MEMORIE DIMENTICATE
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MEMORIE DIMENTICATE
Memorie dimenticate FRAGOROSO SILENZIO. Il silenzio lungo la linea del fuoco era assordante ed il freddo pungente scolpiva linee profonde sui volti stremati dei soldati in attesa. Stavano vicini, fagotti grigioverdi su un manto di neve abbacinante: l’uno stretto all’altro ma rapiti da pensieri solitari. Tuttavia lungo le file della “Julia” non c’era paura: la consapevolezza che i Russi sarebbero presto arrivati aveva lasciato il posto ad un’attesa angosciosa, ad un torpore allertato. D’altro canto da giorni la situazione faticava a sbloccarsi, precisamente da quando i battaglioni “Tolmezzo” e “l’Aquila” avevano ricevuto l’ordine di partenza. Il 16 dicembre 1942, un solo preavviso telefonico: “Tenere pronto il gruppo di intervento per un immediato movimento” “Ma dove? Dove ci mandano?” “Perché uscire dai nostri rifugi? E’ troppo rischioso!” Queste le domande dei giovani fanti piumati, cui non seguirono risposte: gli eventi le resero inutili. Il capitano Cesari si avvicinò alla postazione della “pesante”(1) per controllare che il piccolo fuoco acceso con un po’ di gasolio in un elmetto l’avesse difesa dalla morsa del gelo. Era indispensabile che funzionasse: il suo tamburellare avrebbe respinto il nemico, quando dall’altra sponda del fiume di ghiaccio sarebbero giunti a migliaia al grido di “hurrà”. Urlare, fare rumore, tutto per non sentire, non ascoltare, non vedere. Il vecchio ufficiale pensò che i segreti dei soldati non sono diversi da uno schieramento all’altro. I serventi Dominici e Schiava lo osservavano mentre controllava la preziosa arma; anche loro tesi, in attesa di un nemico che sarebbe presto giunto a sopraffarli in imponenti formazioni compatte. Li avrebbe attaccati senza paura, pronto ad un sacrificio disperato: così erano i Russi. E loro avrebbero risposto con tutta la forza rimasta, anche con gli sputi se solo non si fossero gelati, cristallizzati da un freddo impietoso. Certo era l’unica possibilità per vedere un nuovo giorno e ricacciarli indietro, ancora una volta. Il capitano spiò la sua cipolla alla luce del fuoco, mosso da un deciso presentimento; si assicurò alla cintola la vecchia sciabola della Grande Guerra ed afferrando la piccola “34”(2)volse lo sguardo al suo silenzioso pubblico: “Credo sia ora” Disse, regalando ai suoi Alpini un sorriso teso. Il sole non si era ancora levato quando la linea dell’orizzonte cominciò a rimbombare di tuoni assordanti: in pochi attimi furono investiti da una pioggia battente di esplosioni. Il capitano Cesari impartì l’ordine a tutta la 16^batteria(3) di prepararsi al fuoco di sbarramento e poco dopo il silenzio piombò pesante sul campo: il segnale che il nemico sarebbe presto arrivato, confermato dall’impercettibile fruscio di migliaia di piedi che avanzavano nella neve fresca di un mattino di guerra. Il rollio delle punterie dei vecchi e superati “75/13”(4) ronzava nelle orecchie dei serventi che stava- no portando l’alzo quasi a zero, mentre i fucilieri liberavano le mani infreddolite dai guanti per poter meglio imbracciare i loro “ mod.91(5)”. I passi crebbero in intensità facendosi corsa frenetica, e le urla potenti della carica russa riempirono l’alba. Le raffiche di parabellum avevano appena iniziato a grandinare sullo schieramento italiano quando il capitano Cesari impartì il decisivo ordine ai suoi artiglieri, ai suoi alpini. “ Fuoco a volontà!” gridò dal fianco della Breda: le raffiche risposero all’offesa con eguale precisione, ed uguale sangue sgorgò tra le file del nemico. Anche quel giorno andava in scena un copione eseguito da attori fedeli, ma scritto dai veri protagonisti della guerra in un luogo molto distante dalle inospitali rive del Don. Nonostante le temperature proibitive, la Breda era ormai “a canna rossa”(6) per la mole di piombo che riversava sul nemico: Dominici scaricava l’arma con precisione, e gli uomini cadevano numerosi. Mentre premeva il grilletto, recitava il solito rosario di suppliche e bestemmie con cui nei momenti difficili mitragliava le sfere celesti. Schiava era silenzioso e concentrato per non perdere il ritmo con i caricatori: con sguardo impassibile teneva d’occhio l’otturatore della “pesante” e il plotone nemico che caparbio avanzava verso di loro. L’esercito di questi folli temerari era bene attrezzato: ognuno di loro con il proprio parabellum(7) sparava come dieci moschetti italiani e i vecchi obici Skoda(8) vomitavano cannonate ad alzo zero che sovrastavano la linea dei fucilieri di stretta misura rispetto alle loro teste. Fucilieri ed artiglieri creavano un muro di fiamme contro gli assalitori, straziandone e mutilandone i corpi; eppure non accennavano a fermare l’avanzata, incalzati dalle incitazioni dei commissari politici. Con le loro urla nelle orecchie, a centinaia continuavano a dare addosso alla “16”. Il capitano incitava i suoi e i tenenti della batteria si preparavano ad impartire l’ordine ormai inevitabile: i Russi erano arrivati troppo vicino alla linea e avrebbero presto sfondato le posizioni. “Baionetta! Innestate la baionetta!” L’ordine volò lungo lo schieramento: gli alpini preparavano le sacche delle granate e speravano che il freddo non ne avesse compromesso i meccanismi, mentre il tuonare degli obici feriva l’aria incessantemente. Il nemico in alcuni punti aveva aperto una breccia lungo la linea di difesa alpina e la mischia si fece presto furibonda: Cesari sguainò la vecchia sciabola e si slanciò contro il nemico, trascinando i suoi uomini sotto la pioggia di colpi all’urlo di “ Sedici, avanti!” “La notte non è ancora morta caro Sasha, ma molti lo sono già a quanto pare”. Disse Ivan al suo attendente, mentre ritto sulla sella osservava spegnersi il bagliore del combattimento che ancora illuminava l’oscurità alle sue spalle, verso la grande ansa del Don. “Già…ma ce la faranno oggi i nostri a sfondare? E’ incredibile come quei sangue caldo di italiani possano resistere al nostro migliore generale(9)! Il freddo è impietoso con noi e loro dovrebbero già essere allo stremo”. Ivan si fece cupo, come ogni volta in cui lo attraversava il pensiero delle sue origini: il sangue misto suscitava in lui un ribollire di sensazioni ataviche e indefinite. Sapeva che non doveva stupirsi della resistenza degli italiani ai rigori del loro inverno spietato e all’urto delle armate sovietiche . “ Lo sono Sasha, ma i nostri nemici sono gli alpini” fu la risposta di Ivan; lo sguardo lontano verso il giorno che nasceva. “Ivan cosa vuoi dirmi? Andiamo, questo atteggiamento di riverenza è assurdo!Nemmeno dei più tremendi tedeschi hai parlato in questi termini! Anche loro saranno schiacciati dall’invincibile armata sovietica e soprattutto tu dovresti saperlo: non troveranno scampo. E adesso forza ‘furia della steppa’, che oggi ti batto!” Con abile evoluzione e rimanendo in sella, Ivan riuscì a prendere un bel pugno di neve e con precisione da maestro lo schiantò sul volto dell’amico, cogliendolo di sorpresa. Sferzò il cavallo e si allontanò con una risata, galoppando come un pazzo: scoccò un’occhiata furba all’amico atterrito e gli occhi verdi brillarono di vita. “Brutto cane del Caucaso!” sbottò Sasha divertito, slanciandosi in un giocoso inseguimento sotto lo sguardo benevolo dei compagni e del colonnello che seguiva la colonna con gli uomini dello Stato Maggiore. Nel vederli sorrise pensoso, arricciando le labbra sotto i baffi imponenti. Lo squadrone(10) cosacco si stava dirigendo in direzione sud-ovest di Gorochowka, molto addentro il territorio occupato del nemico. Si erano lanciati all’inseguimento delle formazioni sbandate delle divisioni “Sforzesca” e “Cosseria” e delle unità germaniche che non erano riuscite a resistere all’urto dell’Armata Rossa. Stavano superando sulla destra le postazioni degli Alpini che lungo il Don si difendevano tanto strenuamente quanto inutilmente: alle loro spalle, dove il grande serpente di ghiaccio si piega a gomito in direzione Rossosch- Stalingrado, la “Julia” era da diversi giorni impegnata su posizioni scoperte a resistere agli assalti russi, con disperata determinazione. Il contingente alpino non sapeva infatti che a est del proprio schieramento il fronte non esisteva più e che le formazioni dell’Armata Rossa avevano iniziato a spingersi centinaia di chilometri alle sue spalle. In quel settore, gli alti comandi tedeschi non avevano potuto fare altro che approntare sparuti gruppi di combattimento, nient’altro che isole in mezzo ad un mare in tempesta. L’azimut aveva da poco toccato il suo apice ma il reggimento guidato dal colonnello dai baffi monumentali era ormai molto oltre le sponde del grande fiume; due lunghe colonne di cavalieri solcavano il mare di neve, reso abbagliante dal sole. L’infinita distesa di bianco era interrotta da rade macchie di verde e piccoli gruppi di isbe. Il pallido sole non mitigava il freddo intenso del mattino, che faceva dei volti dei soldati dure maschere di ghiaccio. Oltrepassato un piccolo bosco e l’ennesimo declivio, Ivan e i suoi riuscirono a distinguere, ad un paio di chilometri alla loro sinistra, sagome scure che avanzavano faticosamente in direzione ovest e fra queste, quella di un piccolo corazzato. Sasha gli fu presto vicino e sorridendo soddisfatto esclamò: “Sono pochi ma ce li faremo bastare!” Il colonnello che li precedeva poco più avanti ponderava con calma la situazione scrutando lo sparuto manipolo con il binocolo, gli occhi azzurri e calmi sbarrati in un’espressione sorpresa: non poteva credere che i soldati italiani potessero essere stati mandati allo sbando in quel modo. Al suo fianco Rossini, il commissario politico del reggimento sentenziò con decisione: “Non sono tedeschi…sicuramente italiani. Si direbbe sbandati” E, dopo aver intravisto la sagoma di un carro-armato piccolo e male in arnese, sibilò sprezzante: “ Con cosa pretendono di fare la guerra, i miei poveri fascisti!” ONORE FERITO Con un rapido cenno del braccio il colonnello fece disporre gli squadroni per l’assalto. Ivan e Sasha con la velocità di un fulmine si misero alla testa dei loro uomini, assicurandosi alla schiena ognuno il proprio parabellum e assestandosi con cura la sciabola alla vita: i cosacchi erano maestri nella sua arte, menando terribili fendenti dall’alto delle loro cavalcature. Al segnale del comandante tutta la formazione cominciò a trottare disponendosi ad ampio fronte , come un’onda che si ingrossa prima di straripare. Sguainate le lame, i bianchi cavalieri cominciarono a caricare con tutta la loro foga e l’attacco ebbe inizio. Il piccolo manipolo di uomini si sparpagliò nel caos, come un pugno di schegge impazzite: senza armi, i più si davano ad una fuga scomposta. Dietro la torretta del carro italiano si distingueva la figura di un uomo, un ufficiale delle camicie nere: con fermezza impartiva ordini concitati e dirigeva il tiro del piccolo mezzo. Imbracciava un moschetto “91” con la baionetta innestata e lo puntava contro gli assalitori che avanzavano decisi verso di lui. Nonostante la drammaticità della situazione, i gesti dell’ufficiale erano fermi e puliti: contrastavano assurdamente con l’agitazione dei suoi uomini. La mischia si accese rapida e furibonda: l’orda cosacca travolse come un fiume in piena il gruppo di disperati che si difendevano con disperazione per salvare la vita nel petto. I soldati fronteggiavano i cavalieri con le baionette in punta di fucile o, per chi l’aveva abbandonato durante la ritirata, brandendole come spade. Molti morirono sotto gli zoccoli dei cavalli slanciati nella carica. Ivan puntò dritto verso il carro. L’ufficiale italiano era la sua preda. Superandolo di slancio riuscì ad infilare una granata dentro i portelli della torretta: pochi secondi dopo, l’esplosione fragorosa sovrastò i rumori della battaglia. Il miliziano fu scaraventato con forza sulla neve; con uno scatto si rimise in piedi e vide che il suo giovane nemico lo stava aspettando. Si fissarono per qualche istante mentre il piccolo mezzo cadeva lentamente preda delle fiamme e i cosacchi si disponevano intorno per assistere all’imminente duello. I due si guardarono dritto negli occhi, mentre il silenzio era ormai sceso sul campo di battaglia. Ivan, dalla sella squadrava l’orgoglioso ufficiale: non sembrava impaurito, nonostante fosse rimasto solo, ma piuttosto rassegnato al suo destino. Non fece alcun cenno di resa. Era solo, lì davanti, con il suo fucile puntato verso Ivan. I suoi piccoli occhi scuri parevano privi di odio e non tradivano alcun sentimento. Erano sereni e distesi e sembrava scrutassero orizzonti imperscrutabili. Era conscio evidentemente che non ne sarebbe uscito vivo. Un tragico meccanismo aveva sospeso lo scorrere del tempo tra i due. L’italiano ruppe quindi il silenzio e, biascicando un russo patetico, con fare calmo si rivolse all’avversario: “Se proprio devo crepare qui, lascia solo che mi ricomponga, ragazzo.” Ivan non fiatò e appoggio la lama insanguinata sulla spalla in segno di attesa. Egli conosceva bene il Codice D’Onore tra combattenti, anche se non scritto. Suo nonno, di cui con orgoglio portava il nome, glielo aveva ben insegnato. A quei tempi non era poi così raro trovare uomini che, seppur in guerra gli uni contro gli altri, non avevano gettato via il proprio onore di soldato. Il capitano si tolse il pesante cappotto e si sistemò la giacca ornata dai nastrini di molte campagne. Del gelo non gli interessava più nulla. Estrasse una tesa logora dalla saccoccia che portava a tracolla con cui sostituì il caldo colbacco. Lo scintillio del fregio che troneggiava sopra il nero frontino pareva il segno dell’uomo pronto ad andare fino in fondo alle proprie scelte, giuste o sbagliate che fossero! Ormai, in dietro non sarebbe potuto tornare! Gettato il cinturone con la fondina della “34”, tolse l’otturatore dal fucile e lo lasciò cadere nella neve annerita. Imbracciò l’arma e, sempre calmo, si rivolse all’avversario “Sono pronto!” Decine di occhi attendevano lo scontato trionfo di Ivan. Nessuno dei suoi compagni aveva dubbi. La sua abilità in combattimento era indiscussa. Era il cavaliere più abile del reggimento e con la sciabola non aveva eguali. La sua agilità, aggraziata e potente, ricordava quella di una tigre siberiana. Con sprone repentino, lanciò il cavallo alla carica, alzando grandi spruzzi di neve. La sciabola roteò fulminea. Quell’uomo calmo riuscì a schivarne il taglio con rapida mossa e, afferrando abilmente i gibernaggi del suo giovane nemico, lo fece rovinare a terra incredulo. “Bufera” continuò il suo galoppo, mentre Ivan riuscì ad evitare un fendente micidiale. Ora dalla guancia gli scendeva un piccolo rigolo di sangue che subito divenne un cristallo rosso esalante un tenue sbuffo chiaro. Il sorriso beffardo che gli si parava di fronte gli fece capire di aver sottovalutato l’avversario. Sasha e gli altri non potevano credere ai propri occhi. Mai nessuno aveva disarcionato Ivan, “La Furia della Steppa”! Senza far passare nemmeno un secondo, questi cominciò a menar colpi tremendi e precisi. Però il suo avversario sembrava riuscisse a prevederli, bloccandoli. In breve fu il giovane a ritrovarsi alle strette e con le spalle contro la carcassa del carro che lui stesso aveva distrutto: l’italiano brandiva così bene quel fucile che lo mutò in alabarda impenetrabile. Era il frutto dell’esperienza di mille battaglie. “Pare, ragazzo, che oggi non andrò da solo all’inferno.” Aggiunse il capitano e rapido come lo scatto di una vipera, affondò il colpo. La baionetta cozzò scintillando sulle lamiere del blindato, mentre un’ombra nera si stagliò sopra l’incredulo ufficiale: Ivan, sfruttando i cingoli del mezzo come trampolino di lancio, con rapida e strabiliante evoluzione piroettò sulla testa dell’avversario, portandosi così alle sue spalle. Questi fece in tempo solo a girarsi per ritrovarsi infilzato dalla sua gelida lama. Nei suoi occhi incredulità e sulle labbra quasi un sorriso dimezzato da una velata smorfia di dolore. Ivan ritrasse rapido la spada liberando la spalla trafitta del nemico. Il sangue gli si stava già congelando in un piccolo sbuffo chiaro. “Perché non mi hai ucciso, ragazzo, l’occasione non ti è di certo mancata?” “ “Consideralo un omaggio al tuo valore…d’altro canto, come puoi vedere qui attorno, la tua guerra l’ hai perduta.” Rispose Ivan in perfetto italiano, procurando un inatteso stupore all’interlocutore che, però, non fece in tempo a replicare: una improvvisa scarica di “parabellum” lo inchiodò alle lamiere fredde del suo piccolo carro distrutto e annerito. Ivan si girò sgomento verso il colpevole: Rossini, il commissario politico. In preda alla collera lo squadrò interrogativo. “Nessuna pietà per i fascisti, tenente!” gli rispose secco e glaciale. Non ci vide più. Afferrò il suo mitra e lo puntò sul commissario. Il disonore di aver lasciato uccidere un avversario a cui aveva risparmiato la vita per lui, educato all’arte della guerra con le antiche rego- le della cavalleria cosacca, era insopportabile! Rossini, ora pallido di timore per lo sguardo assetato di vendetta di quel giovane cavaliere, era immobile a fissarlo dritto negli occhi. Con un gesto improvviso, il colonnello si frappose con la cavalcatura fra i due e puntò su Ivan i suoi occhi limpidi. Era l’unico che avrebbe potuto placare la furia del suo giovane tenente: erano legati da un legame molto profondo. Non ci furono parole: Ivan abbassò l’arma e con rabbia salì nuovamente a cavallo, lanciandosi al galoppo. Sasha lo seguì a breve distanza. La questione sarebbe stata risolta a tempo debito: era una consapevolezza certa tra i due mancati duellanti.