metafore del presente: passato e futuro del mondo

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metafore del presente: passato e futuro del mondo
ROSA GIULIO
METAFORE DEL PRESENTE: PASSATO E FUTURO DEL MONDO
Nei romanzi di alcuni scrittori del secondo Novecento, da quelli dei cosidettì “professori” (Ulivi,
Chiusano) alle opere di impostazione tradizionale (Berto, Cassola) e di accentuata tensione sperimentale
(Malerba, Volponi, Porta), le inquietudini del presente storico sono proiettate nel passato e nel futuro.
Collegando immaginario sociale e immaginario letterario, le due tipologie di narrativa, del romanzo storico e
del romanzo apocalittico, nell’apparente diversità e con un sapiente uso di raffinati strumenti stilistici,
collaborano a una più profonda e consapevole interpretazione della Modernità. Un’epoca, complessa e
inquietante come l’attuale, pone certamente dilemmi drammatici, ai quali gli scrittori, che vivono
consapevolmente la crisi di un mondo globalizzato, non possono non tentare di fornire una soluzione o
almeno di evidenziarli e circoscriverli nella loro reale dimensione.
All’interno del rapporto omologo e/o dialettico tra immaginario sociale e immaginario letterario alcuni
romanzieri apparentemente sembrano abbandonare l’attualità bruciante per ricostruire e fare rivivere età
lontanissime, ma in effetti non fanno che capovolgere un potente cannocchiale guardandovi alla rovescia e,
quindi, vedendo in esso gli stessi avvenimenti dell’oggi proiettati illusionisticamente nel passato. Altri
narratori hanno privilegiato il tema dell’apocalisse, della fine del mondo, che non ha sollecitato, come troppo
superficialmente si è creduto, opere di consumo o di intrattenimento, ma un nuovo filone narrativo, in cui
una problematica di massa e un’istanza ineliminabile dell’immaginario collettivo sono state affrontate con
partecipazione esistenziale, lievitazione fantastica e coscienza letteraria, quasi vigili radar pronti a captare
allarmanti segnali di pericolo. La visione catastrofica non è, quindi, un futile vagheggiamento della fantasia,
magari stimolata da fenomeni alla moda, ma una riproposta di componenti essenziali della realtà sociale, sia
pure intrise di connotazioni che sono surrealistiche senza essere necessariamente fantascientifiche.
La formalizzazione letteraria, essenzialmente metaforica, induce a leggere questi romanzi come
parabole della condizione presente, minacciata dall’uso militaristico e mercantile delle invenzioni
scientifiche e delle realizzazioni tecnologiche. Rientrano, pertanto, nella stessa fenomenologia letteraria
prodotti narrativi in apparenza antitetici: gli uni e gli altri hanno, quale unica fonte di ispirazione, il mondo
contemporaneo; allusivamente e a livello simbolico, come argomento comune, la dimensione immaginaria
del passato e del futuro. I romanzi, impropriamente definiti “storici”, non interpretano storicamente il
passato, non tanto perché lo devono necessariamente filtrare con l’immaginazione, prima di sottoporlo
all’indispensabile trasfigurazione espressiva, quanto perché lo alterano parodisticamente, lo stravolgono con
l’ironia, a volte lo capovolgono ideologicamente, attraverso una densa rete di metafore, allegorie, simboli,
che, pur mascherandolo, continuamente rinviano e alludono al presente. Essi, tuttavia, alterano la natura
peculiare e irripetibile delle vicende storiche, attraverso gli strumenti specifici dei procedimenti letterari:
moduli narrativi, strutture e forme compositive, deformazioni stilistiche e pastiches linguistici.
Il rapporto speculare passato-presente è implicitamente dedotto da una concezione antirelativistica del
divenire storico, secondo la quale esistono delle strutture antropologiche costanti e invariabili, pur
nell’apparente mutare nel tempo di situazioni e atteggiamenti. Il romanziere, quindi, scava nel passato non
per individuare e verificare criticamente le origini e le cause da cui le attuali vicende si sono sviluppate, ma
per attingervi, attraverso la dotta contaminatio di testi rari e l’abile accumulazione di notizie peregrine, una
congerie di materiali eruditi e di stereotipi letterari, virtuosisticamente manovrati in funzione di
intellettualistici ammiccamenti a episodi, personaggi e problemi della modernità.
Dal punto di vista, invece, degli argomenti, le manipolazioni della storia sono attuate con insistite
rispondenze, forzate analogie, inattese simmetrie tra problemi, totalmente inseriti in un certo contesto storico
del passato, e motivi dell’epoca e della società moderna, quali l’intolleranza per le regole sociali, il rifiuto
delle istituzioni, il dissenso degli intellettuali, il protagonismo dei giovani. Questi romanzi sono, quindi,
certamente «immersi nei secoli e pregni di cose e di idee che a quei secoli appartengono», ma in maniera tale
che in essi «la storia seguita ad essere il luogo o l’occasione a un discorso ideologico o letterario che sta a
cuore all’autore più che oggetto di un'indagine da risolvere sì in fatto narrativo ma sempre conservando il suo
fondamentale carattere di atto di conoscenza e presumibilmente come contributo alla prassi nell’oggi».
Si ripropongono in sostanza tutte le epoche, fino ad attraversare quasi tutte le fasi cruciali degli ultimi
due secoli, a partire dai lontanissimi, quali quelli dell'antica Roma e soprattutto del Medio Evo, che
rappresenta il tempo storico più intensamente frequentato, al centro di un revival a volte abbastanza vistoso,
le cui punte più alte sono state toccate (per successo di critica e di pubblico) dal romanzo di Eco.L’età di
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mezzo è, quindi, temuta e desiderata insieme, in un misto di terrore e di nostalgia, che ne fanno o una sorta di
museo degli orrori, in cui si può trovare tutto e il contrario di tutto, dalla rozzezza alla raffinatezza e
soprattutto torture, roghi, epidemie, carestie, guerre, stragi, utopie, eresie, attese escatologiche; oppure una
specie di magazzino teatrale con maschere e costumi, quali il feudatario prepotente, la bella castellana, il
barbaro crudele, l’astuto contadino, il monaco riottoso, il soldato turbolento, il vescovo simoniaco, lussurioso
e concubinario.
Tutti questi personaggi e/o stereotipi sono visti o come partecipi di una realtà drammatica, di un
«mondo come tragedia, come ordalia», oppure come caricature grottesche di un universo carnevalesco, in cui
interviene il comico come elemento «disgregante», come «fattore di disordine a smitizzare il mito». L’una e
l’altra, però, tragedia o farsa danno la misura evidente che il Medio Evo di questi romanzi è uno spazio
letterario; ed è nello spazio letterario, in quanto tale, che il filone catastrofico con la sua proiezione nel futuro
di una sconvolgente apocalisse si incontra con quello che proietta nel passato la barbarie umana: i probabili
sconvolgimenti prossimi venturi si fondono con le turbolenze di epoche lontane, attraverso la fervida
elaborazione di un immaginario collettivo – successivamente tradotto dagli scrittori in forme narrative –, che
ne capta le rispondenze simmetriche con le violenze della realtà sociale contemporanea.
Di tre romanzi di ambiente romano, Le mani pure (Rizzoli, Milano 1979) di Ferruccio Ulivi, La gloria
(Mondadori, Milano 1978, 1980) di Giuseppe Berto e Tarbagatai (Einaudi, Torino 1978) di Giulio Del
Tredici, certamente quest’ultimo è il più singolare ed eccentrico, il più impegnato sul versante linguisticostilistico di quella scrittura espressivamente densa e corposa (ma anche fisiologicamente corporea), lungo la
linea di ricerca sperimentale da Dossi a Gadda. Con Le mani pure Ferruccio Ulivi sembra obbedire all’intima
necessità di ricercare, dando forma narrativa a un tema storico, le “costanti” più profonde di quelle
motivazioni psicologiche che hanno creato la storia di ieri e sviluppano gli avvenimenti di oggi. Su Bruto
esiste una letteratura vasta e di altissima qualità: Dante lo aveva condannato a essere maciullato da Lucifero,
ma gli aveva concesso di ostentare lo sdegnoso disprezzo dell’incompreso; Shakespeare rovescia i ruoli: chi
tradisce è il dittatore, il coltello del congiurato viene illuminato dall'idea della libertà.
Ulivi riprende alcuni elementi che affiorano nella tragedia del grande poeta inglese: la problematicità
dell’eroe filosofo, la sua solitudine, il suo amletico smarrimento, il suo essere imbevuto di troppa cultura per
riuscire buon politico. Il dramma di Bruto diventa, quindi, per lui il dramma dell'intellettuale che crede nella
razionalità della Storia, che vuole convogliare le contraddizioni della realtà in una sintesi armonicamente
dialettica, andando però, proprio per questa tensione utopica, incontro alla sconfitta e alla morte. Da questi
dubbi affiora ciò che più tormenta l’autore, avvicinandolo al Sartre delle Mani sporche, di cui quelle «pure»
di Ulivi sono l’antitesi etica e psichica: egli cerca di dare una giustificazione alle responsabilità implicite in
ogni scelta politica, specie quando, in momenti decisivi, essa costeggia l’abisso dell'irreparabile, richiamata
da un freudiano istinto di morte.
Anche La gloria di Giuseppe Berto narra una tra le più note di tutte le trame letterarie, morali e
religiose: la storia di Cristo, che comincia la sua predicazione per amore dei fratelli e, per essi e per la loro
salvezza, accetta l’estremo sacrificio. Bisogna però precisare che il libro non nasce sulla scia di una moda; il
tema non è né fortuito, né occasionale, ma dettato da precise esigenze interiori. Berto ha certamente
capovolto tutti gli schemi della storiografia tradizionale presentando un quinto evangelista, uno spettatoreattore: Giuda Iscariota, il gran traditore, che racconta la sua storia così strettamente connessa a quella del suo
«Rabbi». Con un linguaggio solenne e arcaico, proporzionato e ispirato alla semplicità dei modelli,
rifacendosi in parte al Vecchio Testamento per evitare la banalità del calco e delle invenzioni apocrife,
interrompendo la narrazione degli avvenimenti con toni tratti dalla lamentazione salmistica e dalla
controversia, Berto ha creato un’opera personale che manifesta la sua prepotente ispirazione religiosa e la
sua intima necessità di meditare sulle motivazioni del male, sulla gloria, sulla storia e su coloro che la
subiscono.
Dei tre romanzi di ambiente medievale, privilegiati come campioni di analisi, mentre il terzo, Il
pataffio (Bompiani, Milano 1978) di Luigi Malerba, presenta l’aspetto comico-farsesco di quell’epoca, i
primi due, L’ordalia (Rusconi, Milano 1979) di Italo Alighiero Chiusano ne rivelano la dimensione tragica.
L’ordalia, che precede di un anno Il nome della rosa di Eco, può definirsi una felice risultante di vari generi
letterari: il romanzo storico, ispirato al realismo romantico francese di Stendhal; il romanzo picaresco,
caratterizzato da avventure e colpi di scena; il romanzo di formazione tedesco di Goethe e di Mann. Gli
elementi caratteristici di questi tre generi letterari sono stati da Chiusano ingegnosamente fusi nella creazione
di avvenimenti ambientati in un’epoca particolarmente interessante per vicende storiche e per condizioni
sociali. L’ordalia riporta a un’epoca, il Mille, che, pur essendo lontana nel tempo, rivela molte analogie con
l’età moderna, senza alcuna forzatura attualizzante. Tema fondamentale del romanzo è il travaglio
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individuale, la crisi dei valori del protagonista; l’angoscia per la “fine del mondo” non è solo una
fantasticheria da letterati. Suscita, infatti, una vasta gamma di interessi anche nell’ambito delle scienze
umane, dall’antrapologia alla sociologia, alla filosofia. Il “Medioevo prossimo venturo” potrebbe sempre
essere causato sia dalla degradazione dei grandi sistemi tecnologici e organizzativi che dall’esaurimento
delle risorse e dall’inquinamento totale.
C’è anche chi più specificamente si sofferma sulla rappresentazione di un futuro privo di prospettive,
come se si vivesse in un mondo immobile, defuturizzato, in preda alla paralisi delle sue sovrastrutture
(immaginazione, pensiero, progettazione), mentre le strutture (economiche, sociali) sembrano viaggiare
verso un’inarrestabile catabasi. Le stesse favole mimetiche di Dopo il pescecane (Bompiani, Milano 1979) di
Luigi Malerba si potrebbero includere nella narrativa del “senso della fine”, non perché evochino inquiete
atmosfere di disfacimento o immaginino distruzioni apocalittiche. Anzi, i protagonisti di queste storie sono
gente normalissima, ritratta dall'autore con puntuale realismo all'interno dell'ambiente di lavoro. La logica
serrata e stringente delle loro argomentazioni, espresse con lunghi monologhi in prima persona, se
sviluppata, però, in tutte le implicazioni e conseguenze, finisce per renderne assurde e paradossali le
condizioni di vita, nonostante sembri razionalmente concreta nella sua banale quotidianità, per uno
straordinario effetto di iperrealismo.
Presenta sì un modulo narrativo ispirato alla favola fantascientifica, i cui protagonisti sono scampati a
una catastrofica esplosione, ma Il pianeta irritabile (Einaudi, Torino 1978) di Paolo Volponi, con il suo tema
apocalittico, si ricollega a quel terrore atomico che spinge l’intellettuale Gerolamo Aspri, protagonista di
Corporale (ivi, 1974) a progettare sull’Appennino un inaccessibile rifugio. Per Volponi solo un cataclisma
può distruggere una realtà totalmente reificata e retta dalla logica spietata del profitto. Caratteristica comune
di questi romanzi è avere come protagonista almeno un “superstite”, sopravvissuto al cataclisma apocalittico,
come il cane di Carlo Cassola (Il superstite, Rizzoli, Milano 1978) i tre animali e il nano deforme di Volponi
(Il pianeta irritabile), lo scriba-poeta di Antonio Porta (Il re del magazzino, Mondadori, Milano 1978). Il
senso della fine emerge da tutte le pagine di Il pianeta irritabile, anche se si tratta di una fine vista con
strumenti che non sono più i nostri; sono rudimentali perché subumani, anzi, animali, ma liberi dai consumi.
È l’anno 2293; il mondo tecnologico è finito; un orrendo scoppio ha segnato l’autodistruzione degli uomini e
la liberazione dei diversi: tre animali intelligenti e un nano storpio, che di quegli uomini reca la ferita e le
offese. Sulla superficie irritata e pulsante del pianeta cade una pioggia polimorfa («petrolio, catrame, acqua
salata»); il sole è scomparso, ma ci sono tante lune, tutte diverse. Il tempo non esiste. Un globo coperto di
cenere, in cui la parola, il dialogo risultano inadeguati e dovrebbe forse prevalere solo una semiotica di gesti.
Su questo paesaggio si apre l’apologo di Volponi, il suo conte philosphique, ricco di metafore e di allegorie,
di toni ilari e favolistici, di immagini paradossali e suggestive. Il pianeta irritabile sembra configurarsi a
tratti come una sorta di viaggio dantesco in un mondo stravolto dalle mutazioni del suo stesso paesaggio
naturale. Volponi non si limita a porre l’accento sulle crepe sottili dell’attuale società, ma giunge a
immaginarne una nuova e diversa.
A chi guarda con occhio disincantato la Modernità non può sfuggire l'immagine di un mondo tutto
addossato al punto zero della frattura, un mondo che vive una drammatica crisi storica. È una
consapevolezza che emerge in Il re del magazzino di Antonio Porta, il quale, compiendo un «piccolo viaggio
nel mondo dei morti», scrive un suo orwelliano 1984. Nel romanzo questi brandelli di realtà amara arrivano
dal futuro, sotto forma di lettere e di poesie, ma richiamano brutalmente il presente. Vi è un punto in cui lo
sgretolamento dei valori finisce col coincidere con l’esaurimento delle risorse spirituali del singolo e con la
relativa perdita del significato dell’esistenza. In questo punto la tragedia umana compie il suo ultimo passo
verso il suicidio.
Dal lavoro poetico, svolto insieme con i “Novissimi” (anche con il romanzo del 1967, Partita), Porta,
andando oltre la semplice frattura fra significato e significante, approda a una nuova unità linguistica su un
piano secondo, che è quello della letterarietà aperta, dell’autentico procedimento stilistico, della concreta e
persuasiva operatività sul linguaggio. Nel romanzo gli avvenimenti più tragici trascorrono ininterrottamente
senza destare una minima impressione. L’indubbia carica visionaria di Antonio Porta, se, da un lato, riesce a
individuare gli incubi infestanti dell’angoscia attuale, dall’altro, però, indulge a un utopico privilegiamento
della scrittura e della funzione del poeta, che riuscirebbe a esorcizzare la “fine” o la catastrofe apocalittica
con il flusso magico-propiziatorio delle sue costruzioni verbali. La capacità salvifica per un futuro
enigmatico e gravido di incognite è, dunque, misticamente affidata alla mitica forza della Parola: solo Orfeo
potrebbe ridare la vita a Euridice.
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