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L'esilio della carne: Max Blecher
> di Luca Ormelli
«Al mondo non esiste nulla all'infuori del fango»
«La terribile domanda "chi sono davvero" vive allora in me come un corpo totalmente
nuovo, cresciutomi dentro con una pelle e degli organi che mi sono del tutto sconosciuti.
La sua soluzione è richiesta da una lucidità più profonda e più essenziale di quella del
cervello. Tutto ciò che è capace di agitarsi nel mio corpo, si agita, si dibatte e si rivolta in
maniera più potente e più elementare che nella vita quotidiana. Tutto implora una
soluzione» [Accadimenti nell'irrealtà immediata, p. 12].
Max Blecher, scrittore ebreo di nazionalità rumena, trascorse gli ultimi dieci anni della sua
vita costretto a letto da una tubercolosi spinale che l'avrebbe stroncato ventinovenne, nel
1938. Vi è, nella sua condizione di allettato, di ostaggio delle proprie membra come una
figurazione dell'esilio patito dal popolo eletto: lì è Jahvè che evoca il suo popolo e nel
consacrarlo lo condanna alla fine dei tempi, qui, nella tragedia di un uomo, è Eros che
appestandone la carne pulsante, la contagia irreparabilmente. Ed Eros, è noto, invasando
spossessa, depreda di sé l'incauto che nella mania si avventura, non curante di quel
monito, "noli me tangere", che a lettere di fuoco campeggia sul tempio d'amore. Lo spirito si
estranea, si altera alla cerca di un senso che conceda il respiro al mondo trasfigurato del
paziente: «In alcuni momenti di inquietudine, ho percorso così tutte le certezze e le
incertezze della mia esistenza, per ritornare definitivamente e dolorosamente nella mia
solitudine» [op. cit., p. 13]. Una ricerca, si diceva, del tutto interiore, di un Io cresciuto a
discapito del proprio involucro corporeo, evaso dal proprio tegumento come un
rampicante spirituale pronto ad anastomizzare la periferia del quotidiano, di quel vissuto
che soffoca - quasi un nuovo esistenziale heideggeriano - nella sua fissità univoca e
desolata: «allora sentivo più profondamente e più penosamente che non avevo nulla da
fare in questa realtà, null'altro che vagabondare nei parchi, nelle radure polverose e
bruciate dal sole, deserte e selvagge» [op. cit., p. 15]. Accadimenti nell'irrealtà immediata,
pubblicato nel 1936, tratteggia i turbamenti del giovane Blecher, reali o mitizzati che siano,
con straordinaria grazia e sensualità, con carnalità prorompente come bene osserva la
conterranea Herta Müller nel risvolto di copertina di questa prima edizione in lingua
italiana di un'opera del giovane rumeno: «ciò che rende lo sguardo di Blecher così
penetrante, è l'eroticità che risiede e langue in ogni cosa».
Lo sguardo è, invero, l'autentico protagonista di questo conte philosophique permeato di
vertigine e deliquio; uno sguardo propriamente sur-reale (si badi che Blecher era in
convalidata corrispondenza con André Breton) se per sur-realismo vogliamo intendere, in
un sussulto di vattimismo, l'über-realität, l'oltre-realtà o quella realtà intravista non meno
che trasognata, carezzata e palpitante. «Ci sono occhi» ebbe a scrivere Celan «che vanno al
fondo delle cose. Essi scorgono un fondamento. E ce ne sono altri che sprofondano nelle
cose. Questi non scorgono fondamenti. Ma vedono più profondo» [P. Celan, Microliti, p.
87]. E' un àugure Blecher, uno storpio divino, maledetto da Eros e per questo esiliato dal
mondo: «invidiavo le persone intorno a me, impenetrabilmente chiuse nei loro segreti e
isolate dalla tirannia degli oggetti. Esse vivevano prigioniere sotto spolverini e cappotti
però nulla dal di fuori le poteva terrorizzare e sconfiggere, nulla penetrava nelle loro
meravigliose galere. (...) Dovevo constatare fino all'esasperazione che vivevo nel mondo
che vedevo» [op. cit., p. 21 - corsivo di chi scrive]. Lo sguardo è aperto sul mondo, l'aperto
rilkiano (das Offene) come già intuito da Heidegger: «"Aperto" significa, nel linguaggio di
Rilke, qualcosa che non sbarra chiudendo; qualcosa che non sbarra perché non limita; non
limita perché è privo di ogni limite. L'Aperto è il grande insieme, il tutto di ciò che è senza
limiti» [M. Heidegger, Perché i poeti?].
Ma lo sguardo è ammorbato, impuro poiché ogni cosa su cui esso, ingenuamente o
compiacente, si apprende è fenomeno e pertanto: «è rappresentazione e nulla più; e ogni
rappresentazione, ogni oggetto di qualsiasi specie è fenomeno» [A. Schopenhauer, Il
mondo come volontà e rappresentazione]. E poiché tutto è dunque rappresentazione nessuno
meglio degli attori, dei saltimbanchi, dei circensi ha la facoltà davvero mimetica di
«comprendere per davvero il senso di mistificazione del mondo. Essi soltanto sapevano
che in un universo spettacolare e decorativo la vita doveva essere rappresentata in maniera
falsa e ornamentale» [op. cit., p. 56]. «Sentivo», prosegue Blecher, «che nulla a questo
mondo può giungere fino alla fine, nulla può compiersi. (...) In questo modo nacque in me
l'idea dell'imperfezione di ogni manifestazione di questo mondo, foss'anche
soprannaturale» [op. cit., p. 22]. Dio è corrotto ed il mondo è l'esito disperato di una rovina
metafisica. Blecher accenna qui, con apparente disinvoltura, un tòpos peculiare
all'ebraismo gnostico di Shabbetày Tzevì: il ripudio della Legge come solo viatico per la
salvezza: «quando il Signore vide che l’anima d’Israele era malata, l’avvolse nel lino
bruciante della galut [l’esilio], e perché lo sopportasse fece discendere su di essa un sonno
letargico. Ma perché questo non la distrugga, la desta d’ora in ora con una falsa speranza
del Messia e poi la riaddormenta nuovamente fino a che la notte sia passata e il vero
Messia appaia. Per questa opera gli occhi dei saggi vengono talvolta accecati» [Rebbe
Yitzchàq Lewì di Berditschew].
Come Antoine Roquentin ne La nausea, il coevo romanzo di Sartre, o Gregor Samsa ne La
metamorfosi di Kafka l'Io-Blecher osserva allucinato e derubrica, censisce minutamente
questo mondo condannato all'esilio dell'insignificanza: «vedevo bene le persone intorno a
me, vedevo bene l'inutilità e la noia con cui consumavano le loro vite, le giovani ragazze
nei giardini che ridevano stupidamente; i commercianti dagli sguardi scaltri e arroganti; il
bisogno teatrale di mio padre di interpretare la parte del padre; la tremenda stanchezza
dei mendicanti assopiti in miserabili cantoni; tutto questo si confondeva in un aspetto
generico e banale, come se il mondo, così com'era, attendesse da molto tempo dentro di
me, e io, giorno dopo giorno, non facessi che verificare il suo contenuto invecchiato in me»
[op. cit., p. 83], ottuso e impenetrabile, deforme e opaco a quella scintilla di vita e di
felicità cui l'Io, quando è realmente Altro, incessantemente anela, nel disperato tentativo di
palingenesi del mondo [«un solo istante di felicità assoluta sarebbe stato capace di
sbalordire il mondo per sempre», op. cit., p. 138] dall'alto della sua folle, ribelle cattività:
«la materia dura e immobile mi circondava da ogni parte - qui dentro sotto forma di biglie
e di sculture - per strada sotto forma di alberi, di case e di pietre; immensa e inutile,
racchiudendomi dentro di sé dalla testa ai piedi. In qualunque direzioni pensassi, la
materia mi circondava, a cominciare dai miei abiti, fino alle sorgenti nelle foreste,
passando attraverso muri, alberi, pietre, bottiglie... A ogni angolo la lava della materia era
venuta fuori dalla terra, rapprendendosi nell'aria vuota, in forma di case con finestre, di
alberi con chiome che svettavano all'insù per pungere il vuoto, di fiori morbidi e colorati
che riempivano piccoli volumi ricurvi nello spazio, di chiese con cupole cresciute sempre
più in alto, fino all'agile croce su in cima dove la materia aveva interrotto il suo sviluppo in
altezza, incapace di ascendere oltre. Dappertutto aveva infestato l'aria, irrompendo in essa,
riempiendola con gli ascessi incistati delle pietre, con le cavità ferite degli alberi...
Camminavo impazzito per le cose che vedevo e di cui mi era impossibile sbarazzarmi» [op.
cit., pp. 111-112]. Il delirio febbrile, la possessione erotica e fantastica di cui l'Io-Blecher è
sofferente consegnano fatalmente la sua psiche ferita ad indiarsi così da riscrivere
arbitrariamente la creazione narrata nel Genesi: «ora ero sicuro che persino gli alberi non
erano altro che fango rappreso, fuoriuscito dalla crosta terrestre. il loro colore lo
testimoniava a sufficienza. Ma soltanto gli alberi? E le case, e gli uomini? Soprattutto gli
uomini. Tutti gli uomini. Non si trattava, ovviamente, di nessuna stupida leggenda
"polvere tu sei e in polvere tornerai!". Ciò era troppo vago, troppo astratto, troppo
inconsistente di fronte al desolato terreno fangoso. Le persone e le cose erano saltate fuori
giusto da questo misto di sterco e urina in cui io affondavo con concretissimi scarponi.
Inutilmente le persone si erano avvolte nella loro pelle bianca e vellutata e si erano vestite
in abiti di stoffa. Invano, invano... In loro giaceva implacabile, imperioso e primario il
fango; il fango tiepido, denso e maleodorante. La noia e la stupidità con cui riempivano la
loro vita lo dimostrava ampiamente» [op. cit., pp. 124-125].
«In un mondo così esatto, qualunque iniziativa diventava superflua, se non addirittura
impossibile» [op. cit., p. 151]. La consistenza del giorno, della veglia: questo soffoca. E' la
notte, il sonno dello spirito che sospende l'identità, la frantuma; nell'oscurità ci ritroviamo
aperti: «nel mondo, le distanze non erano semplicemente quelle che percepivamo con gli
occhi, infime e permeabili, bensì altre invisibili, popolate di mostri e di timidezze, di
progetti fantastici e di gesti impensabili che, se si fossero per un istante coagulati nella
materia di cui auspicavano di essere composti, avrebbero trasformato l'aspetto del mondo
in un cataclisma tremendo, in un caos straordinario, pieno di spietate sciagure e di
estatiche beatitudini. (...) Era ormai comprovato: il mondo aveva un suo aspetto comune al
centro del quale ero capitato come un errore, non sarei mai potuto diventare un albero, né
uccidere qualcuno, né il sangue sarebbe sprizzato fuori a fiotti. Tutte le cose, tutte le
persone erano racchiuse nel loro piccolo e triste dovere di essere precisi, null'altro che
precisi» [op. cit., p. 154].
L'esilio consuma, morde la distanza - la nostalgia «mit namen, getränkt / von jedem exil»
[P. Celan, Hinausgekrönt] - che ci separa dal mondo, il mondo apollineo della logica e del
nitore; si dà forse vita che non meriti di essere vissuta? La sconfitta risuona inesorabile in
queste ultime, lapidarie parole: «"La tua vita è stata così e non altrimenti" (...) e in questa
frase risiede l'immensa nostalgia del mondo chiuso nelle sue luci e nei suoi colori ermetici,
da cui a nessuna vita è permesso estrarre altro se non l'immagine di un'esatta banalità. In
essa risiede la malinconia di essere unica e limitata, in un mondo unico e meschinamente
arido» [op. cit., p. 165]. Tutta la vita è tutte le vite, rien ne va plus.
Max Blecher - Accadimenti nell'irrealtà immediata, Keller, Rovereto, 2012.
Paul Celan - Microliti, Zandonai, Rovereto, 2010.
Filosofia e nuovi sentieri/ISSN 2282-5711
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