Thriller Magazine - Giorgio Ballario

Transcript

Thriller Magazine - Giorgio Ballario
Giorgio Ballario e le indagini africane del maggiore Morosini
di Daniele Cambiaso
La narrativa di ambientazione coloniale, e ancor più la narrativa di tensione, ha
stentato a superare un meccanismo di rimozione culturale che ha preferito
demandare alla saggistica storica e alla memorialistica il compito di analizzare la
nostra epopea coloniale e non ha mai portato a una massiccia produzione
sull’argomento, con l’eccezione di un pugno di titoli e autori di valore assoluto. Si
possono ricordare, anche un po’ alla rinfusa, romanzi come Tempo di uccidere di
Ennio Flaiano, La settimana nera di Vittorio Emmanuelli, Un mattino a Irgalem di
Davide Longo, Il deserto della Libia di Mario Tobino, Debrà Libanòs di Luciano
Marrocu, Le perdute tracce degli dei di Alessandro Defilippi per giungere, di recente,
a L’ottava vibrazione di Carlo Lucarelli.
Tutti ottimi libri, ai quali possiamo accostare a pieno titolo anche i romanzi di
Giorgio Ballario, che è presente in queste settimane sugli scaffali con Una donna di
troppo. La seconda indagine del maggiore Aldo Morosini nell’Africa italiana (edizioni
Angolo Manzoni). Va sottolineato, anzi, che l’autore piemontese ha il grosso ed
esclusivo merito di aver scommesso forte sull’argomento, avendo creato addirittura
un vero e proprio ciclo narrativo poliziesco ambientato in Africa Orientale. Dopo
l’esordio accattivante di “Morire è un attimo”, infatti, torna in questo secondo
romanzo il maggiore Aldo Morosini, con i suoi inseparabili aiutanti. L’ufficiale dei
Reali Carabinieri questa volta viene inviato a Mogadiscio, per indagare su una serie
di morti misteriose che stanno destabilizzando il corpo di spedizione italiano in
procinto, agli ordini di Graziani, di invadere l’Etiopia. La situazione appare da
subito intricata e pericolosa: le uccisioni sono dovute all’azione di emissari segreti
del Negus oppure è in atto un intrigo interno al Regime? Chi uccide è mosso da
intenti politici o privati? Posto alle dirette dipendenze di Graziani, e aiutato dal
fedele maresciallo Barbagallo e dall’enigmatico e silenzioso sciumbasci Tesfaghì,
Morosini dovrà addentrarsi in un’indagine che lo porterà a incontrare colleghi
molto poco collaborativi, uomini dei servizi segreti, conturbanti cittadine straniere,
ambigui faccendieri e tutta una fauna coloniale che renderà appassionante questa
indagine fino allo scioglimento finale.
In questa seconda prova, Ballario dimostra di padroneggiare con sicurezza i
meccanismi della narrativa poliziesca, dosando sapientemente colpi di scena e
rivelazioni, abbinando una trama efficace a una scrittura limpida e precisa al tempo
stesso. L’ambientazione coloniale prende vita tra le righe del romanzo e non scade
mai nel fondale posticcio, risultando anzi una presenza palpitante, godibile in ogni
passaggio. Si apprezza, in modo particolare, lo sforzo dell’autore di documentare e
descrivere con precisione senza scadere mai nel didascalico. Un ottimo romanzo,
quindi, da consigliare assolutamente, e non solo agli appassionati del genere. Ne
parliamo con l’autore, che ha gentilmente accettato di rispondere ad alcune nostre
domande:
Che accoglienza ha avuto il tuo romanzo d’esordio dalla critica e dal pubblico? C’è interesse
per la nostra epopea coloniale?
“Morire è un attimo” è andato bene. L'editore ha già pubblicato due edizioni e
presto il romanzo tornerà in libreria con la nuova distribuzione del gruppo Rizzoli,
che dall'autunno scorso distribuisce i titoli delle Edizioni Angolo Manzoni. Come
romanzo d'esordio ha ricevuto buone critiche, soprattutto per l'originalità e la cura
dell'ambientazione storica. E proprio questo sfondo coloniale mi sembra che sia
stato l'aspetto che ha colpito di più i lettori, che spesso — non per colpa loro ma per
carenza della nostra scuola — sanno poco o nulla dell'epopea coloniale italiana, un
fenomeno tutt'altro che marginale durato per oltre cinquant'anni.
Come è nata l’idea per questa seconda avventura di Morosini?
In modo del tutto naturale. Avevo già in mente fin dall'inizio di dare un seguito alle
indagini del maggiore in servizio nell'Africa orientale e così, quando ho visto che il
personaggio era stato ben accolto dal pubblico e l'editore era interessato a
proseguire il ciclo, mi son messo al lavoro per scrivere “Una donna di troppo”.
È sorprendente (e interessante) il ruolo non secondario che riservi a un personaggio storico
“ingombrante” come Rodolfo Graziani. Come mai questa scelta? A quali fonti hai attinto?
Rispetto al romanzo d'esordio, in questo caso ho volutamente intrecciato ancor di
più la trama di fantasia con episodi storici reali. E l'idea stessa di ambientare la
seconda avventura di Morosini in Somalia, nelle settimane che precedono la guerra
con l'Etiopia, mi è venuta dalla lettura di un libro di memorie del generale Graziani,
“Il fronte sud”, trovato su una bancarella dell'usato. Un libro interessante dal punto
di vista storico e militare, ma ricco anche di aneddoti e particolari sulla vita
quotidiana dei militari del Corpo di spedizione in Somalia. Di lì mi è venuto in
mente di dare a Graziani un ruolo importante all'interno del romanzo: è un
personaggio ingombrante e discusso, ma sicuramente molto “letterario”, dal mio
punto di vista.
L’ambientazione è davvero molto curata e ci sono pagine che trasmettono sensazioni e
suggestioni con una impressionante capacità evocativa. È frutto di una accurata
documentazione a tavolino o hai anche visitato i luoghi che ci descrivi?
In questo secondo romanzo “coloniale” prevale ancora il lavoro di documentazione,
frutto di ore passate su vecchi testi degli Anni Trenta e sulle straordinarie guide
turistiche del Touring Club italiano sull'Africa orientale di quel periodo. E poi le
suggestioni personali di un paio di viaggi in altre zone dell'Africa, di letture e di
visioni di film di ambientazione coloniale. Tre mesi fa, invece, sono finalmente
riuscito a vedere con i miei occhi l'Eritrea, dove si svolgono il primo romanzo e
parte del secondo. Ma l'esperienza di questo viaggio servirà per la prossima
impresa.
E quali impressioni hai tratto dal tuo viaggio? Esistono ancora tracce visibili della nostra
presenza? Come veniamo considerati, noi Italiani, nella nostra ex colonia?
L'Eritrea parla ancora italiano, e non solo perché è facile trovare gente che conosce
la nostra lingua. Ci sono moltissime testimonianze della presenza italiana, a partire
da tanti edifici pubblici e privati e dalla struttura urbanistica di Asmara e di altre
città. L'Eritrea è stata una colonia italiana dalla fine dell'Ottocento sino al 1941,
quindi sono stati più di 50 anni, Ma anche dopo, migliaia di italiani hanno
continuato a vivere lì, almeno fino alla fine degli anni Sessanta, ed erano un po' la
spina dorsale imprenditoriale, artigianale e commerciale del Paese. Quindi
esistevano scuole italiane, giornali, circoli... Il ricordo che abbiamo lasciato è
abbastanza buono, non tanto del periodo coloniale in senso stretto, perché ormai in
vita non è rimasto quasi nessuno di quei tempi; quanto piuttosto degli anni
Cinquanta e Sessanta, quando l'Eritrea — economicamente guidata dagli italiani —
era un Paese florido e tranquillo, anche se politicamente dipendeva dall'Etiopia.
Anzi, talvolta gli eritrei rimproverano l'Italia di averli un po' abbandonati e
vorrebbero avere legami più forti, anche se l'attuale situazione politica locale in
effetti rende difficile i rapporti diplomatici e commerciali.
Per te è più difficile e/o importante creare una buona ambientazione storica o una trama
poliziesca coerente, in cui tutti i tasselli vadano al posto giusto?
In tutta sincerità trovo più difficile creare una trama poliziesca coerente e non
banale, mentre invece mi viene molto più spontaneo descrivere lo scenario in cui
avviene l'indagine e delineare le figure dei personaggi. Ma forse dipende dal fatto
che, come lettore, ho sempre preferito i romanzi gialli “d’ambiente” a quelli più
cerebrali, dove il meccanismo della trama è simile a un orologio svizzero. Per dirla
in modo spiccio, mi diverte molto di più seguire i passi lenti di Maigret nei bistrot
fumosi di Parigi piuttosto che le deduzioni logiche di Poirot circa un delitto
avvenuto in una stanza chiusa...
Rivelaci qualche segreto… Che procedimento utilizzi, quando crei? Ti affidi a una scaletta o
procedi a ruota libera, lasciando che i personaggi ti conducano in piena libertà?
Non sono molto metodico e questo ogni tanto mi crea non poche difficoltà. Di solito
mi viene in mente un'idea molto generica, un abbozzo di storia. Poi comincio a
documentarmi un po', sui libri e su internet, e nel frattempo provo a immaginare un
incipit del romanzo. Quando credo di averne trovato uno efficace, butto subito giù i
primi capitoli. A quel punto lo svolgimento dell'indagine diventa un vero work in
progress, nel senso che ho in mente “dove” andare a parare, ma non ancora
“come”; e quindi la narrazione a volte procede un po' per tentativi. E alla fine anche
l'idea originale subisce notevoli mutazioni in corso d'opera.
Quali sono gli autori che ami leggere e quali sono stati (se ci sono stati) fonte di ispirazione
per le tue storie?
Per restare nel campo del giallo-noir i miei autori preferiti sono innanzi tutto
Simenon, sia nella versione Maigret che nei romanzi più cupi. Poi molti altri autori
europei: Vazquez Montalbàn, Izzo, Mankell, Markaris, la Gimenez Bartlett. Fra gli
americani mi piacciono Chandler, Connelly e Lansdale; fra gli italiani leggo alcuni
contemporanei ma continuo a ritenere Scerbanenco quasi insuperabile. Al di fuori
del noir, a parte molti classici italiani e stranieri, ultimamente sono molto attratto
dal talento visionario di Valerio Evangelisti e dal suo ciclo fantasy dell’inquisitore
Eymerich. Non saprei dire se qualcuno è stato fonte d’ispirazione; visto il loro
livello mi piacerebbe, almeno a livello di scrittura…
Uno spiraglio sui tuoi progetti futuri…
Ho già cominciato a scrivere il terzo romanzo della serie “coloniale” e questa volta a
fantasia e documentazione storica aggiungerò un po’ di ricordi e sensazioni
personali del recente viaggio in Eritrea. Poi sto lavorando a un nuovo personaggio,
che almeno nelle intenzioni vorrebbe essere una specie di via di mezzo torinese fra
il Nestor Burma di Leo Malet e il Pepe Carvalho di Vazquez Montalbàn. Ho già
scritto un romanzo e mi appresto a finire il secondo: non ho ancora un editore e sto
valutando alcune proposte.
Thriller Magazine 5 marzo 2010