La citta sommersa

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La citta sommersa
LA CITTA’ SOMMERSA
Giovanetto e sognatore, mi recavo spesso sulle rive del lago di Monate per
contemplare e godere della poesia che quell’azzurro, il più bello del mondo,
suscitava dentro di me.
Un giorno, verso il tramonto, rapito da quella visione e forse sognando ad
occhi aperti, non mi accorsi che una barca si era silenziosamente avvicinata
alla riva, e un vecchio alto, gagliardo, con una lunga barba bianca era venuto
a sedersi vicino a me e sorridendo mi guardava.
Io lo conoscevo, era il Tencale, il capo dei pescatori, ma in quel momento mi
parve un’apparizione e restai incantato a contemplarlo.
- Tu vedi il lago – mi disse dopo qualche attimo - ma non sai che in fondo ad
esso giace sepolta una grande città, una città potente di cui qualche volta,
quando l’aria è più limpida, si scorgono ancora i palazzi ed i campanili; se tu
venissi con me in certe albe, potresti vederli anche tu, e poi non sai, la notte
di Natale, a mezzanotte in punto, si odono suonare le campane della chiesa
maggiore.
E’ una storia un po’ lunga da raccontare, e poi tu non la crederesti.
Io protestai e dissi che l’avrei creduto, e lo pregai di raccontarmela.
Il vecchio, facendosi più vicino, trasse di tasca una pipa che sembrò enorme,
la caricò, l’accese, poi dopo uno sbuffo o due di fumo cominciò.
- Tanti, tanti anni fa, questo lago, che ti
piace tanto, non esisteva: al suo posto
vi era una conca verde e fiorita, che
sembrava una gran tazza di smeraldo,
decorata tutt’intorno da un artista
divino. Sul fondo sorgeva la potente
città di Monarca, potente non perché
essa aveva assoggettato le terre dei
dintorni, ma per l’onestà e la bontà
della sua gente, per la loro operosità, la
cui fama correva fino ai punti più remoti
della terra.
Qui venivano genti da posti, anche
lontani, per vedere da vicino quel prodigio umano.
Fra tanta bellezza e dovizia di natura, circondata dalla stima di tutti, la
popolazione di Monarca viveva pacifica e lieta, dedita ai suoi lavori artigianali,
agricoli, ed a quelli della pastorizia.
In città non v’era posto per il male, tanto che il “Maligno” si era rifugiato su in
alto nella parte più brulla del Monte Pelada, che tu vedi di fronte; di là egli
non scendeva che per rapide apparizioni, subito interrotte se incontrava
qualcuno.
Però, i pastori che si spingevano più in alto sul monte, di tanto in tanto
riportavano in città la notizia d’averlo intravisto in atto assorto e meditabondo.
Grande era l’onestà e la fermezza di quella gente, che alla notizia non
dava nessun peso.
Come succede ancora oggi, il sole sorgendo al mattino illuminava tutto a gran
festa, per cui si moltiplicava negli animi la gioia di vivere.
Ma tutta quella pace, tutto quell’amore del prossimo, è evidente, non andava
allo “Spirito del Male”; lui non poteva far altro che guardare la città,
mordendosi le mani e digrignando i denti, quando prendeva forme umane.
Lassù s’arrovellava per trovare un rimedio che facesse al caso suo, per far
cessare quello stato di cose per lui orrendo ed insopportabile.
Infine, un giorno, a furia di pensare, credette di aver trovato ciò che gli
potesse essere di grande utilità.
Erano quelli tempi diversi dai nostri; allora il diavolo poteva trattare a tu per tu
con l’Onnipotente.
Perciò decise di andarlo a trovare, per proporgli un patto, una specie di
scommessa.
Bisogna sapere che già prima d’allora, l’Onnipotente aveva cercato di
scacciare dai dintorni della città il “Maligno”, senza però riuscirvi, in forza di
patti che esistevano fra loro fin dall’eternità.
Il vecchio tacque un istante; ricaricò la pipa e mentre la sera calava, riprese a
raccontare. Attraverso quella barba la voce fluiva lenta e dolce, ed io a tratti
mi illudevo pensando che non fosse il vecchio a parlare, ma il lago col suo
sussurro.
Ottenuto l’appuntamento, il “Maligno” propose al suo antagonista di mettersi
d’accordo per risolvere l’antica questione: o lui, nel termine di due anni
avrebbe saputo traviare le genti di Monarca, oppure avrebbe sgombrato per
sempre la città ed i dintorni.
Talvolta, anche gli spiriti benefici possono essere tratti in inganno e cedere a
qualcuna di quelle sottigliezze cattive, magari per un senso di sicurezza che
implica anche un po’ di orgoglio. Fatto sta che l’Onnipotente accettò la
proposta, o scommessa che dir si voglia.
Vennero stabilite delle condizioni, che le parti accettarono e s’impegnarono di
rispettare. Ottenuto lo scopo, il “Maligno” non perse tempo.
Sotto le spoglie di un potente signore, che veniva da lontano per visitare i
luoghi la cui fama era giunta fino a lui, entrò nella città seguito da un
corteggio numeroso di dame bellissime e di cavalieri compiti. Fece avvisare
gli anziani di Monarca che si sarebbe trattenuto alquanto; e chiese il
permesso di fare delle feste e dare dei ricevimenti in onore della città ospite.
Avutone il consenso, come d’incanto, in uno degli angoli più fioriti della
campagna circostante, fece sorgere un magnifico e grande palazzo.
In quel palazzo, le dame dai modi vezzosi e ornate di grazia, e i cavalieri
pieni di affabilità, si intrattenevano con coloro che potevano persuadere e
recarvisi, procurando ad essi ogni sorta di delizie e di divertimenti.
I più savi fra i cittadini, per un momento pensarono che sotto quell’apparato
c’era qualcosa che non andava, e non sapevano quali decisioni prendere per
il timore di sembrare scortesi ed ingiusti; poi, pochi per volta, passarono
dall’altra parte.
Dal canto loro, i giovani si lasciarono prendere nel vortice e furono tutti
conquistati dai vezzi di quelle belle dame, che sapevano usare in modo
perfetto l’arte della seduzione e della corruzione. Anche le donne giovani non
resistettero a lungo alle adulazioni di quei brillanti cavalieri, e nella maggior
parte si lasciarono convincere a recarvisi.
Forse vi fu qualche infrazione al patto stabilito, perché un giorno
l’Onnipotente, con la sola mossa di un dito, fece sprofondare il palazzo e
sparire le dame ed i cavalieri.
Ahimè! Era ormai troppo tardi. Il ricordo delle gioie provate, degli ozii goduti,
aveva invaso molta parte di quella gente, che tornò malvolentieri alle sue
botteghe, nei suoi campi ed a guardare le greggi. Era sparito anche quel
senso di fraternità e d’amicizia; nessuno più sopportava la presenza d’altri o
la minima ingerenza nei propri affari.
Litigi e risse cominciarono a scoppiare un po’ dovunque, finchè tutta la città
fu in preda al disordine.
Nessuno più rispettava gli anziani; i più forti tenevano sottomessi i più deboli,
in poco tempo la giustizia era quasi sparita da Monarca.
L’opera del “maligno” continuava senza soste, rinfocolando odi ed inimicizie;
ingigantendo la lussuria che era nel sangue di ognuno col far comparire in
città donne bellissime, a causa delle quali molto sangue scorreva fra i
cittadini.
Queste donne erano via via sempre più avide di denaro e di ricchezze, per
cui molti si misero a rubare per procurarsene; in una parola la città si era
pervertita sino alle fondamenta.
Allo scadere del tempo prestabilito, il “Maligno” poté dimostrare
all’onnipotente il risultato della sua opera e pretendere il compenso.
L’Onnipotente non si arrese subito e volle scendere fra quei cittadini come un
povero pellegrino bisognoso d’aiuto e di conforto.
Non trovò che insulti e derisioni, nessuno volle ospitarlo o sfamarlo, se non la
povera famiglia del sagrestano della chiesa maggiore, composta dai coniugi e
da un figlio ancora giovinetto: gli unici che non si erano lasciati traviare. Ma
essi soli erano troppa poca cosa per impedire che la città cadesse in balìa del
“Maligno”.
Questi, memore della grande rabbia che gli avevano sempre procurato quei
cittadini, non esitò un istante, appena gli fu possibile, a decretarne la fine,
solo esitò se distruggere tutto con l’acqua o con il fuoco.
Scelse la prima.
Portandosi sul Monte
Pelada ordinò alle forze
distruttrici delle acque di
mettersi a sua
disposizione; chiamò i
tuoni e i fulmini
scaraventando poi tutto
sulla povera città insieme
ad una tregenda di spiriti
dannati, di diavoli e di
streghe.
L’acqua non solo
scendeva dal cielo che
aveva aperto le sue
cateratte, ma sorgeva
anche dalla terra attraverso mille e mille polle fangose e ruggenti.
Nessuno scampo per gli abitanti, soltanto lo scaccino, sua moglie e suo figlio
avrebbero potuto salvarsi, ma non vollero, preferendo perire con la loro città.
Solo chiesero la grazia di poter tornare una volta all’anno a suonare le
campane della chiesa, e l’Onnipotente concesse loro di poterlo fare, nella
notte di Natale.
Il sole era tramontato dietro il Monte Rosa, le ombre della sera incipiente
coinvolgevano tutto, il vecchio non fumava più, la sua voce che mi giungeva
come da lontano continuò:
- Nella conca di smeraldo non si videro più case e palazzi, archi e chiese;
tutto giaceva sotto un’acqua torbida e fangosa.
Un giorno, tanti anni erano passati, il Signore volse lo sguardo verso quel
punto del creato e vide l’acqua limacciosa; forse provò una stretta al cuore
perché dagli occhi suoi scese una lacrima che purificò per sempre quelle
acque, che per un miracolo divennero limpide ed azzurre, di un azzurro di cui
non esiste l’uguale al mondo.
Il vegliardo chinò il capo e tacque; quando si rialzò la vidi levare gli occhi al
cielo ed accennare il segno della croce.
Poi, tacitamente, come era venuto, se ne andò sulla sua barca.
Io fui preso da una pietà infinita per la città sepolta, per i suoi abitanti così
barbaramente affogati.
Fu forse questa pietà mista ad un senso di timore ad impedirmi, per parecchi
anni, di scendere nella notte di Natale in riva al lago, per sentire le campane
della città suonare. Una volta mi decisi, e in quella notte santa, fredda e
stellata, scesi in riva al lago. Ero solo e pieno di melanconia; mi scossero i
dodici colpi della mezzanotte battuti all’orologio del campanile di Travedona e
non appena cessati, udii distintamente un suono dolcissimo di campane
venire dal lago.
Invaso dalla più viva trepidazione, non sapevo se restare o fuggire, quando
mi accorsi che il suono non proveniva dalla profondità delle acque, ma
giungeva fino a me sfiorandole leggermente, quasi a volersi confondere con il
tremore delle stelle che si specchiavano a mille nelle acque azzurre.
Erano le campane che suonavano la messa di mezzanotte.
E fu un’altra delle tante delusioni della vita.
Il monte Pelada, che rispecchia nelle limpide acque del lago di Monate la sua
parte più brulla, scoscesa e rocciosa, non fu sempre così. Anche quella parte
del monte una volta era ricoperta di piante e di una rigogliosa vegetazione.
A ridurla allo stato attuale è stato un patto, anzi una lotta aspra e senza
esclusione di colpi, ingaggiata fra il Maligno, che su quel monte aveva
stabilito la sua dimora, ed un santo eremita, capitato ad Osmate venuto da
lontano, non si sa da quale parte, e neppure questo si sa, se
occasionalmente o già col proposito di lottare e vincere il triste ospite di quei
luoghi.
Arrivò un bel mattino di quel lontano maggio, e la sua apparizione apparve
insolita e non troppo rassicurante ai vari abitanti del luogo, che attoniti e
spaventati avevano visto da lontano l’avvicinarsi di un cavaliere male in
arnese, che montava un destriero nero come il carbone, con indosso una
gualdrappa dello stesso colore. Fra tanto nero, sola biancheggiava una lunga
barba che gli scendeva fino sul petto.
Anche gli occhi dal colore cangiante gli sfavillavano sotto le folte sopracciglia,
ma quelli, così da lontano, non si potevano vedere.
Andava al piccolo trotto seguendo il sassoso sentiero tracciato ai piedi del
monte, e arrivato ad un certo punto fermò il cavallo e gli disse alcune parole
nell’orecchio: l’animale lo guardò con occhi tristi e partì tutto solo facendo a
ritroso la strada già percorsa.
L’uomo stette un momento a guardare il cavallo allontanarsi, poi raccolse la
sua poca roba e si incamminò su per il monte, sparendo alla vista di quei
pochi che erano stati a guardare tutto lo svolgersi della scena.
Nei vari commenti che si fecero il giorno dopo era insita la persuasione, che,
al diavolo che già stava sul monte, ora se n’era aggiunto un altro.
Per alcuni giorni non successe nulla di nuovo; né il diavolo, né il nuovo
arrivato, diedero segni di vita.
Ma qualche settimana dopo, nella piccola chiesa di Osmate capitò un
eremita col saio ed un lungo bastone, che chiedeva di confessarsi e
comunicarsi. Non si trattava quindi del demonio, né di un suo parente, perché
a quegli esseri simili cose erano proibite.
Passò ancora qualche settimana, poi lo stesso eremita si presentò al parroco
del luogo facendogli notare che la chiesa non aveva campanile, e la piccola
campanella posta sopra la porta della sacrestia non bastava al richiamo dei
fedeli; occorreva un campanile con delle vere campane e, siccome il paese
era povero, al prete, che sbalordito ascoltava, chiese il permesso di farlo
erigere a sue spese, dotandolo di tre campane, ed anche a quelle avrebbe
provveduto lui stesso.
Ottenuto il permesso, l’eremita non perse tempo e meno di tre mesi dopo, a
fianco della chiesa, sorse il campanile con tre nuove e lucenti campane.
Intanto, sulla cima più alta del monte, il Maligno stava tranquillo, lasciando in
pace uomini e donne. Egli cominciava però a fremere ed agitarsi; non
capiva cosa stava succedendo tutto attorno, ma qualcosa di non buono per
lui stava sicuramente per accadere.
Così decise di scendere in paese ogni mattina presto per vedere e cercare di
capire di cosa si trattava. Intensificò sempre più la sua attività, raddoppiò il
suo zelo, scese dal monte anche nel pomeriggio, camuffato in mille guise per
svolgere il suo tenebroso lavoro.
Intanto, sul campanile le tre belle campane erano pronte per squillare il loro
inno di fede verso il creatore d’ogni cosa, ed un mattino, mentre il Maligno si
accingeva a scendere, un suono dolcissimo che aveva in sé una forza ignota
lo fermò sul posto, meravigliato e terrorizzato nello stesso tempo.
Per la prima volta le campane suonavano e quel suono come già altri simile,
parve al Maligno uno squillo che annunciava la sua sconfitta.
Il signore delle tenebre non avrebbe più potuto liberamente scendere in
paese, capì pure che se voleva farlo ancora doveva venire a patti con
qualcuno.
Gli risovvenne allora dell’eremita che viveva in una grotta non molto lontano
da lui; forse con lui poteva trattare ed ottenere qualcosa.
Le trattative furono lunghe ma, alfine, si venne ad un accordo; egli, il
demonio, un tempo libero di fare quello che voleva, d’ora in poi non avrebbe
più potuto mettere piede nell’abitato se non nelle ore comprese fra l’Ave della
sera e quella del mattino.
E difatti così avvenne.
Ma una notte, l’insofferenza del Maligno fu più forte di ogni altra cosa, e
decise di farla finita; pensando che nonostante tutto avrebbe imposto il suo
dominio su quella zona, che poi avrebbe potuto allargare.
Pensò che il modo migliore per riuscirvi fosse quello di far tacere le
campane.
Ma come fare? Una notte, non visto, si cacciò nel campanile col proposito di
restarvi e impedire, non solo per quella mattina, ma per sempre, il suono di
quelle maledette campane.
Venne l’alba, e quando fu l’ora, inutilmente il campanaro, attaccato alle corde,
si sforzò di suonare le campane che restarono mute.
Il Maligno, dall’alto del campanile dove si trovava, provò una gran gioia e si
sentì ormai vittorioso.
Ma non aveva fatto i conti con chi vegliava incessantemente, anche se in
silenzio, per la difesa dei buoni.
Il santo eremita, presentendo la battaglia, forse decisiva, certo per ispirazione
divina, quel mattino era sceso anche lui a pregare nel tempio. A lui dunque si
rivolse sbigottito il campanaro, ed il sant’uomo subito intuì la presenza
dell’avversario, indossò i paramenti sacri, recandosi così sulla soglia del
campanile, benedicendo ed esorcizzando.
Gemiti ed urla risuonavano dall’alto, un fracasso orribile si udì nell’aria; era
il Maligno che, impedito dalla presenza dell’eremita, inutilmente cercava di
scendere e fuggire.
Fu costretto a stipulare un altro patto, obbligandosi a lasciare per sempre la
zona entro pochi giorni.
Quanto malvolentieri egli mantenesse il suo impegno è ancor oggi provato
dalla rovina e dalla distruzione che egli disseminò sulla sua strada,
percorrendo per l’ultima volta il monte che era stato il suo regno.
Ancor oggi, sulla parete rocciosa del monte, dove non cresceranno mai né
erba, né arbusti, si nota la spaccatura entro la quale, secondo la leggenda, lo
spirito maligno scomparve per non tornare mai più nei paeselli sorti attorno al
lago di Monate.