, ma la sua debolezza è perché i corinti siano forti (13,9): per
questo si è abbassato (tapeinw%n), perché i corinti fossero innalzati (11,7). E ciò non è per lui
a|martiéa. La debolezza paolina non è un motivo psicologico né un segno di mediocrità accettata
come indice di una condizione di peccato imposta alla natura umana, dalla quale è impossibile
uscire, ma che Dio non tiene in considerazione, operando prodigi attraverso essa: questa
interpretazione, assai comune, nasconde, dietro l’apparenza di una verità rassicurante, una certa
scusante del peccato stesso e della connivenza con esso. Al contrario la a\sqeneiéa paolina è l’essere
tapeiénov, cioè la chiara consapevolezza di non essere nulla, di non servire a nulla, perché è Dio
che opera tutto. L’essere tapeiénov è secondo Cristo (cf. Fil 2) e non secondo la carne. Questo può
far sembrare che Paolo sia fuori di sé: e lo è veramente per Dio, dal quale la sua follia è determinata
e per il quale Paolo è folle27. Ma per i corinti, che non sopportano la sua a\frosuénh (11,1), Paolo è
assennato, cioè è nella piena consapevolezza che quel modo folle di esercitare il ministero,
lavorando con le sue mani e senza lettere di raccomandazione, è secondo Cristo.
Come già detto, il foébov tou% Kuriéou rimanda all’a\gaéph, che, come iniziativa divina
d’amore, conduce il ministero dell’apostolo28. Quest’ultimo opera una “distinzione” (kriénantav)29
1,22: toén a\rrabw%na tou% pneuématov e\n tai%v kardiéaiv h\mw%n
4,13: toé autoé pneu%ma thév piéstewv
5,5: toén a\rrabw%na tou% pneuématov.
Per cui si ha che lo Spirito della fede dato come pegno ai corinti e a Paolo nel loro cuore permette la confessione che
dà la risurrezione (“come dallo Spirito del Signore” di 3,18). Il motivo della risurrezione è soteriologicopneumatologico e si inserisce in un contesto escatologico, come un attento esame della 2° piéstiv (4,13—5,10) rivela.
Le tre suddette dimensioni teologiche (soteriologia, escatologia e pneumatologia) rientrano pure nel brano in esame. Il
motivo battesimale–pasquale è sottinteso: d’altronde Paolo non ne può parlare perché, come appare da 1Cor 1,13,
questo era il motivo di divisione tra i corinti, tanto che Paolo stesso ringrazia di non aver battezzato se non qualcuno.
26
Gli oppositori possono essere descritti solo attraverso il procedimento del “mirror reading”, non avendo nessuna loro
autopresentazione, ma solo la descrizione faziosa e negativamente enfatica di Paolo: così R. PENNA, La presenza degli
avversari di Paolo in 2Cor 10—13: esame letterario, in L’apostolo Paolo. Studi di esegesi e teologia, Ed. Paoline,
Cinisello Balsamo 1991, 301. Degli avversari tratteremo diffusamente più avanti.
27
Illuminante, in tal senso, il passo di Mc 3,21, dove il verbo e\xiéstanai è riferito a Gesù dai suoi parenti. V. P.
FURNISH, II Corinthians, AB, New York, 1984, 308 scrive: «Used intransitively, as here, the verb existanai means “to
lose one’s mind”, “to be beside oneself”, etc. Paul employs this verb nowhere else, but in Mark 3:21 it is used in the
same way with reference to allegation that Jesus was “beside himself” (RSV), that is, “possessed” (see v. 22). See also,
e.g., LXX Isa 28:7, where it means “to be out of one’s head because of strong drink”».
28
A proposito del fatto se il genitivo “di Cristo” debba considerarsi soggettivo oppure oggettivo o entrambi le cose V.
P. FURNISH, II Corinthians, cit., 309, afferma: «The evidence for the subjective (alone) is decisive: (a) Paul nowhere
else writes about one’s “love for Christ”, and rarely about one’s “love for God” (then using only the verb, Rom 8:28;
15
tra il kataè saérka e l’ ou di ou\deéna (specificazione del tou%to di kriénw) in base ad un motivo
fondamentale espresso da Paolo ai vv. 14-15 e che Paolo mutua dalla tradizione scritturistica
giudaica30: il fatto che uno solo è morto per tutti31. L’oggettività spaziale ed esistenziale che la
morte apre richiama quell’oggettività che in Rm 5,12-19 Adamo inaugura per poi lasciare il posto al
dikaiéwma e\noèv, che produce la dikaiéwsiv zwh%v32. Il vantaggio della morte di Cristo per tutti si
risolve in un orientamento della morte di tutti verso colui che è morto e risorto per tutti: se per
Cristo è usata l’espressione u\peér paéntwn, per i viventi si impiega il dativo di appartenenza, ad
indicare che la morte vantaggiosa, nella quale Cristo ha accolto tutti, ha aperto lo spazio di quella
che sarà in seguito la riconciliazione e la giustificazione33. Paolo qui completa, in maniera concisa e
lapidaria, quanto affermato nella 2° piéstiv (4,13—5,10), dove è la vita di Gesù che deve
manifestarsi in quanti portano nel loro corpo la neékrwsin tou% \Ihsou%, cioè la manifestazione
visibile di quella che è la consegna alla morte attraverso Gesù, perché la vita di Gesù sia manifestata
1Cor 8:3; cf. 1Cor 2:9, quoting Isa; 16:22, quoting a liturgical formulation [with philein, not agapan]). (b) God’s love
for his people is an absolutely fundamental Pauline theme (e.g., Rom 5:5; 2Cor 13:11.13), and this is seen to have been
established decisively through Christ (Rom 8:39), above all through his death (Rom 5:8)». Condivido pienamente la sua
posizione. Più avanti, sempre nella stessa pagina, il medesimo autore, a proposito del verbo suneécei, fa notare: «The
verb used here (synechein) has a wide range of meanings […]. In Phil 1:23 (the only other Pauline occurrence) it
describes the apostle’s situation of being “hard pressed” (RSV; BAG s. v. 5) to choose between life and death – that is,
constrained to make a difficult choice […]. Spicq (who himself translates the verb here as “étreint” [1959:127],
“embraces” [not “impels”, as in the English version of his book]), has noted that synechein commonly means “oblige”
in the papyri, and soon became “the usual word for stating the executory force of a judicial decision” (1965:192-93; cf.
Collange, 253) […]. Like Paul’s own verb, it has a certain juridical connotation». Il ministero della riconciliazione,
attuato attraverso la morte di Cristo, si situa in un contesto giuridico. Sotto questa prospettiva è da intendersi lo stesso
sacrificio di Cristo e ancora la missione apostolica dell’annuncio del Vangelo, che Paolo in 1Cor 9,16 definisce come
una “necessità”, un destino impostogli, al quale non può sottrarsi.
29
Sempre V. P. FURNISH, II Corinthians, cit., 310 scive:«Like synechein, the verb krinein often has a juridical
connotation: to come to a firm and effective decision about something or someone; see BAG s. v. 4a. Spicq (1959: 13536) provides istances where it means specifically coming to a religious judgement (“conviction”, Héring, 42 n.20) about
something».
30
Per tradizione scritturistica giudaica intendo qui sia i libri dell’Antico Testamento sia gli altri scritti giudaici anteriori
o contemporanei a Paolo. Non si può, infatti, chiarire o spiegare il pensiero paolino facendo ricorso a fonti posteriori: si
tratta, per certo, di un grave errore metodologico. Al riguardo cf. J. A. FITZMYER, Lettera ai Romani. Commentario
critico–teologico, Piemme, Casale Monferrato 1999, 492.
31
V. P. FURNISH, II Corinthians, cit., 310, afferma: «The preposition hyper (translated here simply for) cannot in and of
itself bear the weight of any particular theory of the atonement. It may mean “for the sake [or: benefit] of” (so Binder
1973:306), or “instead of”, thus overlapping in meaning with anti, as in Philm 13»; ancora G. BARBAGLIO, Le Lettere,
cit., 648, nota 118 pensa che «l’espressione ‘per tutti’ non sembra equivalere alla formula ‘al posto di tutti’ (=hypér
scambiabile con antí), come interpreta R. Bultmann nel suo commento»; ribadisce la stessa idea in ID., La teologia, cit.,
268. Ritengo che il senso della preposizione sia “a vantaggio di tutti”, significato che è peraltro giustificato da 5,21: ma
lo studio della preposizione con le conseguenze che ne derivano per la comprensione della natura della morte di Cristo
sarà affrontato più avanti. Lo stesso afferma J. MURPHY-O’CONNOR, La teologia della seconda lettera ai Corinti,
Paideia, Brescia 1993, 74: «Le parole apparentemente innocue ‘per tutti’ sono state l’elemento chiave per un’intera
pletora di teorie della redenzione […]. Cercare sfumature non serve; tutto quel che si può spigolare da una serie
significativa di affermazioni (1Tess. 5,10; 1Cor 15,3; Gal 2,20; Rm 5,8; 14,15) è che la morte di Cristo tornava a
vantaggio dell’umanità. Soltanto una simile espressione generica rispecchia fedelmente la situazione della soteriologia
cristiana nella metà del primo secolo d. C.».
32
Così pure in 1Cor 15,22.45-49, dove si ha già l’idea non di una sostituzione, ma di un emergenza in Cristo dell’uomo
spirituale nell’uomo animale.
33
Cf. ancora Rm 14,8-9; Gal 2,19-20; 1Ts 5,10. Illuminante in tal senso risulta Lc 20,38: «Dio non è dei morti, ma dei
vivi, perché tutti vivono per lui (au\t§%: dat. di appartenenza)».
16
anche nella carne mortale34. Il mhkeéti, unito al presente zw%sin, preceduto dal participio presente
zw%ntev, contrapposto quest’ultimo all’aoristo a\peéqanen (presente 2 volte, al v. 14 e al v. 15) e al
participio apoqanoénti del v. 1535, indica la definitività attuale di questa condizione dei viventi e
risale alla soteriologia escatologica di 4,7—5,10: le conseguenze (w£ste: v. 16) prodotte da ciò sono
espresse in 5,16 proprio con l’apertura dell’a\poè tou% nu%n e si condensano nella conoscenza di
alcuno non secondo la carne. L’a\poè tou% nu%n indica una novità, l’inizio di una nuova fase già al
presente36: è legato al nu%n ou|keéti successivo e prepara la catena che si estende da 5,18 a 6,2 di
i\douè …i\douè nu%n …i\douè nu%n di sapore profetico, che annuncia il compimento di quanto
annunciato.
L’espressione kataè saérka non è riferita a ou\deéna, ma al verbo oi!damen: Paolo non
intende qui negare la dimensione umana di Gesù37, la sua conoscenza di persona avuta da altri38, né
separa il Signore della gloria da quel Gesù storico, da lui ritenuto un nemico da perseguitare nei
suoi seguaci prima della conversione. Ciò che muta è il modo della conoscenza, quello secondo la
carne, che gli oppositori vantano39, ma che Paolo a\poè tou% nu%n non ha più, conoscendo ormai in
conseguenza della mutata condizione stabilita dalla morte di Cristo40. Alla conoscenza non secondo
la carne segue una seconda derivazione dalla morte di Cristo per tutti: la nuova creazione. La parola
ktiésiv rimanda a Iahvé creatore, non solo dell’ordine cosmico, ma anche della storia41: con le
stesse parole si dice che Dio fa le cose del mondo (il creato) come il popolo. In Sir 24 la Sapienza,
parlando della sua origine, afferma che Dio e!ktiseén me; il DtIs, che Paolo cita qui, parla per primo
della creazione per mezzo della parola e come nuova creazione, oltre a vedere il ritorno dall’esilio
come nuovo esodo, superiore al primo42. Quest’ultimo si attua in una fase escatologica, in quanto Is
34
Si noti l’idea dello scambio morte–vita in Gesù e per mezzo di lui, del quale parleremo più avanti.
L’aoristo indica un’azione compiuta, cioè che ha raggiunto la sua pienezza.
36
Si distacca dall’escatologia apocalittica, protesa al futuro, grazie al motivo soteriologico dell’u|peèr, sottolineato nella
sua presenzialità e contemporaneità dal mhkeéti zw%sin.
37
Essa è riaffermata da alcune espressioni semanticamente affini della stessa lettera, come ad es. 10,3: «nella carne (e\n
sarkiè) infatti camminando, non secondo la carne (kataè saérka) combattiamo»; 4,11: «la vita di Gesù sia manifestata
nella nostra carne mortale». Si ha ancora Rm 1,3, dove Cristo figlio di Dio è detto genomeénou e\k speérmatov Dauièd
kataè saérka; e l’inno cristologico di 1Tm 3,16:«si è manifestato nella carne», anche se per il pronome relativo si
accettasse la lezione del neutro, riferito a “mistero”, il quale ultimo sarebbe quello rivelato in 2Cor 4,11, dove traspare
appunto nella vita stessa dell’Apostolo. In tal caso, fa bene l’autore della 1Tm a porre Paolo maestro ed apostolo quale
exemplum anzitutto per se stesso, che dell’opera paolina è il prosecutore.
38
Potrebbe indicare ciò l’espressione: «se anche abbiamo conosciuto secondo la carne Cristo» (v. 16).
39
Così in 1,12 dove si ha e\n sofiéa sarkik+%, che ricorda il sofoié kataè saérka di 1Cor 1,26.
40
Di questa mutata condizione si parla in Gal 3,28: «non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è
più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù». Lo stesso tema è ripreso in 1Cor 12,13; Rm 10,12; nella
tradizione paolina di Col 3,11.
41
W. FOERSTER, ktiézw, in G. Kittel – G. Friedrich (a cura di), Grande lessico del Nuovo Testamento (GLNT), V,
Paideia, Brescia 1969, 1263ss, che seguiamo nella trattazione di questa voce.
42
ibid., 1266 cita i seguenti passi: 41,4; 48,13; 44,26; 45,12. Lo stesso V. P. FURNISH, II Corinthians, cit., 314-315: «In
Paul’s letters ktisis virtually always refers to the creation in its entirety […]. For the concept, Paul is indebted to
35
17
43,18, citato da Paolo, rimanda a Is 65,17. La possibilità di questo compimento escatologico è data
da Dio stesso, che abbraccia tutta la creazione e la storia affermando di se stesso in 44,6 e 48,12: «io
sono il primo e l’ultimo e all’infuori di me non vi è altro Dio»43. Testi rabbinici affermano che la
creazione è malata e che si ricostituirà nella sua sanità alla venuta del Messia; inoltre, cosa notevole
per il nostro brano, affermano ancora che ciò che rende l’uomo simile a Dio è la conoscenza: ed
infatti, la conoscenza non secondo la carne in Paolo deriva e si colloca nella nuova creazione,
espressione concreta della nuova alleanza, inaugurata dalla morte di Cristo per tutti. L’uomo, presso
i rabbini, è nuova creazione quando si rinnova il suo rapporto con Dio, non solo attraverso la
conversione e la circoncisione, ma anche attraverso il pentimento ed il perdono44.
Paolo riprende il concetto della creazione attraverso la parola in 2Cor 4,6 (divisione luce –
tenebre). Dio la attua in Cristo, e precisamente nella sua morte, che, a differenza della circoncisione,
è il fondamento della nuova creazione in Gal 6,15. La nuova creazione è apertura, inizio profetico
delle cose nuove, cioè del ministero della riconciliazione, e morte e passaggio delle cose antiche45,
cioè il modo delle carne46.
Tutto questo47, cioè la conoscenza non secondo la carne e la nuova creazione, come anche
l’affermazione finale che “le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove”, viene da Dio
“che ha riconciliato noi con lui per mezzo di Cristo e ha dato a noi il ministero della
riconciliazione”. Siamo al cuore del discorso. Paolo sta legittimando il suo ministero di fronte ai
corinti, nel tentativo di rispondere ai suoi oppositori e alle accuse mossegli: il punto in questione è
l’apice della sua difesa condotta secondo ben determinate linee teologiche48. Notevoli difficoltà
sorgono qui nel definire lo stesso sviluppo letterario del tema. Seguendo l’esegesi di Käsemann, che
vede nei vv. 19-21 un frammento di un inno pre-paolino, gli esegeti individuano proprio in questi
apocalyptic Judaism…; see especially Stuhlmacher (1967), who also notes the significance of the idea in Hellenistic
Judaism».
43
ibid., 1288 nota che anche l’amore per il prossimo è fondato su Dio creatore e che la Torah costituisce il senso
obiettivo della creazione e della storia del mondo, specie quando rientra nell’orbita della sofiéa (Sir 24).
44
ibid., 1287-1295. Il ricorso ai testi rabbinici qui è giustificato in quanto il pensiero da loro espresso ha radici lontane
che probabilmente giungono sino al tempo di Paolo.
45
V. P. FURNISH, II Corinthians, cit., 315: «Georgi (1964:257; cf. 138-39, 167ff.) has argued that this phrase may have
been a slogan of Paul’s opponents, for whom (according to Georgi’s hypothesis) religious tradition played an important
role. It is probable, however, that the apostle’s use of the phrase derives from the general apocalyptic tradition and
designates the totality of creation […]. See LXX Isa 43:18-19, where ta archaia is used in synonymous parallelism with
ta prota, “the first things” (cf. Rev 21:4) and is contrasted, as it is here, with kaina, “new things”».
46
ibid., 316: «The apocalyptic tradition to which Paul is clearly indebted in this passage conceives of a total
replacement of the old by the new, not just a rehabilitation of the old».
47
ibid., 316: «This verse is connected with what precedes it by the conjunction de, left untranslated here».
48
ID., The ministry of reconciliation, in CthMi 4 (1997) 208: «The broader literary context of Paul’s reference to “the
ministry of reconciliation” is the discussion of the meaning of apostleship which begins at 2:14 and extends through 7:4.
The narrower context is found in 5:11—6:10 where the content of the gospel entrusted to God’s true servants is more
specifically summarized»; 212: «This accords with the point being made against the false apostles in the whole of
2:14—7:4: true apostles are not “sufficient” of themselves, but their sufficiency is in God alone(3:5-6); their ministry is
by God’s mercy (4:1), through the agency of Christ (4:5-6) and to God’s own glory (4:7, 15). This whole line of
argument reaches its climax now in 5:18-20».
18
vv. l’inizio di una citazione, letterale o adattata da Paolo, introdotta da w|v o£ti al v. 19; il problema è
allora rappresentato dal v. 18, del quale ci si chiede se appartenga alla citazione o se sia stato scritto
da Paolo e, in quest’ultimo caso, se veramente apra una citazione o il v. 19 debba considerarsi una
spiegazione paolina, frammista ad una formula tradizionale, del v. precedente49. Si nota uno stretto
legame tra il v. 18a ed il v. 19c: la presenza in questi vv. dei participi aoristi permette di individuare
l’inno pre-paolino nel v. 19ab50. Il fatto che l’ultimo participio aoristo, quello del v. 19c (qeémenov),
sia al nominativo, non indica una semplice coordinazione tematica e letterale: il caso nominativo è
dato dall’attrazione di Qeoèv del v. 19a, il tempo verbale dell’aoristo è determinato dalla
formulazione paolina al passato del v. 1851. Non convince l’ipotesi di una coordinazione senza
esplicita citazione avanzata da alcuni in base a corrispondenze semantiche e lessicografiche, le quali
non sempre sono valide e spesso travisano il senso teologico del testo medesimo52. Un altro
problema è dato dalla costruzione verbale h&n…katallaésswn: la maggior parte degli studiosi
pensa si tratti una coniugazione perifrastica di derivazione semitica, per altri il verbo h&n va
49
ID., II Corinthians, cit., 318 scrive:«Finally, Käsemann (1971a:53) takes the hos as “transitional” and regards hoti as
introducing a quotation. There are enough indications that Paul is indeed relying on a traditional formulation in v. 19ab
to make this last suggestion the most plausible»; contrariamente, D. L. TURNER, Paul and the ministry of reconciliation
in 2Cor 5:11—6:2, in Criswt 4 (1989s) 84, nota 33 afferma:«Paul also uses this combination in 2 Cor 11:21 and 2 Thess
2:2, but in these cases the combination introduces statements which Paul does not totally affirm. Some who believe that
Paul is alluding to a traditional formula at this point translate “as it is said” (e. g., Furnish, 2 Corinthians, 317-18). But
arguments that Paul is adapting tradition throughout the passage (as, e. g., by Martin, “Reconciliation at Corinth”, 94ff.)
are not convincing. One thing is clear, the thought of v 18 is enlarged in v 19, making an epexegetical translation such
as “that is” preferable».
50
ID., The ministry, cit., 211, nota 23: «The use of the aorist tense for all three participles (tou
katallaxantos…dontos…themenos) not only shows their connection, but also distingishes them from the use of the
present participle (katallason) in the pre-Pauline formula of vs.19ab».
51
ibid., 211, nota 24: «Against Bultmann (for example), who, not reckoning with a citation in vs. 19, co-ordinates kai
themenos…with me logizomenos…, Der zweite Brief an die Korinter, p.163. But when one sees that me
logizomenos…autön is a part of a pre-Pauline explication of reconciliation (although not one incompatible with Paul’s
own view, e.g., in Rm. 5:6-11), then the way is opened for viewing kai dontos…in vs.18b and kai themenos in vs. 19c
as co-ordinate. The nominative case of themenos has of course been determined by theos in the citation of vs.19a, but
even so Paul returns to the aorist tense of his own formulation in vs.18».
52
Così D. L. TURNER, Paul and the ministry, cit., 84, nota 32: «The following displays the similarity of these two
verses:
18 A taè deè paénta e\k tou% Qeou% katallaéxantov h|mav e|aut§% diaè Cristou%
B kaiè doéntov h|mi%n thèn diakoniéan th%v katallagh%v
19 A’ w|v o£ti qeoèv h&n e\n Crist§% koésmon katallaésswn e|aut§%
C mhè logizoémenov au\toi%v taè paraptwémata au\tw%n
B’ kaiè qeémenov e\n h|mi%n toèn loégon th%v katallagh%v
The A and A’ lines are quite similar except that the object of reconciliation (“us”) in A is expanded to “world” in A’.
The band B’ lines are nearly synonymous except for the terminology, with B having doéntov… diakoniéan and B’
having qeémenov… loégon. It is obvious that the major expansion has taken place in line C, wich describes reconciliation
in terms used elsewhere of justification (Psa 32:2; Rm 4:8)». La corrispondenza lessicografica non viene però motivata
dall’autore, il quale non si accorge che è proprio C a rompere la linearità del parallelismo della sua costruzione (e C non
contiene un’affermazione teologica tale da poter essere considerata principale). Ancora,il fatto che C possa contenere
una terminologia simile a quella usata per il concetto di giustificazione non abilita ad una identificazione tra
quest’ultima e l’idea di riconciliazione. Inoltre diaconia della riconciliazione e parola di riconciliazione non sono così
facilmente scambiabili per sinonimia: così H. HÜBNER, Teologia biblica del Nuovo Testamento. La teologia di Paolo, 2
voll, Brescia 1999, 261, che fa sue le opinioni in merito di Hofius.
19
attribuito solo a Dio e separato dal participio presente53; quest’ultimo potrebbe anche intendersi
come un participium coniunctum54. È certo comunque che si tratta di una forma all’imperfetto
cosiddetta “incoativa”, giacché mette in risalto l’inizio del processo di riconciliazione.
Questo è perciò opera di Dio che riconcilia a sé l’umanità intera55, non imputando a
nessuno le colpe56: Paolo diviene annunziatore della parola di riconciliazione57 nel ministero58 della
medesima, fungendo da ambasciatore per Cristo59. In questo ruolo egli esorta e comanda a lasciarsi
riconciliare con Dio: la forma verbale usata, katallaéghte, è un imperativo kerigmatico, mentre il
verbo parakaleién assume in certi casi il significato di “tentare di creare riconciliazione”60.
La riconciliazione è allora scambio, come vuole l’etimologia stessa del termine, tra colui
che non aveva conosciuto peccato, il quale è fatto peccato, e coloro che erano ingiusti, i quali
divengono giustificazione di Dio. È questa del v. 21 l’affermazione centrale di tutto il brano, che ne
determina il movimento teologico, precedente e seguente. Il richiamo è al v. 14, che qui trova la sua
53
Così V. P. FURNISH, II Corinthians, cit., 318: «(a) One may read the verb, was (ēn), independently of the participle,
reconciling (katallassōn), thus obtaining “God was in Christ, reconciling…” […]. (b) One may read ēn… katallassōn as
an imperfect periphrastic construction (perhaps an Aramaism), thus obtaining “in Christ God was reconciling…” […].
This yelds a meaning fully in accord with v. 18 (thus “in Christ” [v. 19a] would be equivalent to “through Christ” [v.
18])».
54
H. HÜBNER, Teologia biblica, cit., 260, nota 62: «Vista l’espressione singolare w|v o£ti, con Blass-DebrunnerRehkopf, 353 n.7, andrebbe presa seriamente in considerazione la traduzione “come è certo che fu Dio a riconciliare a
sé l’umanità in Cristo”. Se tale traduzione dovesse essere adeguata, se dunque katallaésswn va considerato un
participium coniunctum, tuttavia l’interpretazione di Hofius per cui Dio era presente nel crocifisso non ne risulterebbe
affatto modificata».
55
J. DUPONT, La Réconciliation dans la Théologie de Saint Paul, PUL, Bruges–Paris, 1953, 18: «Pour saint Paul, ce
que Dieu change, ce n’est pas ses propes dispositions; ce n’est pas davantage les dispositions de l’homme à son égard;
c’est la situation dans laquelle l’homme se trouve par rapport à lui».
56
La non imputazione si svolge in seno ad un contesto giuridico e giudiziario: a tal proposito V. P. FURNISH, II
Corinthians, cit., 319: «That a juristic concept is at work here is well illustrated by 2 Kgdms 19:20 (2Sam 19:19; Shimei
pleading with King David for clemency): “Let not my Lord now charge me with transgression [mē dialogisasthō ho
kyrios mou anomian]”».
57
La parola di riconciliazione si identifica con il vangelo ed è distinta dal ministero della riconciliazione: così V. P.
FURNISH, The ministry, cit., 215; H. HÜBNER, Teologia biblica, cit., 261, riprendendo Hofius, afferma: «Il vangelo
sarebbe la parola propria di Dio. È innegabile che il vangelo sia proprio questo. Ma la ‘diakonia della riconciliazione’
consiste nell’annunciare appunto questa parola, che è parola di Dio. È la coincidenza tra parola apostolica e parola
particolare di Dio a far diventare l’annuncio un evento escatologico». Per cui, non è la riconciliazione del mondo a
fondare la diaconia della riconciliazione, ma viceversa, proprio perché Dio “ha posto in noi la parola della
riconciliazione”. Il movente della riconciliazione è in Paolo di natura soteriologica.
58
Così V. P. FURNISH, The ministry, cit., 209, n.16: «The words are often rendered as “servant”, “serving” and
“service” and it is true that they can bear this meaning, with special reference to those who serve at meal. But D. Georgi
has shown that, in various philosophical, religious, propagandistic texts contemporary with Paul, the terms refer
primarily to preaching and teaching, and that this is also the meaning they have for the apostle». Ibid., 215, ricorda che
«the phrase “the ministry of reconciliation” has formal parallels in the phrases “the ministry of the Spirit” and “the
ministry of righteousness” in 3:8,9. Those expressions (contrasted, respectively, with the ministries “of death” and “of
condemnation”, 3:7,9) describe the ministry of the new covenant (cf. diakonous kaines diathekes, 3:6)».
59
L’ambasceria e la supplica di Paolo scaturiscono da Cristo stesso, che esorta/riconcilia attraverso (diaè) lui ed i suoi
collaboratori: si ripete due volte u|peèr Cristou%.
60
V. P. FURNISH, The ministry, cit., 216: «In some contexts parakalein can itself mean, specifically, to seek
reconciliation.[…]. Finally, in II Cor 2:6-8 Paul warns these same Corinthians that they have punished a certain errant
member quite enough; now they should “turn to forgive and to support (parakalesai) him”. In this context the verb
means to seek a new rapport with someone through forgiveness and, as Paul says specifically in the next sentence,
through love: “I urge you to confirm [or perhaps: reaffirm ] your love for him” Here the “appeal” (parakalein) is to be
directed toward “resocialization” or, using a Pauline word, toward “reconciliation”».
20
giustificazione: si comprende, nell’ottica dello scambio, la natura della morte dell’uno solo per tutti
e le conseguenze esistenziali (v. 15-16), cosmiche (v. 17) ed apostoliche (v. 18-20) che da questa
particolare morte derivano.
L’affermazione del v. 21 sembra essere una riflessione, o meglio un’interpretazione che
inquadra la morte di Gesù nell’ottica del quarto carme del Servo di Iahvé di Isaia61. In quest’ultimo,
a 53,10 si afferma: O$pn {$) {y$T-{). Il rimando qui è al singolo giusto solidale con gli empi:
l’offerta di sé62 consiste nel partecipare insieme con gli empi al giudizio emesso su di loro. Ma
proprio qui avviene lo scambio: la condanna dei molti passa sull’uno solo giusto, la cui sentenza di
assoluzione per la sua innocenza si riversa per converso sui molti empi, rendendoli giusti e perciò
salvandoli dalla fine. Non è lui a rendere giusti gli empi, ma la sua solidarietà a far sì che il giudizio
di condanna non sia attuato sui molti, ma solo su se stesso63.
È da notare, inoltre, che Paolo usa l’astratto per il concreto: si parla enfaticamente di
a|martiéa, che indica il peccato come potenza oggettiva64, non di paraptwmaéta, affermando
esplicitamente che Gesù fu fatto a|martiéa; così pure si rivela che in virtù dell’esser fatto peccato di
Cristo, gli uomini diventano giustificazione di Dio. Il pensiero si comprende legandolo
all’affermazione di 1Cor 1,30, dove sta scritto che Cristo Gesù, per opera di Dio «è diventato per
noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione»: anche qui è usato l’astratto per il concreto,
indicando in Cristo la causa originante ogni perfezione dell’uomo nel suo rapporto con Dio65.
La dikaiosuénh è l’atto di rendere giusti da parte di Dio: essa è un atto di grazia che
implica insieme il giudizio. Il pensiero veterotestamentario non vede contrapposti in assoluto la
misericordia ed il castigo: questi sono espressioni congiunte dell’unico amore di Dio, entrambi
61
ID., II Corinthians, op. cit., 340: «Hoad 1957:254 (cf. Hofius 1980a:196) compares this to Isa 53:9b (of the Suffering
Servant): “he committed not lawless act, nor was deceit found in his mouth” (LXX: anomian ouk epoiēsen, oude
heurethē dolos en tō stomati autou)».
62
L’interpretazione del v. è assai controversa.
63
Sui processi e sul concetto giuridico di giustizia nell’AT cf. P. BOVATI, Ristabilire la giustizia, Analecta biblica 110,
PIB, Roma 1986.
64
Non penso che il lessema possa indicare anche il sacrificio per il peccato in questo caso: Paolo, nel descrivere con
termini cultuali la morte di Cristo, adopera vocaboli di natura sacrificale come i|lasthérion in Rm 3,25 o
a\poluétrwsiv in 1 Cor 1,30. In questo caso, ha ragione H. MERKEL, katallaéssw, in H. Balz – G. Schneider (a cura
di), DENT, I, Paideia, Brescia 1995, 1944: «Si dovrebbe piuttosto ricordare, con Hengel 83s., che è caratteristica del
pensiero orientale la ‘molteplicità degli approcci’, così che Paolo mette in risalto il significato salvifico della morte di
Gesù proprio perché giustappone varie categorie di interpretazione: la riconciliazione dall’ambito politico–sociale,
l’espiazione dall’ambito cultuale, la giustificazione dall’ambito forense, il riscatto dall’area del diritto internazionale».
Lo stesso afferma la centralità della categoria di riconciliazione, che fa risalire alla tradizione antiochena, nel pensiero
paolino: questo contro J. GNILKA, Paolo di Tarso. Apostolo e testimone, Paideia, Brescia 1998, secondo il quale, a
causa della sua frequenza relativamente scarsa, la riconciliazione non andrebbe considerata un motivo centrale della
teologia paolina.
65
Cf. anche Rm 6,13.18, dove si ha la corrispondenza peccato–giustificazione in riferimento ai credenti ed alla loro
condotta.
21
necessari perché si rinnovi il rapporto dell’uomo con Dio66. Paolo qui non parte dalla cristologia,
per illustrare chi sia Cristo, ma dalla soteriologia, dalla storia concreta così come è narrata (inno)
per dire la natura di Cristo, il suo essere relazionale, come tale aperto e disposto allo scambio, dal
quale prende avvio la diaconia della riconciliazione e, da questa, la nuova creazione. Ciò perché
l’astratto (la divinità di Gesù) non spiega il concreto, cioè la storia: non si comprenderebbe il senso
della morte del Figlio di Dio, assimilato al peccato, senza la storia.
Essendo collaboratore67 (di Dio qui, come lo è della gioia dei corinti in 2Cor 1,24), anche
Paolo esorta, come il Dio che esorta e consola68. L’esortazione paolina non ha un tenore
moralistico, essa è invito ad accogliere: deéxasqai indica l’aspetto del ricevere qualcosa da un altro
ed esprime la reazione ad un’azione proveniente dall’esterno69. Paolo invita ad accogliere la grazia
della riconciliazione, operata attraverso Cristo, che si manifesta nella sua diaconia: in tal senso,
l’invito è ad accogliere lui medesimo come vero apostolo. L’esortazione presenta una citazione di Is
49,8 secondo la versione dei LXX: se nel testo originale è difficile sapere a chi l’invito è rivolto, se
G. SCHRENK, dikaiosuénh, in G. Kittel – G. Friedrich (a cura di), GLNT, II, Paideia, Brescia 1966, 1270: «La
dikaiosuénh è certamente un atto di grazia, ma è tale da porre al tempo stesso nettamente in evidenza la giustizia di Dio
giudice»; Schrenk però rifiuta di applicare la situazione giuridica direttamente al rapporto uomo–Dio. Preferisce parlare
di una metafora giuridica che «non si può estendere per concatenazione logica, ma va trasposta direttamente sul piano
divino» (1272), in modo da mantenere alla giustificazione il suo carattere “grazioso” e da preservare la santità e l’agire
santo di Dio nella fedeltà al patto. Mi sembra che queste preoccupazioni apologetiche facciano perdere la “realtà” del
rapporto uomo–Dio, che è invece tenuta sempre presente nel pensiero biblico: è nella concretezza della vita che si fa
l’esperienza di Dio.
67
G. BERTRAM, sunergoév, in G. Kittel – G. Friedrich (a cura di), GLNT, XIII, Paideia, Brescia 1981, 200 nota, a
proposito del testo ebraico di Is 38,12: «Nel testo ebraico in questo passo si trova un termine tecnico della tessitura, e
forse anche traducendo con sunergoév si voleva anzitutto far riferimento al tessuto come risultato del lavoro manuale
del tessitore». Non possiamo essere sicuri che qui Paolo richiami direttamente il suo lavoro, peraltro indicato in At 18,3
con il termine skhnopoioié (riferito pure ad Aquila e a sua moglie Prisca). È certo, però, che Paolo affermi così, ancora
una volta, di non avere bisogno di lettere di raccomandazione o di sostegno materiale dalla comunità, perché egli ha
scelto di vivere lavorando con le sue proprie mani, nell’annuncio gratuito del Vangelo. Il lavoro qualifica, infatti, la sua
diaconia, contro gli oppositori.
Ancora, in 8,23 Tito è detto sunergoév di Paolo nel suo ministero verso i corinti: traducendo l’ebr. rbx (gr. anche
fiélov), indica il collega. La collaborazione nello stesso ministero rende tutti paritari: tutti sono al servizio di Dio che
opera la riconciliazione. Così pure Gesù in Lc 22,27 sta come diacono. G. Bertram, nell’articolo citato, aggiunge: «Con
queste designazioni Paolo rivendica a sé e ai suoi collaboratori una qualificazione teologica. Il loro aiuto nella
predicazione dell’evangelo significa che essi partecipano con l’Apostolo al peso del servizio della riconciliazione e così,
con un faticoso lavoro, hanno parte, nel senso di Is.43,24, all’opera propria di Dio. In tal modo sono servi e operai di
Dio. Come tali essi possono pretendere l’obbedienza della comunità. Ciononostante, essi non sono i padroni della
comunità in senso umano, bensì promotori della sua gioia (2 Cor 1,24)».
68
Alla nota 53 abbiamo già visto come il verbo parakaleién assuma il significato, oltre che di “consolare”, anche di
“tentare di fare riconciliazione”. O. SCHMITZ – G. STÄHLIN, parakaleién, in G. Kittel – G. Friedrich (a cura di),
GLNT, IX, Paideia, Brescia 1974 notano che il consolare e la consolazione «servono per promettere o attestare la
consolazione divina di cui ha bisogno il popolo di Dio sottoposto al giudizio divino o anche il singolo che sta nella
tentazione e nell’ angoscia» (615). Gli stessi ricordano, inoltre, che nell’AT a consolare sono la Torah, la Sapienza ed il
Servo di Dio (648). Nel giudaismo il tempo del Messia è quello in cui si attuerà la consolazione di Israele da parte di
Dio, cioè la risurrezione. Consolazione e risurrezione sono associati nella nostra lettera in 1,3-6.9, dove si afferma che
Dio consola nelle qliéyeiv, che sono il segno distintivo del vero apostolo, aprendo in tal modo alla speranza nella
risurrezione. Cf. ancora lo stesso motivo in 4,13—5,10, la 2° piéstiv soteriologica – escatologica, ed i vv. 14-15 del
brano in esame.
69
Il verbo lambaénein si situa più dalla parte di chi dà ed indica la presa dell’oggetto. Il significato di deéxasqai qui
può essere chiarito da Mt 18,5, dove Gesù afferma che chi accoglie un bambino nel suo nome accoglie lui.
66
22
al servo come continuazione del 2° carme o a Israele (al v. 14, infatti, parla Sion), in Paolo
l’esortazione è volta ai corinti70. A questi ultimi l’Apostolo chiede in particolare di accogliere il
kairoév dektoév e l’h|meéra swthriéav, annunciati dal profeta Isaia ed oggi avveratisi, attraverso la
morte di Cristo, nella conoscenza non secondo la carne e nella nuova creazione. Infatti, il doppio
i\douè nu%n di 6,2 richiama il nu%n del v. 16c e l’ i\douè del v. 17b, costruendo un’inclusione con l’a\poè
tou% nu%n del v. 16a, il quale ultimo fa rientrare così tutto quanto è detto in 5,16—6,10 nella sfera
soteriologia ed escatologica attuale data dalla morte oggettivizzante di Cristo. In Is 49,8 è Dio che
coglie il kairoév, non l’uomo: ma il destino imposto richiede all’uomo la risposta della volontà
attraverso la decisione morale, per lo meno nel mondo greco. Più il kairoév si compie nel presente,
più diviene pressante in Paolo, come d'altronde lo era anche in Gesù, l’appello (parakalou%men)
ad accoglierlo, cioè ad attuarlo concretamente nella propria esistenza71.
L’accoglienza del momento favorevole si risolve nell’accoglienza data a Paolo ed ai suoi
collaboratori, nei quali è stata posta la parola della riconciliazione (v. 19c), come veri diaconi di
Dio, che in nessun modo danno occasione perché venga bestemmiato il loro ministero. L’e\n pantiè
di 6,4 è specificato da quanto segue ai vv. 4b-10, che costituiscono l’ulteriore legittimazione del
ministero paolino. Della composizione di questi versetti abbiamo già parlato72. Qui aggiungiamo
che la descrizione del ministero paolino in essi contenuta ha come paralleli nella stessa lettera 4,712 e 11,23-3073. Degno di nota è il fatto che Paolo parli di armi della giustificazione, il che richiama
il «le nostre armi non sono carnali» di 10,3. L’immagine delle armi si comprende meglio da 1Ts
5,8, dove si parla della «corazza della fede e della carità» e della speranza della salvezza quale elmo
e da Rm 13,12, dove si parla di armi della luce; più diffuso sul tema Ef 6,10-17, che parla di verità
per cingere i fianchi, di corazza della giustizia, dello zelo per propagare il vangelo quale calzatura ai
piedi, di scudo della fede, di elmo della salvezza, di spada dello Spirito, cioè la Parola.
Ancora, le antitesi dei vv. 8-10 testimoniano lo scambio avvenuto nella persona
dell’apostolo. Egli è nella sua debolezza perché appaia in lui la potenza di Dio, che nella croce di
Cristo riconcilia a sé il mondo e determina una nuova creazione per quanti accolgono il momento
favorevole della salvezza e muoiono con Cristo. L’esortazione è infatti rivolta a credenti. Così
l’apostolo legittima il suo ministero dinanzi ai suoi oppositori, predicando nella sua stessa vita la
70
Da notare che il nostro brano è composto con citazioni esplicite ed implicite di Is. Ciò rivela la conoscenza ampia
delle Scritture di Israele che Paolo possiede come pure l’uso ottimo che gli è proprio delle tecniche di interpretazione
giudaiche, particolarmente il midrash. Ciò rivela la sua superiorità sugli oppositori e, al contempo, getta luce
sull’identità e la provenienza di quest’ultimi.
71
Così pensa G. DELLING, kairoév, in G. Kittel – G. Friedrich (a cura di), GLNT, IV, Paideia, Brescia 1968, 1377.
72
Cf. alle pp. 8-9.
73
In 11,23-30 abbiamo la corrispondenza di questi termini: koépoi, fulakaié, plhgaié, a\grupniaié, nhsteiéai.
23
riconciliazione, questo admirabile commercium74 che sin da ora immette escatologicamente nella
nuova creazione e nella nuova alleanza, dissolvendo il modo della carne e facendo apparire le cose
nuove.
I vv. 11-13 sembra si leghino a 7,2-4. Il brano di 6,14-7,1 potrebbe essere o inserzione
redazionale di un autore cristiano (le idee qui espresse sono diverse da 1Cor 5,9-10) o riporto da
parte di Paolo di predicazioni protocristiane (Cf. il nome Beliar, che appare solo qui, di matrice
giudaica) per l’uso di espressioni (“sovrabbondo di gioia”, l’alternanza di plurale-singolare in 7,2-4)
che sono proprie dell’Apostolo.
7,5 può essere o ripresa della narrazione interrotta in 2,13, quindi il prosieguo della lettera di
riconciliazione, o può spiegare le tribolazioni del v. 4 precedente. In ogni caso il tenore di questo
brano è segnato dalla gioia derivante dalla consolazione. Il dolore dei corinti ha avuto un esito
secondo Dio, cioè il pentimento che conduce alla soterìa, in contrasto con una tristezza secondo il
mondo che genera morte. L’offeso non sembra riferirsi a un collaboratore di Paolo, può essere
anche un modo di scrivere. Tito non doveva essere sconosciuto ai corinti: con lui di loro Paolo si
era vantato.
Laboratorio: 2Cor 8,1-15
Lunedì 16:
Similarità di temi e linguaggio nel cap. 9, ma non è certo che siano due biglietti
indipendenti. Qui i corinti sono esempio per i macedoni, ma non è certo che al cap. 8 i macedoni
siano esempio per i corinti (Cf. i vv. 7ss.). Citazioni scritturistiche come motivazione della colletta.
La colletta è chiamata eulogia (v.5) e si lega all’amore di Dio.
I capp. 10-13 hanno toni duri verso la comunità di Corinto e gli oppositori di Paolo. Dinanzi
a tutti Paolo fa valere la sua qualità di apostolo e opera il vanto “inopportuno, ma necessario” di sé.
Il suo non è un vanto oltre misura, né in maniera indebita: è un vanto nel Signore. Ed è un vanto
della sua diakonia (11,8). Da evidenziare qui: vantarsi-raccomandarsi – misura –unità di misura –
abilitazione e approvazione.
L’opera di riconciliazione promossa da Dio attraverso la morte vantaggiosa di Cristo, in
forza della solidarietà salvifica di quest’ultimo, il solo giusto, con l’umanità peccatrice, si manifesta
74
Così intesero i Padri lo scambio tra l’uomo e Cristo. Uno scambio che è riconciliazione e che avviene in forza della
solidarietà salvifica di Dio in Cristo con il peccato dell’umanità.
24
nella diaconia dell’Apostolo, ricevuta direttamente da Dio (2Cor 18b), che in lui ha posto la parola
della riconciliazione (v. 19c). Mostrare la legittimità del suo ministero75 è, infatti, l’intento
principale di Paolo lungo tutta la lettera: per questo prepara una serrata apologia teologica contro gli
oppositori che vantano visioni, conoscenza della Legge e delle tradizioni, abilità oratoria e si fanno
mantenere dalla comunità. Il ministero paolino si colloca su di una linea completamente diversa da
quella dei suoi oppositori, quella della debolezza, che appare poi come l’unica e vera autenticazione
del ministro di Cristo.
Il ministero è parte dell’evento di riconciliazione e si situa in essa a vantaggio della
comunità76, allo stesso modo della morte di Cristo, il quale “fu crocifisso per la sua debolezza, ma
vive per la potenza di Dio. E anche noi che siamo deboli in lui, saremo vivi con lui per la potenza di
Dio nei vostri riguardi” (13,4). Paolo concepisce il suo ministero come partecipazione alla
debolezza di Cristo, della quale sola egli si vanta, giacché in essa si manifesta pienamente la
potenza di Dio (12,9). Si tratta di una debolezza non psicologica, ma legata strettamente
all’annuncio del vangelo, costituita da infermità, oltraggi, necessità, persecuzioni, angosce (12,10):
è questa la spina nella carne, unitamente alla preoccupazione per tutte le Chiese e per il suo stesso
popolo, quello ebraico, duro a credere in Cristo77.
Di questa debolezza Paolo traccia un quadro realistico, per nulla enfatico, proprio nel nostro
brano, in 6,4-10, al fine di legittimare il suo ministero come vero (“perché non sia bestemmiato il
ministero…”ci presentiamo come diaconi di Dio”), in quanto non sorretto da lettere di
raccomandazione, dando così ai corinti l’occasione di vanto sperata e promessa in 5,11. Abbiamo
delineato già la struttura di questi vv., che riproponiamo per facilitare l’analisi, per cui si ha:
i luoghi della diaconia: 6,4-5 fino a e\n nhsteiéaiv;
i modi della diaconia: 6,6-7a fino a e\n dunaémei Qeou%;
i mezzi della diaconia: 6,7b-8 fino a eufhmiéav;
75
V. P. FURNISH, The ministry, cit., 209: «It is important that diakonos and the related terms appear more often in II
Corinthians (20 times) than in all of the other Pauline letters combined (15 times)».
76
ID., II Corinthians, cit., 336: «Paul significantly expands on the tradition cited in v. 19ab when he includes as an
integral part of the act of reconciliation God’s bestowal of a ministry of reconciliation (v. 18c). This ministry is not
regarded merely as responsive to or a consequence of the eschatological event, but as a constituent part of the event
itself (cf. Bultmann, 162; Dinkler 1970:177). This means that the ministry does not “bring” reconciliation, but exists
only because reconciliation has already occurred».
77
Occorre precisare che il cap. 12 è redatto secondo lo stile apocalittico: da qui la difficoltà di intendere l’oggetto della
spina nella carne, cioè il motivo di tanta affannosa preoccupazione. Riguardo poi alle rivelazioni, credo che Paolo stia
ironizzando contro gli oppositori, che vantavano visioni: personalmente sono convinto che l’Apostolo non ebbe visioni,
ma fu l’intelligenza della fede mossa dallo Spirito a spingerlo a credere. La tesi andrebbe supportata da uno studio dei
termini a\pokaluéptw, a\pokaéluyiv e simili e da un’attenta analisi dei tre racconti (At 9,1-19; 22,5-16; 26,9-18, nel
quale ultimo si parla di pungolo, ma più come resistenza di Paolo, per cui non è assimilabile alla “spina nella carne”)
dell’apparizione sulla via di Damasco, anche questi in stile apocalittico. Una cosa comunque si può affermare con
certezza: data l’identificazione tra Gesù e la comunità perseguitata, Paolo ebbe il suo incontro con il Risorto nelle attive
comunità ellenofone gerosolimitane e damascene, che gli trasmisero la fede nel Cristo e della quale egli si persuase: cf.
sotto, p. 68-77.
25
le espressioni della diaconia: 6, 9-10.
I luoghi della diaconia non sono quelli dell’efficienza, ma dell’apparente sconfitta e delle
difficoltà, in mezzo alle quali si persevera (e\n u|pomon+%). Paolo è sottoposto a tribolazioni e a
necessità di qualsiasi genere78, deve subire forse imprigionamenti (fulakai%) e sicuramente essere
al centro di divisioni (a\katastasiéai)79, unendo tutto ciò alle fatiche ed alle privazioni che
comporta la fatica apostolica80.
I modi della diaconia sono rappresentati dalla sincerità delle intenzioni (e\n a|gnoéthti) e
dalla apertura verso tutti (e\n makroqumiéç, e\n crhstoéthti), propria di Paolo; la sua parola di
verità (loégov a\lhqeiéav)si esprime nel suo amore esente da finzioni (e\n a\gaép+ a\nupokriét§),
mentre la potenza di Dio (duénamiv Qeou%) lo accompagna81.
I mezzi (diaé) della diaconia sono rappresentati dalle armi della giustificazione a destra (per
l’offesa) e a sinistra (per la difesa), armi non carnali (Cf. 10,4)82 e, cosa ancor più strana, da buona e
cattiva reputazione. Troviamo qui una costruzione chiasmatica di termini equivalenti, i primi due
riferiti all’opinione in genere, gli ultimi due testimonianti la realtà concreta: doéxa-a\timiéadusfhmiéa-eu\fhmiéa83.
Le espressioni della diaconia sono costituite da situazioni antitetiche che Paolo sperimenta
insieme ai suoi collaboratori. Le antitesi, introdotte dalla particella w|v, sono ben sette e
testimoniano lo scambio che avviene nella persona dell’Apostolo mentre esercita il ministero della
riconciliazione. Degno di nota l’espressione w|v a\poqn+éskontev kaiè i\douè zw%men (v. 9), che
richiama la convinzione di Paolo espressa in 4,7-12, il brano parallelo al nostro, secondo cui la vita
di Gesù si manifesta nella morte del discepolo. Qui Paolo vede se stesso come un vaso di creta (v.
7), continuamente esposto alla morte attraverso tribolazioni, sconvolgimenti, persecuzioni e colpi
(vv. 8-9), perché nella sua carne mortale si riveli la vita di Gesù (v. 11), la quale tornerà a vantaggio
dei corinti (v. 12). Le sofferenze e la morte dell’Apostolo nella sua imitatio Christi, non sono,
V. P. FURNISH, II Corinthians, cit., 343, a proposito di qliéyeiv, a\naégkai e stenocwriéai, scrive: «These three terms
are used more or less synonymously here, and with a general meaning[…]The first and last terms are often paired, as in
the similar lists in 4:8 and Rm 8:35. The first and second terms are paired in 1 Thess 3:7, but in reverse order (RSV:
“distress and affliction”). The second and third terms are both again present in 12:10 in yet another list of apostolic
hardships».
79
ibid., 344: «Although the apostle here speaks of imprisonements (plural), Acts report only one up to this point in
Paul’s ministry (in Philippi, Acts 16:23-40). The third term (akatastasiai) is used in 12:20 with reference to general
congregational disorder».
80
ibid., 344: «These three hardship are also mentionedin the list in chap. 11 (v. 27) […]. However, it is also possibleto
interpret the plural here as a reference to “apostolic labors” – specifically, Christian missionary work (so Hughes, 225),
as in 10:15 (and perhaps in 11:23). If the former, then the second and third terms in this series should probably be
interpreted as deprivations associated with working at one’s craft […]. But if the reference is to apostolic labors, then it
would be possible think of the sleepless nights and times without food as due to the exigencies of missionary service».
81
ibid., 345.
82
Di queste armi abbiamo già parlato: cf. p. 31.
83
V. P. FURNISH, II Corinthians, cit., 346.
78
26
infatti, mai fini a se stesse, ma ridondano a beneficio della comunità ,altrimenti non sono vere: è
questo il vanto di Paolo e le prove per la legittimità del suo ministero dinanzi ai corinti che non lo
credono, preferendo prestar fede a coloro, gli oppositori, che li riducono in schiavitù, sfruttandoli e
colpendoli con arroganza (Cf. 11,19-20).
Paolo, al contrario,in 11,21b-29, secondo brano parallelo al nostro, può vantarsi contro
costoro della sua debolezza, la quale lo rende un “diacono” di gran lunga superiore. Non accenna
alle visioni ed alle rivelazioni, non tiene conto del fatto che egli è giudeo, di lingua ebraica e di
discendenza giudaica, ma gli interessa mostrare i caratteri dell’autentico “diacono” di Cristo. La
morte di Gesù nella sua carne mortale di 4,10-11 è illustrata nella sua cruda realtà al v. 23, quando
Paolo accenna ai trentanove colpi ricevuti per ben cinque volte dai giudei ed alle vergate dei romani
in tre occasioni, ed in più un tentativo di lapidazione. Nei suoi viaggi è esposto al rischio di essere
assalito da briganti e da avversari, senza contare le calamità naturali come i naufragi. Accanto alla
predicazione apostolica deve sostenere il lavoro per il suo mantenimento, il che gli provoca veglie e
molto spesso fame e digiuni. La via scelta da Paolo è infatti la stessa di Cristo, il quale “da ricco che
era si è fatto povero, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” (8,9): preferisce
lavorare con le sue mani, evitando così di mercanteggiare la parola di Dio, purchè il velo
dell’incredulità sia tolto dal volto dei corinti. Allo stesso modo il suo parlare è semplice, non
ricercato (10,10), per evitare che la complessità annienti la verità del suo messaggio e non
falsificare così la parola del Signore (4,2).
Tutto questo viene a Paolo da quell’amore di Cristo che lo vincola e lo pressa (5,14),
quell’amore che si è risolto a vantaggio di tutti e che cattura tutti nella sua orbita, perché essi vivano
per lui (5,15). Paolo, nella sua debolezza, esprime il suo vivere per Cristo attraverso la potenza del
suo amore che si manifesta a tutti in lui, “ambasciatore di Cristo” (5,20)84.
Laboratorio: 2Cor 11, 1-15
2. Gli avversari di Paolo a Corinto
Per la comunità di Corinto Paolo prova «una specie di gelosia divina» (2Cor 11,2) e la sua
amarezza è grande nel constatare quanto poco affetto i corinti gli dimostrino e quanta poca fiducia
ripongano in lui, lasciandosi attirare facilmente nelle maglie degli oppositori, i nuovi arrivati.
84
Su tutto questo cf. le bellissime pagine di J. MURPHY-O’CONNOR, La teologia della, cit., 59-65; 81-82; 137-148; 171175.
27
Motivo della divisione è il rifiuto da parte di Paolo di essere sostentato dalla comunità, il
che era ritenuto un grave affronto, in quanto, sostenendo l’apostolo, si partecipava alla sua attività
missionaria. Ad aggravare la situazione i continui cambiamenti di viaggio di Paolo, che lo
costringono ad una distanza prolungata da Corinto, e la richiesta della colletta per Gerusalemme,
sulla quale cade il sospetto di furto, anche perché Paolo si presenta senza lettere di
raccomandazione da altre comunità. In tale contingenza è facile per gli oppositori trascinare i corinti
dalla loro parte, mettendo in discussione la legittimità stessa del ministero paolino proprio a partire
dal sostentamento: da qui il contrasto si allarga sino ad inglobare la conoscenza delle Scritture e
della Legge (cap. 3), la dimostrazione di segni e prodigi (cap. 12), l’abilità retorica (cap. 10,10).
Paolo aveva comunque già spiegato il motivo di tale rifiuto in 1Cor 9: la predicazione del
Vangelo è per lui un destino impostogli da Dio (v. 17). D’altronde, il sostentamento dell’apostolo
da parte della comunità risponde ad un comando di Gesù stesso, che Paolo cita e reinterpreta (v.
14). Come ogni lavoratore ha diritto al suo compenso, così anche l’apostolo: e in ciò sono concordi
anche le Scritture (al v. 9 si cita Dt 25,4 applicato al lavoro apostolico). Si tratta di una povertà che
fa affidamento su Dio e sulla carità altrui, cosa che Paolo sembra smentire sostenendosi con il suo
lavoro. Paolo, però, comprende bene che la povertà dell’apostolo non è più tale, bensì è divenuta un
privilegio alla maniera di quello veterotestamentario per i sacerdoti del tempio (vv. 13-14), il che
nuoce alla veracità dell’apostolo. Paolo, rinunciando a questo privilegio in Corinto, tradisce la
lettera del comando di Gesù, ma non lo spirito: in tal senso è e!nnomov Cristou% (v. 21). La verità e
la legittimazione del suo apostolato (v. 1) sono dati non dall’accettare o meno il sostentamento dalla
comunità di Corinto, ma dalle tribolazioni in cui versa a causa del Vangelo, tra le quali in 1Cor 4,12
compare anche lo stesso lavoro, reso molto precario dai rischi della missione. La sua ricompensa sta
in tutti coloro che vengono salvati (vv. 22-23), come la sua lettera di raccomandazione è la stessa
comunità di Corinto. Come giustamente nota G. Theissen, “il problema teologico della legittimità
dell’apostolo è indissolubilmente connesso con il problema materiale del sostentamento. È fuor di
dubbio che in origine dietro la decisione di diventare carismatici itineranti stava un motivo
religioso, ma, una volta presa questa decisione, si erano scelte con ciò delle condizioni di vita
rispetto alle quali ci si veniva poi a trovare in uno stato di dipendenza – dipendenza che incideva
anche sull’argomentazione teologica. In virtù della propria autonomia materiale, Paolo aveva invece
indubbiamente una maggiore libertà di ragionamento teologico»85.
Il problema del sostentamento degli apostoli, legato alle lettere di raccomandazione da loro
esibite, permette di avanzare delle ipotesi circa la provenienza e l’identità di questi oppositori,
85
G. THEISSEN, Sociologia del cristianesimo primitivo, Marietti, Genova 1987, 203. Il tema è di grande attualità.
28
cristiani anch’essi86, di Paolo. Anzitutto è da escludersi la separazione tra i “falsi apostoli” e i
“superapostoli”, come se fossero due o più categorie di oppositori: gli yeudapoéstoloi, e\rgaétai
doélioi di 11,13 sono quegli stessi yeudadeélfoi di 11,26, definiti in 11,5 e 12,11 tw%n uperliéan
a\postoélwn87. Non fanno neanche parte della cerchia dei giudaizzanti88, che si hanno nella lettera
ai Galati, né rappresentano emissari degli apostoli di Gerusalemme con i tratti di pneumatici
entusiasti89. Non paiono neppure appartenere agli gnostici della prima lettera ai Corinti90 e neppure
convince l’ipotesi secondo la quale questi si siano alleati contro Paolo con i nuovi predicatori di
estrazione giudeo-cristiana91. D. Georgi92 presenta una tesi nuova, ma incerta e lacunosa su alcuni
punti, secondo la quale gli oppositori apparterebbero alla cerchia di predicatori giudeo-cristiani di
estrazione ellenistica, che non prestano molta attenzione alla legge mosaica, preferendo concentrarsi
sulla concezione ellenistica del qeioév a|nhér, che giustifica il ricorso a visioni e miracoli. La tesi di
Georgi sbaglia quando afferma che gli oppositori non danno molta importanza alla Legge di Mosè:
non si comprende, in questo caso, il dilungarsi di Paolo al cap. 3 sulla distinzione tra legge antica e
legge nuova, con tutte le specificazioni consequenziali annesse, la seconda di gran lunga superiore
alla prima. E Georgi non risolve il problema ricorrendo all’idea del qeioév a|nhér, un concetto molto
poco preciso ed allo stesso tempo distante dagli oppositori di Paolo, giacché nella fonte dei loghia
ai missionari è affidato il compito di compiere miracoli, mentre è più importante delle visioni e dei
prodigi la loro predicazione in quanto portatori della parola (11,4)93.
86
Così R. PENNA, La presenza, cit., 329: «In primo luogo gli avversari di Paolo sono cristiani (Cf. 10,7; 11,4.13.23):
non giudei, né pagani […]. Ciò che è in gioco a Corinto è soltanto un dibattito intra – ecclesiale, e a loro modo essi sono
testimoni di un pluralismo di stile missionario, se non proprio di ermeneutiche dell’evangelo. Il fatto che Paolo sappia
ragionare soltanto in bianco e in nero, e anzi tenda a demonizzare i rivali (Cf. 11,3.13-15; 12,7), non toglie nulla alla
ricca complessità storica e ideale delle origini cristiane e al fatto che questi stessi oppositori dell’Apostolo ne fanno
parte integrante a pieno titolo».
87
Così pensa V. P. FURNISH, II Corinthians, cit., 49: «The arguments which have been advanced in favor of
distinguishing the “super – apostles” from the “false apostles” are not convincing. The evidence strongly suggests that
Paul has just one group in mind»; sulla stessa linea R. PENNA, La Presenza, cit., che fornisce una buona analisi lessicale
e linguistica per provare le sue affermazioni.
88
È l’antica tesi di F. CH. BAUR, Die Christuspartei in der korinthischen Gemeinde, der Gegensatz des petrinischen und
paulinischen Christentums in der ältesten Kirche, der Apostel Petrus in Rom, in Tübinger Zeitschrift für Theologie 4
(1831) 61-206, che riprende la distinzione, tipicamente hegeliana, tra giudeocristianesimo palestinese, capeggiato da
Giacomo (tesi), e cristianesimo ellenistico (antitesi), capeggiato da Paolo, al centro dei quali sta Pietro (sintesi). Tale
costruzione è stata superata: cf. ad es. gli studi in merito di M. Hengel.
89
Così pensa E. KÄSEMANN, Die Legitimität des Apostels. Eine Untersuchung zu Korinther 10-13, in ZNW 41 (1942)
33-71.
90
Così W. SCHMITHALS, Die Gnosis in Korinth. Eine Untersuchung zu den Korinterbriefen (FRLANT 48),
Vandenhoeck e Ruprecht, Göttingen 1956, 237-257.
91
È l’ipotesi sostenuta da J. MURPHY-O’CONNOR, La teologia, cit., 26-28.
92
D. GEORGI, Die Gegner des Paulus im 2 Korintherbrief: Studien zur religiösen Propaganda in der Spätantike,
Neukirchener Verlag, Neukirchen – Vluyn 1964; trad. inglese: The Opponents of Paul in Second Corinthians,
Edinburgh 1987.
93
È l’osservazione attenta di G. THEISSEN, Sociologia, cit., 199, nota 54, che al massimo ravvisa un accostamento degli
oppositori con l’ethos dei filosofi itineranti cinici.
29
Gli studiosi riconoscono in loro alcuni tratti peculiari che V. P. Furnish così riassume:
«They supported their claims not only by letters of reccomandation but also by extravagant self –
recommendation, pretentiously boasting about their being of Jewish stock and about special “signs”
of their apostleship: their retorical eloquence and impressive personal bearing, their boldness and
missionary achievements, their ecstatic experiences, their special religious knowledge derived from
extraordinary visions and revelations, and their ability to perform miracles»94. Viene così
riconosciuto loro l’appartenenza al mondo giudaico, ma si esclude che siano giudaizzanti, in quanto
i loro tratti sono troppo impregnati di ellenismo, come lo stesso Furnish più avanti conclude: «It is
clear that the opponents were of Jewish background, but this does not mean that they were Judaizers
(see Comment on 11:22). The kind of polemic against Judaizers one finds in Gal is absent from 2
Cor […]. These are common as well to Hellenistic thought in general, including Hellenistic
Judaism»95.
La loro provenienza dal mondo giudaico è rivelata dallo stesso Paolo in 11,22, nel
confronto che egli stabilisce con loro sull’identità di popolo, civile e religiosa. Qui gli oppositori
sono definiti e|braiéoi, i\srahliètai, speérma \Abraaém, cioè appartenenti alla razza ebraica, al
popolo di Israele e discendenza di Abramo, cioè eredi della promessa e, come tali, ben individuati
nel contesto della società religiosa giudaica, della quale conservano le tradizioni. Certo, questa
legittimazione tradizionale non serve a definire la loro veracità come diaékonoi Cristou%: Paolo lo
è più di loro e ne danno testimonianza le tribolazioni in cui quotidianamente versa. Per la loro
derivazione giudaica, sono legati alla lettera scritta su tavole di pietra, cioè alla Legge e, di
conseguenza, al ministero di Mosè (cap.3), il legislatore, che essi pensano glorioso ed in virtù del
quale, falsificando la parola di Dio (4,2), si sentono autorizzati a presentarsi come veri apostoli di
Cristo in virtù di segni e prodigi da loro stessi compiuti (cap.12). Ma Paolo ha dimostrato la
superiorità della Nuova Alleanza, che non può essere confrontata con la prima, giacché la sua gloria
è sovrabbondante, e della quale Paolo è reso ministro idoneo da Dio stesso (2,17) attraverso le
tribolazioni, dunque nella sua debolezza, della quale sola si vanta (cap.12).
94
V. P. FURNISH, II Corinthians, cit., 52: «Essi hanno sostenuto le loro richieste non solo con lettere di
raccomandazione ma anche con stavaganti auto-raccomandazioni, vantandosi pretenziosamente del loro essere veri
giudei mostrando azioni e “segni” particolari del loro apostolato: la loro eloquenza retorica e la loro impressionante
presenza personale, la loro audacia e i loro risultati missionari, le loro esperienze estatiche, le loro superiori conoscenze
religiose derivate da straordinarie visioni e rivelazioni, e la loro capacità di compiere miracoli». (La traduzione è
nostra).
95
ibid., 53: «È chiaro che gli avversari erano di origine ebraica, ma questo non significa che fossero giudaizzanti (vedi
commento a 11, 22). Il tipo di polemica contro i giudaizzanti che si trova in Gal è assente in 2 Cor [...]. Questi sono
comuni anche al pensiero ellenistico in generale, compreso il giudaismo ellenistico ». (La traduzione è nostra).
30
Il riferimento alla Legge di Mosè ed ai segni e prodigi ci autorizza a pensare che gli
oppositori fossero vicini, se non addirittura della stessa cerchia di Stefano, del quale, come abbiamo
già notato, è detto che operava “grandi prodigi e miracoli tra il popolo” (At 6,8), mentre tutto il suo
discorso dinanzi al sinedrio ruota per buona parte attorno a Mosè (At 7,17-44).
A dimostrare un’ulteriore vicinanza con la cerchia dei giudeo-cristiani ellenofoni il loro
gusto per l’ars retorica, come dimostra il rimprovero rivolto a Paolo in 10,10, gusto che proveniva
loro dal greco della LXX. Non è improbabile che questi giudeo cristiani ellenofoni, o meglio alcuni
di loro, residenti a Gerusalemme (e forse anche a Damasco) e perciò portatori delle tradizioni
palestinesi, rivisitate secondo il pensiero greco, abbiano scelto, forse dopo la morte di Stefano, in
virtù della loro vicinanza al giudeo-cristianesimo palestinese, la vita itinerante, così come l'aveva
vissuta Gesù, tanto più che nel mondo greco non mancavano esempi di tale stile di vita (si pensi ai
filosofi cinici), per cui potevano inserirsi in una metropoli ellenistica come Corinto senza alcuna
difficoltà. Anzi, sotto questo profilo, il loro successo rispetto a Paolo appare più che giustificato.
Paolo, infatti, appare come un diverso: lavora con le sue mani, non ha lettere di
raccomandazione, ha la parola debole, pare smentito dalle sue tribolazioni nella verità del suo essere
ministro di Cristo. Eppure anch’egli, proprio in virtù di tali motivi, è legittimato come ministro di
Cristo.
In una cosa Paolo e i suoi oppositori sono uguali, nel fatto di essere degli esclusi: «tutti
questi uomini avevano abbandonato il loro ambiente sociale d’origine. Una grande inquietudine
religiosa, collegata indubbiamente con i conflitti che agitavano allora la società, li spingeva sulla
strada, ne faceva dei predicatori itineranti in perenne vagabondaggio, degli esclusi e degli outlaw
[…]. Studiandoli, si può imparare questo, che quando una religione cessa di essere il cor inquietum
di una società, quando le viene a mancare il desiderio di una nuova forma di vita, quando diviene
sostanza senza spirito di una situazione sclerotizzata e clericalizzata, allora dovrebbe sapere di
essere finita»96.
96
G. THEISSEN, Sociologia, cit., 206.
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Conclusione: 2Cor 12,1-10
E veniamo al pensiero di Andrè Louf. Il grande teologo nel suo libro “La vita spirituale”
(Magnano 2001, p.138) afferma: “Numerosi e svariati sono i campi in cui questa debolezza può
manifestarsi in me, ma il fatto è che essa si manifesta sempre – ed è la tattica della santa astuzia di
Dio – là dove sono più vulnerabile, nel mio punto debole, dove sono totalmente sguarnito, al limite
estremo e quasi mortale della mia debolezza, dove non resta più che una sola speranza: quella di
abbassare finalmente le armi e di capitolare davanti a Dio, cioè di presentarmi, di abbandonarmi alla
sua misericordia, accettando di cedere il testimone alla grazia nel luogo e nel momento preciso in
cui ero sul punto di sprofondare.”
In questa frase c’è tutto il fulcro del pensiero di Andrè Louf che ha ribadito questi principi nel
celebre libro “Beata debolezza” (Edizioni Il Messaggero di Sant’Antonio 2003). In tale libro sono
contenute le omelie tenutesi nell'abbazia cistercense di Mont-des-Cats, dove ogni domenica la
comunità dei monaci celebra la liturgia eucaristica insieme con un gruppo di laici.
Nell’approfondimento paziente dei segreti del Vangelo, una domenica dopo l'altra, si scopre alla
fine che tutti, sia i monaci che i laici, devono prendere consapevolezza di una verità fondamentale:
accettare la propria debolezza e povertà, per essere colmati di gioia e pace nel Signore. Solo chi,
con grande umiltà, si arrende senza condizioni nelle mani di Dio sperimenta la tenerezza e la
potenza dell'amore divino.
Il titolo delle riflessioni (Optanda Infirmitas) si ispira ad una folgorante intuizione (che Louf fa
propria) di San Bernardo e anche di S.Teresa del Bambino Gesù, i quali proclamano beata e
desiderabile la debolezza che spoglia l'uomo dalle pretese del proprio io e lo apre a ricevere la forza
del Signore onnipotente.
A questo punto anche la preghiera si trasforma. Non è più una tecnica o una formula ma un vero e
proprio incontro in cui la Parola risveglia lo Spirito che abita nel cuore del devoto. È soprattutto il
luogo in cui l’uomo, esaurito ogni proprio sforzo, smette di pregare e si abbandona nell’attesa di
Qualcuno, ricevendo a quel punto la preghiera come grazia.
Carmelo Raspa
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