tarquinia tarquini: la voce e l`immagine di conchita

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tarquinia tarquini: la voce e l`immagine di conchita
INAUGURAZIONE DELLA MOSTRA
« TARQUINIA TARQUINI:
LA VOCE E L’IMMAGINE DI CONCHITA »
a cura di Diego Cescotti
Con la partecipazione degli attori Elisa da Costa e Andrea Franzoi;
della danzatrice di flamenco Christine Bauhofer e del chitarrista José Luís Salguero Andujar.
ROVERETO, BIBLIOTECA CIVICA (sala multimediale) - mercoledì 8 marzo 2006 - ore 17.30
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INTRODUZIONE CON MUSICA E DANZA
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L’atmosfera spagnola introdotta dalla musica e dalla danza ci rimanda immediatamente a Conchita e
a colei che di questo personaggio straordinario è stata la personificazione più significativa ed
impareggiabile: Tarquinia Tarquini, che oggi festeggiamo con la mostra in suo onore allestita in queste
sale.
Tarquinia Tarquini fu una personalità di donna e artista a suo modo eccezionale. Molti sicuramente
ancora la ricordano, poiché nella sua lunga vita ha frequentato spesso queste contrade, dapprima
come moglie inseparabile di Riccardo Zandonai, poi, nei lunghi anni della vedovanza, quando elesse il
proprio domicilio a Rovereto e si adoperò assiduamente affinché si mantenesse vivo il ricordo
dell’illustre marito, facendosi promotrice di un culto amoroso e tenace. Il cospicuo fondo Zandonai,
che è uno dei vanti di questa Biblioteca, è costituito in gran parte dalle donazioni fatte dalla Tarquini:
ogni studioso non può che essere grato a lei per questa sua sensibilità.
Tarquinia Tarquini fu una cantante ricca di temperamento e di naturali doti drammatiche, che mise al
servizio di una carriera di soprano lirico-drammatico prestigiosa ma troppo fulminea per aver potuto
lasciare traccia nelle generazioni successive.
Di lei non ci rimane alcuna documentazione sonora. Si sa che la sua era una voce dotata di timbro
scuro e forte, particolarmente adatta al repertorio veristico e post-veristico, che coltivò sopra tutti.
La sua struttura fisica così fragile, esile e snella contraddiceva il cliché abituale del soprano lirico e
tanto intrigava gli spettatori. Ma ella suppliva a questa apparente carenza di sostanza con il fuoco, la
passionalità, l’istinto da ‘animale da palcoscenico’, che spesso pagava con debilitazioni, stanchezze,
instabilità nervose.
Di queste sue precipue doti fisiche renderà conto la mostra, che è costituita in massima parte da
materiali iconografici.
Essa è articolata grosso modo in tre momenti tematici: gli anni di formazione, il periodo dei massimi
successi e quello della sua vita privata con Zandonai. Attraverso le molte immagini qui riprodotte si
riveleranno al visitatore i tratti peculiari della sua personalità generosa, accentratrice, ambiziosa,
sicura di sé.
Si potranno anche apprezzare alcuni oggetti di scena da lei usati nelle rappresentazioni di Conchita,
una piccola rassegna di giornali, lettere originali, e ancora bozzetti e figurini e i due bei quadri di
Vittorio Casetti e Umberto Moggioli che ritraggono rispettivamente lei e il giovane figlio Ernesto.
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Tarquinia era nata nel 1882 presso Siena, da una famiglia medio-borghese, seconda di tre figli. Ben
presto si distinse per la sua inclinazione artistica, fatta, più che di metodo, di istinto, estro, fantasiosità,
accesa immaginazione. Di carattere era naturalmente estroversa e allegra, amava la vita in modo
spontaneo e con una semplicità un po’ ingenua. Era dotata di una natura indipendente, capricciosa,
con tratti caratteristici di vanità e frivolezza. Amava passare per un tipo bizzarro, speciale, un po’
eccentrico nel modo di fare.
Cominciò con il pianoforte, passando poi al canto lirico quando scoprì in sé un irresistibile talento di
attrice. L’opera diventò ben presto tutto il suo mondo. E non c’è dubbio che vi fosse un’innata
componente teatrale nella sua natura.
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ATTRICE
«Eccomi giovinetta di sedici anni, tutta cuore, tutta estro, tutta sensibilità ed avvenenza. Sono già
conosciuta negli ambienti musicali, soffocata dagli inviti».
◊◊◊
«Ho iniziato le mie lezioni, ho voce di soprano, dal timbro bello un po’ scuro. Sono la più giovane
d’età, ho una figura snella ed artistica, mi so vestire e, con poco, faccio un figurone; i miei cappellini
destano l’ammirazione della gente. Ne ho uno rialzato sul davanti (un amore) con due ali variegate in
celeste; ne ho altri due formati da centinaia di roselline pallide, e un altro di violette tinte da me e fatte
con le mie mani. Mi sento già un po’ Mimì, la gaia fioraia, perché dalle mie dita sbocciano fiori. Ma un
Rodolfo mi troverà? E chi sarà mai? Lo vedremo col tempo: niente amore per ora, soltanto arte».
◊◊◊
«...sono sovente in estasi. Ho perfino l’impressione di sollevarmi da terra».
◊◊◊
«Quale sarà il mio avvenire? Irrequieta ragazza, trasparente e fragile come una campana di vetro!»
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Questo della fragilità, della debolezza, è un motivo che ritornerà spessissimo. Ciò le consentirà però di
valorizzare un tipo di recitazione innovativo, moderno, e per i tempi assolutamente inedito nel campo
dell’arte scenica: una recitazione cioè dove grande parte ha il movimento rapido, il salto, il tratto di
agilità quasi atletica, suscitando stupore ma anche simpatia nella critica.
Compiuti gli studi, sente di poter compiere il grande passo e si prepara per un’audizione alla Casa
Ricordi, il massimo editore italiano.
L’audizione sarà positiva e la farà entrare nel giro propriamente professionale; ma in prima istanza
dovrà intensificare gli studi per impadronirsi rapidamente del repertorio e tenersi disponibile a
qualsiasi chiamata provenisse dai teatri del mondo.
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ATTRICE
«Passo delle ore davanti allo specchio vestita da Mimì, a esercitarmi nella scena ed essere pronta in
Bohème, che mi sa vocalmente a meraviglia... Entro con la candela; poi, leggero svenimento e dopo, per
terra, a frugare in cerca della chiave; ma non avendo a fianco Rodolfo, il tenore, a dirmi “Dammi il
braccio o mia piccina”, me la sbrigo da me, con un mezzo inchino, infilando il braccio sinistro dentro
la spalliera di una seggiola; e, trascinandomela a piccoli passi verso la porta, prendo un bel do finale
da sola!»
◊◊◊
«Ho un bel timbro di voce, tanto se canto quanto se parlo, e potrei fare anche l’attrice, perché ho
attitudini drammatiche innate (evviva la modestia!). Mi piacciono tutte le arti e il sapere: musica,
canto, scena, danza, lingue, letteratura... L’editore mi considera un originale soprammobile, e gli
piaccio perché non somiglio a nessuno; lui non me l’ha detto, ma io l’ho indovinato, perché sento di
avere una mia personalità che m’induce a parlare con dolcezza ed allegria. Gli vanno a genio la mia
intelligenza e sensibilità artistica; ma sono in pari tempo equilibrata, perché voglio riuscire vincitrice!
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Sono vaporosa e anche bellina coi miei capelli alla vierge, appuntati con quattro belle forcelle d’oro. Mi
vesto con cura, quasi da innamorata, e ho slanci capricciosi. Si vede che ho ricevuto dal cielo “la
scintilla...!»
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Tarquinia dovette essersi conquistata un’indubbia stima nel difficile milieu artistico milanese, se le fu
richiesto di interpretare Salomè, la recentissima opera-scandalo di Richard Strauss, che per molti
versi apriva il mondo dell’opera al Novecento, e di cui ella fu una delle prime interpreti italiane.
Affrontando Salomè, chiave di volta per i suoi primi trionfi internazionali, doveva misurarsi con una
scrittura musicale quantomai logorante e faticosa, nonché con la necessità di una presenza scenica
efficace. Ma in questo aveva buone carte da giocare. Un giornale del Cairo, nel recensire la sua
interpretazione, parlò di “figura efebica, sottile come liana, flessibile come serpe”, aggiungendo: “non
si potrebbe trovare in tutto il campo dell’arte lirica un più sorprendente physique du rôle.”. Com’è noto,
Salomè, come poi anche Carmen e Conchita, sono ruoli che richiedono di prodursi in momenti di
danza, e questa era un’altra indubbia specialità di Tarquinia.
Intanto arriva la sospirata scrittura per una prima lunghissima tournée attraverso gli Stati Uniti.
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ATTRICE
«Fra due giorni debutterò in Butterfly, l’opera che prediligo. Mi ci butterò anima e corpo: Puccini è
l’autore che sento maggiormente. La tragedia di Cio-Cio-San la sento fino a morirne. Piangerò tanto, lo
so, ma farò anche piangere. Penso che se non vi fosse l’arte e l’amore il mondo sarebbe vuoto».
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A S. Francisco la sua Salome (cantata in italiano, come allora si usava fare, anche sulle piazze
straniere), conferma il suo successo personale: ha l’onore di essere definita dalla stampa americana
“la Duse del teatro lirico.”
Questo la fa crescere considerevolmente nella sua autostima. Già sulla via del ritorno, approda
all’importante piazza di Chicago, e qui la piccola, talentuosa provinciale è consapevole forse per la
prima volta di aver raggiunto un traguardo prestigioso di cui può giustamente andar fiera:
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ATTRICE
«Qui tutto è sfarzoso, e c’è odore di celebrità e di superbia. Sono novizia, ma non mi perdo di coraggio
e ripeto a me stessa: sta’ in guardia, piccola Duse, a Chicago ci sono molte volpi sopraffine; aguzza
l’ingegno, senza paura, monta la tua batteria di nervi e va dritta per la tua strada!»
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“Battera di nervi” era un’espressione ricorrente per evidenziare la sua particolare struttura psicofisica.
La userà anche Carlo Zangarini, librettista di Conchita, all’indomani della prima recita di quest’opera.
In quell’occasione Zangarini rilascerà per iscritto una specie di attestato, che ora sentiremo.
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ATTORE
«Una batteria meravigliosa di nervi al servizio di una intelligenza squisitamente moderna. Una voce
vibrante ed espressiva, che asseconda docilmente tutte le mobilità dell’anima, nella gioia e nel pianto,
nella grazia e nella violenza. Una alleata di primo ordine, ogni volta che si tratti di combattere una
battaglia d’arte per la quale si richieda, oltre il dono della voce, la vibrazione geniale di un
temperamento. Il corpo snello ubbidisce a tutti i capricci e a tutte le intenzioni misteriose dello spirito:
l’occhio nero accende di intensa verità le battute più ardite e sincere.
Dopo averla avuta interprete della figura complessa di Conchita, non esiterei ad affidarle il compito di
rivelare la più astrusa psicologia di donna. Non importa se mistica o veristica, angelica o diabolica:
pur che la figura scenica sia umana, sentita, sinceramente vissuta».
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Ma torniamo a Chicago e al camerino dove Tarquinia si prepara per andare in scena con Traviata, tra
speranze, apprensioni e i piccoli scongiuri di rito. Così ci racconta quei momenti:
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ATTRICE «Sono in camerino. Le pareti sono ricoperte di seta lucente rosa, cosparsa di camelie; e mi par d’essere dentro una bomboniera, e questa bomboniera mi riposa. Ho baciato i ritratti di babbo e mamma e ho bevuto un po’ di champagne prima d’entrare in scena. Da ventiquattro ore non parlo, sono come in estasi, penso solo a farmi bella (brava lo sono, perché lo dicono tutti!). Il camerino è pieno di pizzi, veli, velluti, camelie e gioielli. In palcoscenico c’è un via vai di grande fervore e direi quasi di esaltazione per questa Traviata; sembra che si debba scoprire... l’America. Ma solamente l’artista sa cosa costi l’attesa di una première!» ----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Nel frattempo Zandonai, che ancora non era entrato nella sua vita, aveva consegnato all’editore la
partitura finita dell’opera Conchita, ed era cominciata da parte della Ditta la ricerca dell’interprete
ideale di quel ruolo così impegnativo.
Tarquinia viene invitata per un provino e lei si presenta del tutto ignara di quello che l’aspetta.
Tito Ricordi l’accoglie con estrema cordialità e la presenta al giovane maestro, che lei non ha mai visto
né sentito nominare. Ma indubbiamente qualcosa in lei scatta, e così ce ne riferisce nelle sue
memorie:
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ATTRICE
«Lo guardai: giovane, senza dubbio, e piccolo di statura, privo di ricercatezze nell’abito e nel
portamento (quelle le avevo tutte io!). Era riservato, quasi freddo. Austero nel volto giovanile, magro e
allungato, che già recava due segni ai lati della bocca. Occhi celesti, vivi, penetranti che sembravano
scrutarvi, frugarvi, interrogarvi; ma altre volte sognanti, rapiti in un mondo tutto proprio. Parole,
poche. Ma quegli occhi color pervinca erano intenti e animati. Che mai vedevano? Giacché nei suoi
lunghi silenzi egli certo vedeva lontano.
La mia elegante figurina d’artista, apparsagli così d’improvviso, rappresentava forse il compimento di
una idealità da tempo carezzata nei suoi occhi di poeta?»
◊◊◊
«Al termine dell’audizione il giovane compositore non tolse i begli occhi ingenui dalla sua futura
interprete; e a me sembrò già più attraente, più interessante.
Quando lasciai commossa la sala dell’editore, col mio passo ancor più leggero ed elastico, già sognavo
un altro mondo, tutto diverso da quello da cui venivo...
Sotto il mio braccio era lo spartito di Conchita, ed ero io, proprio io che dovevo studiarlo per rendere
fedelmente quel temperamento, quella sensibilità così moderna, raffinata, morbosa...
Quel giorno fu il sipario della sorte che, levandosi, indicò nuove vie sulle quali due esseri, ignari del
proprio destino, avrebbero dovuto camminare passo passo, l’uno accanto all’altra, per tutta la vita:
TARQUINIA TARQUINI e RICCARDO ZANDONAI!»
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Fermiamoci ancora un po’ su questa scena, perché, per una straordinaria coincidenza, l’evento ci
viene raccontato da un diverso e insospettato punto di vista: quello di un oscuro impiegato della Ditta
stessa di nome Mario Morasso, il quale si vede all’improvviso davanti incarnata nella figura della
Tarquini, l’immagine ideale di Conchita così egli come l’aveva sognata nel corso di lunghe, ossessive
meditazioni solitarie.
Il risultato è un ampio scritto dal tono un po’ esaltato, che fu pubblicato pochi giorni dopo su una rivista
milanese e che vale la pena ascoltare in sintesi per avere conferma della perfetta identificazione
instauratasi tra il personaggio operistico e l’attrice chiamata ad impersonarlo, in una strana
mescolanza di realtà e finzione. Questo geniale sproloquio poetico di Morasso contiene le espressioni
più appassionate, vibranti ed entusiastiche mai rivolte alla cantante.
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ATTORE
«Finalmente l’ho veduta! Finalmente l’inebriante e perfida "Conchita", il terribile e delizioso
incantesimo femminile raffigurato da Pierre Louÿs nel suo romanzo mi è apparsa viva, palpitante,
adorabile, dopo averla fantasticata per tanto tempo nel turbamento cupido del mio spirito.
Io non so quale strana corrispondenza di passione aveva incontrato dentro di me la piccola e
inafferrabile spagnola; non so quali segrete simpatie essa aveva suscitato nella mia anima. Certo è che
il racconto del romanziere parigino mi aveva profondamente commosso come un’inaspettata ed
esatta rivelazione di una intima e sconosciuta parte del mio sentimento. Leggendo quelle pagine,
dove i guizzi più folli del capriccio muliebre sono tracciati nitidamente come entro volute di cristallo,
mi sembrava di rivivere qualche mia più cara e dimenticata avventura, e di intravvedere qualche
lembo di un mio inevitabile destino avvenire. E aspettavo impaziente l'avverarsi di quella vicenda
come di una promessa immancabile.
Così ho cercato di estrarre dalle pagine del romanzo i tratti principali del suo viso, della sua persona,
e poi mi sono sforzato di comporli nell'armonia dell'essere vivente.
Ho evocato dai miei ricordi tutte le imagini femminili che vi avevano lasciato qualche traccia per dar
forma a questo fantasma di voluttà; ho chiamato a raccolta tutte le potenze della mia fantasia per
riuscire a discernere l'adorabile faccia. E a volte ho sentito tutto il mio sangue dileguarsi e il mio cuore
gonfiarsi, quando l'illusione pareva prendere vita per un attimo. Ma era troppo breve e incerta quella
visione per appagarmi.
Quanto tempo è durata la vana ricerca? Quanti disinganni ho attraversato, credendo talvolta di averla
riconosciuta, voltandomi bruscamente per la sensazione che mi fosse passata accanto, che i suoi
capelli avessero sfiorato il mio viso?
Tuttavia la mia fede è rimasta intatta; la sua apparizione presto o tardi doveva avvenire, era una
promessa sacra, predestinata, che doveva essere mantenuta; la sua esistenza era come una fatalità
assoluta che doveva compiersi, per la stessa legge naturale che governa gli impeti degli uomini. E
pertanto io l’ho attesa con sicurezza come nelle notti insonni si aspetta lo spuntar del sole.
Ed ecco che un giorno traversando un corridoio di questi Uffici Ricordi ove tanto di lei si è parlato,
una specie di avvertimento, quasi un brivido interno mi colpisce, mi scuote, un misterioso
presentimento mi rende attonito. Qualche cosa di insolito vibra nell'aria. Guardo, ascolto. Si intende
un fruscìo secco ed alato di vesti.
Una giovane donna avanza, elegante, sottile come un giunco in una guaina nera. Tutti i miei sensi
sono trepidanti. Scorgo un volto pallido, due grandi occhi splendenti, incastonati come gemme tra
l’arco quasi diritto delle sopracciglia nere, energiche, dure, imperiose, il segno infallibile delle grandi
amorose. Scorgo un corpo esile, ma fervido di un'occulta potenza.
Un corpo snello di adolescente che concede membra agili e perfette al tormento, alla frenesia del
sublime dramma dell'amore, del bacio e del sangue; un corpo fragile che sembrerebbe di poter
abbattere con una stretta, e che si piega infatti, con ogni flessuosità all'alito delle labbra carezzevoli o
al sibilo dell'invettiva feroce, ma un corpo ardito come un'arma dalle energie incalcolabili, un corpo
che sguscia, scatta, si divincola come la più temprata molla di acciaio, come il serpe e come il
leopardo.
Ed un viso bellissimo in cui sorride l’innocente inconsapevolezza della fanciulla e in cui ammalia il
tremendo mistero della più acuta femminilità.
Ho fissato quella testa significativa e bizzarra, dalle apparenze leggiadre sotto l'ampio cappello e il
fitto velo alla moda, ma di un carattere così intenso e profondo; mi son sentito affascinato da quel
volto, che nel breve cerchio di un volto umano include l'estremo orizzonte della felicità e del dolore
così come ci si sente attirati irresistibilmente dall'abisso.
"Conchita"! Non la avevo mai vista, ma non poteva essere che lei, soltanto lei. Così me l’ero
raffigurata; l'avrei riconosciuta in mezzo a tutte le donne. Come sbagliarsi? "Conchita", "Conchita":
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nessun nome, nessuna persona mi era più familiare. Stavo per muoverle incontro, per chiamarla, ma
in quel momento un uscio si aprì e si chiuse, la fuggente figurina disparve, un canto argenteo si alzò...
Avevo sognato? Era stato il gioco di una allucinazione? Ma il canto continuava, ora dolce come una
preghiera o un invito, ora violento come una ripulsa inesorabile, e un lieve profumo rimaneva
nell'aria, e nei miei occhi rimaneva ancora manifesta la sensazione di quel volto pallido e ardente
come l'immagine di un paesaggio rigoroso che ci chiami con infinita nostalgia.
No, non mi ero ingannato. Colei che sorgeva a dare una vita così prodigiosa all'eroina di Pierre Louÿs
era Tarquinia Tarquini, l'artista che doveva essere la protagonista della nuova opera del maestro
Zandonai.»
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INTERMEZZO COREUTICO-MUSICALE.
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Conchita unisce Tarquinia e Zandonai in un legame non solo artistico, in un crescendo di eventi quasi
romanzeschi. Dapprima lo studio della partitura a Pesaro, in un comune slancio di esaltazione e
ambizione e in un trionfo di giovinezza, di arte, di amore. Poi le prove pressanti a Milano durante tutta
l’estate; il battesimo dell’opera al teatro dal Verme (ottobre 1911) coronato lì in teatro dalla formale
dichiarazione d’amore da parte di Zandonai. Subito dopo la tournée a Londra; quindi la prima visita di
Tarquinia a Sacco per conoscere i luoghi e le persone legate al suo futuro marito, con l’aggiunta di
un’arrischiata escursione sullo Stivo, loro due da soli, conclusasi con l’arrivo al rifugio in piena notte
fradici di pioggia; e infine, solo pochi giorni dopo, l’imbarco di lei per l’America per portare Conchita nei
vari teatri.
Il distacco di ben dieci mesi dovette essere piuttosto doloroso, ma si rivelerà proficuo per la carriera
artistica di entrambi: Tarquinia consolidò a livello internazionale la sua fama di cantante e Zandonai
compose la sua opera più importante, Francesca da Rimini, modellando il ruolo protagonistico sulle
caratteristiche di lei.
È noto che la carriera artistica di Tarquinia Tarquini conobbe un epilogo inaspettatamente precoce, nel
1914, quando, appena trentaduenne, si era appunto trovata davanti lo scoglio impervio della
Francesca da Rimini, che con ogni evidenza non era un ruolo adatto alle sue possibilità vocali. Se si
leggono sinotticamente le lettere uscite dall’entourage zandonaiano in quel periodo frenetico di prove,
si rimane sorpresi e un po’ sbigottiti nel vedere come nessuno di quelle persone che la circondavano
avesse capito il dramma che si stava consumando giorno dopo giorno, con la povera, esile Tarquinia
sottoposta a uno stress psicofisico impressionante e un carico di prove faticosissime e quasi
disumane da affrontare. Ma le leggi spietate dello spettacolo conoscono di questi sacrifici, e in quel
caso Tarquinia fu una specie di vittima designata. Si può solo immaginare come un’artista così
giovane, ambiziosa e nel pieno della carriera abbia vissuto quel terribile smacco.
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ATTRICE
«Vogliono che studi, vogliono sentirmi, vogliono vedere cosa sarò capace di fare di questo
personaggio, confidando nel mio temperamento. Tutti mi stanno alle costole; ed io vengo assalita
talvolta dalla stanchezza, onde i miei occhi stessi implorano pace. Ma nessuno se ne accorge, nessuno
ha pietà di me.
Avrei tanto bisogno di tranquillità, di stendere i nervi. Sono sovrassatura di musica. Ascolterei
volentieri il canto del cucù che echeggia da un albero all’altro e vorrei raccontarci con Zandonai le
novelle dell’infanzia, e giocare al gioco dell’oca, e magari rileggere Pinocchio: vivere insomma una vita
nuova, infantile, senza preoccupazioni. Ma non è che un sogno, e nessuno si avvede del mio
deperimento! Nessuno mi crede.»
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A una delle ultime prove Tarquinia riesce a sostenere la fatica dei primi tre atti, sia pure con
preoccupanti preannunci di cedimento, poi verso la fine ecco irrompere la crisi:
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ATTRICE «...scoppio in un pianto dirotto, tanto straziante che tutti piangono con me! Da quell’attimo la mia gola ha rifiutato di obbedirmi: Francesca me l’aveva chiusa con un lucchetto!. Ho finito per sempre ogni mio impegno. Zandonai mi conduce via, mi carica in un vagone-­‐letto, diretta a Firenze. Ci abbracciamo come due fratelli. È vero che due anni dopo sono andata sposa all’autore di Francesca, il quale mi ha compensata col suo grande nome e col suo grande affetto; ma io ho dedicato all’autore di Francesca da Rimini tutta la mia carriera, che amavo più della mia vita stessa.» ----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
È impossibile non trovare in queste parole, scritte molti anni dopo i fatti narrati, un senso di amarezza,
di rammarico, forse anche di ribellione, che il tempo non ha mai veramente assorbito, e anche
qualcosa come un senso di colpa per non aver saputo, allora, corrispondere alle attese.
A noi fa riflettere, per il suo signficato altamente drammatico, il fatto che la carriera di una cantante nel
pieno delle sue potenzialità sia stroncata proprio dall’opera destinata a consacrare la fama dell’uomo
amato. E di questa atroce ironia la rimanente vita di Tarquinia si sostanzia.
Finisce dunque così il periodo di Tarquinia artista e comincia quello di Tarquinia moglie di Zandonai,
che come tale si va defilando in una posizione gregaria, ritirandosi nel cono d’ombra di lui quasi a
voler significare che ella aveva inteso la sua vita a servizio del maestro come una specie di
risarcimento per non essere stata capace di vincere la prova che lui le aveva messo davanti.
Nei trent’anni del suo ménage con Zandonai ritornerà altre volte questa sottolineatura di rinuncia, di
sacrificio a cui si sottopose per libera scelta, adattandosi ad esempio ad una vita campagnola a cui
non era proprio portata, ma che invece piaceva tanto a lui.
Si può comprendere quanto a un’artista così naturalmente socievole, esuberante, piena di vita
pesasse alle volte accettare certe scelte di isolazionismo del marito, accentuatesi in modo evidente
dopo l’acquisto della villa sul Colle San Bartolo, appena sopra Pesaro per la verità, ma
sufficientemente lontana da dare un’impressione di romitaggio.
Tuttavia non mancò mai di stare a fianco del suo “genio”, di scaldarlo con la sua passione umana, di
stimolarne la vena creativa, di seguirlo nei suoi giri per i teatri, e di aver cura della sua salute delicata.
Le periodiche crisi epatiche da lui sofferte la vedranno attiva come infermiera e consolatrice. Nei
momenti buoni sarà una perfetta padrona di casa, ospite accogliente di tante brigate di amici ed
estimatori.
Il destino riserverà alla coppia l’ultimo strazio della guerra, dell’occupazione forzata della casa, degli
attacchi della malattia che porterà Zandonai alla tomba.
Proprio all’atto di consegnare villa S. Giuliano al comando tedesco, i coniugi Zandonai compiranno un
rito quasi mistico, appartandosi in una stanza e procedendo in silenzio alla distruzione della loro
corrispondenza amorosa, che albergava tra il resto i fasci di lettere in inchiostro rosso a lei pervenuti
quasi quotidianamente quando, in America, portava Conchita al trionfo.
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ATTRICE
«Abbiamo qui a San Giuliano un caminetto che è la gioia di Riccardo. Sul fondo due alari antichi dove
crepita la legna profumata. Nell’attesa che la macchina ci porti via, Riccardo ed io, silenziosi e
addolorati, abbiamo ciascuno un grosso pacco di lettere: tutta la nostra giovinezza ardente, tutti i
nostri sogni, tutto il nostro amore. Ha inizio la mesta operazione, mentre le lagrime ci bagnano le
mani, tanto siamo certi che non torneremo mai più a San Giuliano! Le nostre lettere ardono insieme e
ci illudiamo di riscaldarci a questa ideale estrema fiamma amorosa».
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FINE -------------------------------------------------------------------7