Baldinu Stefano - Associazione Succede solo a Bologna
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Baldinu Stefano - Associazione Succede solo a Bologna
NO MAN’S LAND (ai profughi del Campo di Idomeni) di Stefano Baldinu Ritorna sulla cresta dell’onda il guizzo di una parola muta ad accompagnare il gesto intimo della marea sul volto quando le luci smuovono un dire rauco di ombre sulla spiaggia, un incenso di pensieri che tramandano silenzio. Così il mare si accorda ad un canto d’esilio che rinnova il corso lacrimale del dolore nel rintocco di ogni goccia di pioggia che si fonde con l’effigie di una ruga a scavare fra le macerie i volti dei vecchi. È il tempo della tempesta che irrompe nel cielo sospeso sul bordo di questa terra di nessuno l’ansia di tutto un mondo che si è allontanato dalla terra e pare abbia camminato sull’acqua, il palpito della natura che si dipana tra le strade improvvisate come un ordito sottile a ricucire il bianco e il nero degli occhi ai colori. Il vento che ad ogni respiro lacera la veste delle nuvole e il sorriso di un gatto affacciato da una tenda è il soffio di un papavero in un sacrificio d’amore. Nel giorno che rinasce dall’ultima ferita del lampo la speranza si rialza, si riveste, distende le mani in quel segmento caduco di voci e lamenti a graffiare le pareti del Limes e i minuti che inesorabili si ammainano al principio del mare macchiando l’epidermide del futuro. E ciò che rimane sono le impronte degli atomi di luce Sconfitti e sversati dai volti nel costato della terra. OLTREPASSANDO LA LINEA GIALLA (ad Angela Fresu e ai morti della strage alla Stazione di Bologna) di Stefano Baldinu Fu un giorno in un tempo d'estate con l'aria inesistente che ammaina i vestiti sulla pelle di una città ripiegata sulle sue saracinesche. Fu un giorno in una sala d'aspetto che io ansiosa per mano alla mamma uscivo cercando di attraversare la linea gialla come si oltrepassa una spiaggia e già immaginavo giochi sulla sabbia, il mare, gli altri bambini e il treno era lì sul primo binario distante un respiro con il suo bastimento impaziente di storie e sogni. Fu una mattina nel cuore dell'estate, fu l'illusione di un tempo di pace il mio ultimo ricordo e poi furono soltanto schiaffi di polvere e macerie e sirene che scricchiolavano nell'aria come ghiaia nei vialetti ed io scoprì la coniugazione feroce del verbo andare. E c'è voluta un'estate immobile e un Dio troppo crudele labilmente immaginato ad insegnarmi a rimanere in equilibrio su di un'altra vita. Ma qui dove vivo adesso i treni non partono e gli anni non servono a calcolare il tempo. Rimango sovente ad inventarmi di oltrepassare ancora una linea gialla per osservare le stelle, immaginarmi di essere stata una al suo ritorno. Ciò che mi manca e mi fa sanguinare l'anima è la vita che non ho potuto scrivere, una famiglia nella quale specchiarsi a propria immagine e somiglianza. Ma se il tempo qui avesse un senso io chiederei a quel Dio assiso fra i millenni di riportarmi a quella sala d'aspetto a quella mano data alla mamma in un giorno d'agosto senza vento, troppo esile per imparare a staccarsi da terra, a quell’ora così insolita da far genuflettere il capo e smettere di respirare. STORIA DI BERENICE (parlando di Alzheimer) di Stefano Baldinu Se n'è andata come un'ombra avvinta ad un sentiero incerto che sale in un giorno d'estate dove il blu si rivela tra le rocce e il rovo e anche il passero è un colore. Se n'è andata così Berenice, fotogramma scompigliato prigioniero del vuoto punto di una prospettiva di là dal vetro niente di più di una mano ingiallita a cercare fra le rughe del viso la maniglia di quella mente lasciata aperta a sua insaputa forse da un Dio troppo distratto. Sola la voce di un merlo sul davanzale come un fulmine a ciel sereno risvegliava in lei un lontano ricordo, una luce fuori tempo massimo a graffiare la nebbia scesa a ricoprire tutte le meraviglie di un paradiso dove tutto era iniziato. Era bella Berenice nata senza una ciocca come la costellazione, se glielo ricordavi pareva tingersi di un innocente rossore farsi più piccola nel suo vestito più bello mentre accarezzando la vecchia bambola sul comò radunava sulla pelle tutti i baci sfuggiti dalle mani per quella sua figlia immaginaria. Quando un poco di luce le si appisolava in grembo e un capriccio di foglie le investiva il profilo come un paesaggio in autunno lo specchio lagunare dei suoi occhi tornava per un'istante ad abitare quella casa ormai priva di alibi e di spazi invasi dalla sofferenza. Era bella, sì, anche la lacrima che le scendeva come una macchia di inchiostro lunare sul fazzoletto di trine scucito da un gioco nervoso di dita, assomigliava all’ombra dei cormorani in picchiata sul bordo del mare. Se n'è andata così fra le braccia di un poetico giorno di festa senza inizio né fine come una mollica disciolta dall'acqua e dal tempo, come trucioli pensili caduti sulle consunte venature del pavimento. La vita è rimasta impigliata poco più in là fra i rovi spogliati da un maledetto male come un'amorevole consorte che attraversa inesorabile senza parole il ponte del dolore