L`acquaiola di Totò

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L`acquaiola di Totò
L’acquaiola di Totò
Realizzazione di Anna Maria Palumbo in legno, alabastrino e terracotta
di Armando Polito
Armando Polito per Vesuvioweb.com
Ogni matina scengo a Margellina,
2 me guardo 'o mare, 'e vvarche e na figliola
3 ca stà dint'a nu chiosco: è n'acquaiola.
4 Se chiamma Teresina,
5 sì e no tene vint'anne,
6 capille curte nire nire e riccie,
7 na dentatura janca comm' 'a neve,
8 ncuollo tene 'a salute 'e na nutriccia
9 e na guardata d'uocchie
10 ca songo ddoje saette,
11 sò fulmine, sò lampe, songo tuone!
12 E i' giuro e ce scummetto
13 ca si resuscitasse Pappagone,
14 muresse cu n' 'nfarto
15 guardanno sta guagliona.
16 Essa ha capito ca i' sò nu cliente
17 ca 'e ll'acqua nun me ne 'mporta proprio niente
18 e me l'ha ditto cu bella maniera:
19 "Signò, cagnate strada... cu mme sta poco 'a fà
20 se chiamma Geretiello... è piscatore.
21 Fatica dint' 'a paranza 'e don Aniello".
22 Ma i' niente, tuosto corro ogni matína,
23 me vevo ll'acqua...
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24 e me 'mbriaco comme fosse vino.
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1 Il testo è riportato da Antonio De Curtis ‘A livella, Fiorentino editore, Napoli, 1968.
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L’operazione che mi accingo a fare è un atto di violenza, ma, in fondo,
come un’autopsia, ha il fine di chiarire a me stesso la genesi del fascino
di una poesia e delle emozioni che essa suscita.
Metricamente si nota all’inizio un equilibrio compositivo dato
dall’alternanza di 3 endecasillabi (versi 1, 2 e 3) e 2 settenari (versi 4 e
5); poi ancora la stessa struttura che coinvolge prima i versi 6, 7, 8, 9 e
10 e poi 11, 12, 13, 14 e 15.
L’equilibrio fin qui mantenuto sembra continuare nel verso 16
(endecasillabo) per poi spezzarsi parzialmente nel verso 17, apparentemente dodecasillabo, ma in realtà scindibile in due settenari (ca ‘e
ll’acqua nun me ne/’mporta proprio2 niente), cui segue il verso 18
(endecasillabo), mentre nel successivo (19) si ripete il fenomeno già
visto nel 17 (Signò, cagnate strada/cu mme sta poco ‘a fà). Negli ultimi
quattro versi si succedono due endecasillabi (21 e 22), un quinario (23)
e un endecasillabo 3 (24).
Non credo sia un caso che l’apparente rottura dell’equilibrio avvenga
proprio in concomitanza dei due versi (17 e 19) che nominalmente sono dodecasillabi (la scissione da me prima operata in due settenari
spiega l’apparente poco fa usato) e che (il 17 indirettamente, perché
l’interessata aveva capito; il 19 direttamente e non solo per l’efficacia
del discorso diretto) sanciscono la fine, se si vuole, di un sogno impossibile dal quale, tuttavia, il protagonista non sa staccarsi, con una rivisitazione nuova e originale, ambigua e bivalente (perché il cliente-fedele
non sa rinunciare a recarsi al chiosco-santuario) del detto “bevo per
dimenticare”, con l’amore (o la semplice attrazione sessuale, poco qui
importa) impegnato in una sorta di rivisitazione tutta laica del miracolo di Cana.
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2 Per me andrebbe scritto proprïo (iato: tre sillabe).
3 Per me andrebbe scritto ‘mbrïaco (iato: tre sillabe).
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In linea con tutto questo anche il gioco delle rime che, tradizionale
nei primi quattro versi con la rima incrociata, diventa ben presto più
libero lasciando ad un’assonanza, per così dire, solo grafica4 il compito di riverbero fonico (riccie/nutriccia e Pappagone/guagliona,
con il precedente ripristino momentaneo della rima anche graficamente perfetta tuone/Pappagone. E questa5 torna per l’ultima volta,
baciata, in cliente/niente e la rimalmezzo Geretiello/Aniello ne prepara l’estrema diluizione nell’assonanza (dello stesso tipo di quella
evidenziata in nota 4) finale matina/vino6.
Questa coerenza non è certamente ricercata, studiata a tavolino (al
di là del labor limae al quale ogni artista non sa rinunciare), eppure
obbedisce, come la musica, a principi, direi, matematici: questo per
me è più che sufficiente per porre fine alla secolare diatriba della
contrapposizione tra le due culture e per considerare lo scienziato e
l’artista (poeta, pittore o scultore che sia) come le espressioni più alte del tentativo, originale, di conoscere e conoscerci meglio.
E, a proposito di originalità (solo per questo, non per fare improponibili, cervellotici e stupidi confronti o stilare altrettanto idiote classifiche), sullo stesso tema di fondo, al di là delle differenze di situazione, a riprova che la poesia riesce a conferire l’innocenza di un bambino anche a quella che, almeno inizialmente, potrebbe sembrare la
perversione di un vecchio bavoso (forse ho esagerato...forse...),
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4 Debbo questa osservazione all’amico Salvatore Argenziano: “Riccie e nutriccia hanno lo
stessa fonia poiché la -e- di riccie, come la -a- di nutriccia hanno lo stesso suono indistinto,
(una ottava vocale del dialetto napoletano, la stessa della cosiddetta -e- muta francese), la
scevà della fonetica. Lo stesso dicasi per le vocali finali di Pappagone e di guagliona”.
5 A voler essere precisi dovremmo parlare (fenomeno opposto al precedente) di rima grafica, dal momento che lo stesso amico mi fa sapere che in napoletano “le due vocali toniche di
cliente e di niente hanno pronuncia diversa, la prima aperta e la seconda chiusa”.
6 “La a finale di marina ha lo stesso suono indistinto (a me piacerebbe dire è la stessa vocale) della o finale di vino”.
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riporto Le due strade di Guido Gozzano7:
Tra le bande verdi gialle d'innumeri ginestre
la bella strada alpestre scendeva nella valle.
Andavo con l'Amica, recando nell'ascesa
la triste che già pesa nostra catena antica;
quando nel lento oblio, rapidamente in vista
apparve una ciclista a sommo del pendio.
Ci venne incontro; scese. "Signora! Sono Grazia!"
sorrise nella grazia dell'abito scozzese.
"Graziella, la bambina?" - "Mi riconosce ancora?"
"Ma certo!" E la Signora baciò la Signorina.
"Ci segui un tratto a piede?" - "Signora, volentieri..."
"Ah! ti presento, aspetta, l'Avvocato, un amico
caro di mio marito... Dagli la bicicletta."
La piccola Graziella! Diciott'anni? Di già?
La Mamma come sta? E ti sei fatta bella!
"La piccola Graziella, così cattiva e ingorda!..."
"Signora, si ricorda quelli anni?" - "E così bella
vai senza cavalieri in bicicletta?" - "Vede...".
Sorrise e non rispose. Condussi nell'ascesa
la bicicletta accesa d'un gran mazzo di rose.
E la Signora scaltra e la bambina ardita
si mossero: la vita una allacciò dell'altra.
Adolescente l'una nelle gonnelle corte,
eppur già donna: forte bella vivace bruna
e balda nel solino dritto, nella cravatta,
la gran chioma disfatta nel tocco da fantino.
Ed io godevo senza parlare, con l'aroma
degli abeti, l'aroma di quell'adolescenza.
- O via della salute, o vergine apparita,
o via tutta fiorita di gioie non mietute,
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7 Il testo è ripreso dal sito http://www.liberliber.it
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forse la buona via saresti al mio passaggio,
un dolce beveraggio alla malinconia.
O bimba, nelle palme tu chiudi la mia sorte;
discendere alla Morte come per rive calme,
discendere al Niente pel mio sentiere umano,
ma avere te per mano, o dolce sorridente! Così dicevo senza parola. E l'Altra intanto
vedevo: triste accanto a quell'adolescenza!
Da troppo tempo bella, non più bella tra poco,
colei che vide al gioco la piccola Graziella.
Belli i belli occhi strani della bellezza ancora
d'un fiore che disfiora e non avrà domani.
Al freddo che s'annunzia piegan le rose intatte,
ma la donna combatte nell'ultima rinunzia.
O pallide leggiadre mani per voi trascorsero gli anni! Gli anni, forse, gli anni di mia Madre!
Sotto l'aperto cielo, presso l'adolescente
come terribilmente m'apparve lo sfacelo!
Nulla fu più sinistro che la bocca vermiglia
troppo, le tinte ciglia e l'opera del bistro
intorno all'occhio stanco, la piega di quei labri,
l'inganno dei cinabri sul volto troppo bianco,
gli accesi dal veleno biondissimi capelli:
in altro tempo belli d'un bel biondo sereno.
Da troppo tempo bella, non più bella tra poco,
colei che vide al gioco la piccola Graziella.
- O mio cuore che valse la luce mattutina
raggiante sulla china tutte le strade false?
Cuore che non fioristi, è vano che t'affretti
verso miraggi schietti, in orti meno tristi.
Tu senti che non giova all'uomo soffermarsi,
gittare i sogni sparsi per una vita nuova.
Discenderai al niente pel tuo sentiere umano
e non avrai per mano la dolce sorridente,
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il tempo è già più forte di tutto il tuo coraggio. Queste pensavo cose, guidando nell'ascesa
la bicicletta accesa d'un gran mazzo di rose.
Erano folti intorno gli abeti nell'assalto
dei greppi fino all'alto nevaio disadorno.
I greggi, sparsi a picco, in gran tinniti e mugli
brucavano ai cespugli di menta il latte ricco;
e prossimi e lontani univan sonnolenti
al ritmo dei torrenti un ritmo di campani.
- Lungi i pensieri foschi! Se non verrà l'amore –
che importa? Giunge al cuore il buono odor dei boschi:
di quali aromi opimo odore non si sa:
di resina? di timo? e di serenità?... Sostammo accanto a un prato e la Signora china
baciò la Signorina, ridendo nel commiato:
"Bada che aspetterò, che aspetteremo te;
si prende un po' di the, si maledice un po'..."
"Verrò, Signora, grazie!" Dalle mie mani in fretta
prese la bicicletta. E non mi disse grazie.
Non mi parlò. D'un balzo salì, prese l'avvio;
la macchina il fruscìo ebbe d'un piede scalzo,
d'un batter d'ali ignote, come seguita a lato
da un non so che d'alato volgente con le ruote.
Restammo alle sue spalle. La strada, come un nastro
sottile d'alabastro, scendeva nella valle.
Volò, come sospesa la bicicletta snella:
"O piccola Graziella, attenta alla discesa!".
"Signora! arrivederla!" Gridò di lungi, ai venti:
di lungi ebbero i denti un balenio di perla.
Graziella è lungi. Vola vola la bicicletta:
"Amica! E non m'ha detta una parola sola!".
"Te ne duole?" - "Chi sa!" - "Fu taciturna, amore,
per te, come il Dolore..." - "O la Felicità!"
E seguitai l'amica, recando nell'ascesa
la triste che già pesa nostra catena antica.