Le maschere e la questua

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Le maschere e la questua
Le maschere e la questua
Scritto da Paolo Ferrari
Mercoledì 02 Marzo 2011 00:00 - Ultimo aggiornamento Mercoledì 02 Marzo 2011 06:32
"Animali " e "selvatici", sicuramente le maschere più arcaiche del mondo contadino, erano
protagonisti anche dei carnevali delle valli delle Quattro Province, talvolta anche fino a tempi
recenti.
Ad Alpe di Gorreto, in val Terenzone, era presente "una maschera con le corna", un "diavolo"
dagli atteggiamenti aggressivi. La maschera del diavolo, insieme o in alternativa a quella
dell'orso, faceva la sua comparsa anche nel carnevale di Pentema, borgo arroccato alle falde
meridionali del massiccio dell'Antola.
Giorgio Traverso riferisce anche della maschera del vecchio, che faceva la sua comparsa
anche al carnevale di Pentema, con il suo incedere traballante evocativo la precarietà della
condizione umana. La maschera del diavolo era invece presenza abituale, come vedremo, nei
carnevali della val d'Aveto e della val Nure.
Fino agli anni Quaranta-Cinquanta aveva luogo nei paesi della media val Staffora un rito che
aveva al suo centro la maschera dell'orso, in questo caso fabbricata con le foglie delle
pannocchie (gravizén) e con l'aggiunta di piume di gallina.
Sempre in val Stàffora, a Cignòlo, ci è riferita da Roberto Ferrari una mascherata che aveva
luogo negli anni Quaranta-Cinquanta e che sembra riproporre la diffusissima opposizione tra
gruppi di maschere conflittuali. Alcune persone vestite "da signori" entravano in paese su di un
carro trainato da buoi, in funzione di calesse, e venivano attaccati da maschere con corna e
forcone che incornavano il carro e inseguivano i "signori".
Maschere caprine sono ricordate dalia signora Maria Caterina Daglia di Fego, in val Staffora.
A Garbagna, in val Grue, come vedremo, faceva la sua comparsa la maschera del cavallo,
assai diffusa nei carnevali arcaici.
A Piancereto, in val Borbera, una benna faceva il giro delle case a raccogliere uova, trainata
da un mulo cui si erano fatte indossare lunghe mutande di lana. In questo caso
l'antropomorfizzazione dell'animale assolve al ruolo delle numerose maschere di asini e cavalli,
tra i più arcaici protagonisti di riti carnevaleschi.
Da Piuzzo, in val Borbera, secondo quanto riferisce Livio Raddavero dai racconti del padre,
una comitiva girava i paesi, e tra questi c'era anche una maschera raffigurante una figura
animalesca, con due corna dì bue, che scorrazzava per le vìe con indosso un giogo. Lo stesso
episodio è ricordato da Ivo Burrone di Cosola che riferisce che la maschera cornuta "si buttava
per terra e gli altri gli saltavano intorno".
La maschera animale aggiogata, così come l'orso della val Staffora precedentemente
ricordato, non può non farci pensare agli antichissimi riti di cattura e addomesticamento di una
maschera di animale o di "selvatico", come quello che ancora viene rappresentato a Urbiano di
Mompantero, in val di Susa (Torino) dove è la maschera dell'orso ad essere stanata da alcuni
cacciatori, condotta per le vie del paese tra scatti di furia ferina e percosse, quindi
addomesticata attraverso il ballo sulla pubblica piazza davanti alla comunità riunita.
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Connio di Carrega - Anni 50
Maschere bambine. In primo piano il cestino per la raccolta delle uova
Se la maschera animale e il diavolo simboleggiavano lo spirito selvatico e trasgressivo del carnevale (si
Anche in val Nure si ricorda la presenza della maschera del prete, accanto a quella del medico, altra fig
Che la figura del prete costituisse un soggetto particolarmente gustoso e significativo di mascherament
L'ostilità del prete si inaspriva particolarmente quando la festa conquistava i territori del tempo quaresim
Ancora più difficile pare fosse il rapporto tra il desiderio di festa dei montanari e il rappresentante del cu
Ancora più decisa e diretta l'azione di contrasto posta in atto dal parrocco dì San Sebastiano Curone ch
Ancora oggi, nel corso del Carnevale bianco di Cegni (16 agosto), un finto prete celebra
l'altrettanto inverosimile matrimonio tra il "brutto" e la lacera sposa nella scena farsesca che
precede il ballo della Povera donna. Il prete "carnevalesco" non manca neppure nel gruppo di
maschere che, nei tre giorni dalla domenica ai martedì grasso, gira tutt'oggi per i paesi della
media e alta val Curone, partendo da Predaglia nei pressi dì Fabbrica. Assai prossime per
ruolo e significato simbolico alle figure del "brutto" e della "povera donna" erano le maschere
del "vecchio" e "della" vecchia, presenti nei carnevali di val d'Aveto e val Nure assieme ad altri
protagonisti ricorrenti dei riti carnascialeschi.
Da Collistano di Colleri, nella zona del Brallo, gruppi di maschere tra i quali spiccavano le
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figure del ciabattino e del falegname giravano le vicine frazioni il martedì grasso. La
simulazione in chiave parodistica e grottesca dei lavori quotidiani è assai frequente nei
carnevali arcaici e se ne trova menzione in antiche testimonianze letterarie. Altrettanto
frequenti, nei carnevali arcaici, le fragorose maschere munite di campanacci che corrono
frenetiche per le vie, dei tutto irrelate ad ogni azione o scena messa in atto durante il
carnevale. Con il loro rumore, oltre a svolgere la consueta funzione apotropaica (ovvero di
protezione dagli spiriti maligni), contrastano l'ordine formale dell'espressione musicale affidata
ai suonatori, al pari dei vari strumenti effimeri, come i coperchi in funzione di piatti e il bidone
con corda che fa da basso e compare, ad esempio, nei carnevali della val Staffora e della val
Curone.
Affiorano poi elementi di travestimento carnevalesco tipici dei carnevali arcaici e densi di
valenze simboliche, come a Predaglia in val Curone dove si ricorda in anni recenti
l'apparizione dì una maschera munita di pesante campanaccio e di un bastone alla sommità
del quale è collocato uno specchio, per la precisione lo specchietto retrovisore di una
macchina, ad attualizzare l'antichissimo sìmbolo carnevalesco presente, tra l'altro, nelle
landzette della coumba frèida della valle del Gran San Bernardo (Aosta) e nei marascóns del
carnasher ladino della val dì Fassa (Trento).
La grottesca maschera, oltre a scuotere fragorosamente il campanaccio che porta al collo, sembra aves
Nel gruppo di maschere di Predaglia (Pragaia), che anche quest'anno ha compiuto il suo itinerario ritua
Carnevale di Menconico
Sullo sfondo i suonatori tradizionali Roberto Ferrari (piffero), Stefano Mantovani (fisarmonica) e
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Il mascheramento più diffuso consisteva nell'uso di abiti vecchi o nell'inversione di abiti che
rimanda alle dinamiche di rovesciamento dei ruoli proprie della logica carnevalesca. I bambini
portavano per lo più maschere di cartone o si imbrattavano di fuliggine il viso per rendersi
irriconoscibili, ma evocando al contempo l'identificazione con le anime dei morti che gli studiosi
del carnevale riconoscono pressoché unanimemente nelle figure di questuanti che s'aggirano
per i paesi in tempo di carnevale, ovvero in corrispondenza di uno dei varchi calendariali sul
mondo ultra terreno. Ragazzi con i volti anneriti dalla fuliggine erano protagonisti anche delle
questue di uova per i paesi della valle del Besante, affluente di destra del Borbera.
L'inversione di abito era pratica di travestimento carnevalesco anche a Pentema, dove il
carnevale tradizionale, che vedeva protagonisti di tutte le età, si protrasse fino alla metà degli
anni Sessanta. Lo stesso accadeva al Connio di Carrega dove i maschi si vestivano da
femmine e viceversa, si tingevano il viso di fuliggine e giravano con campanacci per le case
del paese, pratica ricordata anche nel vicino borgo di Cartasegna.
A Cosola si ricorda l'irruzione in una festa carnevalesca, prevalentemente di bambini, di
maschere di adulti travestiti da donne e col viso annerito da caligine, provenienti da Cabella. Il
passaggio dello spirito del carnevale dagli adulti ai bambini o ragazzini è avvenuto in luoghi
diversi in tempi diversi, ed ha sicuramente corrisposto ad una defunzionalizzazione o caduta di
intensità rituale della festa,
L'"infantilizzazione" dei carnevale è andata di pari passo con una sua istituzionalizzazione,
ovvero con il passaggio dell'organizzazione della festa nelle mani del maestro o del prete. Ad
esempio, le "mascherate", di cui si dirà più oltre, un tempo organizzate e messe in scena da
persone di ogni età, si sono estinte lasciando talvolta il "relitto culturale" della recita scolastica
avente per protagonisti ì bambini. È evidente che ben poco dello spirito grottesco e
trasgressivo del carnevale poteva sopravvivere all'interno di una siffatta formalizzazione
istituzionale.
Va detto però che i bambini continuarono a portare dì casa in casa, per le vie innevate dei
paesi, lo spirito "visitante" dei carnevale.
A Cosola, subito dopo l'Epifania si apriva il tempo delle maschere bambine che tutte le sere,
escluso il venerdì, giravano le case dove si sapevano bene accette ricevendo qualche confetto
o caramella. Un foulard o una rudimentale maschera di cartone o ricavata dalla copertina di un
quaderno usato garantivano l'anonimato. Nelle case più ospitali ci si prodigava a far ballate i
mascri con alcune strofette che i bambini gradivano molto: "Una freìza d'ai, l'altra àd fazò / Per
fa ballar 'stì cagajó' / Ma sunei un pò pù zgagià / E fei balà stì cu merdà"
. ("Una fresa d'aglio, l'altra di fagioli / Per far ballare questi cagoni / Ma suonate un po' più in
fretta / E fate ballare questi culi merdosi"). C'era anche una versione più edulcorata della
filastrocca che suonava così:
"Una freiza d'ai, l'altra ad fazò" / Per fa ballar sti povri fiò / E sunei un pò pu zgagià / Almen i
van a cà ".
("Una fresa d'aglio, l'altra di fagioli/ Per far ballare questi poveri bambini/ Ma suonate un po' più
in fretta/ Almeno se ne vanno a casa").
Il carnevale è ricordato anche come l'occasione in cui le ragazze più giovani provavano per la
prima volta a ballare, coinvolte dalle "maschere" più grandi d'età. Lo spirito "giovanile" del
carnevale era sottolineato da un'altra filastrocca che diceva: "Viva u carluvà che ei vege i a fa
scapà e i zune i a fa balà "
.
In val Sisola, i bambini mascherati con vestiti vecchi, andavano per le case a recitare poesie
imparate a scuola ricevendo in cambio la consueta offerta di uova. In val Sisola si ricorda
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anche una particolare forma di questua, non confinata al tempo carnevalesco e dai risvolti, per
così dire, utilitaristici. I ragazzi andavano a catturare la volpe e la rinchiudevano in una
cassetta girando per le case a chiedere uova, a compenso per la cattura del nocivo predatore.
I gruppi di mascre composti da giovani o uomini in età adulta giravano non solo per le case del
proprio paese, ma si recavano in visita anche a borghi vicini pernottando talvolta-in osterie o
rifugi improvvisati. Il carnevale si configurava quindi come un tempo durante il quale i confini
comunitari, già usualmente aperti a commerci e scambi lavorativi o conviviali, attenuavano
ulteriormente il loro segno delimitante assumendo quello opposto di margini di transito e
comunicazione sociale. La visita dei gruppi di maschere di paese in paese, proprio perché
priva di alcuna funzione se non quella rituale, e sostanziata dalla categoria dissipatrice del
divertimento, stabiliva il contatto più intimo tra diversi gruppi sociali che condividevano territori
limitrofi. E non di rado attivava meccanismi di censura collettiva, così che le maschere, cioè i
portatori del messaggio comunitario del carnevale, venivano talvolta considerate figure
"diverse" e "poco raccomandabili".
A Mongiardino, fino agli anni Sessanta, i ragazzi giravano le dodici frazioni e ad ognuna dì
esse si aggiungevano altri gruppi, tutti vestiti in modi fantasiosi. Si bussava alle porte,
specialmente di quelle famiglie da cut ci sì aspettava una migliore accoglienza, per chiedere
uova e ospitalità. Le uova venivano poi portate alla trattoria Morando "da Maxettu', dove la
signora Tina Calano le utilizzava per confezionare le torte per la domenica della pentolaccìa.
In tempi più remoti, lo spìrito visitante del Carlevà era a Mongiardino espresso da questa
filastrocca dove fa la sua comparsa un'accoppiata strumentale inusuale per la zona delle
Quattro Province e un non meno misterioso personaggio:
A Carlevà è passou u Teexin / Cun a muza e er vìulin / E u s'è missu a cantà / Viva viva u
Carlevà.
Generalmente escluse dalla celebrazione attiva ed esplìcita del carnevale, le donne erano
invece protagoniste al pari degli uomini di molti carnevali delle Quattro Province. Secondo
quanto racconta Antonio Balestrasse Ninin, ad Alpe di Gorreto, in val Terenzone, le donne
partecipavano attivamente al carnevale. Esse impersonavano le maschere dei "belli", mentre
gli uomini vestivano da "brutti", ovvero con abiti laceri e disordinati anziché costumi eleganti e
vezzosi come quelli indossati dalle controparti.
Osserviamo che la contrapposizione dì gruppi dì "belli" e "brutti" è ancora oggi, in varie
modalità, assai frequente nei carnevali alpini più conservativi come, ad esempio, quelli dì
Schignano (Como) e Bagolino (Bergamo).
Ad essa può ricondursi anche la contrapposizione tra "arlecchini" e "brutti" al carnevale di
Cegni, anche se in quest'ultimo le maschere dei "brutti" sembrerebbero identificarsi con la
coppia nuziale e con il suo seguito parentale. Nella zona delle Quattro Province ritroviamo
questa modalità rituale nella piacentina val Nure.
A Belnome, in val Boreca, come pure a Negruzzo, ìn val Staffora, i bambini indossavano gli
abiti dei genitori o dei nonni e questo sembra rimandare ad un'inversione di ruoli sulla polarità
infanzia-età adulta, tema anch'esso tìpicamente carnevalesco.
Maschere lignee raffiguranti l'effige di teste di animali o di personaggi noti della zona sono
ricordate per il paese di Casoni nel citato scrìtto di Ferretti.
Oltre ai ravioli, piatto festivo e carnevalesco per eccellenza diffuso in molti paesi, il giro di
questua era sempre finalizzato alla preparazione dì un cibo rituale, il più delle volte un'enorme
frittata, come ad Alpe dove il pasto carnevalesco avveniva la domenica grassa ("domenica
della pignatta"), ma non mancavano varianti gastronomiche, come a Belnome, dove, come si è
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visto, lo scopo era raccogliere gli ingredienti per un pantagruelico risotto, probabile lascito dei
periodi di lavoro stagionale nelle risaie padane.
A Caldirola si cucinava il bro d carvò, la prima domenica di Quaresima, un brodo "collettivo" a
base di fagioli, salamini e qualche cotica. L'usanza è stata conservata fino ad oggi. A Bruggi gli
uomini giravano per il paese, indossando vestiti vecchi e con il volto annerito dalla fuliggine. Il
vino veniva versato in un vaso da notte (naturalmente pulito), e bevuto in abbondanza
coerentemente con la logica carnevalesca di inversione dì norme e funzioni della vita
quotidiana e dei suoi oggetti.
La presenza dei suonatori nei giorni del carnevale non era scontata e dipendeva da vari fattori,
prima dì tutto quello economico. Spesso i suonatori viaggiavano di paese in paese fermandosi
anche per alcuni giorni a seconda dell'accoglienza e del trattamento economico che trovavano,
oppure venivano prelevati a domicilio, magari con l'ausilio del più diffuso mezzo di trasporto
dell'epoca, ovvero l'onnipresente mulo.
Anche nella bassa val Curone, a Cusinasco e nelle frazioni di Valmaia, Fissano, Ville e
Poggio, si svolgeva il giro dì questua carnevalesca che aveva come protagonisti e promotori
cinque o sei ragazzi che raccoglievano farina di mais e vino. Da quanto racconta monsignor
Angelo Bassi di Cusinasco, attuale parroco di Gremiasco, entravano a far parte di questa
piccola congrega i ragazzi che compivano i 15 o 16 anni d'età. I ragazzi portavano alle persone
anziane e ai malati la polenta raccolta. L'indomani era la volta dei pasto collettivo, a Cusinasco
o alle Ville, dove sì cucinava in piazza una grande polenta e si arrostiva qualche salammo su di
un treppiede di pali.
Monsignor Bassi ricorda la partecipazione eccezionale dei muzetta Carlón o Carlinén (Carlo
Agosti, piffero) e Carlaja (Carlo Musso, musa) che si fermarono per ben dieci giorni.
Lo stesso Bassi ci ha riferito del carnevale dì Gremiasco, nella media val Curone, durante il
quale i ragazzi si travestivano e annerivano il viso e giravano le case cantando canzoni che il
religioso ricorda come appartenenti principalmente al repertorio della I guerra mondiale, come
La tradotta che parte da Tortona. La festa sì concludeva con un grande ballo cui prendeva
parte tutto il paese. Un analogo itinerario di questua, durante il quale si raccoglievano uova e
farina, partiva da Casasco e raggiungeva le vicine frazioni, come Poggio, Case Simone,
Magrassi e Scrimignano. Le maschere indossavano vestiti vecchi imbrattati di verde rame, e
tra esse faceva la sua comparsa, secondo quanto riferitoci dal fisarmonicista Osvaldo Morgavi
Grizéi, una figura con denti di legno che risultava particolarmente terrifica.
Paolo Ferrari
(Brano tratto da "Chi nasce mulo bisogna che tira calci" di Paolo Ferrari, Claudio Gnoli,
Zulema Negro, Fabio Paveto)
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