Come sono lente le ore vuote. Il tempo sembra una
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Come sono lente le ore vuote. Il tempo sembra una
V Come sono lente le ore vuote. Il tempo sembra una vecchia locomotiva alleggerita della sua scorta di carbone, che rallenta il suo incedere e che non produce più nemmeno il vapore con cui poter sbuffare per la propria immobilità. Maurizio era il macchinista del suo treno. Le sue stazioni erano ormai sempre le stesse: giornalaio, posta, bar, camminare per un po’ senza meta, fare il giro di alcuni negozi, guardare gli annunci di lavoro, fare qualche chiamata dalle cabine telefoniche, sperando di ottenere almeno la possibilità di un colloquio. E poi via, su un treno vero, sperando che il picco di quell’inutile e umiliante giornata, che si sommava come una perla falsa alla lunga collana che stava ormai componendo, salisse a Lodi. Quel giorno, però, non sarebbe arrivata nessuna salvezza da Lodi. Lo sapeva. Era impossibile. Prima o poi avrebbe dovuto parlarne a Carol, non poteva tacerle la verità ancora per molto. Sperava di poterci mettere una toppa, di trovare una soluzione ma ormai il tempo passava e tutto risultava sempre più difficile, anche mentirle. Il nodo alla cravatta stringeva sempre di più, la barba mal fatta, o mai fatta, soffocava la sua pelle con sempre più pruriginosa insistenza. Due simulacri dell’ordine e della normalità, che avevano perso il loro significato e non riuscivano nel loro compito. Ne aveva già parlato settimane prima con Isabel. Oggi non l’avrebbe vista, lo sapeva. Con lei era stato semplice. Forse perché non aveva responsabilità nei suoi confronti, forse perché con lei tutto era più facile. Forse perché lei viveva tra immagini colorate, tra giganti egoisti e sartorelli coraggiosi. Forse perché un pomeriggio gli aveva lasciato il disegno di una locomotiva che sfrecciava nel cielo, illuminata dai sei soli del libro di Asimov, con lui in cabina, in un fedele ritratto in cui sembrava respirare un’aria fresca e leggera. Gli era bastata una settimana, forse qualche giorno in meno se si escludeva il sabato e la domenica, per dirle che ogni mattina fingeva di recarsi a un lavoro che, in realtà, non c’era più. Cravatta annodata, barba fatta, gesti automatici prima. Ora sciabole su un collo da cui avevano ormai staccato la testa, che rotolava anch’essa senza meta. Maurizio aveva già raccontato a Isabel di come due mesi prima fosse stato licenziato dalla piccola azienda in cui aveva lavorato negli ultimi sette anni. Gli avevano propinato parole come «crisi monetaria» e «svalutazione della lira», cose troppo grandi per poter riguardare lui. Come poteva un affare così internazionale toccare proprio la sua minuscola persona? Aveva sentito parlare di uscita dal Sistema Monetario Europeo ma ogni volta aveva cambiato canale o voltato pagina. Come potevano decisioni così alte e così lontane andare a toccare la sua quotidianità? Cosa avrebbe intaccato l’erogazione del suo stipendio medio? Chi se ne sarebbe accorto? Eppure quei problemi macroeconomici lo avevano coinvolto, gli erano rotolati addosso con la stessa inaspettata violenza con cui sentiva rotolare via la sua testa. Tuttavia sentiva ancora addosso la sensazione di essere solo un capro espiatorio, una finta prova a discarico dell’azienda, un’ostentata dimostrazione di come diversamente non si potesse fare, perché il mondo va così, perché la crisi è vera. Aveva pensato di poter trovare presto qualcosa, un altro incarico, un’altra occupazione; di poter presentare a Carol la soluzione subito dopo il problema, di non farla preoccupare, di non doversi mostrare nuovamente debole, nuovamente in difetto, dopo la storia dell’incidente. Aveva pensato. Oh sì, aveva pensato molto, non faceva altro ormai. Quanti pensieri gli tenevano compagnia. Ridisegnava con la mente gli ultimi giorni al lavoro, episodi specifici, momenti in cui si era sentito rispettato e ammirato, altri in cui avrebbe agito diversamente, altri ancora di cui immaginava un finale differente. Poi passava a costruirsi un immediato futuro tutto immaginato, in cui era lui a rivalersi contro la società che lo aveva licenziato, in cui incontrava qualche suo collega o il suo ex responsabile e lo metteva al corrente di quale lavoro avesse già trovato, migliore di quello per cui lo avevano assunto loro, con più responsabilità, con più visibilità. Sognava queste cose, quando la mattina se ne stava seduto su quel treno per cui aveva già pagato un abbonamento annuale. Continuava a immaginarsele, come in un telefilm a puntate, quando se ne stava seduto al bar, poco prima di aprire il giornale appena acquistato alla ricerca di nuove offerte di lavoro, mentre il nero tipografico macchiava le prime pagine con la parola «disoccupazione», marchiandole e vestendole a lutto, come fosse il suo necrologio. Era bello quando ascoltava, da bambino, le storie di suo fratello, mondi in cui i fogli prendevano vita, in cui tutto trovava una giustificazione, realtà in cui gli unici brutti pensieri rimanevano schiacciati tra le pagine dei libri o ammutoliti dal tasto off del telecomando. Era bello quando le ventiquattro ore, invece di comporre un giorno, sembravano comporre un’era, in cui lui aveva imparato qualcosa di nuovo, in cui aveva giocato con gli amici, in cui era andato ai giardini, in cui aveva sentito storie, in cui era stato con la madre, in cui aveva aspettato il padre di ritorno dal lavoro. Un giorno, una piccola vita di cui la sera aveva tanto da raccontare e per cui essere stanco. Adesso una sola ora era diventata insopportabile. Adesso non si sentiva più nessuno. Gli avevano sottratto la sua bicicletta, come in quel film in bianco e nero. Poi c’era lei. No, non Carol, anche se si sentiva in colpa per quel pensiero. C’era Isabel: l’ipotesi di un mondo migliore, il non realizzato che sta a un solo passo di distanza, qualcosa di ancora puro e incontaminato, qualcosa su cui poter costruire un mondo di eventi e corrispondenze. C’era lei, «e cos’altro ancora» recitava una canzone. Già, e cos’altro ancora... Isabel faceva parte della vita sognata ma, da qualche settimana, era uscita dal sogno, dal foglio e si era seduta di fronte a lui. Il giorno in cui le aveva confidato di essere stato licenziato stavano camminando poco distante dalla stazione centrale. Gli era uscito così, di getto. «Io non ho più un lavoro. Ogni giorno mi alzo, mi preparo, impugno la valigetta, prendo il treno e fingo di andarci. Fingo che la mia vita sia sempre la stessa. Fingo di avere tante cose da fare. Fingo. Ho lavorato per loro negli ultimi sette anni, poi di punto in bianco, quest’estate, mi hanno convocato e mi hanno dato il ben servito. “Non abbiamo più soldi, dobbiamo tagliare il personale, ci spiace, sei stato un valido elemento, ci dispiace perderti ma non possiamo fare altrimenti. Dispiace a noi quanto a te. Appena ci sistemeremo ti richiameremo, tranquillo, ma per il momento non c‘è nulla da fare”. Ci spiace, ci spiace…. Forse continuavano a ripeterlo per poterci credere loro stessi, per autosuggestionarsi. O forse era vero. Meno male che ero un valido elemento» aveva chiuso con un mezzo sorriso. Isabel era rimasta in silenzio, ad ascoltare, scavando il marciapiede con gli occhi, solcando un binario. «Per chi fingi?» «Per me, per... la mia fidanzata.» Era la prima volta che la nominava, che ne denunciava l’esistenza. Lo aveva fatto vergognandosene. Temeva potesse essere la parola che avrebbe innescato l’apocalisse su quel suo nuovo mondo fatto di lui e di Isabel, che avrebbe spento la luce, interrotto il viaggio. «Vuoi proteggerla o ne temi il giudizio, la reazione?» «Bella domanda. Forse voglio proteggere me dalla sua reazione» aveva detto mentre sorrideva. Ma non ne era del tutto convinto. «Forse pensavi di poter sistemare le cose ma se il mio fidanzato mi nascondesse una cosa simile, allora sì che la mia reazione non sarebbe bella.» Un altro suono d’allarme. Parlava di un fidanzato ipotetico o c’era veramente qualcuno? Del resto, cosa avrebbe potuto obiettare lui, che era addirittura, forse, in procinto di sposarsi. Sì, forse, perché la storia di rimandare la decisione sulla data delle nozze per quel suo unico moto d’ira gli aveva fatto pensare che Carol, in realtà, stesse usando l’accaduto come scusa. «Sì, mi sono comportato un po’ da vigliacco.» Un’altra frase che non giocava a suo favore ma ormai non poteva farci niente, le parole uscivano da sole; non era più padrone nemmeno di loro. «Se parli di vigliaccheria, mi fai pensare che temi questa ragazza.» Lo aveva stuzzicato sorridendo. Maurizio aveva accolto la bonaria provocazione e rispose con un sorriso. «Se tu vedessi quanto riesca a rimanere immobile, impietrita, a fissarti con occhi glaciali. Sono di un azzurro molto chiaro» le disse inarcando le sopracciglia e piegando un poco la testa verso la spalla. « Sta lì, senza dire nulla con la bocca ma trafiggendoti con gli occhi. Avresti paura anche tu. Poi è inglese, sai? Il loro self control è leggenda.» «In effetti fa paura! Qualcuno scriveva “i tuoi occhi saranno un grido taciuto”. Mi sembra appropriato.»