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© PSYCHOMEDIA - Paolo Migone, "Alcuni problemi della diagnosi in psichiatria"
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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Dalle Rubriche di Paolo Migone
"Problemi di Psicoterapia
Alla ricerca del 'vero meccanismo d'azione' della psicoterapia"
pubblicate sulla rivista
Il Ruolo Terapeutico dal 1987)
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Il Ruolo Terapeutico, 1995, 70: 28-31
Alcuni problemi della diagnosi in psichiatria
Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
In questa rubrica cercherò di presentare alcune delle problematiche della diagnosi in psichiatria, cioè degli
ostacoli metodologici che si incontrano quando ci si propone di classificare le malattie mentali. Spero in questo
modo di stimolare l'interesse anche di chi fa prevalentemente un lavoro psicoterapeutico, o che ha avuto poche
occasioni di interessarsi alla metodologia della diagnosi psichiatrica. Pur essendomi anch'io occupato
prevalentemente di psicoterapia, ho trovato interessante studiare alcuni aspetti del processo diagnostico,
perché in fondo hanno a che fare con le categorie mentali che usiamo quando classifichiamo i nostri pazienti.
L'occasione di queste riflessioni è dovuta alla recente pubblicazione, nel maggio 1994, del DSM-IV
dell'American Psychiatric Association, cioè della quarta edizione del manuale diagnostico americano, che ha
un po' risollevato l'interesse attorno ai questi problemi. Come forse alcuni ricorderanno, nel n. 4/1983 di
Psicoterapia e Scienze Umane presentai in Italia la terza edizione, cioè il DSM-III del 1980 (che allora era
una grossa novità), sollevando anche un dibattito critico sul ruolo della diagnosi e sul rapporto tra psichiatria e
psicoanalisi (la mia risposta al dibattito fu pubblicata sul n. 2/1985). Ora, sul n. 1/1995 della stessa rivista, ho
presentato il DSM-IV con un articolo scritto assieme a Giovanni de Girolamo, il quale prima di trasferirsi a
Bologna ha lavorato per alcuni anni alla Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) di Ginevra dove, tra
le altre cose, ha seguito la preparazione dell'ICD-10, cioè della decima edizione dell'International
Classification of Diseases. Il sistema diagnostico dell'OMS, che dovrebbe essere adottato da tutti gli stati, è
un po' in competizione con i DSM: i DSM (che in genere escono due anni dopo gli ICD) si sono imposti
maggiormente a livello internazionale di quanto non sia accaduto per gli ICD, poiché, soprattutto a partire dal
DSM-III, sono molto più attendibili per la presenza di precisi "criteri diagnostici" (un elenco di caratteristiche
sintomatologiche, di tipo descrittivo, per ogni diagnosi; un numero minimo deve essere necessario per fare
diagnosi, ad esempio 5 criteri su 8). Per questo motivo ora anche l'ICD-10, uscito nel 1992, contiene i criteri
diagnostici, e staremo a vedere quale dei due sistemi, quello americano o quello internazionale, vincerà la
competizione nei prossimi anni.
Una importante differenza tra l'ICD-10 e il DSM-IV è che l'ICD-10 contiene due tipi di criteri diagnostici,
cioè due diversi manuali, uno per il clinico, più flessibile, e l'altro per il ricercatore, più preciso, in quanto
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cioè due diversi manuali, uno per il clinico, più flessibile, e l'altro per il ricercatore, più preciso, in quanto
l'OMS ha ritenuto pericoloso per la pratica clinica l'adozione di rigidi criteri diagnostici come fa il DSM (per le
differenze tra l'ICD-10 e il DSM-IV, vedi Migone P., "Il rapporto tra ICD-10 e DSM-IV", Neurologia
Psichiatria Scienze umane, 1996, XVI, 4: 543-557). Infatti l'uso un po' meccanico del DSM rischia di
snaturare quello che viene chiamato "giudizio clinico", ritenuto ancora indispensabile in un campo così
complesso come questo, necessariamente basato sul rapporto interpersonale. I DSM invece hanno deciso di
mantenere un unico tipo di criteri diagnostici, per rimanere fedeli all'ideale scientifico secondo il quale la ricerca
deve influenzare la clinica e viceversa. Secondo molti ricercatori, il sistema americano è molto più accurato, ma
il sistema dell'OMS verrà necessariamente diffuso in quasi tutti i paesi del mondo dove è d'obbligo per precisi
accordi internazionali. Ad ogni buon conto, l'edizione italiana del DSM-IV, che uscirà tra un anno circa, non
sarà uguale a quella americana, ma sarà una "versione europea" nella quale per molte diagnosi c'è una sezione
del testo che spiega come si rapporta all'ICD-10; inoltre i codici numerici saranno quelli dell'ICD-10, e vi sarà
un'appendice con i codici dell'ICD-9 (uscito nel 1978) dato che molti paesi non hanno ancora adottato l'ICD10 e hanno mantenuto l'ICD-9.
Fatta questa premessa, parlo ora di tre specifici problemi metodologici della diagnostica psichiatrica,
accennando anche al modo con cui sono stati risolti dal DSM-IV: 1) validità e attendibilità; 2) sistema
categoriale versus sistema dimensionale; 3) sistema politetico versus sistema monotetico. Parlando di questi
problemi, spero di stimolare l'interesse verso le difficoltà metodologiche della diagnosi. Per un
approfondimento di queste e di altre tematiche, e per la bibliografia, rimando all'articolo prima citato (Giovanni
de Girolamo & Paolo Migone, "Il DSM-IV e i problemi della diagnosi in psichiatria", Psicoterapia e Scienze
Umane, 1995, 1 - questo articolo contiene anche una intervista a Robert Spitzer, il "padre" dei DSM-III);
rimando anche al cap. 12 del mio libro Terapia psicoanalitica (Milano: Franco Angeli, 1995).
Validità e attendibilità
Questi due termini hanno significati molto diversi ed è importante distinguerli: la validità di una diagnosi si
riferisce alla sua capacità di riferirsi effettivamente ad una determinata malattia, entità, o, costrutto sottostante,
mentre la attendibilità indica solo il grado con cui operatori diversi concordano su una diagnosi (valida o non
valida che sia) fatta indipendentemente l'uno dall'altro. La validità quindi non ha niente a che fare con
l'attendibilità, in quanto questi due termini si riferiscono a oggetti differenti. E' facile progettare un sistema
diagnostico dotato di un'alta attendibilità (ad esempio fornendo criteri diagnostici, come appunto hanno fatto i
DSM-III e il DSM-IV, o utilizzando interviste strutturate), ma molto più difficile è fornire una validità alle
diagnosi proposte.
Ad esempio, come vogliamo definire la schizofrenia? Con la presenza di allucinazioni? Con una incoerenza del
pensiero anche in assenza di allucinazioni? O con entrambi questi sintomi? E dobbiamo includere anche
l'appiattimento affettivo? E inoltre, ammesso e non concesso che troviamo un accordo sulla sintomatologia,
quanto deve durare la malattia affinché si possa parlare di schizofrenia? Una settimana, sei mesi? E così via. E'
evidente quindi che per molte delle malattie mentali si tratta di convenzioni, di accordi raggiunti tramite il
cosiddetto "consenso degli esperti", e raramente disponiamo di veri e propri costrutti sottostanti o di certe
anormalità anatomo-fisiologiche o biochimiche che giustifichino inequivocabilmente una diagnosi. Su queste
convenzioni diagnostiche descrittive però, una volte stabilite, noi possiamo raggiungere una buona attendibilità.
L'attendilità può essere misurata con un "coefficiente di accordo" (il cosiddetto "indice K", che esprime il grado
con cui operatori diversi, all'insaputa l'uno dell'altro, si sono trovati d'accordo sulla diagnosi data allo stesso
paziente): ad esempio nelle "prove sul campo" (field trials) per il DSM-III è emerso che, mentre questo
coefficiente nella schizofrenia era pari a 0.81, esso era invece abbastanza basso nei disturbi di personalità (che
sono poco attendibili), in cui variava da 0.26 a 0.87 a seconda dei singoli disturbi, con una media dello 0.64 (il
che significa che in media solo il 64% dei clinici si sono trovati d'accordo sulle diagnosi di personalità date,
all'insaputa l'uno dell'altro, agli stessi pazienti).
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Una elevata attendibilità dunque non garantisce la validità. E' relativamente facile formulare una categoria
diagnostica molto attendibile se essa è rappresentata solo da pochi e semplici criteri diagnostici (se non
addirittura da un test di laboratorio), i quali però costituiscono solo parte di un più complesso quadro clinico
per il quale essa ha una bassa validità. Due osservatori che, nel descrivere la pioggia, si riferiscano entrambi ad
essa giudicandola neve, pur essendo tra loro in accordo (manifestando quindi una elevata inter-attendibilità),
non possono cionondimeno essere considerati dei credibili metereologi! Dato che un'elevata attendibilità può
limitare la validità, è sempre stato un problema al centro delle preoccupazioni dei DSM quello di riuscire a
mantenere in equilibrio il delicato rapporto tra questi due indici. Una diagnosi che non ha una sua intrinseca
validità è priva di utilità pratica, ma purtroppo è altrettanto vero che anche una diagnosi valida, ma non
attendibile, è di limitata utilità.
A questo proposito va ricordato che i DSM hanno accresciuto in maniera sostanziale solo la attendibilità
diagnostica, ma non la validità delle diagnosi stesse, che è rimasta immutata, e questo è il vero tallone d'Achille
di questi manuali, che rischiano di essere un meraviglioso castello con altissime torri circondate da merletti, ma
costruito sulla sabbia. Il problema fondamentale, infatti, è che in psichiatria non esiste un "gold standard" (un
prezzo dell'oro a cui rapportare tutte le monete), cioè non esiste un validatore ultimo su cui misurare
l'accuratezza delle diagnosi, come invece accade in certe malattie infettive o internistiche (nelle quali ad
esempio si rileva la presenza inequivocabile di un virus, o di una ulcera).
Lo studio della validità di una diagnosi psichiatrica è uno dei campi più complessi e difficili che esistano, irto di
difficoltà metodologiche. Supponiamo ad esempio di darci una semplice ma paradossale regola classificatoria:
"Classificare tutte le persone come normali". Questa regola avrebbe una attendibilità massima (non
correremmo mai il rischio di sbagliarci!), ma non sarebbe valida. Il problema incomincia a porsi quando
cerchiamo di distinguere una persona dall'altra definendo l'una "sana" e l'altra "malata". Quali criteri usiamo? E'
ovvio che subentrano anche criteri di valore, o legati anche alla tradizione e alle convenzioni sociali. Un
esempio tipico è stata l'omosessualità, eliminata dal DSM-II nel 1973 dopo un lungo ed acceso dibattito, nel
quale Spitzer giocò un ruolo importante. Per fare un altro esempio di cosa potrebbe accadere se non usassimo
criteri di valore, vi è chi ha fatto notare che la stessa felicità potrebbe essere classificata come un disturbo
psichiatrico (sotto la denominazione di "disturbo dell'umore, tipo piacevole"), in quanto essa soddisfa molti dei
criteri usati per identificare la maggior parte delle malattie mentali.
Esistono in letteratura diversi concetti di validità, alcuni dei quali non sovrapponibili, e altri impropriamente
trasposti dalla letteratura psicometrica. Inoltre è stata spesso confusa la validità della procedura necessaria per
giungere a formulare correttamente una diagnosi, definita "validità procedurale", con la effettiva validità di
ciascuna specifica categoria diagnostica. Tanti sono i tipi di validità descritti in letteratura: "di facciata",
"descrittiva", "di costrutto", "predittiva", "di contenuto", "procedurale", "concorrente", "divergente", "di criterio",
"concettuale", ecc. Esistono dunque tanti tipi di validità: possiamo riferirci alla capacità di predire il decorso
clinico (è questa la "validità predittiva", una delle più importanti), oppure di individuare un costrutto sottostante,
e così via.
Sistema categoriale versus sistema dimensionale
Un altro interessante problema della diagnosi è se classificare le malattie utilizzando "categorie" o "dimensioni".
Utilizzare categorie significa suddividere le malattie mentali appunto in categorie diagnostiche (schizofrenia,
depressione, ansia, ecc.), in linea con la tradizione della medicina e della psichiatria kraepeliniana e neokraepeliniana. Utilizzare dimensioni invece significa distribuire le malattie secondo variazioni quantitative
(relative alla gravità del disturbo, alla personalità, alla percezione, alla cognizione, alla tonalità dell'umore, ecc.)
distribuite in un continuum che va fino alla normalità. I DSM hanno optato per l'approccio categoriale, perché
più pratico. Questa impostazione ha dirette implicazioni filosofiche riguardo alla stessa definizione di "disturbo
mentale": lo stato di malattia sarebbe qualitativamente diverso e separato dallo stato di non malattia, e ogni
disturbo sarebbe nettamente separato e diverso dall'altro. Ciò crea territori neutri tra una diagnosi e l'altra,
difficilmente riempibili se non con diagnosi ibride di forme "atipiche", "miste" o "residue". Come è scritto
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difficilmente riempibili se non con diagnosi ibride di forme "atipiche", "miste" o "residue". Come è scritto
nell'introduzione del DSM-IV, "un approccio categoriale nella classificazione funziona nella maniera migliore
quando tutti i membri di una classe diagnostica sono omogenei, quando vi sono chiari confini tra le varie classi,
e quando le varie classi sono mutuamente esclusive" (p. xxii); potremmo aggiungere che il sistema categoriale
funziona meglio per le malattie gravi, e molto meno per diagnosticare quei malesseri, quelle ansie quotidiane,
che affliggono un po' tutti noi sconfinando nella normalità.
Se guardiamo agli albori della storia della medicina, già la tradizione ippocratica concepiva un continuum tra la
salute e la malattia lungo determinate dimensioni; fu la rivale scuola platonica, invece, a postulare che le malattie
potessero essere catalogate in tipi ideali e distinti l'uno dall'altro. In generale, in campo scientifico si è assistito
ad una progressiva evoluzione da modelli di tipo dicotomico (ossia categoriali), in cui alcune specifiche variabili
sono considerate presenti o assenti, a modelli di tipo continuo (ossia dimensionali), in cui vi è appunto un
continuum di gradazioni della stessa dimensione indagata, il che ne permette una migliore precisazione.
L'approccio categoriale rischia di ridurre la complessità della pratica clinica reale, con una reificazione delle
categorie diagnostiche stesse. Inizialmente, nella ricerca, può essere vantaggioso, anzi forse indispensabile,
utilizzare diagnosi di tipo categoriale allo scopo di formulare delle ipotesi euristiche testabili, mentre una
strategia dimensionale può rivelarsi metodologicamente sterile; in seguito, quando si sono acquisite conoscenze
sufficienti, si può passare a diagnosi dimensionali. Vi è anche chi ha suggerito di concepire le categorie del
DSM-III come "prototipiche", nel senso che esse possono rappresentare dei "prototipi" di determinate
malattie, difficilmente osservabili nella realtà clinica: in questo modo si diminuisce il rischio di reificare queste
categorie diagnostiche e si induce l'operatore a rispettare maggiormente i casi di confine anziché forzarli in una
determinata categoria. Questo approccio avrebbe anche come conseguenza la possibilità di studiare, e forse
misurare, il grado con cui diversi pazienti si avvicinano al "prototipo" diagnostico.
Tuttavia ciascuna delle due strategie classificatorie ha vantaggi e svantaggi: per quanto riguarda l'approccio
categoriale, i primi sono rappresentati dalla semplicità di impiego nella clinica e nel training degli operatori, dalla
facilità di utilizzo in campo informatico, dalla sua idoneità per la ricerca epidemiologica e dalla possibilità di
utilizzare delle gerarchie diagnostiche. Peraltro l'approccio categoriale comporta anche numerosi svantaggi,
quali la difficoltà a classificare correttamente i casi al confine tra differenti categorie e la necessità di dover
utilizzare categorie ibride (forme "atipiche", "non classificate altrove", ecc.), la "perdita" di pazienti che sono al
di sotto della soglia stabilita per poter far diagnosi, ed infine l'uso di scale nominali piuttosto che ordinali. Un
approccio di tipo dimensionale, invece, riduce il rischio di stigmatizzazione connesso all'uso di etichette
diagnostiche, e facilita la classificazione di casi al confine tra differenti categorie, dei casi difficili e della
comorbidità (la "comorbidità", un'altra spina nel fianco dei DSM, è la presenza simultanea di più diagnosi nello
stesso paziente: è evidente che più alta è la comorbidità, più si abbassa la validità dell'intero sistema
diagnostico - questo problema è molto sentito nei disturbi di personalità, che scivolano facilmente l'uno
nell'altro). Peraltro l'approccio dimensionale è certamente più problematico per l'impiego nella pratica clinica
quotidiana e rende le comparazioni più ardue. A tutt'oggi, non si è ancora riusciti a proporre un sistema
dimensionale empiricamente validato ed idoneo alle esigenze della pratica clinica.
Nelle vigenti classificazioni, comunque, come si procede verso un livello di maggiore specificazione
diagnostica, si passa gradualmente (ed inevitabilmente) da un approccio di tipo categoriale ad uno
dimensionale; ad esempio, nel DSM-IV la diagnosi di "disturbo depressivo maggiore" corrisponde ad una
categoria diagnostica definita qualitativamente; tuttavia, nel momento in cui si cerca di creare sotto-categorie
(ad esempio: disturbo depressivo maggiore lieve o grave), si adotta un criterio quantitativo implicito di gravità,
quindi dimensionale. In questo senso, le sotto-categorie vanno interpretate come un tentativo di incorporare
aspetti dimensionali in un sistema diagnostico categoriale.
Va aggiunto che il dibattito teorico tra i due approcci riflette in parte un dibattito "politico": ad esempio si tende
ad associare il modello dimensionale agli psicologi e quello categoriale agli psichiatri, e inoltre il modello
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ad associare il modello dimensionale agli psicologi e quello categoriale agli psichiatri, e inoltre il modello
categoriale a un modello biologico (laddove questo ipotizza una sottostante alterazione biologica visibile) e
quello dimensionale a un modello psicologico dove vi è un continuum sfumato tra la normalità e la patologia e
dove non si riesce ad evidenziare una sottostante alterazione biologica.
Sisitema politetico versus sistema monotetico
Come si è detto, per ciascuna diagnosi viene specificato un numero minimo di criteri diagnostici la cui presenza
è necessaria per la diagnosi, e vengono inoltre precisati dei criteri sia di inclusione che di esclusione. Nel
DSM-IV (così come nel DSM-III e nel DSM-III-R) è stato adottato un sistema di tipo "politetico", il che
significa che i membri di ciascuna categoria diagnostica non devono necessariamente avere in comune un
determinato elemento (come avverrebbe adottando invece un sistema "monotetico" - nel caso delle malattie
infettive, ad esempio, è necessaria la presenza di uno specifico agente batterico o virale per fare diagnosi), ma
possono avere in comune alcuni elementi, anche pochi, e in molti casi addirittura nessuno in particolare: deve
solo essere presente un numero minimo di criteri, qualunque essi siano, all'interno di un elenco prestabilito. Un
sistema diagnostico di tipo politetico permette in tal modo una maggiore flessibilità di impiego nella pratica
clinica, riconoscendo una eterogeneità nella presentazione clinica dei disturbi.
Il limite intrinseco alla adozione di un sistema politetico è rappresentato però dalla eccessiva eterogeneità
diagnostica, il che può addirittura vanificare il senso dell'inclusione di due pazienti nella medesima categoria: ad
esempio, secondo il DSM-III vi sono ben 93 modi differenti di soddisfare i criteri diagnostici del disturbo
borderline, mentre due pazienti possono entrambi soddisfare i criteri del disturbo schizotipico senza avere in
comune nemmeno uno dei criteri richiesti per questa diagnosi (secondo il DSM-III infatti erano necessari solo
4 criteri su 8 per la diagnosi di disturbo schizotipico, per cui un paziente poteva soddisfare i primi 4 criteri e un
altro gli ultimi 4, ed essere entrambi diagnosticati schizotipici - il DSM-III-R e il DSM-IV hanno eliminato
questo inconveniente, richiedendo la presenza di almeno 5 criteri su 9, per cui almeno un criterio deve essere in
comune).
Vorrei concludere con un inciso riguardo al termine "monotetico", onde evitare confusioni. Questo termine è
stato introdotto con la letteratura scientifica sul DSM-III, e prima non era molto conosciuto dai non addetti ai
lavori. Va precisato che "monotetico" non va confuso con "nomotetico", termine a noi più noto, che appartiene
invece alla dicotomia nomotetico/idiografico: "nomotetiche" tradizionalmente sono chiamate le scienze naturali,
in quanto permettono la formulazione di leggi generalizzabili, mentre "idiografiche" vengono chiamate le scienze
umane (dette anche sociali o storiche) che studiano gli aspetti "unici" o non facilmente generalizzabili (la
dicotomia tra scienze umane e naturali, che risale a Dilthey, oggi non è più condivisa da tutti gli epistemologi;
molti ritengono che la caratteristica fondamentale della scienza sia il suo metodo, non l'oggetto di studio, per
cui vi sarebbe una sola scienza con applicazioni specialistiche e diversi linguaggi a seconda dei campi di
indagine). Per una discussione degli approcci nomotetico e idiografico in personologia, vedi l'articolo di R.R.
Holt del 1962 "Individualità e generalizzazione nella psicologia della personalità: una base teorica per la
valutazione e la ricerca in personologia", al sito Internet http://www.publinet.it/pol/ital/docum6-i.htm.
Nota:
Per una versione ampliata di questo lavoro, vedi Migone P., Terapia psicoanalitica. Milano: Franco
Angeli, 1995, cap. 12, e soprattutto l'articolo di Giovanni de Girolamo & Paolo Migone P. "Il DSM-IV e i
problemi della diagnosi in psichiatria (con una Intervista a Robert L. Spitzer)". Psicoterapia e Scienze
Umane, 1995, XXIX, 1: 41-80. Per la proposta di un sistema diagnostico psicoanalitico, vedi l'articolo di P.
Migone "La diagnosi in psicoanalisi: presentazione del PDM (Psychodynamic Diagnostic Manual)".
Psicoterapia e Scienze Umane, 2006, XL, 4: 765-774.
Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
Via Palestro 14, 43100 Parma, tel./fax 0521-960595, E-Mail <[email protected]>
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