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RASSEGNA STAMPA
venerdì 10 luglio 2015
L’ARCI SUI MEDIA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ESTERI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
WELFARE E SOCIETA’
DIRITTI CIVILI E LAICITA’
INFORMAZIONE
SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
CULTURA E SPETTACOLO
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da il FattoQuotidiano.it del 10/07/15
G8 di Genova, piazza Alimonda vietata ai
poliziotti anti Carlo Giuliani: “Sit in
provocatorio”
La questura dice no al Coisp che aveva indetto un corteo nel luogo
dove il 20 luglio 2001 lo sparo del carabiniere Placanica uccise il
manifestante. La risposta del sindacato di polizia: “Decisione
antidemocratica”
di Lorenzo Galeazzi |
“L’iniziativa in oggetto viene ritenuta incompatibile sotto il profilo dell’ordine e della
sicurezza pubblica sia per la contestualità sia per l’oggetto”. Con queste righe la questura
di Genova prova a mettere la parola fine all’ennesima provocazione del sindacato di
polizia Coisp che l’altro giorno ha indetto per il 20 luglio 2015 una manifestazione in piazza
Alimonda “per ricordare la verità del G8 genovese e non solo le storpiature di qualcuno”.
Per chi non lo sapesse piazza Alimonda, insieme alla scuola Diaz e alla caserma di
Bolzaneto, è uno dei luoghi simbolici delle drammatiche giornate di contestazioni al
summit internazionale, quello in cui il 20 luglio 2001, nel corso di violenti incidenti fra
manifestanti e forze dell’ordine, Carlo Giuliani rimase ucciso a causa di un colpo di pistola
sparato dal carabiniere Mario Placanica.
L’annuncio del presidio ha subito scatenato reazioni durissime dentro e fuori Genova,
dall’Arci a Sel fino alla famiglia Giuliani, e i toni volutamente polemici dell’evento, a partire
dal titolo “L’estintore come strumento di pace” (“tema” già provocatoriamente lanciato anni
fa, sempre in occasione del 20 luglio), hanno indotto il questore della città Vincenzo
Montemagno a fermare tutto: “L’iniziativa proposta non può essere percepita come non
provocatoria per la memoria di Carlo Giuliani come del resto è palesata anche rispetto alla
titolazione”.
Va ricordato poi che il Coisp non è nuovo a sortite del genere: è lo stesso sindacato che il
27 marzo 2013 organizza a Ferrara un sit in sotto le finestre dell’ufficio di Patrizia Moretti,
madre di Federico Aldrovandi, il giovane ucciso nel 2005 da quattro agenti. Il motivo?
Protestare contro la condanna infitta ai colleghi. Sarà un caso, ma proprio due giorni fa la
donna aveva deciso di ritirare le querele contro i poliziotti e il senatore Ncd Carlo
Giovanardi perché “un’eventuale condanna non cambierà persone che costruiscono la loro
carriera sull’aggressività e sul rancore”.
Ma al contrario dei protagonisti del caso Aldrovandi, Placanica non ha avuto conseguenze
penali e il 5 maggio 2003 il processo per l’omicidio Giuliani venne archiviato per “legittima
difesa” e “uso legittimo delle armi in manifestazione”. Ai sindacalisti del Coisp questo però
non è bastato perché, come spiega il loro sanguigno segretario regionale, Matteo Bianchi,
il loro vero obiettivo è la memoria di Carlo e i simboli che l’accompagnano. A partire dal
cippo di granito posizionato nel 2013 in un’aiuola di piazza Alimonda che ricorda il giorno
della sua morte.
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“Quel ragazzo era con un passamontagna e un estintore in mano – tuona Bianchi – e se
oggi non fosse morto sarebbe in galera per l’omicidio di un carabiniere”. Il sindacato ha
anche avviato una raccolta firme “che ha già raggiunto 15mila adesioni” per fare rimuovere
la piccola opera scultorea. “Se ci passo di fianco con mio figlio – attacca il segretario ligure
del Coisp – e lui mi chiede chi è Carlo gli rispondo che è un giovane morto mentre cercava
di ammazzare un militare. A quel punto mi riuscirebbe difficile spiegargli perché gli sia
stato dedicato un monumento”.
Nessuna polemica nei confronti della famiglia precisa subito dopo Bianchi: “La nostra
iniziativa è per avere un ricordo del G8 a 360 gradi ed è per questo che avevamo invitato a
partecipare anche Luca Casarini e Giuliano Giuliani (padre di Carlo, ndr)”.
Fatto sta che, con l’intervento della questura, anche quest’anno il cippo rimarrà al suo
posto e il 20 luglio il “comitato piazza Carlo Giuliani” terrà le sue celebrazioni al riparo dalle
provocazioni del Coisp. Che se vorrà manifestare dovrà farlo con “modalità di tempo e di
luogo diverse”, come del resto avviene ormai da due anni quando, in occasione della
ricorrenza, il sindacato ha fatto girare per Genova un camion vela (quelli con i cartelloni
pubblicitari sul retro) tappezzato dalle immagini d’epoca dei black bloc in azione nel
capoluogo ligure.
Ma Bianchi non si dà pace, tant’è che medita le sue dimissioni dal sindacato e ragiona
sull’opportunità di fare ricorso prima in prefettura e poi al Tar: “Non mi rassegno a questa
decisione antidemocratica perché non accetto l’idea che quella piazza sia utilizzata solo a
uso e consumo di una certa visione dei fatti del G8”. Ma sono i suoi superiori a spiegare
che “è impossibile mediare con il comitato piazza Carlo Giuliani onlus una località o un
giorno diverso perché questi sono i presupposti simbolici dell’ormai tradizionale
commemorazione”.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/07/09/g8-di-genova-piazza-alimonda-vietata-aipoliziotti-anti-carlo-giuliani-sit-in-provocatorio/1859384/
Da Affari Italiani del 10/07/15
Reato di tortura, attacco delle associazioni:
"Annacquano il testo"
Nuove modifiche alla legge sul reato di tortura. Le associazioni
insorgono: "Stanno annacquando il testo che sta peggiorando al punto
da diventare incompatibile con la Convenzione delle Nazioni Unite"
La commissione Giustizia del Senato ha modificato ancora una volta il disegno di legge sul
reato di tortura che ora dovrà tornare alla Camera nel caso in cui l'aula di palazzo
Madama approvi le modifiche. E' da marzo 2013 che si verifica un 'rimpallo' sul testo tra i
due rami del parlamento. Al centro della questione innanzitutto la 'premura' che non si
vada a configurare un reato contro le forze dell'ordine.
E le polemiche non si sono fatte attendere: "Con le modifiche apportate dalla
Commissione Giustizia del Senato, chi si opponeva all’introduzione del reato di tortura nel
nostro ordinamento ottiene un doppio risultato: in primo luogo il testo approvato dalla
Camera viene peggiorato al punto da diventare incompatibile con la Convenzione contro la
tortura delle Nazioni unite che l’Italia ha l’obbligo invece di rispettare. Diminuiscono infatti
le sanzioni e il reato, che rimane ‘comune’ e non ‘proprio di pubblico ufficiale’ come
richiesto dalla Convenzione, diventa ancora più generico", scrive l'Arci in un comunicato.
"Per essere considerata tortura, la violenza o la minaccia deve essere infatti ‘reiterata’,
spariscono le finalità discriminatorie introdotte per definire meglio la fattispecie, così come
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sparisce la locuzione ‘per vincere una resistenza’, che aveva fatto insorgere parte delle
forze dell’ordine", prosegue il comunicato Arci. "In secondo luogo, dovendo il testo
ritornare alla Camera, si allungano ancora i tempi di approvazione di un testo in
discussione dal 2013 e che probabilmente finirà affossato. Una vittoria della parte più
regressiva del parlamento e della polizia, una sconfitta per la democrazia e la civiltà di
questo paese".
http://www.affaritaliani.it/cronache/reato-di-tortura-374696.html
Da Redattore Sociale del 09/07/15
Scuola, Arci: "Cattiva riforma, più
diseguaglianze e meno qualità"
L'associazione commenta la legge approvata oggi: "Distrugge il
principio, sancito anche dalla nostra Costituzione, di una scuola che
dev’essere pubblica, uguale per tutti e tesa verso un sempre più alto
livello qualitativo, riservando invece solo ai ceti più abbienti una scuola
di qualità"
ROMA - "Una cattiva riforma". E' il giudizio dell'Arci sulla riforma approvata oggi. "Da oggi si legge in una nota - la scuola non è uguale per tutti. Da oggi infatti la riforma della scuola
è legge. Una cattiva riforma che il governo italiano ha voluto, decidendo con arroganza di
non ascoltare le voci di studenti, insegnanti, lavoratori, famiglie, associazioni che
chiedevano, con la forza di una immensa partecipazione e con contenuti di qualità,
importanti cambiamenti".
"E’ una cattiva riforma perché, come denunciamo da tempo, distrugge il principio, sancito
anche dalla nostra Costituzione, di una scuola che dev’essere pubblica, uguale per tutti e
tesa verso una sempre più alto livello qualitativo, riservando invece solo ai ceti più abbienti
una scuola di qualità".
"Dunque da oggi avremo una scuola che inasprirà le diseguaglianze e mortificherà la
crescita culturale, sociale e economica del nostro Paese. Una scuola in cui gli spazi di
partecipazione e democrazia saranno ancora più sacrificati, diventando di fatto residuali.
Una scuola che continuerà a sostenere modelli valutativi, come l’Invalsi, che non tengono
conto dell’essenza complessiva dell’apprendimento e della persona".
"L’Arci continuerà perciò ad essere e al fianco di insegnanti, studenti, sindacati nella
mobilitazione quotidiana, con l’obiettivo di contrastare le conseguenze negative di questa
riforma ingiusta e sbagliata", conclude la nota.
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
del 10/07/15, pag. 14
Con Santo della Volpe moriamo un po’ tutti
Vincenzo Vita
Con Santo della Volpe, scomparso prematuramente per un tumore crudele che l’ha
perseguitato per mesi, moriamo un po’ anche noi, che abbiamo avuto l’opportunità e il
privilegio di conoscerlo e di frequentarlo.
Da anni, da quando cominciò a scrivere sul Quotidiano dei lavoratori, prima tappa di un
percorso professionale di eccellenza, vissuto con passione profonda nella Rai: dove, se
davvero il merito e il riconoscimento della bravura fossero stati al posto di comando,
avrebbe certamente dovuto dirigere una testata. Ma Santo, pur scrupoloso e attentissimo
agli obblighi del suo lavoro, non faceva parte del coro mainstream o di qualche lobby di
potere. Anzi.
Entrato alla Rai a Torino nel 1982, si fa notare proprio per le inchieste difficili seguite con
scrupolo e coraggio, attitudine diventata il suo marchio inconfondibile al Tg3, inviato: nei
luoghi di guerra dalla prima guerra del Golfo al Kosovo; dal processo sull’amianto a
Casale Monferrato alle morti sul lavoro; alle epiche cronache antimafia — un territorio
pericoloso e duro affrontato con leggerezza calviniana; al racconto dei movimenti e delle
associazioni della società di cui è stato cronista e insieme militante. Con un rapporto
bellissimo con don Luigi Ciotti, dirigendo — dopo Roberto Morrione — «Libera
informazione». Ed è stato pure tra i fondatori di «Articolo21», nel cui nome solo qualche
settimana fa aveva premiato diversi giornalisti minacciati dalla criminalità organizzata.
A fine gennaio il congresso della Federazione della Stampa lo designò presidente, quasi il
coronamento dell’ impegno costante profuso anche a livello sindacale. In tale veste,
ricoperta con sapienza e umiltà, sono stati numerosi i punti messi nell’agenda delle
priorità, dalla riforma della Rai al dibattito sulla diffamazione a mezzo stampa. Proprio su
quest’ultima proposta di legge (appena varata in terza lettura dalla Camera dei deputati e
ora di nuovo al Senato) una voce resa flebile dalla malattia, e tuttavia fermissima, si era
sentita costantemente. Per suggerire quei miglioramenti che hanno reso un po’ (ancora
non del tutto) più potabile il testo.
Le lotte instancabili per la libertà di informazione, per la legalità e contro ogni bavaglio
hanno accompagnato gli anni della maturità di Santo Della Volpe, premesse per ulteriori
riflessioni sulle novità del mondo della comunicazione, corda cui era sensibilissimo.
Purtroppo, le Parche hanno reciso troppo presto il filo e, in questa sconvolgente
transizione in corso segnata dalle tecniche digitali, rimaniamo orfani.
L’accettazione dell’incarico di presidente della Fnsi, con un corpo già travolto dal male, fu
un atto di generosità che voleva essere proprio la scelta di una missione, quella di dare un
contributo teorico e pratico al governo democratico dei media.
Soprattutto per chi opera in un settore via via impoverito e precarizzato. I colleghi
affezionatissimi, accorsi a vegliare sulle spoglie di un leader amatissimo, raccontano delle
ultime parole di Santo, rivolte alla discussione sulle cose da fare. La morte imminente era
solo un’eventualità, da posporre rispetto all’etica del «che fare».
E sì, ci ha salutato una persona profondamente intrisa di moralità, in grado fino all’ultimo di
mettere il proprio sé a disposizione dell’intelligenza collettiva. Non a caso, il cordoglio è
stato ampio e generale a cominciare dal Presidente della Repubblica.
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E il ricordo, grazie a Walter Verini relatore del disegno di legge sulla diffamazione e
grande amico, è stato commosso anche alla Camera dei deputati.
Insomma, si è conclusa anzitempo una storia proprio bella, da prendere ad esempio. È
stata al suo fianco, letteralmente fino all’ultimo respiro, la compagna della vita, la brillante
e vivace Teresa Marchesi che ci ha raccontato molta parte della cultura e dello spettacolo
dal Tg3.
Oggi, per chi vorrà, si potrà portare l’ultimo saluto dalle 11 alle 20 presso la sede della
Fnsi (a Roma, Corso Vittorio Emanuele, 349), mentre domani alle 11 verranno celebrati da
don Ciotti i funerali nella Basilica di Sant’Agnese, davanti a Santa Costanza, dove Teresa
e Santo si sposarono. Un amore profondo.
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ESTERI
del 10/07/15, pag. 2
La montagna del debito
Crisi dell'Europa. Secondo le indiscrezioni, Atene ha inviato a Bruxelles
un piano lacrime e sangue. Ma chiede un taglio al debito. Tusk e
Lagarde disponibili. Schauble e Merkel contrari. Stiglitz: «Gli Usa
finanzino direttamente la Grecia»
Anna Maria Merlo
PARIGI
Joseph Stiglitz, premio Nobel dell’economia: «Gli Usa si sono mostrati generosi con la
Germania, dopo averla sconfitta. Adesso è tempo per gli Usa di essere generosi con i
nostri amici greci nel loro momento del bisogno, schiacciati per la seconda volta in un
secolo dalla Germania, questa volta con il sostegno della troika». Il drammatico appello di
Stiglitz su Time rivela la gravità della situazione. Il Nobel chiede alla Federal Reserve di
aprire una linea di credito diretta alla Banca Centrale greca, per mostrare ai greci «tutta la
solidarietà e l’umanità che i loro partner europei non sono stati capaci di dimostrare».
A Bruxelles i toni sono ben diversi. Atene ha spedito ieri a Fmi e Commissione intorno alle
21.30 l’ultima proposta dopo l’ultimatum post-referendario. Sabato il piano verrà sottoposto
all’Eurogruppo, seguìto domenica da due vertici straordinari, prima dei capi di stato e di
governo dei 19 paesi della zona euro, poi dei 28 della Ue, con la solita sequenza che
mette in prima fila la risposta «tecnica».
La convocazione del Consiglio a 28 è un brutto segnale: significa che verrà messa sul
tavolo l’ipotesi di «aiuti umanitari» alla Grecia, per l’alimentazione, le medicine, gli
ospedali, che devono essere approvate dalla Ue tutta intera.
Significa, in altri termini, che la prospettiva di un Grexit è sempre più vicina. Lo ha detto
Jean-Claude Juncker: «Abbiamo uno scenario di Grexit preparato nei dettagli».
Juncker ieri e oggi incontra delegazioni dell’opposizione greca, prima Nuova Democrazia,
poi To Potami.
Le proposte greche, stando alle prime indiscrezioni, si piegano sempre più al diktat dei
creditori: un piano di 12 miliardi su 2 anni, più drastico di quello precedente (che era di 8
miliardi), perché deve tener conto della recessione – prevista al 3% — aggravata in questi
giorni dal soffocamento dell’economia a causa del blocco delle liquidità imposto dalla Bce.
Nel paese che più di tutti nella Ue ha già realizzato un aggiustamento colossale (12,5 punti
sul deficit dal 2009), ci sarà un rialzo dell’Iva, come richiesto, dieci punti anche per
l’alimentazione, cioè un aumento del costo della vita del 9%. Inoltre, i pre-pensionamenti
verranno immediatamente bloccati, l’età della pensione alzata a 67 anni e nessuno potrà
andare in pensione prima dei 62 anni, anche se ha 40 anni di contributi. Poi le
liberalizzazioni, che riguardano alcune professioni regolamentate come i notai. E una
manciata di aumenti di tasse sul lusso, sulle società, etc.
Tecnici francesi aiutano Euclide Tsakalotos a redigere il «piano».
Basterà? Non è certo. La Grecia, in cambio di questo nuovo giro di vite, chiede un piano di
aiuti su tre anni (domanda già rivolta al Mes, il Meccanismo di stabilità, per 50 miliardi) e,
soprattutto, la richiesta proibita: una ristrutturazione del debito. Christine Lagarde dell’Fmi,
per la prima volta, ha ammesso che è «necessaria», come dicono da tempo gli economisti
di Washington, raccomandazione che però i negoziatori della stessa istituzione non hanno
mai preso in conto.
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La Germania non ne vuole sapere. Luciferino, Wolfgang Schäuble si è dichiarato
d’accordo a modo suo con l’Fmi: «È vero, la sostenibilità del debito greco non può essere
raggiunta senza riduzione del debito». Peccato, ha aggiunto, che questa riduzione «è
contraria alle regole dell’Unione». Per Schäuble «il margine di manovra per ristrutturare o
riprofilare il debito è molto stretto».
Anche Angela Merkel ha precisato che una riduzione «classica» del debito greco «è
esclusa». Secondo Merkel è già stata fatta nel 2012 rimandando «le scadenze del
rimborso dei prestiti del fondo salva-stati fino al 2020».
Idem da Mario Draghi, sempre più scettico sulla possibilità di un accordo. La Bce scarica
ogni responsabilità e potrebbe lasciar scivolare Atene nel Grexit: tra qualche giorno (dopo
lunedì) il sistema bancario greco non sarà più solvibile, ci sarà un fallimento delle banche,
seguito da un piano di ristrutturazione che significherà mettere le mani sui depositi bancari
dei clienti. Poi arriveranno gli «aiuti umanitari» («aiuteremo i greci, se ne avranno
bisogno» ha detto ieri il premier bulgaro, Borissov).
Ieri, solo il presidente del Consiglio, Donald Tusk, e il ministro delle finanze irlandese,
Michael Noonan, hanno espresso un po’ di ottimismo. Tusk chiede un «progetto concreto
e realista» ad Atene, ma «deve essere seguito, in contropartita, da un progetto altrettanto
realista sul debito greco da parte dei creditori».
del 10/07/15, pag. 3
La Grecia spera e trema
Pronto un Memorandum da oltre 50 miliardi stilato con l’aiuto di tecnici
francesi. Tsipras convoca i deputati del suo partito per stamattina.
Turismo e tasse sembrano tenere. Ma la chiusura delle banche inizia a
martellare le imprese
Pavlos Nerantzis
ATENE
La preoccupazione è tornata di nuovo ad Atene. «Mpros gremos ke piso rema», ovvero
«davanti il precipizio e dietro il torrente», dalla padella alla brace, dicono i greci che
devono scegliere tra un memorandum pesante come i due precedenti, con l’economia
sull’orlo del crollo, e un grexit che sembra ancora più disastroso.
Tensione dietro le quinte anche nel governo. A sentire ministri e alti dirigenti di Syriza,
Tsipras sta lavorando a una serie di proposte sostenibili con l’aiuto di «tecnocrati» francesi
(che in nessun modo vogliono l’uscita del paese dall’eurozona): «l’eventualità di un grexit
è soltanto propaganda», ma c’è il timore che «qualcuno nell’Ue all’ultimo minuto possa
sabotare l’intesa».
Il governo lavora al piano da inviare a Bruxelles ma non è affatto detto che il presunto
accordo sarà votato da tutto il gruppo parlamentare di Syriza, perciò c’è chi dietro le quinte
ipotizza già un nuovo ricorso alle urne nel settembre prossimo. Il ministro dell’Energia
Panagiotis Lafazanis, leader della corrente di sinistra di Syriza, alza i toni: non voteremo
un «terzo memorandum che porterà altra austerità, sofferenze e privazioni al popolo
greco». «Sappiamo che a questo punto tutte le opzioni sono complesse ma la peggiore, la
più umiliante e insopportabile, sarebbe un accordo che indicherebbe la resa, la razzia e la
sottomissione del paese e della sua gente. Questa è una scelta che non faremo mai».
Secondo Lafazanis, sibillino, la Grecia «non ha nessuna pistola alla tempia, esistono
opzioni alternative» a un nuovo accordo con la troika.
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Secondo alcune voci, il parlamento greco potrebbe votare il piano già oggi, prima
dell’eurogruppo di sabato. I parlamentari avrebbero già ricevuto una richiesta di
«reperibilità».
Mentre Juncker ha di nuovo ricevuto a Bruxelles i leader di Nea Demokratia (ieri) e To
Potami (oggi).
Appena quattro giorni dopo la vittoria del «no» e le feste per la democrazia, le piazze di
Atene tornano a riempirsi. Ieri sera il fronte del sì, oggi quello del no, a piazza Syntagma.
Ma il clima è cambiato radicalmente. Le dichiarazioni di Juncker e Merkel sull’accordo da
siglare entro sabato hanno fatto scattare l’allarme. Nelle grandi città il contante manca
ancora. Le banche rimarranno chiuse almeno fino lunedì prossimo e alcune sarebbero a
un passo dal fallimento (sono chiuse dal 27 giugno). Sui media internazionali si ipotizzano
già fusioni che porterebbero gli istituti ellenici da 4 a 2. Non sono pochi quelli che
nonostante le smentite parlano di una valuta parallela per far fronte alla mancanza di
liquidità.
Oltre alle scadenze sul debito (1,6 miliardi di euro al Fmi e altri 7 miliardi alla Bce di bond
in scadenza il 20 luglio), il governo greco deve pagare 1,1 miliardi per i dipendenti pubblici
(550 milioni devono essere versati la settimana prossima) e altri 1,1 miliardi per i
pensionati alla fine del luglio. Tsipras ha sempre detto che in caso di emergenza avrebbe
dato priorità alle spese interne, ma bisogna vedere fino che punto le casse dello stato
avranno ancora fondi sufficienti.
Non mancano però le note positive. La disoccupazione ad aprile è scesa di poco, dal
25,8% di marzo al 25,6% di aprile (ad aprile 2014 era del 27%). Secondo Elstat ad aprile
in Grecia c’erano 3,5 milioni di occupati, 1,2 milioni di disoccupati e 3,3 milioni di «inattivi».
Gli occupati sarebbero aumentati di 16.834 unità (0,5%) rispetto a marzo 2015 e di 49.283
(1,4%) rispetto ad aprile 2104.
Altra nota positiva è il fatto che il ministero dell’economia avrebbe incassato quasi 750
milioni di euro per tasse arretrate. Anche il turismo, a giudicare dalle prenotazioni on line di
Prontohotel, non starebbe risentendo della crisi, con un aumento dei turisti europei nelle
isole. Mentre Western Union ha ripreso a garantire i bonifici dall’estero diretti in Grecia.
I canali televisivi privati intanto fanno di tutto per alimentare un clima di paura. Le immagini
con le lunghe file di fronte ai bancomat accompagnate da dichiarazioni selezionate di
vecchietti che disapprovano il governo sono continue. Certo, ci sono pensionati che
escono a mani vuote dalle banche ma la strumentalizzazione della comprensibile
stanchezza di persone anziane e di un fatto che si manifesta soltanto in alcune filiali della
capitale tra le migliaia che ci sono in tutto il paese (dove di fronte ai bancomat ci sono di
solito poche persone) è evidente.
Il problema più grande sta altrove, ovvero nel commercio. A causa del controllo dei capitali
e della chiusura delle banche imposta di fatto dalla Bce, il mercato è quasi paralizzato,
generando una sorta di «fronte interno» permanente contro il governo Syriza.
Chi soffre più di tutti sono le aziende di importazione, le piccole e medie imprese, i
bottegai, l’edilizia, i trasporti, gli ospedali. Licenziamenti e sospensioni temporanee del
rapporto di lavoro sono adesso all’ordine del giorno. Inoltre cominciano a mancare le
materie prime d’importazione. Secondo Zacharias Athoussakis, presidente della Sate,
l’agenzia che rappresenta le medie e grandi imprese di ingegneria civile, «si stima che
circa 40.000 persone siano andate a casa negli ultimi giorni da quando molti cantieri
hanno chiuso i battenti».
Altrettanto gravi sono i problemi nel settore dei trasporti A sentire il presidente dei camion
di trasporto, Petros Skoulikidis, che si è incontrato con il ministro dell’economia, Yorgos
Stathakis, «molti autisti di tir (si calcola almeno 100, ndr) sono rimasti bloccati all’estero in
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quanto il prelievo dalle loro carte di credito è limitato a 60 euro e non hanno contanti per
pagare il viaggio».
Forti disagi da ieri anche per i biglietti aerei e marittimi, molte agenzie e imprese di viaggio
hanno iniziato a vendere solo di fronte a contanti.
del 10/07/15, pag. 7
La Merkel blinda i “suoi” Balcani
Rischio di contagio greco e rivalità coi russi: missione per tenere
agganciata l’area all’Ovest
Beniamino Pagliaro
Mentre mercoledì Alexis Tsipras cercava l’attenzione del Parlamento europeo, lei era già
in volo per Tirana. La donna che più di tutti potrà decidere il futuro della Grecia e, per un
po’, il futuro dell’Unione Europea, si imbarcava per una missione di due giorni dove
l’Europa non è ancora arrivata: Albania, Serbia, e Bosnia Erzegovina.
Investimenti cinesi
I Balcani sognano l’Europa per l’idea del benessere economico, anche se sono impauriti
dalla prolungata recessione, dai cattivi pensieri sull’euro fomentati dai nazionalismi di
turno, e rimangono invaghiti dalle grandi promesse della grande Russia di Putin. Tirana,
Belgrado, Sarajevo e le altre capitali sono di fronte a un paradosso: vivono con le difficoltà
quotidiane di economie in trasformazione, ma sono piene di pretendenti. L’Europa, la
Russia, e ovviamente la Cina. La nuova ferrovia veloce Belgrado-Budapest, investimento
da 1,5 miliardi di euro, sarà pagata da Pechino. Angela Merkel è una frequentatrice
assidua dell’area. Nel 2014 ha convocato in Germania un forum su tutta la regione, è stata
l’ospite d’onore al summit dell’ex Jugoslavia in Croazia e ricevuto i premier locali a Berlino.
L’attenzione della cancelliera sui Balcani è metodica: a volte impensierita dalla possibile
influenza russa, per lo più interessata a garantire un’egemonia tedesca nei rapporti
commerciali con gli unici Paesi del continente che non cresceranno soltanto di uno zero
virgola. La Germania è quasi sempre il primo partner commerciale delle economie
balcaniche, seguita dall’Italia. È vero, i ponti che apre la diplomazia economica tedesca
sono anche garanzie su un futuro europeo. Merkel lo ha ripetuto mercoledì a Tirana e ieri
a Sarajevo: non ci saranno «rinvii artificiali» per le adesioni all’Ue. «È nei nostri interessi
realizzare la promessa che i Paesi dei Balcani occidentali abbiano una prospettiva
europea», ha detto la cancelliera. Nell’attesa, però, è la Germania a firmare protocolli e
intese commerciali, sono le imprese tedesche a finanziare lo sviluppo.
Allargamento frenato
I viaggi di Merkel hanno a che fare con l’idea futura di Europa, un’Unione oggi bloccata a
discutere di debiti e Grecia. Non serve uno sguardo periferico per capire che i tormenti
comunitari seguiti alla crisi finanziaria hanno frenato il processo di allargamento
dell’Unione. Alla vigilia del delicato anniversario di Srebrenica, la Serbia potrebbe
sembrare pronta a compiere i passi necessari a rassicurare Bruxelles, completare il
percorso e diventare un Paese membro entro il 2020. Invece il negoziato è ufficiosamente
fermo da mesi sul nodo del Kosovo. Così, colei che tutto decide in Europa vola nei Balcani
con la bandiera tedesca e si porta avanti con il lavoro. Il pensiero della crisi greca è
ingombrante: un crollo di Atene farebbe male anche alla stabilità dei Balcani.
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del 10/07/15, pag. 1/15
Le ragioni della passione
Étienne Balibar
Perché i Francesi seguono le tappe della «crisi greca» con una tale passione, come se la
propria sorte ne dipendesse? Perché è proprio così, ne va del loro destino. Ognuno di noi
è coinvolto per ragioni personali, professionali ed intellettuali. Ma la questione di fondo è
quella politica: è l’attualità della politica, la sua resistenza alla governance, la sua capacità
di riconquistare il posto che deve occupare in una società di persone libere. Ecco cinque
ipotesi, che credo siano condivisibili, ma di cui sono l’unico responsabile. La prima è che i
cittadini francesi (e gli altri) hanno seguito con passione la lotta intelligente, ostinata,
coraggiosa di un governo e dei suoi dirigenti decisi a rispettare il mandato di cui sono stati
investiti. Con il passare dei giorni, abbiamo capito che l’obiettivo delle «istituzioni» e della
«grande coalizione» che governa in questo momento l’Europa non era né di scongiurare la
catastrofe verso cui la Grecia è stata spinta dai vari «piani di aiuti», né di aiutarla a
riformare le sue strutture «corrotte» ma di costringerla ad una riconciliazione umiliante,
perché il suo esempio non sia contagioso per gli altri. Durante il referendum greco, i
cittadini francesi hanno anche capito che le informazioni diffuse da Bruxelles,
dall’Eurogruppo etc. e riprese per la maggior parte dalla stampa nazionale erano di parte.
C’erano infatti delle alternative! La seconda ipotesi è che i cittadini hanno capito che il
problema è quello del riattivarsi della democrazia, da cui dipende la legittimità dei poteri
che ci rappresentano in ogni paese e in Europa. I Greci sono d’esempio e pongono un
problema al quale, ovviamente, non possono fornire una soluzione da soli. La tesi ripetuta
da alcune settimane: «La volontà popolare di una nazione non può prevalere sui trattati» è
diventato «La Grecia non può prevalere contro la volontà delle altre 18 nazioni». È vero.
Bisognerebbe però consultarle nelle forme attive che sono state messe in atto da Tsipras
e dal suo governo. Il livello di esigenza democratica si sta innalzando in Europa. La terza
ipotesi è che i Greci incarnano una vera posizione di sinistra nell’opposizione
all’orientamento dominante della costruzione europea. Hanno scompaginato lo stereotipo
del “populismo” (o degli “estremismi”, che sono confusi in un’unica demagogia ed in
un’unica ostilità di principio alla costruzione europea). Tsipras è pro-Europa e contro la
politica della finanza. Non abbiamo una posizione analoga in Francia, dove la
contestazione passa piuttosto attraverso il Front national. Questo ci interessa e ci
interpella. Da qui la terza motivazione: quale politica di sinistra oggi? Quali discorsi, quali
pratiche militanti, quali obiettivi per una sinistra degna di questo nome nel ventunesimo
secolo? In Francia stiamo vivendo un momento di depressione, tra una sinistra alleata del
liberalismo dominante, dimentica di tutte le sue promesse, e una “sinistra della sinistra”
divisa, spesso chiacchierona o esitante. Noi guardiamo verso Syriza, o verso Podemos,
per cercare ispirazione, ma sarebbe meglio parlare di emulazione, perché non c’è un
modello che si possa importare in modo identico. Quarta ragione: la resistenza di Syriza
ai diktat assassini della Troika, la lotta che adesso dovrà affrontare (perché il referendum
non risolve niente, non fa che spostare la questione e rendere più acute le sfide), il che
dimostra che l’economia comporta delle scelte politiche. È essa stessa politica. La grande
maggioranza degli economisti (compreso il Fondo monetario internazionale) sa che si
deve ristrutturare il debito ed uscire dall’austerità. Ma la vera questione è lo sviluppo
armonioso e solidale delle società del continente. Syriza pone questo problema con forza.
In una Francia che scivola verso il declino e l’ingiustizia, questo problema si pone con
forza. Infine, e non è il punto minore, Tsipras, con il suo governo ed il suo popolo, hanno
detto chiaramente che il loro obiettivo non è la fine dell’Europa (verso la quale ci spingono
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al contrario il dogmatismo e l’ostinazione dei nostri «dirigenti» attuali), ma la sua
rifondazione su basi nuove. Il «momento costituente» di cui hanno parlato alcuni di noi
dall’inizio della crisi è qui, davanti a noi. Tuttavia ha la possibilità di concretizzarsi solo se
l’opinione pubblica, di tutto il continente, cambia e cambia in fretta, per evitare per prima
cosa il Grexit (l’espulsione di una nazione al di fuori della comunità) e per porre quindi la
domanda: quale Europa? Per chi? Con quali mezzi? Come i Greci nella loro larga
maggioranza, noi siamo a favore della costruzione europea, ma la vogliamo
completamente diversa. Noi sappiamo che questa è un’opportunità da non mancare.
Grazie ad Alexis Tsipras di offrircela. Ma non è sufficiente appassionarsi, sperare,
rilanciare l’idea di un’altra Europa. Bisogna agire, è urgente. Da quando si è tenuto il
referendum greco, la nuova strategia delle «istituzioni» si è messa in moto. La Banca
centrale europea, dicendosi costretta dalla situazione del budget greco, a ridotto
ulteriormente le autorizzazioni di liquidità (mentre non c’è nessun vincolo di questo tipo
quando si tratta di rimpinguare delle banche private la cui dimensione finanziaria è
comparabile o maggiore). L’obiettivo è lo stesso di prima del referendum: creare il panico
tra i cittadini e tra le imprese, perché si «rivoltino» contro il loro governo. Si tratta di una
tecnica da colpo di stato. Dal canto loro, i governi e la commissione europea hanno
reiterato il loro ultimatum e hanno lasciato capire che stanno preparando la «Grexit»: i
Tedeschi, gli Olandesi, i Polacchi, con entusiasmo; i Francesi e, in una certa misura, gli
Italiani, «malvolentieri». In realtà, si tratta di ottenere dal governo Tsipras che richieda
esso stesso quella che si definisce un’ «uscita dolce» o «negoziata» dall’euro (perché non
c’è nessuna procedura di espulsione). Si tratta di un ricatto e di un tradimento, di cui
l’Europa intera pagherà a lungo il prezzo, se riuscirà a riprendersi. Ribadiamolo con forza:
non vi è «Grexit» che non conduca, di fatto, all’esclusione della Grecia dall’Unione
europea, in seguito alla quale si profilerà presto la disintegrazione di quest’ultima.
Altrimenti ci sarà la colonizzazione, il protettorato del «Nord» sul «Sud». Noi siamo tutti
cittadini d’Europa, tutti responsabili quando i nostri dirigenti non lo sono, e dobbiamo
manifestare con tutte le nostre forze e con tutti i mezzi contro quest’infamia accompagnata
da una regressione storica di settant’anni.
* Professore emerito di filosofia all’Université Paris Ouest e alla Kingston University di
Londra
del 10/07/15, pag. 18
L’annuncio dell’Fbi “L’Is voleva colpire la
festa del 4 luglio”
Decine di arresti, sventati attacchi di “lupi solitari” Londra ai britannici:
troppi rischi, lasciate la Tunisia
ANNA LOMBARDI
Altro che fuochi d’artificio: l’appello dello Stato Islamico ai lupi solitari ad “attaccare
l’Occidente durante il sacro mese del Ramadan” rischiava di far saltare in aria anche la
festa più amata dagli americani, quell’Independence day, il giorno dell’Indipendenz appena
celebrato lo scorso 4 luglio. Lo ha rivelato ieri il direttore dell’Fbi James Comey a un
gruppo dei giornalisti affermando che nelle ultime settimane almeno dieci aspiranti
terroristi sono stati arrestati con l’accusa di aver progettato attentati in vista delle festività.
E mentre proprio ieri anche il nuovo leader di al-Qaeda in Yemen al Qassim al-Raymi
invitava i suoi seguaci “a colpire gli Stati Uniti” non c’è pace nemmeno dall’altra parte del
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mondo: con il ministero degli esteri britannico Philip Hammond che ha invitato i suoi
concittadini a lasciare la Tunisia. Dopo l’attentato della spiaggia di Sousse dello scorso 26
giugno - dove 30 delle 38 vittime erano inglesi - il pericolo non è affatto diminuito. Anzi,
secondo il capo della diplomazia le possibilità di nuovi attentati «sono altamente
probabili». E questo nonostante non ci siano «specifiche minacce imminenti ». D’altronde
non c’erano indicazioni specifiche nemmeno in America, dove pure, lo scorso 29 giugno, il
Dipartimento di Sicurezza Nazionale ha diramato un bollettino per allertare le autorità
locali del rischio di possibili attentati compiuti da lupi solitari. Un allarme all’indomani della
strage di Sousse lanciato proprio per evitare simili carneficine anche negli Usa. Secodo le
autorità, infatti, da quando lo scorso agosto Douglas McArthur McCain è stato il primo
statunitense a morire nelle fila dello’Is, il numero degli americani recluati dai johadisti è
salito vertiginosamente. «Si tratta di uomini e donne che vivono in tutti e 50 stati,
insospettabili e dunque imprevedibili, istigati a colpire obiettivi anche modesti» ha detto
Comey ai reporter. Insospettabili come la giovane insegnante di catechismo reclutata
online e convertitasi con una dichiarazione di fede su Twitter, la cui storia è stata
raccontata dal New York Times e Repubblica pochi giorni fa. Lupi solitari che i reclutatori
dello Stato Islamico pescano nelle periferie di grandi città come le due ragazze di Brooklyn
che volevano far saltare in aria una’autodella polizia con una pentola a pressione ispirata a
quella dell’attentato alla Maratona di Boston - o in remote località rurali, affinchè siano più
difficili da identificare.
Chi siano gli arrestati del 4 luglio e cosa stessero tramando il direttore dell’Fbi non ha
voluto dirlo. Limitandosi a scagliarsi contro le grandi aziende tecnologiche che stanno
rafforzando i mezzi per garantire la privacy ai loro utenti attraverso sistemidi crittografia
sempre più raffinati: «State mettendo in pericolo la sicurezza nazionale. A causa delle
nuove tecnolgie abbiamo già perso traccia di decine di potenziali terroristi». Proprio per
questo, sostiene Nbc news, gli arresti sono stati tanti: secondo nuove linee guida l’Fbi non
si limita più a monitorare i sospetti ma procede ad arresti preventivi lì dove i segnali di
radicalizzazione si fanno estremi e i contatti con i jihadisti troppo stretti. I fermi
sonoavvenuti a New Orleans, in Ohio e Carolina del Nord. La periferia di un paese che si
scopre sempre più minacciato dall’interno: dai suoi stessi cittadini.
del 10/07/15, pag. 18
Kerry avverte l’Iran: “Non resteremo al tavolo
a lungo”
IL VERTICE.PROSEGUONO LE TRATTATIVE MA L’ACCORDO RISCHIA
DI SLITTARE ANCORA DI DIVERSI GIORNI.PUTIN INCONTRA IL
PRESIDENTE ROUHANI
DAL NOSTRO INVIATO
DANIELE MASTROGIACOMO
VIENNA . L’attesa è febbrile, sfibrante. A volte nevrotica. Si chiude, si rinvia, mancano
poche ore, siamo ancora lontani. Anzi, mai stati così vicini. No, slitta a lunedì prossimo.
Forse mai. L’orologio diplomatico è fermo. Ma le lancette del tempo scorrono, bruciando
date e scadenze. L’accordo sul nucleare iraniano è appeso ad un filo che si può rompere o
rafforzare. Con gli umori in balia dei piccoli successi e delle improvvise delusioni. Fino ai
toni che si alzano, le battute velenose, le risposte piccate. E’ successo martedì scorso tra
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il ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif e l’Alto rappresentante della politica estera
europea, Federica Mogherini.
Nell’aria il rischio costante di un fallimento. «Lavoreremo fino a quando sarà necessario »,
avverte in serata un Kerry nervoso e stanco, «ma non siamo disposti a restare al tavolo
ancora a lungo. Restano irrisolti gli aspetti più duri». Le ispezioni nei siti militari,
soprattutto. Chiarire se ci sono stati tentativi di creare una bomba nucleare. I Pasdaran
sono contrari. Gli Usa lo pretendono come gesto di fiducia e di buona fede. Il nodo resta.
Dopo 22 mesi di incontri, centinaia di viaggi, giorni infiniti e notti insonni, per chiudere 12
anni di gelo. La diplomazia è anche arte della seduzione. Lo si vede soprattutto in queste
ultime ore, qui a Vienna, dove si cerca di scrivere il più difficile testo del più importante
accordo di questo secolo. Gli aspetti tecnici della trattativa sul nucleare iraniano sono stati
quasi tutti risolti. Le commissioni hanno elaborato cinque allegati che faranno parte del
documento conclusivo composto tra le 80 e le 100 pagine. Riduzione dell’arricchimento
dell’uranio, smantellamento delle centrali, numero di centrifughe, trasferimento del
combustibile già arricchito, sviluppo e collaborazione scientifica. Zarif e Mogherini
sottoscriveranno un documento di 5 pagine che sarà la dichiarazione finale. Un secondo
documento, più corposo, anche questo sottoscritto da entrambi, riassumerà i dettagli
dell’accordo. Tutto è pronto per la sigla finale.
Manca la parte politica. La più difficile. Dove si toglie e si prende, secondo un equilibrio
che deve tenere conto di interessi diversi. Sarà questa a sancire il fallimento o il successo
del negoziato. Ognuno deve portare a casa un risultato. Perché l’accordo deve passare al
vaglio dei parlamenti. Perché ci sono i fronti da sempre contrari. Perché premono le lobby
per rilanciare il business con un paese ricco di materie prime ed energetiche. Perché c’è la
guerra ai confini mediorientali, perché ci sono i tagliagole dell’Is che dilagano e l’Iran che si
offre di fare il lavoro sporco sul campo. Perché c’è la Russia che vuole rientrare sui
mercati. Perché il mondo in questo momento ha bisogno di una buona notizia.
Il filo conduttore di questa ultima, tesissima trattativa, sono i tempi: quando e come
revocare le sanzioni che dal 2006 hanno isolato l’Iran dal mondo. Teheran vuole toglierle
subito. Gli Usa, assieme ai francesi, inglesi e tedeschi, sono per una sospensione
graduale. E sul commercio bellico non cedono. Putin ostenta “ottimismo” con il presidente
iraniano Rouhani; Lavrov, ministro degli Esteri russo, ricorda che l’embargo sulle armi è
roba vecchia e si augura che «venga revocato il prima possibile».
Fallire, a questo punto, sarebbe un vero disastro per tutti. L’Iran lo sa e gioca su questo
incubo. «Nessuna data è decisiva», obiettano. Meglio trattare ancora e ottenere un buon
risultato. La Mogherini e il Gruppo dei 5+1 vedono bruciata anche la scadenza del 9 luglio.
Chiude il Congresso Usa: avrà non più 30 ma 60 giorni per approvare l’accordo.
del 10/07/15, pag. 19
LA GIORNATA
“Povertà,il sistema non regge più”
Fa discutere il dono di Morales Un crocifisso su falce e martello
DAL NOSTRO INVIATO
MARCO ANSALDO
LA PAZ . «Ecco, Santitad, i miei regali». Il presidente boliviano Evo Morales infila attorno
al collo del Pontefice una collana. È un medaglione con impresso a sbalzo il simbolo della
falce e martello. Jorge Bergoglio se ne accorge solo quando l’ha indosso. Non sa che
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faccia fare. Abbozza un sorriso stirato. «E poi c’è questo». Da un tavolino alla sua destra,
il leader delle nuova Bolivia afferra un crocifisso in bronzo, steso sulla testa di un martello,
le gambe che appoggiano su una falce. «È un’onorificenza che ricorda il sacrificio di padre
Luis Espinal», aggiunge. È il gesuita sul cui luogo del martirio Francesco si è appena
fermato, nella discesa che dai 4000 metri dell’aeroporto di El Alto piomba fino a La Paz,
per pregare per il sacerdote difensore dei minatori torturato qui a morte nel 1980 dal
regime militare.
Il Papa è incredulo. «Questo non lo sapevo» fa in tempo a mormorare. Non puo’ proprio
dire nulla. Ma l’uno-due messo a segno dall’astutissimo Morales è un colpo immortalato
dai flash di una foto che fa il giro del mondo: il Papa che indossa il simbolo del comunismo
e prende nelle sue mani falce, martello e Cristo. Qui al Palazzo presidenziale di La Paz,
con la folla nella Cattedrale che rumoreggia e addirittura fischia quando il leader allunga al
Pontefice pure un suo libro, basta vedere la faccia del Segretario di Stato vaticano Pietro
Parolin per capire gli umori dell’entourage papale, preso del tutto alla sprovvista dalla
mossa del presidente. Titola difatti El Deber , quotidiano di Santa Cruz dove Francesco
subito dopo va a dire messa accolto da 2 milioni di boliviani: «Un regalo che ha sorpreso il
Paese, contro tutti i pronostici». Nemmeno il nunzio in Bo-livia, come i diplomatici vaticani
appurano, conosceva il regalo a sorpresa di Morales. Per non contare del suo discorso dal
sapore internazionalista, e del pugno chiuso alzato a fianco del Papa mentre suonano gli
inni.
Maèai cartoneros , ai “frugatori tra le cose”, e ai movimenti popolari che Francesco fa un
lungo, articolato discorso, quando in Italia è ormai notte. Questo: «Iniziamo riconoscendo
che abbiamo bisogno di un cambiamento ». Parla di «problemi comuni» non solo a tutti i
latino-americani, il Papa, ma «a tutta l’umanità», problemi che hanno una «matrice globale
e che oggi nessuno Stato e`in grado di risolvere da solo».
Parla poi di «contadini senza terra, molte famiglie senza casa, lavoratori senza diritti,
persone ferite nella loro dignità», ricorda le guerre insensate e la violenza fratricida che
aumenta nei nostri quartieri». Infine l’affondo: «E allora diciamolo senza timore: abbiamo
bisogno e vogliamo un cambiamento. Non si tratta di problemi isolati. Se è`cosi, insisto,
diciamolo senza timore: noi vogliamo un cambiamento, un vero cambiamento, un
cambiamento delle strutture. Questo sistema non regge più, non lo sopportano i contadini,
i lavoratori, le comunità, i villaggi ... E non lo sopporta piu`la Terra, la sorella Madre Terra,
come diceva san Francesco. Vogliamo un cambiamento nella nostra vita, nei nostri
quartieri, nel salario minimo, nella nostra realta` piu`vicina; e pure un cambiamento che
tocchi tutto il mondo. Mettere l’economia al servizio dei popoli, un’economia veramente
comunitaria, di ispirazione cristiana. L’equa distribuzione è un dovere morale. Per i
cristiani, l’impegno e`ancora piu`forte: è`un comandamento. Si tratta di restituire ai poveri
e ai popoli cio`che appartiene a loro».
del 10/07/15, pag. 22
Il caso. La società di spionaggio dopo l’attacco informatico subito:
“Situazione fuori controllo”. A rischio centinaia di inchieste. E Wikileaks
pubblica un milione di mail del gruppo
Hacking Team è allarme mondiale “I segreti
dei governi in mani criminali”
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FABIO CHIUSI
FABIO TONACCI
ROMA. Dal calderone violato dell’Hacking Team sta uscendo qualcosa che potrebbe
mettere a rischio centinaia di indagini in corso. «Abbiamo perso la capacità di controllare
chi utilizza la nostra tecnologia. Terroristi, estorsori e altri possono implementarla a volontà
», ammette l’azienda milanese. Quello che non dice, però, è che il suo software spia
Galileo usato in Italia anche da Carabinieri, Polizia postale e Finanza è diventato - ora che
gli autori dell’attacco informatico del 6 luglio ne hanno diffuso online i codici sorgente individuabile dai produttori di antivirus. Nell’arco temporale di qualche giorno invieranno ai
loro utenti gli aggiornamenti per debellare Galileo. Con un corollario di facile intuizione: chi
è sottoposto a intercettazione telematica da parte della magistratura, lo verrà a sapere.
È lo scenario ipotizzato da alcuni esperti di sicurezza informatica e suggerito dalla logica,
visto che Galileo è né più né meno che un virus, un trojan inoculato nei computer e negli
smartphone attraverso vulnerabilità di sistema. «Non passeranno più di 48 ore prima che
gli antivirus inizieranno a rilevarlo- spiega Matteo Flora, amministratore di The Fool e
esperto di cybersecurity - tra qualche giorno sarà possibile pure individuare la fonte dello
spionaggio». Cioè i clienti di Hacking Team.
Il governo italiano sta prendendo estremamente sul serio la faccenda. Il Garante della
Privacy ieri a Milano ha fatto un’ispezione nella sede di via Moscova della Ht srl, assieme
agli investigatori della Postale delegati a indagare sull’intrusione informatica dal
procuratore aggiunto di Milano Maurizio Romanelli. «Nessuno può sentirsi più al sicuro»,
dice il comandante dei Carabinieri Tullio del Sette. «L’Aise, il servizio di spionaggio estero,
utilizzava Galileo, ma non sembra che ci siano state intrusioni nelle nostre banche dati»,
dichiara Giampiero Massolo, il direttore della nostra intelligence, nell’audizione davanti al
Copasir.
La Ht Srl, che produce Galileo e altri software di sorveglianza cibernetica, è detenuta al
32,85 % dall’amministratore delegato David Vincenzetti. Nel pacchetto azionario figurano
la società di fondi mobiliari Finlombarda Gestioni (26,03 %), il fondo di investimento
Innogest (26,03 %) e Vittorio Levi (4,09%).
Dalla mole di file e documenti hackerati, circa 400 Gigabyte, continuano a venir fuori
contratti, fatture, mail che - se autentici - dimostrano inequivocabilmente le consolidate
relazioni con regimi antidemocratici e dubbie agenzie governative. Relazioni fino a quattro
giorni fa sempre negate dall’azienda e ora invece rilanciate da decine di blogger che
stanno consultando il materiale scaricato dal web.
Ancora a gennaio 2014, secondo un paio di fatture pubblicate in Rete, Ht srl manteneva
rapporti con il Sudan, cui offriva il servizio di manutenzione del software. Nel maggio
scorso due rappresentanti sono stati inviati in Bangladesh per mostrare le potenzialità del
prodotto al “Rapid Action Battalion”, agenzia paramilitare definita da Human Rights Watch
“uno squadrone della morte”. Ci sono tracce anche di contatti con due ufficiali
dell’intelligence bielorussa, con apparati della Russia di Putin, con il ministero della Difesa
del Barhain, con la Dea statunitense (Galileo sarebbe stato usato per compiere operazioni
di sorveglianza, anche di massa, attraverso l’ambasciata di Bogotà).
Tutta la corrispondenza interna dei dipendenti di Ht negli ultimi anni è stata copiata e
diffusa. Wikileaks sul suo sito ha pubblicato ieri, in formato navigabile, più di 1 milione di
email. Ce ne sono alcune del fondatore, Vincenzetti, che definisce «idioti» e «bravi a
manipolare le cose e a demonizzare compagni» coloro che negli anni ne hanno criticato le
politiche e le strategie commerciali. Tra questi, ad esempio, gli attivisti per i diritti umani
Human Rights Watch, Privacy International, gli hacktivisti di Anonymous e i ricercatori del
Citizen Lab dell’Università di Toronto. «Lo scorso anno il governo italiano aveva bloccato
le esportazioni dell’Hacking Team - osserva Andrea Menapace, direttore della Cild,
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Coalizione italiana libertà e diritti civili - esportazioni poi riprese: come mai? Inoltre nel
2007 hanno ricevuto 1,5 milioni di euro da due fondi di venture capital, uno dei quali
interamente partecipato dalla regione Lombardia, una notizia riportata da giornali italiani:
qual è la posizione del governo regionale? ».
Tra il materiale diffuso dagli hacker che hanno bucato i server aziendali ci sono anche due
documenti - due prezzari scoperti dalla rivista Forbes - che paiono dimostrare l’esistenza
di un “Custom App Project”: app per la sorveglianza mobile da utilizzare dopo 3-6 mesi di
funzionamento di Galileo. «Chiunque navighi negli app store di Apple o di Google
dovrebbe fare attenzione a cosa scarica», avverte Forbes.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 10/07/15, pag. 14
“Roma devastata dalla corruzione Marino
sottovalutò il problema”
La relazione Gabrielli: “No allo scioglimento del Comune, ma la
discontinuità con Alemanno è stata tardiva”. Si dimette il segretario del
Campidoglio
CARLO BONINI
ROMA . Come in certe sentenze di assoluzione per insufficienza di prove, che finiscono
con l’essere peggiori di una condanna, la Relazione Gabrielli al ministro dell’Interno Alfano
che esclude l’ipotesi di scioglimento del Consiglio comunale di Roma consegna
all’opinione pubblica un sindaco e una Giunta se possibile ancora più fragili.
Naufraghi scampati a una tempesta e a un abisso di cui — se non fosse stato per il lavoro
della magistratura — non avevano e non avrebbero forse mai avuto reale percezione.
Nelle 103 pagine del documento, di fronte all’oggettivo e «devastante » spettacolo di una
«amministrazione locale devastata», Ignazio Marino appare infatti ora “inconsapevole”, ora
oggettivamente “inerme”.
Certamente volitivo e moralmente immacolato, ma sicuramente sempre in ritardo nel
tamponare gli squarci che, tra il dicembre 2014 e il giugno scorso, vengono aperti
dall’inchiesta Mafia Capitale. Un Forrest Gump che, aiutato dalla fortuna, dalla dirittura
morale e se si vuole dalla sua assoluta estraneità a Roma e al suo sistema malato di
relazioni, non se ne lascia travolgere.
Non a caso, a salvarlo dallo scioglimento, come si legge nella relazione, è soltanto
l’interpretazione e l’applicazione che dell’articolo 143 del Testo Unico di legge sugli Enti
Locali decide di dare il prefetto Franco Gabrielli in disaccordo con le conclusioni della
commissione prefettizia di accesso agli atti insediata dal precedente prefetto Giuseppe
Pecoraro.
Secondo quella norma è necessario, per poter parlare di inquinamento mafioso, che gli
«elementi su collegamenti diretti o indiretti degli amministratori locali con la criminalità
organizzata siano concreti, univoci e rilevanti». Ebbene, «non appare irragionevole
ritenere — scrive il prefetto nelle conclusioni — che gli elementi emersi di Roma Capitale,
riferiti evidentemente alla sua gestione sotto la Giunta Marino, pur presentando i caratteri
di rilevanza e concretezza, non riuniscano l’indispensabile tratto della univocità che
consente di escludere in toto letture anfibologiche delle situazioni riscontrate».
Anfibologico : l’aggettivo che salva Sindaco, Giunta e consiliatura, sinonimo di “ambiguo”,
“equivoco”, “passibile di doppia interpretazione” finisce per essere un epitaffio che
fotografa una stagione politica. E, con lei, numeri e atti della Giunta Marino almeno nel suo
primo anno e mezzo di vita, fino cioè al dicembre 2014, quando Roma e il Paese scoprono
la coppia Buzzi-Carminati e al capezzale del Campidoglio viene chiamato in gran fretta
come assessore alla legalità il magistrato antimafia Alfonso Sabella.
La Commissione prefettizia, infatti, per provare a misurare la qualità della «discontinuità»
politica e amministrativa tra la Giunta Alemanno (che di Buzzi e Carminati è poco più che
una depandance ) e quella della “rinascita” di Marino, lavora su una statistica: «Tra il primo
gennaio 2011 e il 13 giugno 2013 (gli ultimi due anni della Giunta Alemanno) le procedure
negoziate( affidamenti di appalti senza gara)rappresentano il 36,28 per cento del totale
degli affidamenti del Comune, per un valore di 5 miliardi e 108 milioni.
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Tra il 13 giugno 2013 e il 31 dicembre 2014, le procedure negoziate della Giunta Marino
sono pari al 72 per cento del valore complessivo degli affidamenti, per un valore di 1
miliardo e 73 milioni». Di fatto, per almeno un anno e mezzo, la Giunta Marino non fa gare.
Schiacciata dalla coda della gestione Alemanno procede per “somma urgenza” rinnovando
affidamenti che fanno grassa la “mucca” di Buzzi e Carminati.
Dunque? Dunque, osserva la Commissione, «il condizionamento mafioso si è realizzato
secondo schemi e copioni non intaccati dal cambio di amministrazione » e «si ritengono
sussistenti i presupposti per l’applicazione di tutte le misure contenute nell’articolo 143: lo
scioglimento dell’organo consiliare di Roma capitale per infiltrazioni mafiose e
l’applicazione di misure di rigore di cui al quinto comma della medesima disposizione nei
confronti di un’ampia serie di soggetti della componente burocratica dell’Ente».
Gabrielli, al contrario, intravede la “discontinuità” politica e amministrativa che la
Commissione nega. E tuttavia ne dà un quadro obiettivo che non consente a Marino di
considerare queste 103 pagine come un salvacondotto. «Va evidenziato — scrive infatti —
come la Giunta Marino abbia dato alcuni precisi e non trascurabili segnali di discontinuità.
Ma va anche evidenziato per dovere di obiettività che, almeno all’inizio della gestione, si
tratti di scelte non dettate da una precisa e consapevole volontà di contrastare l’illegittimità
ed il malaffare, quanto piuttosto di comportamenti ispirati agli ordinari parametri di legalità
cui, di norma, dovrebbe uniformarsi l’azione amministrativa, che diventano “straordinari”
solo se correlati ex post alle dimensioni e alla pervasività del sistema corruttivo disvelato
dalle indagini giudiziarie».
Qualcuno dunque, deve pagare. «Sicuramente ricorrono tutti i presupposti per lo
scioglimento del X Municipio di Ostia — scrive Gabrielli — dove va segnalato che
l’accesso sia stato disposto solo dopo l’esecuzione della prima ordinanza di custodia
cautelare di Mafia Capitale ». Sicuramente almeno una ventina tra dirigenti e funzionari
pubblici vanno rimossi. Liborio Iudicello, segretario generale del Comune, ha provveduto
da solo dimettendosi ieri sera. E, altrettanto sicuramente, annota il prefetto con un affondo
che suona censura al suo predecessore Pecoraro, «la Giunta Marino ha operato in
assenza di precisi segnali di allarme che sarebbero dovuti provenire da organi terzi e che
ben avrebbero potuto indirizzare l’azione di ripristino della legalità verso percorsi più
decisi».
del 10/07/15, pag. 14
“Qui magnano tutti” Così, tra silenzi e paure
Ostia ora fa i conti con la sua mafiosità
IL REPORTAGE
DAL NOSTRO INVIATO
ATTILIO BOLZONI
OSTIA. . Signor Spada, lo sa che chiudono Ostia per mafia? «Qui magnano tutti». E lei
che dice, è contento? «Noi Spada siamo in duecento, per queste cose però è sempre
meglio parlare con mio cugino Roberto».
Music bar, quartiere generale degli Spada, uno dei clan che regna nell’avamposto di Mafia
Capitale. Mezzogiorno: materassi sventrati e gatti neri che rotolano fra i cassonetti
dell’immondizia, un Roberto Spada chiama un altro Roberto Spada — quello che un paio
di settimane fa si era candidato su Facebook a presidente del X Municipio — e uno dei
parenti più illustri che i Casamonica hanno sul litorale romano comincia a spiegare
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«politicamente» perché hanno deciso di mettere un marchio con una grande «M» su
Ostia: «Non hanno avuto il coraggio di farlo con Roma, quella è la capitale d’Italia e se lo
facevano succedeva un patatrac..sì, l’hanno fatto con Ostia perché non vale niente,
quando io parlo mi fanno sembrare quello che non sono, però una cosa oggi la dico: prima
o poi sarà il popolo a giudicare il destino della nostra Ostia».
Il giorno dopo Ostia ha paura ma fa finta di niente. Ostia aspetta, si nasconde, Ostia per la
prima volta fa i conti con la sua mafiosità. Il Music bar è a due passi da piazza Gasparri,
simbolo del malaffare più ostentato di questa città nella città dove il mare non si vede mai,
in via Cagni ci sono i locali comunali occupati abusivamente e per anni da una scuola di
danza che era degli Spada, in via Forni c’è ancora il ricordo dell’agguato che si sono
portati via «Baficchio» e «Sorcanera », Giovanni Galleoni e Francesco Antonini, due che
hanno ammazzato per mafia in un’Ostia che appena un prefetto fa — Giuseppe Pecoraro
— faticava a riconoscere come mafia. Via Baffigo, via del Sommergibile, via della
Corazzata, corso Duca di Genova, piazza della Stazione Vecchia, non ci sono più confini
fra un’Ostia e un’altra Ostia che porta sotto i porticati e dentro il palazzo del governatorato
diventato bivacco non solo degli Spada ma anche dei Fasciani e dei Triassi. E dei Balini,
quelli che non sono «famiglia» ma che fra il mare e la pineta contano cento volte più degli
altri.
Tufo giallo, altorilievi con polvere di travertino di Tivoli, torri, colonne, corti, cancelli sbarrati
e un silenzio di tomba nelle austere e misteriose stanze del X Municipio di Roma. Cosa
pensate di Ostia chiusa per mafia? Il custode del primo piano Franco Garinei con un
attimo di ritardo copre con la mano il suo nome dal badge e sparge la voce: «State attenti,
c’è un giornalista in giro per il Municipio». Cosa pensate di Ostia chiusa per mafia? Ufficio
affissioni, ufficio commerciale, ufficio tributi, ufficio forma- zione e sorveglianza sanitaria,
gli impiegati e i funzionari sembrano vivere in un altro mondo: «Non sappiamo niente»;
«Abbiamo letto qualcosa sul giornale», «Può parlare solo il direttore generale». Il direttore
generale, la dottoressa Proverbio, «non c’è» o «è in riunione», riceve solo per
appuntamento.
Cosa pensate di Ostia chiusa per mafia? Certificati e carte d’identità in via Claudio numero
1, la targa fuori dice che questo è ancora il XIII Municipio, la sala consiliare dentro puzza
di chiuso e — stando alla relazione del prefetto Gabrielli — puzza anche di 416 bis. È un
rettangolo buio, da una parte la poltrona più grande sta in alto — si sedeva lì il presidente
Andrea Tassone arrestato per i suoi rapporti con Buzzi e quelle altre sanguisughe dei suoi
amici — e difronte 25 sedie tante quante i consiglieri del «parlamentino» di Ostia, quelli
che saranno cacciati dal palazzo del governatorato con ordinanza prefettizia e disonore.
«Là in fondo, erano seduti pure gli assessori, la Droghei e tutti gli altri», ricorda l’addetta
alle pulizie.
La Droghei, Emanuela Droghei, consigliere a Ostia e moglie di Francesco D’Ausilio
(consigliere a Roma, capogruppo Pd prima di dimettersi, ingoiato dallo scandalo di Mafia
Capitale) e in contatto con altri indagati come il consigliere regionale Eugenio Patanè, tutti
molto interessati alle sorti di Ostia e del suo lungomare o al suo lungomuro, lidi liberi e lidi
imprigionati dal reticolato, un giro fra affarismo e ambientalismo in nome di antiche
militanze politiche.
Dalla sala consiliare alla stanza di Tassone, anche qui tanfo di chiuso, persiane serrate,
dal 29 aprile 2015 Ostia non ha più un presidente. Accanto all’immagine del Capo dello
Stato Sergio Mattarella una targa con su scritto — non è uno scherzo — «Municipi senza
mafia», le bandiere d’Europa, d’Italia e quella giallo-rossa di Roma, riviste di auto da rally.
E alla parete davanti alla scrivania una bellissima foto dall’alto di un’Ostia che non c’è più,
senza quegli stabilimenti mostruosi che hanno cancellato il mare per undici chilometri e
trecento metri. Nella stanza di Tassone ogni tanto entra l’assessore comunale alla legalità
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Alfonso Sabella, nominato qualche mese fa commissario a Ostia dal sindaco Marino per
portare decoro nel palazzo del governatorato e alla città. Il giorno dopo l’annuncio dello
scioglimento del X Municipio di Roma anche lui, magistrato che in Sicilia non ha mai avuto
paura degli amici in guanti gialli di Totò Riina, sa che dovrà presto andarsene per fare
posto a un viceprefetto.
E sa anche che una svolta c’è già stata qui, a Ostia: «Siamo ancora in tempo perché non
diventi com’era una volta il quartiere Brancaccio a Palermo o una Casal di Principe».
Come assessore alla legalità del Comune di Roma, anche con lo scioglimento del
Municipio per mafia, manterrà la delega al litorale. Avverte: «Molti proprietari degli
stabilimenti balneari di Ostia non stappino oggi le bottiglie di champagne, perché se non si
metteranno in regola in autunno arriveranno sicuramente le ruspe».
“State attenti, c’è un giornalista in giro per il Municipio... Non sappiamo niente noi” Sabella:
“Siamo ancora in tempo perché questa città non diventi un’altra Casal di Principe” “Quegli
stabilimenti mostruosi hanno cancellato il mare per undici chilometri”
del 10/07/15, pag. 17
Lo strappo dei figli di Borsellino
“In Sicilia antimafia di facciata”
Manfredi: non andremo alle cerimonie in ricordo di mio padre
Laura Anello
«Il 19 luglio? Non ci sarò. Mi sono messo di turno al lavoro, a cercare di fare qualcosa di
concreto, non ho tempo per commemorazioni senza senso. Per me, appassionato di
calcio, i memorial sono quelli sui campi, non ne esistono altri». L’ironia supera l’amarezza
negli occhi di Manfredi Borsellino, figlio del giudice ucciso ventitré anni fa in via D’Amelio e
oggi commissario di polizia a Cefalù. Se la sorella Lucia si è appena dimessa da
assessore regionale alla Sanità attaccando l’«antimafia di facciata» e invitando tutti a non
invitarla per l’anniversario, adesso è lui a smarcarsi dalla commemorazione.
Profezia di Sciascia
Quest’anno, insomma, dei tre figli non ci sarà nessuno. Segno dell’implosione
dell’antimafia, dopo le inchieste e gli arresti sui suoi presunti paladini. Segno,
paradossalmente, dell’avverarsi della profezia di Leonardo Sciascia che contro i
«professionisti dell’antimafia» tuonò profeticamente nel 1987 sbagliando però bersaglio:
Borsellino, appunto, con cui poi chiarì e fece pace in un incontro memorabile.
«Noi figli non ci saremo. Fiammetta da sei anni – racconta Manfredi – passa questo
periodo a Pantelleria. Il 19 luglio fa celebrare una messa in memoria di papà in una
chiesetta di contrada Khamma, sull’isola, dove entrano a malapena dieci persone. Lucia
quest’anno sarà lì con lei. E io sarò in servizio, il 17, il 18 e il 19. Sono stato educato da
mio padre all’etica del lavoro, alla concretezza, al rifiuto delle passerelle. Tre anni fa, pochi
giorni prima dell’anniversario, abbiamo fatto un blitz contro la criminalità delle Madonie, il
migliore modo di commemorarlo».
Antimafia di facciata
Non commenta gli ultimi casi che su quell’antimafia di facciata hanno alzato il velo –
l’arresto per tangenti del presidente della Camera di Commercio di Palermo, Roberto Helg;
l’inchiesta sul leader della Confindustria regionale Antonello Montante, entrambi campioni
di parole sulla legalità – una cosa però la dice: «Mia sorella ha parlato di antimafia di
facciata, e io quelle parole me le sono appese in ufficio, tanto le condivido, tanto mi
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sembrano arrivare dritte dalla voce di mio padre. Lei è la più figlia di Paolo Borsellino, è
quella che ha nel sangue i suoi geni migliori». Fu lei che volle entrare nella camera
mortuaria, quel 19 luglio 1992, lo guardò, lo accarezzò per l’ultima volta e disse alla
famiglia: «Tranquilli, sotto i baffi papà sorrideva».
Senso del dovere
Una roccia. Una donna con un senso del dovere smisurato. Che è rimasta al suo posto di
assessore alla Sanità nella giunta Crocetta - pur con molti mal di pancia - fino a quando è
stato arrestato il pupillo del presidente, Matteo Tutino, chirurgo plastico accusato di fare
lifting e liposuzioni in un ospedale pubblico, a spese del contribuente. Lucia di fare l’orpello
antimafioso, la foglia di fico non aveva proprio voglia. Se n’è andata dicendo basta con la
politica e tagliando corto: «Non capisco l’antimafia come categoria, sembra quasi un modo
di costruire carriere. La legalità per me non è facciata, ma la precondizione di qualsiasi
attività». E Manfredi rincara la dose. «Io penso che le parole di mia sorella dovrebbero
aprire un dibattito, ma non tocca a me farlo. Quel che posso dire è che tutti noi fratelli,
anche Fiammetta che appare più defilata ma segue tutto con grande attenzione, la
pensiamo esattamente come Lucia».
Fratelli uniti
E tutti insieme, i tre fratelli, hanno detto di no alla traslazione della salma del padre nella
chiesa di San Domenico, Pantheon della città, come invece è avvenuto per Falcone. «Non
c’è stata alcuna opposizione polemica – spiega Manfredi - mia sorella Lucia da assessore
alla Sanità ha pure dato il nulla osta a quel trasferimento. Noi semplicemente abbiamo
ringraziato e detto di no. Per noi era inconcepibile separare mio padre da mia madre. Mia
madre ha fatto tanti sacrifici per costruire la cappella al cimitero di Santa Maria di Gesù,
per stare insieme con lui. Dopo la strage, sempre più credente, ha aspettato ogni giorno di
ricongiungersi a papà. È rimasta qui, ha resistito, grazie all’amore per noi e per i suoi nipoti
che ha visto nascere. Tutti, a eccezione della più piccola, la seconda bambina di
Fiammetta, che è nata dopo la sua morte. Mai li avremmo separati».
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 10/07/15, pag. 20
Migranti,la Ue verso l’accordo “Sì alle quote
di accoglienza” Nuova strage nel
Mediterraneo
Germania e Francia disposte a dare ospitalità a 21 mila rifugiati La
soddisfazione di Alfano. Ma al largo della Libia altre 12 vittime
GIAMPAOLO CADALANU
La strada verso un accordo completo sull’immigrazione ancora non è conclusa, ma è
aperta: al vertice informale di Lussemburgo i ministri degli Interni hanno concordato un
primo “via libera” alla redistribuzione dei profughi sui paesi dell’Unione, rinviando però
l’accordo definitivo al un nuovo incontro, previsto per il 20 luglio.
Che l’emergenza sia conclamata non lo dimostrano solo gli allarmi dell’Alto commissariato
Onu per i rifugiati — che anche ieri ha chiesto «una risposta forte dall’Europa» — o le
grida d’aiuto delle Organizzazioni non governative: lo dimostra prima di tutto la cronaca,
con lo stillicidio di tragedie del mare.
Anche ieri i mezzi della Guardia costiera sono intervenuti in soccorso di quattro gommoni,
uno dei quali semi affondato, 40 miglia a nord della costa libica. I militari italiani sono
riusciti a portare in salvo 393 persone, ma hanno contato almeno dodici vittime. Un altro
gommone è stato intercettato dalle motovedette a poca distanza da Lampedusa: a bordo
c’erano 106 migranti, che sono stati portati in salvo.
Per i primi soccorsi il ruolo della Marina è insostituibile, anche Amnesty International
sottolinea che «le operazioni di ricerca e soccorso stanno salvando migliaia di vite» e parla
di «marcata diminuzione del numero dei morti in mare». Ma su quello che succede “dopo”
serve un’intesa globale europea. Germania e Francia danno l’esempio: Berlino ha
accettato di accogliere 12100 fra rifugiati e richiedenti asilo, compresi novemila oggi ospiti
delle strutture italiane o greche. Anche Parigi ha aperto le sue porte e accoglierà circa
novemila persone, fra cui 6752 già presenti in Italia o Grecia.
Gli altri Paesi, invece, per ora non hanno comunicato la loro disponibilità, ma il percorso è
avviato. Anzi, a sentire il ministro lussemburghese degli Esteri e dell’Immigrazione Jean
Asselborn, che presiedeva la riunione, «siamo vicini all’obiettivo» e il 20 luglio «saranno
necessarie solo due o tre ore» per definire gli ultimi dettagli dell’accordo finale. Per i
reinsediamenti, sottolinea Asselborn «c’è un’eccedenza di offerte». In più l’Unione ha
incassato anche la disponibilità di tre Paesi extra-Ue: Svizzera, Liechtestein e Norvegia,
che hanno espresso l’intenzione di dare una mano. Soddisfatto anche Angelino Alfano: il
ministro italiano ha parlato di «prima prova di un principio di solidarietà europea»,
definendo quello di ieri «un passo avanti significativo», in vista anche di un meccanismo di
emergenza permanente per il ricollocamento dei profughi.
Prima dell’accordo totale, però, l’Ue dovrà vincere le perplessità di Paesi come Spagna e
Austria, che al vertice di Lussemburgo hanno “frenato” e per ora non hanno comunicato
quanti rifugiati sono disposte ad accogliere. Ancora più dura è la posizione della
Slovacchia, che si è espressa apertamente contro il sistema dell’accoglienza su base
volontaria.
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del 10/07/15, pag. 8
Ventimiglia finis terrae
Immigrazione. L'interminabile attesa dei migranti africani che da un
mese protestano sulla scogliera dei Balzi rossi, a pochi metri dal
confine francese. Vogliono raggiungere i paesi del nord ma l'Europa li
rifiuta. Una avanguardia abbandonata da tutti che ha smascherato il
fallimento della fortezza Europa ormai decrepita che si sta sgretolando
nelle sue fondamenta
Luca Fazio
Ventimiglia
I migranti aspettano. Sdraiati all’ombra delle palme con gli occhi chiusi o con le braccia
penzoloni sulle ginocchia. Fissano il vuoto. Se si alzano camminano piano. Se prendono
un frutto dal tavolo della Croce Rossa lo mangiano piano. Il silenzio è assoluto, anche le
cicale danno meno fastidio del solito. Sotto la pineta, ma è solo uno spartitraffico, sono
quasi tutti sudanesi. Ci sono anche eritrei, qualcuno arriva dal Mali. Sugli scogli adesso fa
troppo caldo. Solo un uomo in riva al mare con il suo ombrellone rompe la linea
dell’orizzonte. Cosa pensano? Quelle ore di riflessione silenziosa devono passare come
minuti, non può che essere così, altrimenti sarebbero tutti impazziti. Sono lì da un mese.
Adesso in trenta e si danno il cambio. Gli altri, circa centocinquanta, sono alloggiati nei
locali della stazione di Ventimiglia. Sono tutti liberi ma non li vuole nessuno. Vanno e
vengono come se fossero fantasmi. Sono giovani, hanno tutto il tempo che vogliono e se
lo prendono per vivere. Alcuni ci hanno messo mesi o anni per arrivare su quella soglia
che è la conferma di un miracolo: una nuova vita in un altro mondo. Adesso aspettano. La
solitudine, l’attesa e l’idea della morte — perché potrebbero essere tutti annegati —
sembrerebbero impossibili da sopportare, per loro invece sono niente. Aspettano.
Sembra la scena di una partenza, ma l’immobilità è assoluta. Anche del paesaggio. Il
mare è fermo. Le tende, i teloni e i materassi appoggiati sugli scogli sono scoloriti dal sole.
Non c’è un filo di vento, le carte da gioco sparpagliate dappertutto sono incollate ai sassi.
Gli striscioni sul lungomare ricordano una protesta che non c’è più e dire che un mese fa,
quando è cominciato tutto, c’era spazio anche per i sogni: una girandola di foglie secche
volta le spalle al posto di frontiera, sulla corolla hanno scritto Citoyen du monde soyons
partisans d’un monde sans frontieres. La Francia è cinquanta metri più in là. Quello è il
muro. Non c’è niente da fare. Bisogna prendersi tutto il tempo che serve per aspettare che
in questi cento metri di confine dove non succede niente, sotto la scogliera dei Balzi rossi,
ogni dettaglio ricomponga l’immagine dell’impalpabile destino che attende il vecchio
continente.
L’Europa oggi è questa. La parete rocciosa che incombe e che conserva tracce dell’antica
via romana che portava in Gallia -“una continuità eccezionale in un sito eccezionale”
(ironia per turisti) — il mini market di sotto, ultimo avamposto italiano per consumare cose
inutili, gli europei sudati e distratti che fanno la fila al bar e al bagno e quelli con un briciolo
di umanità che scendono dall’auto con l’imbarazzo di chi porta un’anguria per dissetare
degli sconosciuti. La solidarietà, anche quella militante. Sincera ma desolata, destinata a
non mutare il corso degli eventi. Sono i ragazzi del presidio permanente No Border. Per
alcuni, quei pochi rimasti, è un’esperienza che ha cambiato lo sguardo sulle cose, anche
sulla vita. Tre poliziotti francesi vigilano su tutto con l’ingrato compito di prestare il volto
all’Europa peggiore degli ultimi settanta anni. Di inquietante c’è che l’attesa in un luogo
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così si trasforma in una tensione verso qualcosa di ignoto. Dove andranno? Cosa ci starà
per succedere?
Le loro storie si somigliano. Non sono rassegnati. Dietro le quinte dei Balzi rossi ogni
giorno qualcuno tenta di arrampicarsi lungo sentieri mai esplorati e così nascono nuove
storie — tutti ormai conoscono quei passaggi delle Alpi marittime. Ahmed ha finito i soldi
perché due volte ha provato a prendere il treno per Parigi e due volte i francesi lo hanno
ricacciato indietro. Ha solo cinque euro. Anche se i ministri europei hanno già mostrato di
voler perseverare nella politica criminale che lo ha portato a Ventimiglia, Ahmed confida in
un altro “meeting” dopo il fallimento di due settimane fa e ancora non se la sente di
seguire i suoi amici nei boschi. Ha paura di non farcela, servono gambe forti. Sarebbero
dieci o quindici chilometri di arrampicata, però qualcuno ce l’ha fatta, hanno telefonato
dalla Svezia e dalla Germania. Ma lui vorrebbe vivere proprio in Francia e con un dito
indica Mentone. In Libia si è fermato alcuni mesi per fare un po’ di soldi, ha imbiancato
case ed è riuscito a racimolare 600 dollari, quanto basta per una traversata. Poi Sicilia,
Roma e Ventimiglia. Dice che i libici sono tutti vestiti come militari per cui è come se la
polizia fosse ovunque. Non gli hanno fatto del male, forse ha subito qualcosa di peggio,
per la prima volta in vita sua si è sentito trattato come “uno zingaro”. Lui è un ingegnere
petrolifero: solo dopo questa affermazione concede il suo sguardo, difficile da sostenere.
Allora buona fortuna.
Gli africani hanno poca voglia di parlare. Hanno già detto tutto quando Ventimiglia era il
centro dell’Europa e meno male che qualcuno ha scattato quella foto dei migranti
infreddoliti sugli scogli con addosso le coperte termiche della Croce Rossa, una immagine
potente e dolorosa della condizione di ogni esule umiliato in mezzo ai propri simili. La foto
rimarrà ma l’indignazione è durata tre giorni. Quando si sbloccherà la situazione? I
migranti aspettano l’Europa e dicono che sugli scogli potrebbero rimanerci anche un anno.
Impossibile. Per il giovane sindaco di Ventimiglia Enrico Ioculano (Pd), che da un mese
gestisce con saggezza l’accoglienza dei profughi, un flusso regolare di migranti in città è
quasi ordinaria amministrazione. Ma questa volta ne sono arrivati troppi. Non si sente
abbandonato, anzi, la “disattenzione” dei media per lui è una buona notizia. In silenzio,
lascia intendere, qualcosa comincia a muoversi. Non per merito della politica. Il governo
Renzi-Alfano? Non sta a lui dire dell’incapacità di questo governo, per cui se la cava con
diplomazia. Ma non si lamenta. “In questo momento — spiega — diamo ospitalità a circa
duecento persone ma non possiamo farlo a lungo. I residenti sono stati splendidi, ancora
adesso prevale uno spirito di solidarietà ma qualcuno comincia a lamentarsi. Dobbiamo
cominciare a ragionare su un orizzonte temporale, il cerino non può rimanere in mano al
Comune di Ventimiglia”. Ioculano non si nasconde. Questa esperienza straordinaria fa di
lui uno dei sindaci più titolati a parlare di immigrazione (al Pd…) tentando di infrangere
qualche tabù. “Non dobbiamo predicare solidarietà a tutti i costi — spiega — ma dico che
dobbiamo ragionare seriamente su come gestire questo fenomeno strutturale dotandoci di
strutture operative e di risorse per l’accoglienza. Se tranquillizziamo l’elettore medio sul
tema della sicurezza sarà chiaro a tutti che i profughi sono brave persone che vanno
aiutate”.
A Ventimiglia ormai la polizia lascia fare e la latitanza del governo sembra essere l’unica
strategia utile per uscire dall’emergenza. La situazione, lentamente, si sbloccherà:
all’italiana. I migranti non sono più gli stessi del primo blocco di giugno, alcuni sono riusciti
a partire, altri sono tornati sui propri passi. Ci riproveranno. La soluzione sta nel chiudere
un occhio, o due. Qui, in stazione, in pineta, tra gli agenti che sorvegliano il litorale, tutti
parlano di frontiere più permeabili: il Brennero, per esempio. Ma bisogna dirlo sotto voce e
soprattutto bisogna procurarsi un altro biglietto per un’altra destinazione. I cinque dollari di
Ahmed non bastano. I liguri che vivono sul confine conoscono bene i passaggi per
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raggiungere la Francia, il problema non è arrivarci, è attraversarli. Eppure sembra che i
mastini della gendarmerie appostati sulle montagne abbiano abbassato un po’ la guardia:
la chiameremo “soluzione alla francese”. Questo e nient’altro è capace di fare l’Europa dei
“meeting”, come se la silenziosa avanguardia sui Balzi rossi non avesse già smascherato
il fallimento di una fortezza ormai decrepita che si sta sgretolando nelle sue fondamenta.
del 10/07/15, pag. 8
Una favela nella stazione della vergogna
Crotone. Asylanten accampati dal 2013 lungo i binari e nei vagoni merci,
divisi per etnie
Marco Omizzolo, Roberto Lessio
Dal 2013 circa 110 tra profughi e richiedenti asilo vivono tra i binari o dentro i vagoni merci
abbandonati alla stazione ferroviaria di Crotone. Sono tutti uomini originari di paesi diversi
che sopravvivono grazie al cibo portato loro dai volontari del camper «On The Road»
mentre si lavano con la poca acqua a loro disposizione. Una condizione determinata da
una grave sottovalutazione istituzionale che ha trasformato un’emergenza umanitaria in
una vergogna nazionale.
A curarsi di loro ci pensano soprattutto le cooperative Agorà Kroton, Kroton Community e
Baobab, e le associazioni Prociv di Isola Capo Rizzuto e Intersos. La stazione ferroviaria
crotonese vede una precisa organizzazione ispirata dalle diverse comunità migranti
presenti. Subsahariani, afghani e pakistani si ritrovano in zone distinte. I pakistani sono la
maggioranza e dimorano nella zona dei vagoni merci dismessi. Camminare accanto a quei
vagoni mette i brividi.
Ogni tanto qualcuno spunta da dietro una grata dalla quale fino a qualche anno fa usciva
solo mais o grano. All’interno si notano i miseri giacigli fatti di coperte e vestiti, mentre si
può solo immaginare il caldo torrido che si prova a vivere d’estate dentro quei loculi di
ferro. Il nostro sguardo non può che abbassarsi mentre la vergogna e l’indignazione si
celano con fatica dietro un timido sorriso.
Al centro della stazione, in una ex struttura manutentiva, dormono ragazzi africani e
afghani, mentre altri connazionali sono accampati sotto un vecchio cavalcavia che domina
la ferrovia. Molti subsahariani orbitano invece attorno all’attuale struttura di manutenzione
e all’ampio piazzale antistante. È qui che passano le loro notti, tra topi, serpenti e insetti,
su letti improvvisati. Ed è qui che si ammalano, nell’indifferenza quasi generale.
Intersos e Agorà Kroton fanno notare che il problema igienico– sanitario principale
all’interno della stazione è l’acqua. Le fontanelle pubbliche risultano chiuse, l’accesso alla
toilette della stazione limitato e non sono presenti alternative praticabili. I ragazzi in
passato raccoglievano le acque reflue per soddisfare, per come possibile, l’igiene
personale.
Oggi si riforniscono arrivando alle fontane pubbliche più vicine, percorrendo lunghi
percorsi a piedi. L’amministrazione e la Prefettura dovrebbero intervenire celermente, per
esempio agendo sulle Ferrovie dello Stato per garantire di concerto condizioni igieniche
migliori a partire dalla fornitura idrica, bagni chimici e docce, corredate da un’accurata
pulizia dell’area. Ma una spessa coltre di inefficienza impedisce di affrontare la questione
in modo serio e definitivo.
Per esempio si potrebbe individuare una struttura di ricovero notturno necessaria per
garantire condizioni minime di sicurezza e dignità. Intanto l’impegno del sindaco di
Crotone di non procedere ad alcuno sgombero è già un risultato: la priorità è trovare una
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sistemazione dignitosa per questi ragazzi e non di usare la forza. Intersos a Crotone ha
aperto anche un ambulatorio (progetto Mesoghios) per prestare soccorso e assistenza
sanitaria ai richiedenti asilo.
Dopo 11 mesi di attività hanno avuto 1.355 accessi, di cui il 54% proviene dalla stazione
ferroviaria. Sul totale delle patologie riscontrate più di una su quattro è dovuta alle
condizioni totalmente insalubri nelle quali sono costretti a vivere.
Intanto le proposte della peggiore destra xenofoba e razzista non si sono fatte attendere.
Forza Nuova, guidata da una signora in precedenza iscritta a Rifondazione Comunista, ha
dichiarato di voler organizzare le ronde. Non si capisce bene per fare cosa, considerando
che i richiedenti asilo sono facilmente individuabili e tutti presenti in stazione.
Salvini, invece, già alleato coi fascisti di CasaPound, nei giorni scorsi è andato a Crotone a
manifestare davanti al Cara di S. Anna e poi alla stazione ferroviaria dove ha fatto sfoggio
ancora una volta della sua delirante ansia da esibizione mediatica, presentando il suo
pericoloso armamentario xenofobo. Un volgare atto di speculazione politica su una
tragedia umanitaria. Basterebbe un po’ di buon senso e buona volontà politica per
risolvere il problema. Merce rara di questi tempi.
del 10/07/15, pag. 9
Libia, affonda un gommone recuperati 12
cadaveri
Migranti. La tragedia 40 miglia a nord del Paese nordafricano. Salvati
altri 500 migranti
Leo Lancari
ROMA
Mentre in Europa si continua a discutere su quanti profughi deve prendersi ogni Stato, nel
Mediterraneo si torna a morire. Ieri i mezzi della Guardia costiera hanno recuperato i
cadaveri di 12 migranti a 40 miglia a nord della Libia. I migranti erano a bordo di un
gommone semi affondato, sul quale c’erano altre 106 persone che sono state tratte in
salvo. Stando alle ricostruzioni, rese possibili dalle testimonianze dei sopravvissuti, la
tragedia sarebbe avvenuta nelle prime ore del pomeriggio, quando la centrale operativa
della Guardia Costiera ha ricevuto l’allarme. Nella zona dove si è verificato il naufragio
sono stati inviati i pattugliatori d’altura e due motovedette partite da Lampedusa che ha
trovato 4 gommoni, uno dei quali era semi affondato. Gli uomini della Guardia costiera
hanno così salvato 393 persone, di cui 106 si trovavano sul gommone semi affondato, e
recuperato i corpi dei 12 migranti morti. I soccorritori hanno proseguito le ricerche nella
zona per verificare la presenza di altri dispersi.
A poca distanza dalla zona del naufragio, le motovedette hanno soccorso un altro
gommone, con a bordo 106 persone, che sono state tutte recuperate.
Intanto ieri a Lussemburgo i ministri degli Interni dei 28 sono tornati a discutere di quote e
di quanti, dei 40 mila siriani, eritrei e, a quanto pare, anche iracheni sbarcati in Italia e
Grecia gli Stati dell’Unione devono accogliere nei propri territori.
«La Germania è pronta a prendere un grosso numero di richiedenti asilo, ma lo devono
fare anche altri Paesi», ha detto prima dell’avvio della riunione il ministro dell’Interno
tedesco Thomas De Maiziere. Lo sforzo c’è stato, ma è stato davvero minimo: 9.000
profughi anziché gli 8.763 previsti nella proposta elaborata dalla Commissione europa e
bocciata nel consiglio Ue del 25 e 26 giugno.
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Ancora meno farà la Slovacchia. Grazie a un accordo con Vienna, annunciato ieri a
Lussemburgo dai rispettivi ministri degli Interni, Bratislava ha infatti deciso di prendere 500
profughi dall’Austria senza però impegnarsi ad offrire accoglienza per la ripartizione dei
40mila profughi da Italia e Grecia. «Cominceremo con 50 a luglio, ad agosto ne
trasferiremo 200, poi in settembre altri 250 per arrivare a 500 a fine settembre. L’Austria
resta responsabile del trattamento delle domande di asilo e in caso di risposta positiva
saranno accolti in Austria», ha spiegato il ministro degli Interni austriaco Johanna MiklLeitner. «Se aiutiamo l’Austria, che è un Paese di destinazione finale — ha spiegato
invece il collega slovacco Kalinak -, sappiamo che quei profughi resteranno in Slovacchia.
Ma se prendiamo qualche numero dall’Italia sappiamo che scapperanno per andare in
Germania, Austria o Belgio. Questo non è onesto».
Per quanto riguarda la Francia, invece, confermati i numeri previsti dalla commissione
Juncker, che prevedevano l’accoglienza per 2.375 reinsediamenti di profughi attualmente
nei campi in Africa e 6752 ricollocamenti. Una nuova riunione dei ministri degli Interni è
prevista sempre a Lussemburgo per il 20 luglio.
del 10/07/15, pag. 9
I progetti dei Comuni per mandare a casa rom
e sinti
Superare i campi. Amministratori a convegno a Roma
Carlo Lania
Uno dei tanti luoghi comuni che circondano i rom vuole che questa minoranza si ostini a
vivere nei campi rifiutando la sola idea di trasferirsi in una casa come tutti. Luogo comune
da mesi alimentato insieme ad altri da una propaganda razzista verso le comunità rom e
sinti che vivono nel nostro Paese (e composte nella maggioranza dei casi da cittadini
italiani), e utile ad accrescere un allarme sociale buono solo per le campagne elettorali.
Sarà un caso, ma passata l’ultima tornata elettorale sono diminuite in televisione le
magliette con stampate sopra ruspe pronte ad «abbattere» i campi rom.
Eppure il tarlo razzista ha ben scavato in un’opinione pubblica sempre più allarmata.
«Nella classifica dell’odio sociale rom e sinti oscillano sempre tra la prima e la terza
posizione nelle indagini sociologiche. E’ come se questa moltiplicazione di odio avesse
fatto cadere il tabù del razzismo, che oggi si dichiara senza più imbarazzi» spiega il
senatore Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti umani del Senato
introducendo i lavori del convegno «Superamento dei campi, esperienze a confronto». Un
allarme che appare ancora più ingiustificato se si pensa che in Italia rom e sinti sono in
tutto 160 mila, e di questi solo 40 mila vivono nei campi. A fronte di una popolazione di 60
milioni di abitanti.
Eppure non è scritto da nessuna parte che debba essere per forza così. In Europa ci sono
Paesi con presenze molto più numerose di rom e sinti in cui è stato possibile raggiungere
livelli di integrazione molto alti. In Spagna, ad esempio, all’inizio degli anni 2.000 vivevano
800 mila rom, dei quali 80 mila nella sola Madrid, città che contava nella sua area
metropolitano 6,5 milioni di abitanti. La metà di quegli 80 mia erano stranieri e 13 mila
risiedevano nei campi. «Nel 1998 prese avvio un programma di integrazione con la
creazione di un ente pubblico e l’obiettivo di superare i campi, un progetto reso possibile
grazie anche all’utilizzo dei finanziamenti previsti dal fondo europeo sociale», spiega il
senatore del Pd Francesco Palermo. Nel 2011 si è cominciato a chiudere i campi, oggi
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praticamente tutti dismessi avviando un percorso di integrazione delle famiglie rom. «La
cosa interessante — prosegue Palermo — è che il 96% delle famiglie riallocate dichiara
oggi di sentirsi integrate e la metà ha acquistato la casa in cui vive».
E in Italia? Se si supera il fragore della propaganda razzista, si scopre che anche da noi
non mancano esperienze positive. Tenute magari un po’ in sordina proprio per non aizzare
le solite proteste. Ad Alghero, ad esempio, dagli anni ’80 vivevano un centinaio di rom in
un campo alla periferia della città. A settembre del 2014 un censimento ne ha contati 51,
tra i quali 30 minori. «Grazie a un finanziamento regionale di 250 mila euro — racconta il
sindaco Mario Bruno — abbiamo avviato un progetto per trasferire queste persone in una
casa. In città il 60% della case sono seconde abitazioni chiuse per gran parte dell’anno.
Abbiamo presentato le famiglie ai proprietari, offrendo la garanzia del comune per l’affitto e
lentamente siamo riusciti a vincere le differenze». Il 29 gennaio scorso il campo è stato
chiuso definitivamente. Allo stesso tempo l’amministrazione ha avviato un piano di edilizia
popolare per gli algheresi senza una casa.
Interessante anche l’esperienza di Torino. Qui già nel 1998 era stato avviato un piano di
ricollocamento in casa che ha coinvolto più di 500 famiglie rom. Poi la crisi economica ha
costretto molte di queste a tornare nei campi per l’impossibilità di continuare a pagare un
affitto, per quanto popolare. «Un problema che non riguarda ovviamente solo i rom ma
anche i torinesi, al punto che stiamo pensando a nuove forme di edilizia pubblica», spiega
il vicesindaco Elide Tisi. Due anni fa è stato avviato un progetto per circa 600 rom che
vivevano in un campo situato in una area considerata a rischio. E’ stato stipulato un «patto
di emersione», in cui i rom si sono impegnati a iscrivere i bambini a scuola e a rispettare
regole della convivenza, e l’amministrazione a trovare degli alloggi in cui trasferirli, ma
anche un lavoro nei paesi di origine, favorendo così i rimpatri volontari.
A Roma, invece, 25 famiglie rom sono state alloggiate in uan casa popolare grazie a un
bando del 2012 indetto dall’allora giunta Alemanno. Si stanno inoltre costituendo 5
cooperative di donne rom.
A Milano, infine, il comune sgombera i campi offrendo però subito un’alternativa, come
spiega l’assessore all sicurezza Marco Granelli: «Inizialmente si tratta di centri di
emergenza sociale dove i rom possono restare al massimo per sei mesi, durante i quali
viene avviato un percorso di integrazione. Ma ci sono anche appartamenti gestiti insieme
al terzo settore dove le famiglie alloggiano per tre anni durante i quali anziché pagare
l’affitto destinano i soldi a un fondo da utilizzare per l’avvio di un’attività. Sono i primi passi
verso un’abitazione definitiva».
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WELFARE E SOCIETA’
del 10/07/15, pag. 7
È inutile, l’Italia resta al palo
Rapporto Ocse. Miglioramenti infinitesimali sull’occupazione, giovani e
«Neet» senza sbocchi. L’organizzazione internazionale elogia il «Jobs
Act», che però non funziona. E i precari rimangono tali
Marta Fana
Il rapporto, Employment Outlook, sullo stato del mercato del lavoro, pubblicato ieri
dall’Ocse non desta nessuna sorpresa: a fine 2014, l’Italia rimane segnata da forte
disoccupazione, sottoccupazione e bassi salari. Un’immagine che l’Istat, istituzione che
fornisce i dati per Eurostat e Ocse, aveva già fotografato e reso nota. È utile riprendere i
dati pubblicati nel rapporto e ripeterli a scanso di equivoci e di facili fraintendimenti
propagandistici.
La sezione dedicata all’Italia inizia con una doccia fredda «La ripresa italiana rimarrà
timida per un certo periodo. Secondo le più recenti proiezioni Ocse, il Pil crescerà dello
0,6% nel 2015 e dell’1,5% nel 2016, valori al di sotto di quelli attesi sia dell’area Euro che
dell’intera Ocse». La disoccupazione nel 2015 è diminuita lievemente dopo il picco di fine
2014, attestandosi a maggio 2015 al 12,4%, rimane a un livello doppio rispetto al 2007.
Ma soprattutto, spiega l’Ocse, anche a fine 2016 le previsioni indicano che il tasso di
disoccupazione si attesterà all’11,6%: un miglioramento sì, ma di poco conto.
Il tasso di disoccupazione giovanile è ancora intorno al 42% mentre è allarmante quello
relativo ai Neet, oltre un giovane su quattro tra i 15 e i 24 anni non studia e non lavora
(speriamo che non guardi nemmeno la tv). Dati negativi che nel 2014 non migliorano,
nonostante la propaganda di governo e il decreto Poletti, secondo cui un’ulteriore
liberalizzazione del mercato del lavoro avrebbe dovuto aumentare l’occupazione e in
particolar modo quella giovanile. Mentre l’occupazione non aumenta, il mercato del lavoro
si fa sempre più precario, soprattutto per i giovani e le donne: nel 2014, il 56% dei
lavoratori tra 15 e 24 anni ha un contratto a tempo determinato, percentuale in aumento di
14 punti percentuali dal 2007. Non soltanto il lavoro si fa più instabile ma dura anche poco:
secondo l’Ocse, circa il 40% dei contratti non supera l’anno nel 2014, dinamica che non
migliora nei primi tre mesi del 2015, dove circa il 45% dei contratti ha durata inferiore al
mese.
Non soltanto la precarietà, ma anche la disoccupazione di lunga durata — che in Italia
colpisce oltre il 61% dei disoccupati — contribuisce, a determinare redditi da lavoro
persistentemente bassi. Riguardo i redditi da lavoro, su 34 Paesi Ocse, l’Italia si colloca al
ventesimo posto nella classifica. Seppure nel 2014, i salari reali siano minimamente
aumentati, nel periodo 2007–2014 la loro crescita è stata negativa.
Ma non è finita, esiste una sezione in cui l’Italia non è affatto menzionata nell’Employmnet
Outlook, quella relativa al salario minimo, che appunto non è mai stato introdotto, grazie
anche — si fa per dire — alle resistenze che provengono dal sindacato. Ma, nei paesi in
cui esiste, il salario minimo è riuscito ad attenuare le disuguaglianze salariali, senza
provocare nessun effetto perverso sull’occupazione, nonostante non sia sempre in grado
di prevenire il fenomeno dei working poor. Tuttavia, le disuguaglianze rimangono alte e
solo in parte sono spiegate dai differenti livelli di istruzione/competenze tra i lavoratori:
molto continua a dipendere dalle condizioni della famiglia di provenienza e dall’andamento
dell’economia, sono cioè strutturali.
Ma tutto questo non sembra interessare al governo italiano.
30
Ma mentre i dati del 2014 e le previsioni fino al 2016 mostrano soltanto un lieve
miglioramento del mercato del lavoro italiano, che si fermerà anche nel 2016 a livelli ben
peggiori di quelli del 2007, l’Ocse si lancia in un elogio del Jobs Act, in quanto
aumenterebbe gli incentivi per creare posti di lavoro a tempo indeterminato. Sembra che le
istituzioni internazionali continuino a soffrire della miopia tipica dell’ideologia neoliberista,
secondo cui per creare occupazione basterebbe ridurre il costo del lavoro per le imprese e
non invece aumentare la domanda delle famiglie accompagnata soprattutto dalla politica
industriale e dal ruolo attivo dello stato. Dovremmo allora ricordare anche all’Ocse che,
stando agli ultimi dati Istat, Inps e Ministero del Lavoro, il JobsAct non crea lavoro stabile,
se non in quantità infinitesimali, mentre le imprese incassano incentivi senza vincoli di
investimento, accontentandosi di un ruolo di subalternità tecnologico e produttivo rispetto
ai Paesi del Nord Europa che oggi portano avanti una battaglia non soltanto contro la
ripresa e lo sviluppo della Grecia ma di tutti i Paesi dell’Europa mediterranea.
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DIRITTI CIVILI E LAICITA’
del 10/07/15, pag. 1/23
La libertà e l’interesse dei figli
Vladimiro Zagrebelsky
Nella discussione aperta dal giornale, il primo contributo, quello di Orsina, si svolge
argomentando su due concetti fondamentali: Natura e Tradizione. Io dubito che essi siano
tanto definiti, stabili e condivisi da assicurare un ancoraggio sicuro. Forse sono
rassicuranti sul piano emotivo (che non voglio sottovalutare), ma non mi sembra possano
andare oltre.
Innanzitutto mi chiedo se natura e tradizione si confondano, reciprocamente dandosi forza.
La sovrapposizione dei due concetti è possibile, ai fini di questa discussione, solo se si
accetta che anche la nozione di natura/naturale è relativa nel tempo e nello spazio, evolve,
si modifica. Vi sono risultati della scienza in generale e in particolare di quella che riguarda
il corpo umano che in tempi antichi sarebbero stati inimmaginabili o condannati come sfide
ai limiti della natura, come quella di Icaro. Ancora recentemente - nel 1856, ieri, nella
storia dell’umanità- la disumana schiavitù era ritenuta perfettamente costituzionale e
conforme a natura dalla Corte Suprema degli Stati Uniti. Ne seguì una guerra civile che
permise l’affermarsi dell’idea che naturale era invece l’eguaglianza e la libertà di tutti.
Talora, ma non sempre l’evoluzione è da riportare a successi nell’imitazione della natura.
Ad esempio certe tecniche di fecondazione oggi generalmente accolte con favore, non
imitano, ma superano, aggirano e forzano la costituzione di persone che la natura ha reso
sterili. E dunque oggi si ritiene e si sente naturale ciò che ieri (o oggi altrove) sarebbe
certo stato bollato come innaturale. D’altronde ancora recentemente, per venire al tema, in
diversi paesi europei i rapporti omosessuali erano ritenuti reato e puniti con il carcere.
La soluzione dei problemi del matrimonio omosessuale, del tenore della disciplina delle
unioni omosessuali e dello scoglio insidioso rappresentato dall’adozione da parte della
coppia omosessuale e dell’accesso di essa alle varie tecnologie riproduttive oggi
disponibili, può trovare saldo ancoraggio in simili nozioni di natura e tradizione? Io non lo
crederei, anche perché una volta ammessa la relatività della nozione di natura e del
contenuto della tradizione, si è costretti a prendere atto che nelle nostre società europee
ed anche in Italia, convivono più idee su ciò che sia naturale e più tradizioni, più culture,
più religioni o convinzioni. Qualche anno fa la Corte europea dei diritti umani, dovendo
decidere una causa riguardante la disciplina estremamente restrittiva dell’aborto esistente
in Irlanda, si è avventurata su un terreno ad essa estraneo, affermando che quella
regolamentazione, così diversa da quella prevalente in Europa, era però giustificata dal
radicamento nelle «idee morali profonde del popolo irlandese». Argomento sotto diversi
aspetti discutibile in una sentenza, ma che, ai fini nostri e non ostante la differenza di
oggetto, potrebbe essere validamente messo in dubbio dal recente esito del referendum
popolare sulla ammissione del matrimonio omosessuale. Attenzione dunque quando si
richiamano tradizioni e culture attribuendole a interi popoli.
Quand’anche poi nel discorrere del contenuto di una nuova legge, fosse possibile riferirsi a
stabili e maggioritarie tradizioni e nozioni di natura (e dando per dimostrato il loro valore in
ogni caso positivo), occorrerebbe considerare che, nel definire una legge che permette e
vieta a tutti, in materia di diritti e libertà la volontà della maggioranza incontra limiti anche
in democrazia ed anzi proprio in democrazia. Limiti derivanti dal rispetto della libertà altrui
di separarsi da stili di vita e tradizioni maggioritarie.
32
Ed è proprio della libertà altrui che occorre trattare, come ha fatto ieri Riotta entrando in
questo dibattito, e non tanto del richiamo al principio di eguaglianza. Il principio di
eguaglianza è violato quando si trattano diversamente situazioni eguali, così come quando
si trattano egualmente situazioni diseguali. E’ evidente che la coppia omosessuale è
diversa da quella eterosessuale. Ma fin dove e sotto quale aspetto è invece eguale?
Questo è un quesito inevitabile e senza risposta certa, inequivoca, tale da essere da tutti
accettata. Tanto più che la Costituzione e tutte le Carte dei diritti fondamentali vietano
discriminazioni fondate sulla differenza di sesso. Prioritario è invece a mio parere
l’approccio libertario, che muove dal rispetto della libertà altrui. In una società libera
occorrono buone e forti ragioni per vietare, non per permettere. Nel mondo occidentale e
nell’Europa di cui l’Italia è per fortuna parte integrante, non possono essere ignorate linee
di tendenza che emergono chiaramente e ora abbattono velocemente divieti e tabù
tradizionali. E molto si può comunque fare facilmente passando il confine, presentando poi
a sindaci, ministri e giudici situazioni che chiedono soluzione e non ammettono il rifiuto di
vederle. Le più o meno finte registrazioni che alcuni sindaci hanno effettuato di matrimoni
omosessuali conclusi all’estero, sono lì a dimostrare l’insufficienza di una pura e semplice
negazione.
In Italia la possibilità di un matrimonio tra persone dello stesso sesso è esclusa dalla
Costituzione. E nessun obbligo di introdurlo deriva dalle Carte europee dei diritti
fondamentali. Esse soltanto ne ammetto la possibilità. La Corte Costituzionale nel
confermare che il matrimonio riconosciuto dalla Costituzione è quello eterosessuale, ha
però affermato – in linea con il diritto europeo dei diritti umani - che il riconoscimento dei
diritti fondamentali dell’uomo e delle formazioni sociali riguarda anche «la stabile
convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere
liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti
stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri». E ha
aggiunto che, per certi aspetti, la ragionevolezza può rendere necessario «un trattamento
omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale».
Ora è evidente che la legge italiana che regolerà le unioni non matrimoniali omosessuali
riconoscerà una serie di assimilazioni alla disciplina del matrimonio. Ma il contrasto è
profondo quando si considera la possibilità che la coppia omosessuale riconosciuta dalla
nuova legge possa adottare, ovvero accedere alle tecniche che oggi le permettono la
generazione di un figlio. Qui il conflitto è radicale e la posizione negativa argomenta
richiamando l’interesse del figlio, il cui benessere e la cui armoniosa formazione sarebbe
assicurata solo dalla vita in una famiglia che gli dia la presenza della figura paterna e di
quella materna. Tendo anch’io a credere che questa sia la condizione preferibile, anche se
conosciamo tremendi coniugi eterosessuali. Non è tuttavia dimostrato che il figlio delle
coppie omosessuali patisca per il carattere della sua famiglia, anche se è possibile che il
contesto sociale esterno reagisca sfavorevolmente, incidendo sulla integrazione di chi è
sentito «diverso» per il fatto d’avere due padri o due madri. Qualcosa di simile al
fenomeno ben noto che riguarda il figlio adottato, le cui fattezze esterne rivelano la diversa
origine rispetto a quella dei genitori adottati. Ma come quest’ultima difficoltà sociale va
scomparendo, anche quell’altra sarebbe destinata a essere superata. E comunque
l’indisponibilità sociale ad accogliere la novità richiede alla società di evolvere nel rispetto
degli altri. Ciò detto, quello che colpisce nell’argomento forte legato all’interesse dei figli è
la comparazione che si fa tra la coppia eterosessuale e quella omosessuale, come se si
trattasse di scegliere l’una o l’altra. Ma non è così. Il divieto di procreare imposto alla
coppia omosessuale non indirizza verso una famiglia eterosessuale ritenuta preferibile, ma
impedisce di nascere.
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INFORMAZIONE
del 10/07/15, pag. 16
Rai, più vicina la legge. Opposizioni pronte
alle barricate
VIA LIBERA DELLA COMMISSIONE AL SENATO.IL M5S ALZA IL
TIRO.DUE DONNE IN POLE PER IL DOPO GUBITOSI
ROMA .
Miracolo Rai. Mentre i gruppi alla Camera litigano sulla buona scuola, al Senato il disegno
di legge di riforma della Rai mette tutti d’accordo. Compresi Forza Italia e Movimento 5
Stelle, che votano il mandato ai relatori insieme alla maggioranza. Certo, nel Pd qualcuno
mugugna che le concessioni fatte alle opposizioni abbiano diluito troppo la riforma della
governance del servizio pubblico. E lo dimostrerebbe l’esultanza di Maurizio Gasparri, che
rivendica come un merito il fatto che la nuova legge ricalchi sostanzialmente la sua «al 99
per cento». In ogni caso Renzi, che ha dovuto ingoiare il rinvio a settembre della riforma
costituzionale, è convinto di poter incassare il via libera finale del Senato entro la pausa
estiva.
Il Pd esprime soddisfazione per un risultato tutt’altro che scontato. La linea della trattativa,
portata avanti dal sottosegretario Antonello Giacomelli intanto ha portato al primo sì
bipartisan in commissione lavori pubblici. Ricompare quindi la figura del «presidente di
garanzia », eletto con un quorum qualificato dei due terzi della commissione di Vigilanza.
E si conferma la stessa commissione di Vigilanza, che inizialmente Renzi pensava di
abolire. Resta ugualmente centrale il Consiglio d’amministrazione, al cui parere
«obbligatorio» e «vincolante » l’amministratore delegato dovrà sottomettere le nomine dei
direttori di reti e Tg. (quando il parere sarà espresso con una maggioranza qualificata). A
Forza Italia, che pure ha incassato molto, nemmeno basta. Tanto che Augusto Minzolini in
commissione si è astenuto, puntando a un ulteriore depotenziamento dell’A.d. quando il
ddl passerà in aula. Attendono al varco anche i 5Stelle. «Ci giochiamo tutto — ha spiegato
Alberto Airola — sulle norme per la trasparenza e i requisiti per essere nominati nel Cda».
Roberto Fico, il presidente della Vigilanza, già minaccia: «Se non verranno approvati i
nostri emendamenti sarà battaglia durissima».
Ai malumori del Pd per le troppe concessioni dà voce Michele Anzaldi. L’Adnkronos
raccoglie il suo sfogo: «È stupefacente che si preveda la nomina dei direttori di rete da
parte della Vigilanza. Altro che meno politica, la politica raddoppia! E risulta assordante
anche il silenzio, che insospettisce, dell’Usigrai».
L’approvazione definitiva della riforma consentirà il rinnovo dei vertici di viale Mazzini. Per
la successione di Gubitosi, appaiono in pole position due donne: Marinella Soldi di
Discovery e Patrizia Greco, presidente di Enel. Restano in corsa Andrea Scrosati di Sky e
Vincenzo Novari di H3g.
(f.bei)
Da la Stampa del 10/07/15, pag. 9
Con la riforma della Rai
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si prepara quella dei talk-show
Per il premier il racconto della politica in tv è deleterio Entro l’estate il
nuovo sistema di governance di Viale Mazzini
Fabio Martini
Alla Humboldt di Berlino - l’università dove insegnarono Hegel, Schopenhauer ed Einstein
- la mattina del primo luglio il dottor Matteo Renzi era chiamato a parlare del futuro
dell’Europa, ma sul più bello spiazzò cattedratici e studenti con una tirata sui talk-show
televisivi italiani: «Sono il grande pollaio senza anima che ha preso il posto delle fiction,
pieni di colpi di scena dove non succede mai niente con teatranti di terzo ordine e dove gli
spot sono la parte più credibile dell’intera trasmissione». Un distillato di sincero disprezzo
per un genere televisivo che, per quanto inflazionato e in crisi, da anni è un porto franco
del pluralismo politico ed informativo. A Renzi, che ha costruito il suo successo in gran
parte grazie alla partecipazione a queste trasmissioni, da qualche mese i talk-show non
piacciono più. Ha scritto in uno dei suoi tweet: «Trame, segreti, finti scoop, balle spaziali e
retropensieri: basta una sera alla Tv e finalmente capisci la crisi dei talk show in Italia».
Al presidente del Consiglio queste trasmissioni non piacciono perché, a suo avviso, nel
complesso forniscono una immagine deformata della realtà politica e sociale,
rappresentazione spesso virata sul lamento, sulla recriminazione cronica e sulla
sistematica omissione di ciò che cambia o funziona. Un tipo di critica che Renzi ha
pubblicamente esternato e alla quale se ne accompagna una espressa in sedi più ristrette,
perché più delicata: in tv e in particolare in Rai, non se ne può più della proliferazioni dei
talk-show a qualsiasi ora del giorno e della notte. Ma alle critiche da telespettatore, Renzi
ha aggiunto osservazioni che alludono ad una vocazione da amministratore delegato. In
un tweet ha scritto: «Dobbiamo cambiare modo di raccontare l’Italia e la politica. Non
siamo quella roba lì». L’espressione «dobbiamo cambiare» significa che Renzi si prepara
a suggerire ai prossimi direttori Rai un cambio nel modo di fare informazione? Si va verso
una “riforma dei talk-show” e si punta alla loro concentrazione in una unica rete? Ovvero,
alla loro rarefazione?
Seguendo un riflesso di molti politici che finiscono per attribuire le proprie difficoltà a vizi
comunicativi, lunedì scorso Renzi ha tenuto una lezione ai suoi parlamentari su come si
tiene botta in tv, ma la vera novità è un’altra: il governo vuole accelerare la riforma della
Rai, nel tentativo di approvarla entro l’estate. Un’impennata decisionista che contraddice la
vulgata precedente secondo la quale il governo si era rassegnato a rinnovare i vertici
aziendali con la vigente legge Gasparri. In altre parole, la perdurante difficoltà nel chiudere
alcune riforme stagnanti (a cominciare da quella istituzionale), avrebbe indotto palazzo
Chigi a considerare come prioritaria la riforma della Rai, promossa a “scalpo” agostano.
Nella riforma Rai targata Renzi, il nuovo amministratore delegato (indicato dal governo),
avrà il potere di nominare i direttori di rete e dei Tg. Il premier sa bene che proprio su
quelle nomine (ad e direttori giornalistici) saranno accesi i riflettori, sa che non può
sbagliare il colpo, magari anche a costo di ridimensionare qualche sua “pulsione”. Ecco
perché per il ruolo di Ad accarezza l’ipotesi di affidare l’incarico ad una manager come
Patrizia Grieco, attuale presidente dell’Enel, mentre per l’informazione Renzi ha stima per
la direttrice di Sky Tg24 Sarah Varetto. Anche se il personaggio che - in tutte le caselle top
- finirebbe per raccogliere un vasto consenso, per storia personale e peso professionale, è
un giornalista che il premier apprezza, anche a dispetto delle critiche subite: Enrico
Mentana.
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SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
del 10/07/15, pag. 10
LA GIORNATA
Scuola,la riforma diventa legge ma il Pd si
spacca
La minoranza esce dall’aula, sì dei verdiniani.È la meno votata tra le
riforme Il premier:100mila assunzioni,più merito, più autonomia.Ora P.A.
e fisco
ALBERTO CUSTODERO
ROMA .
La “buona scuola” è legge, tra le proteste dei sindacati dei docenti, Cobas in testa, in
piazza Montecitorio. L’Aula della Camera, in terza lettura, ha dato il via libera alla riforma
del sistema scolastico del governo, con 277 sì, 173 no e 4 astenuti. Contrari, M5S, Forza
Italia, Lega, Sel, Alternativa libera, Fratelli d’Italia.
Quattro astenuti. Il premier Renzi esulta: «È il più grande sforzo di riforme strutturali della
storia repubblicana. Ora avanti su fisco e Pa». In un tweet, ha sottolineato il risvolto
occupazionale: «Centomila assunzioni, più merito, più autonomia». Su questo punto è
intervenuto anche ilministro dell’Istruzione. «Le assunzioni - ha detto Stefania Giannini non sono né dovute né fittizie, sono nuovi posti, risorse umane che vanno alla scuola».
«Non c’è una legge perfetta - ha aggiunto il ministro, quasi rispondendo alle proteste
sindacali- ci saranno punti deboli e ci sarà la possibilità di correggerli, ma è una grande
opportunità, che consegniamo nelle mani di studenti, famiglie e insegnanti». Ma al Pd
l’approvazione del ddl è costata una spaccatura interna. L’assenso meno ampio del
previsto - è la riforma meno votata del governo Renzi- è stato provocato dalla decisione di
39 deputati dem, 24 della minoranza, tra i quali Bersani e Cuperlo, di non partecipare al
voto. In 5, tra cui D’Attorre, hanno votato no. Prima delle votazioni, s’è consumata in Aula
una bagarre inscenata dalle opposizioni. Sel, durante le dichiarazioni di voto finali, ha
esposto cartelli con la scritta Oxi (mutuando il “no” del referendum greco), mentre tutti i
deputati del M5S hanno letto, in coro e in piedi, i tre articoli - 3, 33 e 34- della Costituzione
dedicati alla scuola. Prima di loro, i deputati del Carroccio avevano sventolato fogli che
intimavano “Giù le mani dai bambini” costringendo la presidenza a sospendere la seduta
per alcuni minuti, e a espellere dall’aula il capogruppo Fedriga. Fi s’è spaccata, con
Renato Brunetta, capogruppo, che l’ha bocciata (« Se si arriverà a un referendum,
voteremo sì», ha detto), ma ben 4 esponenti vicini a Denis Verdini (Faenzi, Pairsi,
D’Alessandro, Mottola ) hanno votato per il sì. Il fronte del dissenso, tuttavia, resta
agguerrito. I sindacati, che hanno visto sfumare la possibilità di incassare le modifiche
richieste, stanno preparando un’offensiva per settembre.
del 10/07/15, pag. 4
La riforma più odiata
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Camera. La Camera approva il Ddl scuola con 277 sì, 173 no, 4 astenuti.
Il movimento della scuola non si ferma e promette battaglia da
settembre. In autunno i sindacati annunciano il più grande contezioso
giudiziario italiano e gli studenti la boicotteranno "dal primo giorno"
Roberto Ciccarelli
ROMA
La Camera ha approvato ieri in maniera definitiva la riforma sulla scuola con 277 sì, 173
no e 4 astenuti. Dopo tre mesi e mezzo di iter parlamentare ricattatorio il governo Renzi è
riuscito ad imporre alle quasi 8 mila scuole italiane un’organizzazione aziendalista. La
cosiddetta «buona scuola» istituisce la chiamata diretta dei docenti da parte del «presidemanager» (detto «sceriffo» o «sindaco»), una norma già contenuta in un analogo
provvedimento dei governi Berlusconi e poi Monti (il Ddl Aprea) respinto nel 2012. Questo
preside, a metà di un dirigente di azienda e un padre-padrone, sceglierà una parte dei
docenti neo-assunti (102 mila) in base al curriculum una volta realizzati gli albi territoriali
dal 2016. Gli è stata riconosciuta la facoltà di conferire e rinnovare al docente un incarico
triennale in base alla sua discrezionalità. Il preside deciderà anche di aumentare lo
stipendio a una minoranza di docenti sulla base di criteri da lui stabiliti nel piano triennale e
non in base alla negoziazione contrattuale. Al dirigente scolastico è stata attribuita infine la
potestà di rescindere il contratto a chi tra i docenti neo-assunti non supererà l’anno di
prova. In questa cornice sarà ridotto drasticamente il ruolo dei sindacati nella
contrattazione, una strategia che rientra nel piano renziano di esautorare il ruolo dei corpi
intermedi e della mediazione socio-professionale a favore di una visione autoritaria e
personalistica.
La riforma approvata ieri ha istituito un comitato di valutazione con genitori e studenti che
entra in contrasto con il collegio di istituto e quello dei docenti. Questo organo deciderà
sugli aspetti didattici, professionali e salariali, materie sulle quali non ha alcuna
competenza specifica e che, anzi, rischia di creare conflitti personali con i docenti. Nei
termini di una gestione aziendale — questo è il punto di vista del governo — preside e
comitato di valutazione favoriranno la «customizzazione» della scuola. La libertà di
insegnamento sarà subordinata alle esigenze dei «clienti» e la didattica sarà trattata come
un «prodotto». Chi non si adatterà alle esigenze del mercato dove concorreranno istituti di
serie A e B, o al pubblico che garantisce anche finanziamenti, non sarà giudicato
compatibile con la scuola-azienda. Il collegio docenti è stato inoltre esautorato e, con
esso, anche la dimensione cooperativa e collegiale del lavoro dei docenti. L’obiettivo della
«scuola dell’autonomia», imposta quindici anni fa da Luigi Berlinguer, e faro della
pedagogia liberista sostenuta anche dagli eredi del partito comunista (poi Pds, Ds e oggi
Pd) è stato pienamente realizzato.
Per i sindacati, gli studenti e i docenti che si sono mobilitati in maniera instancabile a
partire dallo sciopero generale del 5 maggio scorso, la riforma che istituisce la «chiamata
diretta» lede una serie di principi costituzionali come la libertà d’insegnamento. Problemi
arriveranno anche dalla creazione dell’organico territoriale dei docenti, dalla disparità di
trattamento sulla titolarità d’istituto tra docenti e personale Ata. Nemmeno il tema
qualificante della riforma — la «scomparsa» del precariato — può essere considerato tale.
Sono all’incirca 100 mila i docenti precari abilitati e idonei ad altri concorsi esclusi dalle
assunzioni; non saranno stabilizzati gli Ata con almeno 36 mesi di servizio, mentre
nell’organico di diritto restano scoperti 30 mila posti sul sostegno.
Su questi presupposti, da settembre, i sindacati sono d’accordo nel sollevare il più grande
contenzioso giudiziario nella storia della scuola italiana. Marcello Pacifico (Anief) annuncia
richieste di risarcimenti milionari, mentre Stefano D’Errico (Unicobas) prevede che
mancherà il numero legale nei collegi docenti chiamati a votare sul nuovo «organico
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funzionale». Per Francesco Scrima (Cisl Scuola) «il governo si è assunto la grave
responsabilità del mancato confronto con la scuola» e Rino Di meglio (Gilda) accusa
Renzi di «arroganza e presunzione». La battaglia avverrà anche contro i decreti attuativi
avverte Marco Paolo Nigi (Snals/Confsal). «La mobilitazione continuerà con tutti gli
strumenti possibili per contrastare l’applicazione di una legge che fa arretrare il sistema di
istruzione» annuncia Domenico Pantaleo (Flc-Cgil). «I sindacati e le strutture di base – è
l’appello di Piero Bernocchi (Cobas) – trovino le modalità comuni nella conduzione della
“guerriglia” contro questa legge-porcata».
La trasversalità del movimento tiene nonostante la sconfitta annunciata nella prima
battaglia contro la «Buona scuola» del governo Renzi.Toni, e propositi ugualmente
determinati, sono stati espressi dagli studenti. Insieme ai docenti ieri a piazza Montecitorio
hanno lanciato libri e urlato a squarciagola «Vergogna!» contro il Palazzo mentre la
Camera approvava la riforma. Nella notte tra mercoledì e giovedì gli studenti dell’Uds
hanno realizzato anche un blitz in alcuni parchi della Capitale dove hanno imbavagliato
decine di statue raffiguranti, ad esempio, quella Cesare Beccaria, filosofo e giurista: «Per
rimarcare quanto l’approvazione del ddl scuola prevista per oggi, silenzi il mondo
dell’istruzione e della cultura, e al tempo stesso neghi un investimento vero per garantire
l’accesso ai saperi il diritto allo studio». « Boicotteremo i dispositivi di valutazione,
creeremo nuovi organi di partecipazione, costruiremo proposte alternative da mettere in
pratica scuola per scuola — hanno detto gli studenti in un video diffuso sui social network
— Boicotteremo la legge in ogni sua forma, contro il mercato dei saperi e la
privatizzazione dei diritti». «In autunno le scuole saranno un problema per il Governo
Renzi» conferma Danilo Lampis coordinatore Uds. Appuntamento allora «al primo giorno
di scuola, che sarà solo la data iniziale di un autunno denso di mobilitazioni studentesche
conferma Alberto Irone della Rete degli studenti medi — Gli studenti non accetteranno una
scuola azienda, antidemocratica, privatizzata ed escludente. Non ci fermeremo fino a
quando la scuola non sarà buona per davvero».
In tutt’altra realtà vivono gli esponenti di un governo che ha sudato sette camice per
portare a casa una riforma il cui iter parlamentare è stato gestito in maniera caotico e
approssimativo, spaccando il partito democratico che ha comunque tenuto. Per la ministra
dell’Istruzione Stefania Giannini, la sua approvazione alla Camera «non è un atto finale»
ma «l’atto iniziale di un nuovo protagonismo della scuola». «Il caos nella scuola si potrà
creare solo se non si va a una applicazione piena della riforma» ha aggiunto rispondendo
ai sindacati. E poi ha messo le mani avanti: «Non c’è legge perfetta, ci saranno punti
deboli e ci sarà la possibilità di correggerli, ma è una grande opportunità, che
consegniamo nelle mani di studenti, famiglie, insegnanti». Si mette in conto, cioè, che la
riforma subira vari rimaneggiamenti, anche alla luce delle deleghe che il parlamento ha
votato al governo, su aspetti determinanti per l’intero meccanismo ideato. Per la ministra in
Italia c’è stato un «precariato stabile» e il governo ha cominciato a risolvere il problema. I
sindacati hanno messo in moto i loro centri studi e dimostrano esattamente il contrario: il
precariato continuerà, come le supplenze l’anno prossimo. E le assunzioni non risolvono
affatto il problema del precariato. L’anno prossimo ci saranno 60 mila insegnanti senza
cattedra.
Renzi vince in parlamento, ma si ritrova da solo nelle piazze. E nelle sezioni del suo
partito. Ieri però ha incassato il favore della Conferenza Episcopale Italiana. Il segretario
generale monsignor Nunzio Galantino si è scoperto più renziano dei renziani quando ha
detto che la riforma della scuola «è un passo in avanti in un Paese troppo abituato alla
stagnazione». Le critiche al governo, e la spaccatura nel Pd, non turbano il monsignore:
«Appena si intravede qualcosa di nuovo scatta subito il virus della conflittualità». Segue il
sollievo per la bocciatura della presunta norma sul «gender» e l’invito a «investire di più
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sulla formazione». Probabilmente alludeva alle scuole paritarie cattoliche che hanno
ricevuto in regalo dal governo le facilitazioni fiscali contenute nello School Bonus.
del 10/07/15, pag. 4
Il bluff delle assunzioni: 60 mila cattedre
senza insegnanti nel 2015/6
Riforma Scuola. Gilda: ecco come il governo Renzi intende curare la
"supplentite"
Roberto Ciccarelli
La «Buona Scuola» assumerà in ruolo 102.734 docenti precari. In attesa della definizione
di un percorso che si preannuncia tortuoso, nella relazione tecnica al maxiemendamento
approvato con la fiducia al Senato sono state chiarite le quattro fasi delle assunzioni. L’Iter
dovrebbe svolgersi nel corso del prossimo anno scolastico per arrivare «a regime»
all’inizio del prossimo (2016/2017) quando la riforma Renzi-Giannini entrerà effettivamente
in vigore con l’istituzione degli «albi territoriali» dai quali i «presidi-manager» prenderanno i
docenti che andranno a comporre la loro «squadra del cuore» in base alle necessità da
loro stabilite nei «piani di offerta formativa» della durata di tre anni. I posti a disposizione
sono 47.476 a cui si sono aggiunti 55.528 posti che rientrano nel cosiddetto «organico
potenziato». Nella «fase zero» saranno occupati i posti lasciati liberi dai pensionamenti (o
altri eventi come decessi ecc) previsti nel 2015, pari a 21.880 posti. A questi si aggiungono
14.447 posti per gli insegnanti di sostegno. Queste assunzioni riguardano chi è in una
«graduatoria di merito», cioè ha vinto un concorso nel 2012 ad esempio. Seguirà chi è
iscritto in una «graduatoria ad esaurimento» (Gae) (rapporto 50–50). Al momento restano
scoperti 14 mila posti che dovrebbero essere recuperati in una fase successiva. Poi ci
sarà «fase b» in cui saranno disponibili 10.849 posti (sia su «posto comune» che sul
«sostegno» e riguarderanno sia chi ha vinto i concorsi che gli iscritti nelle «Gae». La «fase
c» riguarderà 48.812 posti comuni e 6–446 per il sostegno. Si tratta dei posti previsti
dall’organico potenziato, che contiene quei docenti che saranno effettivamente «a
disposizione» dei «presidi-manager». Bisogna precisare che, al momento, la scansione
delle fasi è ancora incerta, oltre che contraddittoria. Nelle prossime settimane si aspettano
lumi dal Miur.
Nel frattempo i docenti precari interessati dovranno esprimere cinque preferenze della
provincia dove preferiscono insegnare. La proposta di assunzione dovrà essere accettata
dall’interessato entro dieci giorni. Se non lo faranno non potranno ricevere altre proposte
di assunzione a tempo indeterminato e saranno cancellati dalle graduatorie. Nel caso in
cui nella loro classe di concorso non ci sia una cattedra disponibile non ci sarà
assunzione. In un resoconto pubblicato dalla Uil scuola si sostiene che al personale
nominato in ruolo a settembre sarà assegnata per il prossimo anno scolastico la sede di
servizio provvisoria. La sede definitiva sarà attribuita successivamente secondo quanto
verrà stabilito dal contratto sulla mobilità relativa all’anno scolastico 2016/17. La
decorrenza giuridica delle nuove nomine sarà dal primo settembre 2015, ed economica
dal 2016. Chi entrerà in ruolo secondo la normativa in vigore prima della riforma di Renzi
potrà mantenere la titolarità della cattedra.Per chi, invece, sarà assunto con l’organico
potenziato e farà riferimento agli «ambiti territoriali» non potrà contare su questa titolarità.
Da qui la critica sulla disparità di trattamento creato dal governo nel corpo docente. Una
discriminazione che è anti-costituzionale. Per la Gilda «questo meccanismo è un bluff.
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Non ci sarà alcun potenziamento dell’organico perché i posti coperti saranno soltanto
quelli delle supplenze. Nel prossimo anno scolastico, comunque vada, avremo circa 60
mila cattedre senza insegnanti di ruolo». E saranno dunque necessari altrettanti
«supplenti». In altre parole, il precariato a scuola continuerà ad esistere, nonostante gli
annunci del governo.
del 10/07/15, pag. 1/5
Perché la scuola non si rassegnerà a Renzi
Ddl Scuola. La legge non va corretta in corso d’opera. Serve un
referendum abrogativo
Alba Sasso
Mentre non si ferma la protesta del mondo della scuola, e non si fermerà nei prossimi
mesi, è stato approvato oggi il ddl sulla scuola. C’è stato bisogno della fiducia al Senato e
della blindatura del testo alla Camera.Un modo di procedere autoritario e arrogante, ma
soprattutto un atto irresponsabile. Matteo Renzi sa bene, almeno lo sa qualcuno del suo
staff, che da settembre la scuola sarà in un caos totale. Le assunzioni dei precari sono
diminuite — da un annuncio all’altro, da un emendamento all’altro — da 148.000 a
100.000 circa fino ad arrivare alle attuali 60.000, banalmente il normale turn over. Poi altre
in corso d’anno. Forse.
I nodi vengono al pettine: e anche le bugie. Se non si approva il ddl non potranno esserci
tutte le assunzioni, si diceva. Non sarà così.
Il ddl è stato approvato ma le assunzioni non saranno per tutti (ad alcuni sarà
graziosamente concessa la possibilità di fare un altro concorso) e saranno centellinate nel
tempo.E ancora, per giustificare la volontà di non fare il decreto per le assunzioni,
l’argomentazione ossessivamente ripetuta era: «non si possono fare le assunzioni dei
precari nella scuola così com’è». E invece le nuove norme su organizzazione e gestione
del sistema andranno in vigore dal 2016. Ma allora? Perché si continua a giocare sulla
pelle delle persone? Perché non si tiene in nessun conto una protesta civile e composta
come quella della stragrande maggioranza del mondo della scuola?
Perché non si è mai tentata con la scuola e le sue rappresentanze un’interlocuzione
positiva? Che non è sicuramente quella del «vi ascolto ma poi decido io». Perché si è
continuato a ripetere che la gente non capiva, fino ad arrivare alla farsa del gesso e della
lavagna? Forse vale la pena riassumere i termini generali, entro i quali il dibattito si è
sviluppato. Un dibattito che, come non accadeva da decenni, ha coinvolto non solo gli
addetti ai lavori ma una larga e significativa parte dell’intellettualità di questo Paese,
anch’essa inascoltata.
Lo scontro non è stato di tipo ideologico, innanzitutto. Non si sono confrontati una scuola
«di sinistra» contro un governo «di destra», per usare delle semplificazioni pure molto
diffuse. Si tratta invece di un mondo, quello degli insegnanti innanzitutto, e poi delle
famiglie e dei ragazzi, che da sempre si «prende cura» della scuola, che è in ogni paese
civilizzato la garanzia di un futuro migliore, comunque. Ecco, diciamo che lo scontro è tra
chi pensa che della scuola pubblica ci si debba prendere cura per il valore costituzionale
che rappresenta e chi invece la paragona ad un’azienda, verso cui vanno applicati
esclusivamente principi aziendali.Qualcuno l’ha già pensato in passato, Tremonti e
Gelmini, per esempio. In quel caso tagli pesantissimi. In questo caso presidi manager,
insegnanti scelti dai capi di istituto e una nuova gerarchia tra le scuole, avviando una
competizione che rischia di lasciare indietro proprio quelli che hanno più bisogno. Secondo
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un modello che paesi come gli Stati uniti stanno dismettendo.Ma a tanti, dentro e fuori la
scuola, interessa soprattutto che la scuola continui a formare ragazzi che sanno.
Conoscono. Riflettono. Imparano. Tutte cose che vanno al di là di una mera filosofia
aziendale, non ci sono cattivi da punire con trattenute di stipendio, o bravi da incentivare
con regalie in denaro.
C’è un intero sistema che va accudito con la cura che merita. È questo l’errore, stavolta sì
ideologico, del governo attuale come di quelli precedenti: l’incapacità di misurarsi con la
scuola come sistema, e non come un semplice insieme di istituti e persone che vi lavorano
dentro. Perciò questa legge non può essere corretta in corso d’opera come sostiene
qualcuno, anche in queste ore. Perciò occorrerà un referendum abrogativo.Lo sa bene il
popolo della scuola ( insegnanti, studenti, anche tantissimi dirigenti) che continua e
continuerà nei prossimi mesi ad essere in piazza, unito come non mai, combattendo una
battaglia che ha il respiro largo delle grandi battaglie civili. Come da tempo non avveniva.
Non sono persone che non hanno l’ardire dell’innovazione o patiscono la paura di essere
valutate. Sono persone che sanno bene come funziona la scuola, a differenza dei tanti che
ne scrivono sulle pagine della stampa nazionale guidati solo da impressioni o vecchi
pregiudizi.
Sono quelli ai quali un recentissimo rapporto Ocse riconosce sempre migliori capacità di
governare e migliorare il sistema pubblico della scuola italiana in una società che cambia.
Difendere la scuola pubblica ormai è questo, un vero e proprio scontro di civiltà, termine
abusato quanti altri mai, ma forse il più adeguato. La scuola pubblica è civiltà. È
patrimonio genetico si può dire, del nostro vivere. Questo va fatto capire ai giovanotti del
governo, alla loro visione «smart» ed «easy» del fare politica e del governare. Riportarli
nel mondo reale, di cui la scuola è maestra e specchio come nessun’altra istituzione.
Abbiamo ancora tutti da imparare dalla scuola. Soprattutto loro.
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CULTURA E SPETTACOLO
del 10/07/15, pag. 12
Fare cinema «In progress»
Laboratori. Come offrire ai giovani cineasti italiani un sostegno nella
ideazione dei loro progetti? Il Milano Film Network prova a rispondere
con un workshop di sviluppo nel corso del quale i partecipanti arrivano
a un primo trattamento del loro film. Alla fine una commissione deciderà
i vincitori, in premio due finanziamenti. Docenti dell’edizione 2015, Carlo
Hintermann e Leonardo Di Costanzo
Giovanna Branca
«Bisogna portare a casa i buoni prodotti, piuttosto che un vecchio dado, una mezza
cipolla, dell’olio di semi. Come metterli insieme lo vedremo dopo. Cominciamo col portare
a casa dei bei momenti di cinema», dice Leonardo di Costanzo parlando a un suo
studente. Poco lontano, in un’altra stanza della Fabbrica del Vapore di Milano trasformata
in aula dall’aspetto informale, Carlo Hintermann parla con un ragazzo di una necessità
analoga: la ricerca di «pezzi di cinema». I due cineasti – Di Costanzo autore de
L’intervallo, Hintermann di The Dark Side of the Sun, e anche produttore, tra i suoi film
Ana Arabia di Gitai — seguono i ventiquattro ragazzi selezionati per il workshop «In
Progress» — a cura del Milano Film Network, in collaborazione con il festival milanese
Filmmaker, e il finanziamento della Fondazione Cariplo.
Giunto al suo secondo anno di attività, il workshop segue i vincitori per alcuni mesi nella
preparazione di un progetto per un film. Da aprile a settembre, i giovani filmmaker si
ritrovano periodicamente per un weekend a Milano nel corso del quale incontrano i loro
insegnanti e si confrontano sui progressi fatti. Dodici di loro insieme a Hintermann, gli altri
dodici con Di Costanzo tratteggiano lentamente un percorso che li porterà al dossier finale,
una sorta di primo abbozzo del loro film che verrà giudicato da una commissione
composta dai loro stessi insegnanti e da professionisti esterni. I cinque vincitori potranno
continuare il percorso accompagnati dallo staff di «In progress», due avranno un
finanziamento di cinquemila euro, ed uno di duemila.
La loro provenienza geografica, così come le loro esperienze precedenti sono fra le più
diverse.
Claudia Brignone, ad esempio, ha trent’anni, viene da Napoli, ed al suo attivo ha già un
documentario - La malattia del desiderio - premiato Salina Doc Festival dell’anno scorso.
Ma non per questo si sente sicura di sé: «Noi documentaristi — dice — siamo delle anime
solitarie che devono capire cosa vogliono dire. Per questo è così importante confrontarsi
con dei registi».
Il progetto a cui sta lavorando all’interno di In progress nasce da un cortometraggio,
L’altalena, che Brignone ha realizzato in un altro laboratorio di cinema a Napoli,
ambientato nella villa comunale di Scampia: «Un posto bellissimo, pieno di verde alle cui
spalle si stagliano i palazzoni delle Vele».
Al workshop di Milano aveva presentato a Carlo Hintermann un’idea più ambiziosa, che si
allargava oltre la villa per comprendere tutta Scampia: «Volevo dividere geograficamente il
quartiere e seguire delle storie al suo interno» racconta. Alle volte, però, i «bei momenti di
cinema» sono più facili da trovare nelle piccole cose: «Carlo mi ha consigliato di tornare a
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lavorare solo sulla villa comunale, di restringere il campo per non perdermi in un ambiente
troppo vasto».
Anche Marco Longo è un allievo di Hintermann: di Genova, studia alla scuola di cinema di
Milano, ha già girato alcuni cortometraggi e scrive sul sito Filmidee. Nel suo progetto
vuole «raccontare da vicino la vita delle persone in stato vegetativo, delle loro famiglie e
dei medici che li curano».
Dice: «Mi sono appassionato al recente dibattito scientifico sulla coscienza delle persone
in questo stato, ai tentativi di testare le risposte coscienti dei malati e soprattutto di stabilire
se ce ne siano». Insieme a Hintermann cerca di capire da quale prospettiva entrare in
questo mondo, e nell’ambiente della clinica. «Devi cominciare ad avere una relazione con
le persone – gli dice Hintermann durante il loro colloquio – E scegliere la tua posizione». In
un film del genere, gli spiega ancora, «tutto è incentrato sulla capacità relazionale».
Al fianco di Marco c’è Alessandro Stellino, uno dei cinque tutor che aiutano i ragazzi. Gli
altri sono Luca Mosso, Alice Arecco, Ottavia Fragnito e Daniela Persico. I tutor seguono gli
studenti ancora più da vicino, passo dopo passo, con scambi di mail, telefonate ed
aggiornamenti costanti. Stanno al loro fianco quando ad uno ad uno vengono chiamati a
discutere i loro progressi con i due docenti mentre gli altri ascoltano, qualche volta
intervengono, spesso prendono appunti.
Luca Mosso segue gli Aves Project, un collettivo di ragazzi che frequentano l’Accademia
di Brera. Sono fra i pochi ad avere già delle immagini a disposizione e le mostrano a
Hintermann: c’è una donna che cammina lungo la strada di notte, e parla della sua
missione salvare i rospi — spinti «dall’istinto folle di andare al lago per accoppiarsi» —
dalle macchine che sfrecciano. L’episodio sui rospi è parte di un trittico sugli amanti degli
animali, i ragazzi discutono con il cineasta il modo migliore per far arrivare allo spettatore
quello che lui definisce «il viaggio epico dei rospi».
Poi mostrano le riprese di una riunione dei «salvatori di ranocchi», Hintermann guarda e
dice: «Le riunioni vanno girate con almeno due telecamere, perché quello che può
succedere è imprevedibile».
Insieme ai due registi e ai tutor, gli studenti di «In progress» hanno la possibilità di
assistere a delle masterclass con altre figure professionali del cinema. Quest’anno hanno
incontrato Roberto Minervini (Louisiana), che ha raccontato il metodo di lavoro con cui
costruisce i suoi documentari; i registi di Materia oscura Massimo D’Anolfi e Martina
Parenti; il produttore Paolo Benzi (L’estate di Giacomo); la sceneggiatrice di Garage
Olimpo Lara Fremder; il direttore del festival di Locarno Carlo Chatrian. La prossima sarà
Michèle Soulignac, direttrice di Périphérie, realtà che come «In progress» segue i progetti
di giovani cineasti.
Nel pomeriggio, seduti intorno ad un tavolo dopo un rapido pranzo al ristorante cinese, ci
sono gli studenti seguiti da Leonardo Di Costanzo. Nicola Roda, ventinovenne piacentino,
vorrebbe farsi assumere su una piattaforma di estrazione petrolifera per filmare il mondo di
chi ci lavora e ci vive. Di Costanzo osserva che difficilmente troverebbe il tempo per
lavorare e filmare contemporaneamente, a meno che — scherza — non voglia rinunciare
a dormire per mesi. Ancora una volta il problema è come introdursi nell’universo che si
vuole raccontare, come trovare la giusta angolazione e conquistare la fiducia di chi lo
abita. Scegliere una persona che abbia già esperienza in questo campo come guida può
essere una soluzione? Di Costanzo lo ammonisce: «Il personaggio non deve essere un
passepartout».
La soluzione forse è più semplice: Nicola — suggerisce il regista napoletano — potrebbe
ambientare la sua storia nel centro di training per chi farà questo lavoro, dove è già stato,
e che si presta anche da un punto di vista scenografico. Di nuovo il segreto e la risposta ai
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problemi è la semplicità. Ma bisognerà aspettare il prossimo incontro per sapere cosa ha
deciso Nicola.
Manuel Coser, come gli Aves Project, ha già del girato che ha mostrato in precedenza a Di
Costanzo. Il suo progetto verte intorno ad un ergastolano che ha da poco iniziato un corso
di teatro per detenuti, si sta laureando in medicina ed è diventato il bibliotecario del
carcere. Oggi Manuel aveva il compito di dare la risposta a due domande poste dal suo
insegnante: «Perchè vuoi raccontare questa storia per immagini anzichè con un testo
scritto?». E: «Cosa vuoi raccontare?». Manuel comincia a parlare ma Di Costanzo non è
convinto dal suo personaggio su cui imbastisce una rapida ed efficace lezione di cinema.
«Il protagonista che deve portare il film sulle spalle lavora contro di esso. Si è già costruito
un’immagine con cui rappresentarsi, cosa che nel cinema è terribile».
L’ergastolano, spiega ancora Di Costanzo «non è un personaggio con cui entri in empatia,
non ti accoglie. È già definito, e hai come l’impressione che la macchina da presa lavori
solo per confermarlo. L’umanità che c’è dietro non si trova con i discorsi. Mi arriva solo la
presentazione della sua autoassoluzione, che dal punto di vista dell’oggetto filmico non ha
nessun interesse». La via da intraprendere allora è un’altra: «O il film diventa una lotta in
cui tu tenti di far cadere la maschera che si è messo addosso o ti limiti a filmarla, ma
questo ha un effetto respingente». Dunque bisogna andare in cerca di qualcosa che
«sfugge al suo controllo e restituisce una parte della sua verità».
Il segreto è nello sguardo, nelle immagini, nella ricerca della realtà, non nei discorsi. Per
spiegarlo il regista racconta un aneddoto su una sua esperienza di lavoro in Ungheria.
«Filmavamo una ragazza che vendeva ninnoli al mercato, un signore si è levato il cappello
per salutare e sotto ne aveva un altro identico. Questa è la realtà che ti viene incontro».
Non olio di semi e vecchie cipolle.
del 10/07/15, pag. 28
IL SINDACO DELLA CITTÀ DOVE NACQUERO
I LIBRI
ADRIANO PROSPERI
LA VICENDA del sindaco leghista di Venezia Luigi Brugnaro, così preoccupato di
proteggere i bambini delle scuole da far sequestrare libri ritenuti dannosi per loro a casua
delle teorie di gender, è una storia che sembra anch’essa uscita da una fiaba. Forse un
giorno in una diversa Italia, qualcuno si metterà a tavolino e la racconterà, cominciando
magari così: «C’era una volta, in un paese lontano lontano un buon sindaco che amava
tanto i bambini». Buono, certamente: voleva liberarli dalla paura. Impresa eroica,
donchisciottesca: da sempre nelle fiabe esiste la paura. Senza paura non ci sarebbero le
fiabe. È lei la protagonista che protende le sue ombre cupe sulla vita infantile e quasi
sempre lo fa proprio dall’interno delle famiglie. Ripensiamo a come siamo cresciuti noi che
non abbiamo avuto sindaci così attenti. Il mondo che abbiamo conosciuto attraverso le
fiabe era un mondo terribile. Vi accadevano cose spaventose. E tutte con la
collaborazione attiva di membri della famiglia. C’erano padri che abbandonavano
ripetutamente i figli nel bosco (Pollicino), finte nonnette con tanto di cuffia che standosene
in letto spalancavano all’improvviso una bocca enorme e divoravano la nipotina dal
cappuccetto rosso, che poi era salvata da un cacciatore di passaggio grazie al coltellaccio
con cui apriva la pancia della nonna-lupo (un parto cesareo?). Non augureremmo a
nessuno di vivere le esperienze degli eroi delle fiabe, di quelle che hanno occupato le
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nostre fantasie infantili. I bambini vi attraversavano foreste oscure, erano a rischio di finire
nella pentola dell’orco, venivano schiavizzati o condannati a morire da matrigne infernali
come quelle di Cenerentola e di Biancaneve. I loro interni di famiglia erano quanto di più
irregolare si potesse immaginare. Il capolavoro indimenticabile fu per molti di noi la storia
di un burattino che chiamava “babbo” il falegname che lo aveva intagliato da un tronco di
legno e incontrava poi una sorellina/mamma in una bambina dai capelli turchini — una
crudelissima creatura capace di ignorare le invocazioni del povero burattino impiccato a un
ramo della quercia grande. Chissà se quel sindaco lo ha letto. E soprattutto chissà se
immagina quali messaggi sotterranei si intreccino nelle storie e nei simboli in apparenza
più innocenti — per esempio il cappuccetto rosso di quella bambina. Speriamo che non
legga le interpretazioni di Erich Fromm o le brillanti pagine scritte anni fa da Robert
Darnton sulle diverse versioni di questa fiaba. Perché se ne avesse anche solo un’idea
sarebbe costretto a spingere la sua campagna assai al di là dei confini che finora ha
toccato.
Ma torniamo alla fiaba che un giorno sarà scritta su questa storia: quale parte toccherà al
sindaco? Forse quella del cacciatore che libera Cappuccetto rosso dal ventre della nonnalupo, o quella del Principe Azzurro che risveglia Biancaneve e la sposa. In realtà, il suo
ruolo nella vicenda ricorda quello del Pifferaio magico: come il Pifferaio, anche il sindaco
ha dato un segnale, ha emesso un ordine del piffero contro i libri ritenuti pericolosi: il suo
piffero ha intonato una melodia e tutti, tutti li ha portati via. Evento strano, fiabesco: quel
piffero del sindaco ha fatto sparire dalle scuole tanti libretti che a noi non sembravano
minacciosi quando li scoprimmo nella bellissima fiera del libro per ragazzi di Bologna e poi
li cercammo in libreria per regalarli a figli propri o altrui, e più tardi a nipotini e nipotine: libri
coloratissimi, disegnati da maestri assoluti come Altan, popolati di esseri come il Guizzino
inventato da Leo Lionni — un pesciolino nero, membro di una famiglia di pesciolini rossi
(ma per quale via ? inquietante quel nero fra i rossi, ora che ci pensiamo), sfuggito al
grosso tonno che divora tutti i pesciolini rossi della sua famiglia ma pronto a farsi un’altra
più grande famiglia per opporsi al tonno. Già, la famiglia. Sta sullo sfondo, irregolare,
disforme e complicata, da sempre. Spesso pericolosa, quanto tranquillizzanti gli animali. Il
popolo di animali umanizzati abita il paese delle fiabe fin dai tempi di Fedro. Cambia un
po’ col tempo. Ai tempi del ciuchino di Pinocchio li si incontrava per la strada e nei campi,
oggi c’è la televisione o lo zoo. Ma è sempre un messaggio tipico della fiaba quello di
mettere in gioco tutte le forme di vita che ci circondano.
Un ultimo suggerimento all’autore futuro: non dimentichi di raccontare che quel sindaco
governava una città speciale, davvero fiabesca, dove i libri erano stati sempre di casa. Vi
affluivano da lontano come i pesci di Lionni e vi erano nati come gli alberi delle foreste di
Pollicino e di Cappuccetto Rosso. In quella città vi erano stati concepiti tanto tempo fa, per
la prima volta al mondo, i libri-bambini, bellissimi, così piccoli da poterli mettere in tasca: e
infatti li hanno chiamati “tascabili”. Li aveva creati un mago venuto da lontano, di nome
Aldo con l’aiuto di un altro mago di nome Erasmo che veniva anche lui da molto lontano.
Potremmo chiamarli genitore uno e genitore due. Quella era stata una nascita senza
madre. O forse la madre c’era, si chiamava Venezia. Chissà se nel futuro Venezia non
sarà diventata anche lei solo il nome di una creatura magica, abitante solo nella fantasia
— la fata Venezia. Perché è anche così, con la caccia ai libri, che Venezia muore.
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ECONOMIA E LAVORO
del 10/07/15, pag. 18
Libero scambio / 1. Con 436 a favore e 241 no e 32 astenuti,
l’Europarlamento approva le linee al negoziato
Ttip, da Strasburgo sì con paletti
Giudici indipendenti e appello nelle liti Stato-privato e Ogm vietati
Sì dell'Europarlamento a negoziare con gli Usa la creazione di una gigantesca area di
libero scambio, ma senza compromettere gli standard di sicurezza alimentare europei, nè
tribunali privati. Le ”liti” tra Stati e multinazionali dovranno essere regolate da organismi
pubblici. Il Parlamento – a Strasburgo in seduta plenaria – ha approvato, mercoledì, le
proprie raccomandazioni per i negoziatori della Commissione Ue sul Ttip ( l’accordo di
libero scambio su commercio e investimenti fra Ue e Stati Uniti in corso di negoziazione). Il
testo è stato approvato dall’Aula con 436 voti favorevoli, 241 voti contrari e 32 astensioni.
Un lungo e paziende lavoro di “cesello” portato avanti da Bernd Lange, presidente della
commissione europarlametare “Commercio Internazionale”, che aveva il compito di
produrre, sul tema del Ttip, un testo di sintesi. Il compromesso tra i gruppi politici, dopo
settimane di discussioni laceranti, di “stop and go”, di voti rinviati (l’Aula di Strasburgo
avrebbe dovuto esprimersi un mese fa), prevede che per gli strumenti di risoluzione delle
controversie investitore-Stato, un nuovo sistema giudiziario sostituisca l’attuale, che si
basa sull’arbitrato privato ed è comune negli accordi commerciali esistenti.
Liti investitore-Stato (Isds)
La nuova formula afferma che «il sistema Isds sarà rimpiazzato da un nuovo sistema per
risolvere le dispute tra investitori e Stato che sia soggetto ai principi democratici», e che
assicuri «che potenziali casi siano trattati in maniera trasparente in udienze pubbliche da
giudici professionisti e indipendenti», un sistema che includa «un meccanismo di appello
in cui sia assicurata la consistenza delle decisioni giuridiche, sia rispettata la giurisdizione
delle Corti Ue e di quelle degli Stati membri e dove gli interessi privati non possano minare
gli obiettivi delle politiche pubbliche».
Igp e Ogm
Gli eurodeputati chiedono alla Commissione di assicurarsi che il Ttip garantisca «il pieno
riconoscimento e una forte protezione giuridica» delle indicazioni geografiche dell’Unione.
L’obiettivo deve essere sopprimere tutti i dazi doganali, tenendo però conto del fatto che
«esistono diversi prodotti agricoli e industriali sensibili sulle due sponde dell’Atlantico, per i
quali bisognerà compilare delle liste complete durante il processo di negoziazione».
Inoltre, il Parlamento specifica che dovranno essere previste delle «misure volte ad
affrontare i casi di uso improprio e di informazioni e pratiche fuorvianti» per tutelare i
prodotti europei in vendita sul mercato americano. Al contrario, l’Aula di Strasburgo
pretende che non ci sia «alcun accordo nei settori in cui Ue e Usa hanno norme molto
diverse». Ovvero, dai servizi sanitari pubblici, agli Ogm , al'impiego di ormoni nel settore
bovino, al regolamento “Reach” (che riguarda i prodotti chimici, ndr) sino alla clonazione
degli animali a scopo di allevamento».
Protezione dei dati
Il testo della risoluzione Lange esorta poi la Commissione a «garantire che l’insieme dei
diritti della Ue in materia di protezione dei dati personali non venga compromesso».E
chiedono una clausola indipendente orizzontale «che esoneri totalmente dall’accordo il
vigente e futuro quadro giuridico dell’Ue sulla protezione dei dati personali». Perchè
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l’approvazione definitiva del Ttip «potrebbe essere a rischio fintantoché gli Stati Uniti non
cesseranno del tutto le attività di sorveglianza indiscriminata di massa e non si troverà una
soluzione adeguata alla questione del diritto alla riservatezza dei dati dei cittadini
dell'Unione».
Servizi e appalti pubblici
Gli eurodeputati chiedono che venga esplicitamente escluso dal perimetro del Ttip
qualsiasi servizio d’interesse generale: acqua, sanità, servizi sociali e istruzione. Mentre,
considerata la quasi inaccessibilità del mercato Usa degli appalti alle imprese europee, la
risoluzione Lange incita la Commissione a negoziare per «eliminare le restrizioni ora
vigenti negli Usa a livello federale, statale e locale».
Le reazioni
«La nostra normativa sugli Ogm non cambierà – ha affermato il commissario Ue al
Commercio internazionale, Cecilia Malmstroem –mentre riguardo all’Isds abbiamo
l’opportunità di sbarazzarci di un sistema obsoleto e crearne uno nuovo. Qualcosa che
definisca chiaramente che gli Stati hanno il diritto di regolamentare e proteggere i
cittadini». «Ho l’impressione che l’Isds sia diventato un simbolo – ha concluso ’'autore del
testo di compromesso, il socialdemocratico tedesco Bernd Lange – ma la risoluzione
riguarda un ventaglio di proposte molto più ampio». Il decimo round dei negoziati
commerciali Ue-Usa sul Ttip si terrà il 13-17 luglio 2015 a Bruxelles. Per entrare in vigore,
una volta elaborato dai negoziatori, l’accordo dovrà essere approvato dal Parlamento
europeo e dal Consiglio.
Laura Cavestri
del 10/07/15, pag. 5
Il Fondo monetario in pressing
“Serve la ristrutturazione del debito”
Il capo economista punta a un taglio: “Se chiediamo troppo non avremo
nulla”
Marco Zatterin
Il terzo creditore della Grecia è particolarmente loquace. Sono molti nella bolla europea
che lo vorrebbero veder diventare un ex-creditore, ma il Fondo monetario internazionale
non arretra d’un passo, per questione di prestigio e opportunità economica, oltre che per
non rischiare di perdere troppi soldi. Da dieci giorni Atene è insolvente per 3,5 miliardi nei
confronti di Washington, somma che lunedì salirà di 452 milioni. L’esigenza chiaramente
espressa di evitare che la linea europea contro Atene diventi troppo dura si manifesta a
Washington con l’auspico di una riduzione del debito. «Dicono che se chiediamo troppo,
finiremo per non avere nulla», suggerisce una fonte a Bruxelles. Ma è una strategia che, a
Berlino e in particolare al ministero delle Finanze tedesco, si fatica a spalleggiare.
L’apertura di Blanchard
Il capo economista del Fmi, Olivier Blanchard, ieri è stato aperto e prudente. Ha spiegato
che una Grexit non è auspicabile, però ha spiegato che gli effetti della crisi greca sul resto
del mondo sono «limitati». Non è una Lehman Brothers, ha detto. E’ meno sistemica e
avviene in sistema più protetto. Allo stesso tempo, ha negato di voler fare altri sconti, «non
possiamo semplicemente estendere gli arretrati sui pagamenti senza un programma», le
regole non lo prevedono. «Il Fmi dovrebbe fare di più di quel che ha fatto?», ha chiesto
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retoricamente in una conferenza stampa svoltasi a Washington. «Tutti dovrebbero», gli ha
risposto indirettamente il presidente del Consiglio Ue, Donald Tusk.
«A testa bassa»
«Continuiamo a lavorare a testa bassa con Bce e Fmi», ha assicurato il numero due della
Commissione, Valdis Dombrovskis. Come il Consiglio, anche il Team Juncker è convinto
che sia necessario concedere qualcosa sul debito. Blanchard, parlando alla Cnbc, si è
spinto sino a riconoscere «la necessità di finanziamenti al Paese e una ristrutturazione del
debito». Il direttore del Fondo presentava il nuovo rapporto previsionale: per l’Eurozona ha
confermato la crescita 2015 (1,5%) e alzato quella del 2016 (1,7%). Riviste all’insù i
numeri italiani, allo 0,7% quest’anno (da 0,5) e a 1,2% il venturo (1,1).
Il comportamento del Fondo è centrale nel calcolare di quanti soldi avrà bisogno Atene
qualora si raggiunga un accordo di qui a domenica. La stima dei tecnici Ue è che, nella
migliore delle ipotesi, non si riuscirà a pagare i greci entro il 20 luglio, giorno in cui la Bce
chiederà indietro 3,5 miliardi (e la Bei 25 milioni). Se si metteranno d’accordo, servono 7
miliardi da pagare in dieci giorni. «Senza un artificio giuridico non li può dare il fondo
salva-Stati Esm - spiega una fonte europea - perché gli esborsi devono essere
condizionati». Occorre un’idea che, ancora, non è emersa.
Il tesoretto
Il paradosso sarebbe se l’unica dote versata ai greci fosse il tesoretto degli Smp, gli utili
sui titoli di Stato comprati della Bce dopo il 2010. Sono 3,3 miliardi. Basterebbero a pagare
un solo creditore, e nemmeno. Ma chi? Una fonte greca parla di contatti fra Christine
Lagarde e il governo Tsipras nei quali sarebbe stato spiegato che il Fondo è un cliente
prioritario. In quel caso, bisognerebbe trasferire l’insolvenza da Washington a Francoforte.
Sarebbe un dramma che diventa un horror.
La scelta
La scelta, dicono più voci, dovrebbe essere politica e punterebbe sulla Bce. Anche qui,
spiegano le fonti, mancano regole precise, un default così vasto è del tutto inedito.
Diventerà un bel caso di scuola. Prima, però, occorrerà scrivere un accordo ancora tutto
da fare.
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