1 QUADERNO DI TRADUZIONI (Sydney, 2000)

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1 QUADERNO DI TRADUZIONI (Sydney, 2000)
QUADERNO DI TRADUZIONI
(Sydney, 2000)
Paolo Bernardini
Da Percy B. Shelley (1792-1822)
I.
Ozymandias
Incontrai una volta un viaggiatore, giunto da una terra antica
E mi disse: ‘Due immense gambe di pietra, senza tronco
Alte si ergono nel deserto. Accanto a loro, sulla sabbia
Sommerso quasi, giace un volto distrutto, l’espressione irata, amara
Le labbra contratte, il ghigno che solo dà il freddo comando
Ci dicono quanto fu abile chi le scolpì, a leggere queste passioni
Che sopravvivono ancora, scavate su quelle pietre senza vita:
La mano che le figurò, ed il cuore che d’esse fu preda.
E sul piedistallo tu leggi queste parole:
‘Il mio nome è Ozymandias, Re dei Re:
Guarda all’opera mia, oh, poderosa, e dispera!’
Nulla più di questo rimane. Intorno alla rovina
Di quel relitto immane, nuda e senza confini
La sabbia piatta si distende, solitaria, all’infinito.
II.
Inghilterra 1819
Un re vecchio, pazzo, cieco, disprezzato e morente
Prìncipi, la feccia della loro stupida genia, che passano
Tra il disprezzo del mondo – fango, da una Primavera di fango;
Potenti che non vedono né sentono e non sanno
Ma s’attaccano come sanguisughe all’Inghilterra, che vien meno
Finché, accecate dal sangue, cadono a terra senza un sospiro;
Un popolo affamato e pugnalato tra i suoi campi incolti;
Un esercito che ha giurato fedeltà solo alla spada a doppio taglio
Che porta i nomi di razzia, e quello di liberticidio;
Leggi auree e sanguinarie che allettano e macellano insieme;
Una religione senza Cristo, senza Dio – come un libro sigillato;
Un Senato, il peggior istituto dei tempi, che rimane intatto…
Altro non sono che tombe, da cui forse si leverà
Un Fantasma glorioso, a illuminare questi dì di tempesta.
1
Da Alfred Tennyson (1809-1892)
Odisseo
Ben poco giova che io, un re immerso nell’ozio
Presso il mio focolare quieto, tra sterili rocce
La moglie anziana ormai, ben poco giova
Che concepisca ed emani leggi diseguali
Per un popolo selvaggio, che accumula e che dorme
Che si nutre soltanto, e che non mi conosce.
Non posso trattenermi dal viaggiare: la vita
La berrò fino alla feccia. E sempre immense
Furono le mie gioie, immani
I miei dolori, con coloro che mi amarono, e da solo, sulla costa
E quando le Iadi, dee della pioggia, tormentavano
Con rapide ondate lo specchio oscuro del mare;
Dunque, ora io sono un nome: e questo, perché con il cuore
Mai sazio molto mi fu dato vedere, molto conoscere
Città di uomini, e costumi, e climi, consigli, governi
E me stesso ugualmente, onorando poi sempre quel che vidi:
Ho bevuto fino al fondo il piacere della battaglia, con i miei pari,
Lontano, là sulle rombanti pianure della ventosa Troia.
Io sono parte di tutto quello che ho incontrato.
Eppure tutto quel che vissi non è che un arco
Da cui occhieggia un mondo ove ancora non son entrato
Un mondo i cui bordi estremi si dileguano
Ad ogni mio passo, e per sempre, per sempre si spingon lontano.
Quant’è stupido fermarsi, darsi una fine
Arrugginire all’ombra del fodero, e non spezzarsi
Come la spada rilucendo nell’agone!
Come se respirare fosse la vita! Vite, cataste di vite
Tutte insieme eran troppo poco, e d’una sola
Mi rimane nulla, o quasi; ma ogni ora si salva
Da quel silenzio eterno e mortale, qualcosa di più,
Il messo di cose ancor nuove; e sarebbe ben vile
Se per l’arco di tre soli mi togliessi al mondo come in una cella
E vi chiudessi questo spirito grigio, ora, ma che ancora brucia
Brucia dal desiderio di conoscere e sapere,
come una stella che naufraghi in cielo,
Al di là d’ogni limite estremo dell’umano pensiero.
2
Questo dunque è il figlio mio Telemaco
A lui lascio lo scettro e l’isola ove sono sovrano
Il beneamato, che ben sa come compiere il suo officio
Con quieta saggezza render docile una gente fosca e petrosa
E farne con decreti morbidi sudditi fedeli,
Disposti all’utile e al bene.
Privo di colpe e vergogne, preso dalla sfera
Dei doveri comuni, saggio quanto basta
Per non fallire quando debba agire col cuore,
E pregare gli dei della mia casa come a loro conviene.
Quando io sarò partito. Egli compie l’opera sua.
Ed io quella che mi appartiene.
Ecco, laggiù è il porto; la nave gonfia le sue vele;
E’ oscuro l’orizzonte, vasto il mare. O miei marinai
Anime che penaste nello sforzo, gravi, e gemelle mie nel pensiero
Voi che salutaste ogni tempesta con un salve gioioso, e ogni sereno
E gli presentaste innanzi il vostro libero cuore, la vostra libera fronte
O miei marinai, voi ed io siamo vecchi, ora.
Ma l’età nostra ha le sue pene, e le sue gioie.
La morte rende tutto più vicino, ma un qualcosa, prima della fine
Un nobile gesto lo possiamo compiere ancora
Qualcosa che s’addica a uomini quali noi siamo:
Noi incrociammo un tempo con gli dei la nostra spada.
La luce s’apre un varco tra le rocce, appena
Il lungo giorno svapora, sale lenta la luna
E gemiti profondi si mischiano in echi infiniti.
Venite, amici! Non è troppo tardi per cercare un mondo nuovo.
Remate, e sedendo nelle schiere ordinate che vi son note
Piegate le creste rumorose. Perché il mio intento ultimo
Mi dice di far vela oltre il tramonto, oltre le scie
Delle stelle dell’Ovest, finché non muoio.
Forse ci prenderanno i vortici selvaggi
Ma forse giungeremo invece alle Isole Felici
E lì vedremo Achille, il Grande, che già fu nostro amico.
Anche se abbiamo avuto molto, molto rimane in attesa,
E non siamo più quella forza immane
Che in giorni lontani ci fece muovere le terre, ed il cielo
Noi siamo quel che ora siamo, noi siamo
Una tempra ferma fatta di eroici cuori
Che il tempo indebolì, ed il destino; ma il volere
E’ forte ancora per lottare
Per cercare e per trovare, per opporci fermi alla resa.
3
Da Hagiwara Sakutaro (1886-1942)
Nascosto dietro alla natura
Varcata l’ombra d’un bosco
Vedemmo un’ombra misteriosa
Nuotava sull’oscurità del cammino
Vedemmo la luce della luna.
Attraversando l’erba
Udimmo il suono d’un flauto nervoso
Soffiava tra il fogliame abbandonato.
Vedemmo la voce del vento.
Poiché non siamo che fanciulli indifesi
Con il modo misero del nostro percepire
Solo poche, e ovvie cose, ci è dato di vedere.
Del creato nascosto udimmo il linguaggio segreto
Che vive nella vastità della natura
Sul versante lontano di quella remota collina
Percepimmo il moto d’animali
Che non ci fu dato vedere.
Dall’ombra della foresta
Con la sua elettrica luce
Dall’orizzonte al suo crepuscolo
Cogliemmo come un’immagine immane
Che lentamente muoveva
Come l’ombra pallida del fumo
Provammo paura per quel demone che s’avanzava
Pari ad una qualche forma misteriosa.
Con parole rare, che ai grandi
Rimangono ignote,
La natura ci minacciava
E noi, come canne tremanti,
Gridammo ‘Madre! Madre!’
A quel deserto selvaggio, desolato.
[Traduzione condotta sulla versione inglese del testo, dall’originale giapponese, di Orie
Muta]
4
Da Edward Estlin Cummings (1894-1962)
In un luogo dove non ho mai viaggiato
Da qualche parte ove non ho mai viaggiato, gioiosamente aldilà
D’ogni esperienza, gli occhi tuoi hanno il loro silenzio.
Nel tuo gesto più lieve è un qualcosa che mi cattura
O che non posso toccare, perché mi è troppo vicino.
Uno sguardo tuo, il più rapido dei tuoi sguardi mi dischiuderà
Sebbene mi sia chiuso in me come si chiudono le dita nella mano
Tu poi sempre mi schiudi, petalo dopo petalo, come la Primavera
Apre (con tocco esperto, nel mistero) la sua prima rosa.
O se vuoi essere vicina a me, la mia vita e me stesso
Ci chiuderemo a riccio, all’improvviso, splendidamente
Come quando il cuore di questo fiore si raffigura
La neve che scende piena di cura, in ogni dove.
Non sentiremo nulla, nulla in questo mondo
Che il potere eguagli della tua fragilità intensa
Le cui forme mi stringono nei colori delle sue terre
Donando morte ed eternità ad ogni suo respiro.
(Non so cosa in te abbia il potere di chiudere e aprire
Soltanto, in me qualcosa mi dice
Che la voce dei tuoi occhi è più profonda di ogni rosa)
Nessuno, neanche la pioggia, ha mani più minute.
***
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