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RASSEGNA STAMPA venerdì 10 luglio 2015 L’ARCI SUI MEDIA INTERESSE ASSOCIAZIONE ESTERI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE WELFARE E SOCIETA’ DIRITTI CIVILI E LAICITA’ INFORMAZIONE SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI CULTURA E SPETTACOLO ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da il FattoQuotidiano.it del 10/07/15 G8 di Genova, piazza Alimonda vietata ai poliziotti anti Carlo Giuliani: “Sit in provocatorio” La questura dice no al Coisp che aveva indetto un corteo nel luogo dove il 20 luglio 2001 lo sparo del carabiniere Placanica uccise il manifestante. La risposta del sindacato di polizia: “Decisione antidemocratica” di Lorenzo Galeazzi | “L’iniziativa in oggetto viene ritenuta incompatibile sotto il profilo dell’ordine e della sicurezza pubblica sia per la contestualità sia per l’oggetto”. Con queste righe la questura di Genova prova a mettere la parola fine all’ennesima provocazione del sindacato di polizia Coisp che l’altro giorno ha indetto per il 20 luglio 2015 una manifestazione in piazza Alimonda “per ricordare la verità del G8 genovese e non solo le storpiature di qualcuno”. Per chi non lo sapesse piazza Alimonda, insieme alla scuola Diaz e alla caserma di Bolzaneto, è uno dei luoghi simbolici delle drammatiche giornate di contestazioni al summit internazionale, quello in cui il 20 luglio 2001, nel corso di violenti incidenti fra manifestanti e forze dell’ordine, Carlo Giuliani rimase ucciso a causa di un colpo di pistola sparato dal carabiniere Mario Placanica. L’annuncio del presidio ha subito scatenato reazioni durissime dentro e fuori Genova, dall’Arci a Sel fino alla famiglia Giuliani, e i toni volutamente polemici dell’evento, a partire dal titolo “L’estintore come strumento di pace” (“tema” già provocatoriamente lanciato anni fa, sempre in occasione del 20 luglio), hanno indotto il questore della città Vincenzo Montemagno a fermare tutto: “L’iniziativa proposta non può essere percepita come non provocatoria per la memoria di Carlo Giuliani come del resto è palesata anche rispetto alla titolazione”. Va ricordato poi che il Coisp non è nuovo a sortite del genere: è lo stesso sindacato che il 27 marzo 2013 organizza a Ferrara un sit in sotto le finestre dell’ufficio di Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi, il giovane ucciso nel 2005 da quattro agenti. Il motivo? Protestare contro la condanna infitta ai colleghi. Sarà un caso, ma proprio due giorni fa la donna aveva deciso di ritirare le querele contro i poliziotti e il senatore Ncd Carlo Giovanardi perché “un’eventuale condanna non cambierà persone che costruiscono la loro carriera sull’aggressività e sul rancore”. Ma al contrario dei protagonisti del caso Aldrovandi, Placanica non ha avuto conseguenze penali e il 5 maggio 2003 il processo per l’omicidio Giuliani venne archiviato per “legittima difesa” e “uso legittimo delle armi in manifestazione”. Ai sindacalisti del Coisp questo però non è bastato perché, come spiega il loro sanguigno segretario regionale, Matteo Bianchi, il loro vero obiettivo è la memoria di Carlo e i simboli che l’accompagnano. A partire dal cippo di granito posizionato nel 2013 in un’aiuola di piazza Alimonda che ricorda il giorno della sua morte. 2 “Quel ragazzo era con un passamontagna e un estintore in mano – tuona Bianchi – e se oggi non fosse morto sarebbe in galera per l’omicidio di un carabiniere”. Il sindacato ha anche avviato una raccolta firme “che ha già raggiunto 15mila adesioni” per fare rimuovere la piccola opera scultorea. “Se ci passo di fianco con mio figlio – attacca il segretario ligure del Coisp – e lui mi chiede chi è Carlo gli rispondo che è un giovane morto mentre cercava di ammazzare un militare. A quel punto mi riuscirebbe difficile spiegargli perché gli sia stato dedicato un monumento”. Nessuna polemica nei confronti della famiglia precisa subito dopo Bianchi: “La nostra iniziativa è per avere un ricordo del G8 a 360 gradi ed è per questo che avevamo invitato a partecipare anche Luca Casarini e Giuliano Giuliani (padre di Carlo, ndr)”. Fatto sta che, con l’intervento della questura, anche quest’anno il cippo rimarrà al suo posto e il 20 luglio il “comitato piazza Carlo Giuliani” terrà le sue celebrazioni al riparo dalle provocazioni del Coisp. Che se vorrà manifestare dovrà farlo con “modalità di tempo e di luogo diverse”, come del resto avviene ormai da due anni quando, in occasione della ricorrenza, il sindacato ha fatto girare per Genova un camion vela (quelli con i cartelloni pubblicitari sul retro) tappezzato dalle immagini d’epoca dei black bloc in azione nel capoluogo ligure. Ma Bianchi non si dà pace, tant’è che medita le sue dimissioni dal sindacato e ragiona sull’opportunità di fare ricorso prima in prefettura e poi al Tar: “Non mi rassegno a questa decisione antidemocratica perché non accetto l’idea che quella piazza sia utilizzata solo a uso e consumo di una certa visione dei fatti del G8”. Ma sono i suoi superiori a spiegare che “è impossibile mediare con il comitato piazza Carlo Giuliani onlus una località o un giorno diverso perché questi sono i presupposti simbolici dell’ormai tradizionale commemorazione”. http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/07/09/g8-di-genova-piazza-alimonda-vietata-aipoliziotti-anti-carlo-giuliani-sit-in-provocatorio/1859384/ Da Affari Italiani del 10/07/15 Reato di tortura, attacco delle associazioni: "Annacquano il testo" Nuove modifiche alla legge sul reato di tortura. Le associazioni insorgono: "Stanno annacquando il testo che sta peggiorando al punto da diventare incompatibile con la Convenzione delle Nazioni Unite" La commissione Giustizia del Senato ha modificato ancora una volta il disegno di legge sul reato di tortura che ora dovrà tornare alla Camera nel caso in cui l'aula di palazzo Madama approvi le modifiche. E' da marzo 2013 che si verifica un 'rimpallo' sul testo tra i due rami del parlamento. Al centro della questione innanzitutto la 'premura' che non si vada a configurare un reato contro le forze dell'ordine. E le polemiche non si sono fatte attendere: "Con le modifiche apportate dalla Commissione Giustizia del Senato, chi si opponeva all’introduzione del reato di tortura nel nostro ordinamento ottiene un doppio risultato: in primo luogo il testo approvato dalla Camera viene peggiorato al punto da diventare incompatibile con la Convenzione contro la tortura delle Nazioni unite che l’Italia ha l’obbligo invece di rispettare. Diminuiscono infatti le sanzioni e il reato, che rimane ‘comune’ e non ‘proprio di pubblico ufficiale’ come richiesto dalla Convenzione, diventa ancora più generico", scrive l'Arci in un comunicato. "Per essere considerata tortura, la violenza o la minaccia deve essere infatti ‘reiterata’, spariscono le finalità discriminatorie introdotte per definire meglio la fattispecie, così come 3 sparisce la locuzione ‘per vincere una resistenza’, che aveva fatto insorgere parte delle forze dell’ordine", prosegue il comunicato Arci. "In secondo luogo, dovendo il testo ritornare alla Camera, si allungano ancora i tempi di approvazione di un testo in discussione dal 2013 e che probabilmente finirà affossato. Una vittoria della parte più regressiva del parlamento e della polizia, una sconfitta per la democrazia e la civiltà di questo paese". http://www.affaritaliani.it/cronache/reato-di-tortura-374696.html Da Redattore Sociale del 09/07/15 Scuola, Arci: "Cattiva riforma, più diseguaglianze e meno qualità" L'associazione commenta la legge approvata oggi: "Distrugge il principio, sancito anche dalla nostra Costituzione, di una scuola che dev’essere pubblica, uguale per tutti e tesa verso un sempre più alto livello qualitativo, riservando invece solo ai ceti più abbienti una scuola di qualità" ROMA - "Una cattiva riforma". E' il giudizio dell'Arci sulla riforma approvata oggi. "Da oggi si legge in una nota - la scuola non è uguale per tutti. Da oggi infatti la riforma della scuola è legge. Una cattiva riforma che il governo italiano ha voluto, decidendo con arroganza di non ascoltare le voci di studenti, insegnanti, lavoratori, famiglie, associazioni che chiedevano, con la forza di una immensa partecipazione e con contenuti di qualità, importanti cambiamenti". "E’ una cattiva riforma perché, come denunciamo da tempo, distrugge il principio, sancito anche dalla nostra Costituzione, di una scuola che dev’essere pubblica, uguale per tutti e tesa verso una sempre più alto livello qualitativo, riservando invece solo ai ceti più abbienti una scuola di qualità". "Dunque da oggi avremo una scuola che inasprirà le diseguaglianze e mortificherà la crescita culturale, sociale e economica del nostro Paese. Una scuola in cui gli spazi di partecipazione e democrazia saranno ancora più sacrificati, diventando di fatto residuali. Una scuola che continuerà a sostenere modelli valutativi, come l’Invalsi, che non tengono conto dell’essenza complessiva dell’apprendimento e della persona". "L’Arci continuerà perciò ad essere e al fianco di insegnanti, studenti, sindacati nella mobilitazione quotidiana, con l’obiettivo di contrastare le conseguenze negative di questa riforma ingiusta e sbagliata", conclude la nota. 4 INTERESSE ASSOCIAZIONE del 10/07/15, pag. 14 Con Santo della Volpe moriamo un po’ tutti Vincenzo Vita Con Santo della Volpe, scomparso prematuramente per un tumore crudele che l’ha perseguitato per mesi, moriamo un po’ anche noi, che abbiamo avuto l’opportunità e il privilegio di conoscerlo e di frequentarlo. Da anni, da quando cominciò a scrivere sul Quotidiano dei lavoratori, prima tappa di un percorso professionale di eccellenza, vissuto con passione profonda nella Rai: dove, se davvero il merito e il riconoscimento della bravura fossero stati al posto di comando, avrebbe certamente dovuto dirigere una testata. Ma Santo, pur scrupoloso e attentissimo agli obblighi del suo lavoro, non faceva parte del coro mainstream o di qualche lobby di potere. Anzi. Entrato alla Rai a Torino nel 1982, si fa notare proprio per le inchieste difficili seguite con scrupolo e coraggio, attitudine diventata il suo marchio inconfondibile al Tg3, inviato: nei luoghi di guerra dalla prima guerra del Golfo al Kosovo; dal processo sull’amianto a Casale Monferrato alle morti sul lavoro; alle epiche cronache antimafia — un territorio pericoloso e duro affrontato con leggerezza calviniana; al racconto dei movimenti e delle associazioni della società di cui è stato cronista e insieme militante. Con un rapporto bellissimo con don Luigi Ciotti, dirigendo — dopo Roberto Morrione — «Libera informazione». Ed è stato pure tra i fondatori di «Articolo21», nel cui nome solo qualche settimana fa aveva premiato diversi giornalisti minacciati dalla criminalità organizzata. A fine gennaio il congresso della Federazione della Stampa lo designò presidente, quasi il coronamento dell’ impegno costante profuso anche a livello sindacale. In tale veste, ricoperta con sapienza e umiltà, sono stati numerosi i punti messi nell’agenda delle priorità, dalla riforma della Rai al dibattito sulla diffamazione a mezzo stampa. Proprio su quest’ultima proposta di legge (appena varata in terza lettura dalla Camera dei deputati e ora di nuovo al Senato) una voce resa flebile dalla malattia, e tuttavia fermissima, si era sentita costantemente. Per suggerire quei miglioramenti che hanno reso un po’ (ancora non del tutto) più potabile il testo. Le lotte instancabili per la libertà di informazione, per la legalità e contro ogni bavaglio hanno accompagnato gli anni della maturità di Santo Della Volpe, premesse per ulteriori riflessioni sulle novità del mondo della comunicazione, corda cui era sensibilissimo. Purtroppo, le Parche hanno reciso troppo presto il filo e, in questa sconvolgente transizione in corso segnata dalle tecniche digitali, rimaniamo orfani. L’accettazione dell’incarico di presidente della Fnsi, con un corpo già travolto dal male, fu un atto di generosità che voleva essere proprio la scelta di una missione, quella di dare un contributo teorico e pratico al governo democratico dei media. Soprattutto per chi opera in un settore via via impoverito e precarizzato. I colleghi affezionatissimi, accorsi a vegliare sulle spoglie di un leader amatissimo, raccontano delle ultime parole di Santo, rivolte alla discussione sulle cose da fare. La morte imminente era solo un’eventualità, da posporre rispetto all’etica del «che fare». E sì, ci ha salutato una persona profondamente intrisa di moralità, in grado fino all’ultimo di mettere il proprio sé a disposizione dell’intelligenza collettiva. Non a caso, il cordoglio è stato ampio e generale a cominciare dal Presidente della Repubblica. 5 E il ricordo, grazie a Walter Verini relatore del disegno di legge sulla diffamazione e grande amico, è stato commosso anche alla Camera dei deputati. Insomma, si è conclusa anzitempo una storia proprio bella, da prendere ad esempio. È stata al suo fianco, letteralmente fino all’ultimo respiro, la compagna della vita, la brillante e vivace Teresa Marchesi che ci ha raccontato molta parte della cultura e dello spettacolo dal Tg3. Oggi, per chi vorrà, si potrà portare l’ultimo saluto dalle 11 alle 20 presso la sede della Fnsi (a Roma, Corso Vittorio Emanuele, 349), mentre domani alle 11 verranno celebrati da don Ciotti i funerali nella Basilica di Sant’Agnese, davanti a Santa Costanza, dove Teresa e Santo si sposarono. Un amore profondo. 6 ESTERI del 10/07/15, pag. 2 La montagna del debito Crisi dell'Europa. Secondo le indiscrezioni, Atene ha inviato a Bruxelles un piano lacrime e sangue. Ma chiede un taglio al debito. Tusk e Lagarde disponibili. Schauble e Merkel contrari. Stiglitz: «Gli Usa finanzino direttamente la Grecia» Anna Maria Merlo PARIGI Joseph Stiglitz, premio Nobel dell’economia: «Gli Usa si sono mostrati generosi con la Germania, dopo averla sconfitta. Adesso è tempo per gli Usa di essere generosi con i nostri amici greci nel loro momento del bisogno, schiacciati per la seconda volta in un secolo dalla Germania, questa volta con il sostegno della troika». Il drammatico appello di Stiglitz su Time rivela la gravità della situazione. Il Nobel chiede alla Federal Reserve di aprire una linea di credito diretta alla Banca Centrale greca, per mostrare ai greci «tutta la solidarietà e l’umanità che i loro partner europei non sono stati capaci di dimostrare». A Bruxelles i toni sono ben diversi. Atene ha spedito ieri a Fmi e Commissione intorno alle 21.30 l’ultima proposta dopo l’ultimatum post-referendario. Sabato il piano verrà sottoposto all’Eurogruppo, seguìto domenica da due vertici straordinari, prima dei capi di stato e di governo dei 19 paesi della zona euro, poi dei 28 della Ue, con la solita sequenza che mette in prima fila la risposta «tecnica». La convocazione del Consiglio a 28 è un brutto segnale: significa che verrà messa sul tavolo l’ipotesi di «aiuti umanitari» alla Grecia, per l’alimentazione, le medicine, gli ospedali, che devono essere approvate dalla Ue tutta intera. Significa, in altri termini, che la prospettiva di un Grexit è sempre più vicina. Lo ha detto Jean-Claude Juncker: «Abbiamo uno scenario di Grexit preparato nei dettagli». Juncker ieri e oggi incontra delegazioni dell’opposizione greca, prima Nuova Democrazia, poi To Potami. Le proposte greche, stando alle prime indiscrezioni, si piegano sempre più al diktat dei creditori: un piano di 12 miliardi su 2 anni, più drastico di quello precedente (che era di 8 miliardi), perché deve tener conto della recessione – prevista al 3% — aggravata in questi giorni dal soffocamento dell’economia a causa del blocco delle liquidità imposto dalla Bce. Nel paese che più di tutti nella Ue ha già realizzato un aggiustamento colossale (12,5 punti sul deficit dal 2009), ci sarà un rialzo dell’Iva, come richiesto, dieci punti anche per l’alimentazione, cioè un aumento del costo della vita del 9%. Inoltre, i pre-pensionamenti verranno immediatamente bloccati, l’età della pensione alzata a 67 anni e nessuno potrà andare in pensione prima dei 62 anni, anche se ha 40 anni di contributi. Poi le liberalizzazioni, che riguardano alcune professioni regolamentate come i notai. E una manciata di aumenti di tasse sul lusso, sulle società, etc. Tecnici francesi aiutano Euclide Tsakalotos a redigere il «piano». Basterà? Non è certo. La Grecia, in cambio di questo nuovo giro di vite, chiede un piano di aiuti su tre anni (domanda già rivolta al Mes, il Meccanismo di stabilità, per 50 miliardi) e, soprattutto, la richiesta proibita: una ristrutturazione del debito. Christine Lagarde dell’Fmi, per la prima volta, ha ammesso che è «necessaria», come dicono da tempo gli economisti di Washington, raccomandazione che però i negoziatori della stessa istituzione non hanno mai preso in conto. 7 La Germania non ne vuole sapere. Luciferino, Wolfgang Schäuble si è dichiarato d’accordo a modo suo con l’Fmi: «È vero, la sostenibilità del debito greco non può essere raggiunta senza riduzione del debito». Peccato, ha aggiunto, che questa riduzione «è contraria alle regole dell’Unione». Per Schäuble «il margine di manovra per ristrutturare o riprofilare il debito è molto stretto». Anche Angela Merkel ha precisato che una riduzione «classica» del debito greco «è esclusa». Secondo Merkel è già stata fatta nel 2012 rimandando «le scadenze del rimborso dei prestiti del fondo salva-stati fino al 2020». Idem da Mario Draghi, sempre più scettico sulla possibilità di un accordo. La Bce scarica ogni responsabilità e potrebbe lasciar scivolare Atene nel Grexit: tra qualche giorno (dopo lunedì) il sistema bancario greco non sarà più solvibile, ci sarà un fallimento delle banche, seguito da un piano di ristrutturazione che significherà mettere le mani sui depositi bancari dei clienti. Poi arriveranno gli «aiuti umanitari» («aiuteremo i greci, se ne avranno bisogno» ha detto ieri il premier bulgaro, Borissov). Ieri, solo il presidente del Consiglio, Donald Tusk, e il ministro delle finanze irlandese, Michael Noonan, hanno espresso un po’ di ottimismo. Tusk chiede un «progetto concreto e realista» ad Atene, ma «deve essere seguito, in contropartita, da un progetto altrettanto realista sul debito greco da parte dei creditori». del 10/07/15, pag. 3 La Grecia spera e trema Pronto un Memorandum da oltre 50 miliardi stilato con l’aiuto di tecnici francesi. Tsipras convoca i deputati del suo partito per stamattina. Turismo e tasse sembrano tenere. Ma la chiusura delle banche inizia a martellare le imprese Pavlos Nerantzis ATENE La preoccupazione è tornata di nuovo ad Atene. «Mpros gremos ke piso rema», ovvero «davanti il precipizio e dietro il torrente», dalla padella alla brace, dicono i greci che devono scegliere tra un memorandum pesante come i due precedenti, con l’economia sull’orlo del crollo, e un grexit che sembra ancora più disastroso. Tensione dietro le quinte anche nel governo. A sentire ministri e alti dirigenti di Syriza, Tsipras sta lavorando a una serie di proposte sostenibili con l’aiuto di «tecnocrati» francesi (che in nessun modo vogliono l’uscita del paese dall’eurozona): «l’eventualità di un grexit è soltanto propaganda», ma c’è il timore che «qualcuno nell’Ue all’ultimo minuto possa sabotare l’intesa». Il governo lavora al piano da inviare a Bruxelles ma non è affatto detto che il presunto accordo sarà votato da tutto il gruppo parlamentare di Syriza, perciò c’è chi dietro le quinte ipotizza già un nuovo ricorso alle urne nel settembre prossimo. Il ministro dell’Energia Panagiotis Lafazanis, leader della corrente di sinistra di Syriza, alza i toni: non voteremo un «terzo memorandum che porterà altra austerità, sofferenze e privazioni al popolo greco». «Sappiamo che a questo punto tutte le opzioni sono complesse ma la peggiore, la più umiliante e insopportabile, sarebbe un accordo che indicherebbe la resa, la razzia e la sottomissione del paese e della sua gente. Questa è una scelta che non faremo mai». Secondo Lafazanis, sibillino, la Grecia «non ha nessuna pistola alla tempia, esistono opzioni alternative» a un nuovo accordo con la troika. 8 Secondo alcune voci, il parlamento greco potrebbe votare il piano già oggi, prima dell’eurogruppo di sabato. I parlamentari avrebbero già ricevuto una richiesta di «reperibilità». Mentre Juncker ha di nuovo ricevuto a Bruxelles i leader di Nea Demokratia (ieri) e To Potami (oggi). Appena quattro giorni dopo la vittoria del «no» e le feste per la democrazia, le piazze di Atene tornano a riempirsi. Ieri sera il fronte del sì, oggi quello del no, a piazza Syntagma. Ma il clima è cambiato radicalmente. Le dichiarazioni di Juncker e Merkel sull’accordo da siglare entro sabato hanno fatto scattare l’allarme. Nelle grandi città il contante manca ancora. Le banche rimarranno chiuse almeno fino lunedì prossimo e alcune sarebbero a un passo dal fallimento (sono chiuse dal 27 giugno). Sui media internazionali si ipotizzano già fusioni che porterebbero gli istituti ellenici da 4 a 2. Non sono pochi quelli che nonostante le smentite parlano di una valuta parallela per far fronte alla mancanza di liquidità. Oltre alle scadenze sul debito (1,6 miliardi di euro al Fmi e altri 7 miliardi alla Bce di bond in scadenza il 20 luglio), il governo greco deve pagare 1,1 miliardi per i dipendenti pubblici (550 milioni devono essere versati la settimana prossima) e altri 1,1 miliardi per i pensionati alla fine del luglio. Tsipras ha sempre detto che in caso di emergenza avrebbe dato priorità alle spese interne, ma bisogna vedere fino che punto le casse dello stato avranno ancora fondi sufficienti. Non mancano però le note positive. La disoccupazione ad aprile è scesa di poco, dal 25,8% di marzo al 25,6% di aprile (ad aprile 2014 era del 27%). Secondo Elstat ad aprile in Grecia c’erano 3,5 milioni di occupati, 1,2 milioni di disoccupati e 3,3 milioni di «inattivi». Gli occupati sarebbero aumentati di 16.834 unità (0,5%) rispetto a marzo 2015 e di 49.283 (1,4%) rispetto ad aprile 2104. Altra nota positiva è il fatto che il ministero dell’economia avrebbe incassato quasi 750 milioni di euro per tasse arretrate. Anche il turismo, a giudicare dalle prenotazioni on line di Prontohotel, non starebbe risentendo della crisi, con un aumento dei turisti europei nelle isole. Mentre Western Union ha ripreso a garantire i bonifici dall’estero diretti in Grecia. I canali televisivi privati intanto fanno di tutto per alimentare un clima di paura. Le immagini con le lunghe file di fronte ai bancomat accompagnate da dichiarazioni selezionate di vecchietti che disapprovano il governo sono continue. Certo, ci sono pensionati che escono a mani vuote dalle banche ma la strumentalizzazione della comprensibile stanchezza di persone anziane e di un fatto che si manifesta soltanto in alcune filiali della capitale tra le migliaia che ci sono in tutto il paese (dove di fronte ai bancomat ci sono di solito poche persone) è evidente. Il problema più grande sta altrove, ovvero nel commercio. A causa del controllo dei capitali e della chiusura delle banche imposta di fatto dalla Bce, il mercato è quasi paralizzato, generando una sorta di «fronte interno» permanente contro il governo Syriza. Chi soffre più di tutti sono le aziende di importazione, le piccole e medie imprese, i bottegai, l’edilizia, i trasporti, gli ospedali. Licenziamenti e sospensioni temporanee del rapporto di lavoro sono adesso all’ordine del giorno. Inoltre cominciano a mancare le materie prime d’importazione. Secondo Zacharias Athoussakis, presidente della Sate, l’agenzia che rappresenta le medie e grandi imprese di ingegneria civile, «si stima che circa 40.000 persone siano andate a casa negli ultimi giorni da quando molti cantieri hanno chiuso i battenti». Altrettanto gravi sono i problemi nel settore dei trasporti A sentire il presidente dei camion di trasporto, Petros Skoulikidis, che si è incontrato con il ministro dell’economia, Yorgos Stathakis, «molti autisti di tir (si calcola almeno 100, ndr) sono rimasti bloccati all’estero in 9 quanto il prelievo dalle loro carte di credito è limitato a 60 euro e non hanno contanti per pagare il viaggio». Forti disagi da ieri anche per i biglietti aerei e marittimi, molte agenzie e imprese di viaggio hanno iniziato a vendere solo di fronte a contanti. del 10/07/15, pag. 7 La Merkel blinda i “suoi” Balcani Rischio di contagio greco e rivalità coi russi: missione per tenere agganciata l’area all’Ovest Beniamino Pagliaro Mentre mercoledì Alexis Tsipras cercava l’attenzione del Parlamento europeo, lei era già in volo per Tirana. La donna che più di tutti potrà decidere il futuro della Grecia e, per un po’, il futuro dell’Unione Europea, si imbarcava per una missione di due giorni dove l’Europa non è ancora arrivata: Albania, Serbia, e Bosnia Erzegovina. Investimenti cinesi I Balcani sognano l’Europa per l’idea del benessere economico, anche se sono impauriti dalla prolungata recessione, dai cattivi pensieri sull’euro fomentati dai nazionalismi di turno, e rimangono invaghiti dalle grandi promesse della grande Russia di Putin. Tirana, Belgrado, Sarajevo e le altre capitali sono di fronte a un paradosso: vivono con le difficoltà quotidiane di economie in trasformazione, ma sono piene di pretendenti. L’Europa, la Russia, e ovviamente la Cina. La nuova ferrovia veloce Belgrado-Budapest, investimento da 1,5 miliardi di euro, sarà pagata da Pechino. Angela Merkel è una frequentatrice assidua dell’area. Nel 2014 ha convocato in Germania un forum su tutta la regione, è stata l’ospite d’onore al summit dell’ex Jugoslavia in Croazia e ricevuto i premier locali a Berlino. L’attenzione della cancelliera sui Balcani è metodica: a volte impensierita dalla possibile influenza russa, per lo più interessata a garantire un’egemonia tedesca nei rapporti commerciali con gli unici Paesi del continente che non cresceranno soltanto di uno zero virgola. La Germania è quasi sempre il primo partner commerciale delle economie balcaniche, seguita dall’Italia. È vero, i ponti che apre la diplomazia economica tedesca sono anche garanzie su un futuro europeo. Merkel lo ha ripetuto mercoledì a Tirana e ieri a Sarajevo: non ci saranno «rinvii artificiali» per le adesioni all’Ue. «È nei nostri interessi realizzare la promessa che i Paesi dei Balcani occidentali abbiano una prospettiva europea», ha detto la cancelliera. Nell’attesa, però, è la Germania a firmare protocolli e intese commerciali, sono le imprese tedesche a finanziare lo sviluppo. Allargamento frenato I viaggi di Merkel hanno a che fare con l’idea futura di Europa, un’Unione oggi bloccata a discutere di debiti e Grecia. Non serve uno sguardo periferico per capire che i tormenti comunitari seguiti alla crisi finanziaria hanno frenato il processo di allargamento dell’Unione. Alla vigilia del delicato anniversario di Srebrenica, la Serbia potrebbe sembrare pronta a compiere i passi necessari a rassicurare Bruxelles, completare il percorso e diventare un Paese membro entro il 2020. Invece il negoziato è ufficiosamente fermo da mesi sul nodo del Kosovo. Così, colei che tutto decide in Europa vola nei Balcani con la bandiera tedesca e si porta avanti con il lavoro. Il pensiero della crisi greca è ingombrante: un crollo di Atene farebbe male anche alla stabilità dei Balcani. 10 del 10/07/15, pag. 1/15 Le ragioni della passione Étienne Balibar Perché i Francesi seguono le tappe della «crisi greca» con una tale passione, come se la propria sorte ne dipendesse? Perché è proprio così, ne va del loro destino. Ognuno di noi è coinvolto per ragioni personali, professionali ed intellettuali. Ma la questione di fondo è quella politica: è l’attualità della politica, la sua resistenza alla governance, la sua capacità di riconquistare il posto che deve occupare in una società di persone libere. Ecco cinque ipotesi, che credo siano condivisibili, ma di cui sono l’unico responsabile. La prima è che i cittadini francesi (e gli altri) hanno seguito con passione la lotta intelligente, ostinata, coraggiosa di un governo e dei suoi dirigenti decisi a rispettare il mandato di cui sono stati investiti. Con il passare dei giorni, abbiamo capito che l’obiettivo delle «istituzioni» e della «grande coalizione» che governa in questo momento l’Europa non era né di scongiurare la catastrofe verso cui la Grecia è stata spinta dai vari «piani di aiuti», né di aiutarla a riformare le sue strutture «corrotte» ma di costringerla ad una riconciliazione umiliante, perché il suo esempio non sia contagioso per gli altri. Durante il referendum greco, i cittadini francesi hanno anche capito che le informazioni diffuse da Bruxelles, dall’Eurogruppo etc. e riprese per la maggior parte dalla stampa nazionale erano di parte. C’erano infatti delle alternative! La seconda ipotesi è che i cittadini hanno capito che il problema è quello del riattivarsi della democrazia, da cui dipende la legittimità dei poteri che ci rappresentano in ogni paese e in Europa. I Greci sono d’esempio e pongono un problema al quale, ovviamente, non possono fornire una soluzione da soli. La tesi ripetuta da alcune settimane: «La volontà popolare di una nazione non può prevalere sui trattati» è diventato «La Grecia non può prevalere contro la volontà delle altre 18 nazioni». È vero. Bisognerebbe però consultarle nelle forme attive che sono state messe in atto da Tsipras e dal suo governo. Il livello di esigenza democratica si sta innalzando in Europa. La terza ipotesi è che i Greci incarnano una vera posizione di sinistra nell’opposizione all’orientamento dominante della costruzione europea. Hanno scompaginato lo stereotipo del “populismo” (o degli “estremismi”, che sono confusi in un’unica demagogia ed in un’unica ostilità di principio alla costruzione europea). Tsipras è pro-Europa e contro la politica della finanza. Non abbiamo una posizione analoga in Francia, dove la contestazione passa piuttosto attraverso il Front national. Questo ci interessa e ci interpella. Da qui la terza motivazione: quale politica di sinistra oggi? Quali discorsi, quali pratiche militanti, quali obiettivi per una sinistra degna di questo nome nel ventunesimo secolo? In Francia stiamo vivendo un momento di depressione, tra una sinistra alleata del liberalismo dominante, dimentica di tutte le sue promesse, e una “sinistra della sinistra” divisa, spesso chiacchierona o esitante. Noi guardiamo verso Syriza, o verso Podemos, per cercare ispirazione, ma sarebbe meglio parlare di emulazione, perché non c’è un modello che si possa importare in modo identico. Quarta ragione: la resistenza di Syriza ai diktat assassini della Troika, la lotta che adesso dovrà affrontare (perché il referendum non risolve niente, non fa che spostare la questione e rendere più acute le sfide), il che dimostra che l’economia comporta delle scelte politiche. È essa stessa politica. La grande maggioranza degli economisti (compreso il Fondo monetario internazionale) sa che si deve ristrutturare il debito ed uscire dall’austerità. Ma la vera questione è lo sviluppo armonioso e solidale delle società del continente. Syriza pone questo problema con forza. In una Francia che scivola verso il declino e l’ingiustizia, questo problema si pone con forza. Infine, e non è il punto minore, Tsipras, con il suo governo ed il suo popolo, hanno detto chiaramente che il loro obiettivo non è la fine dell’Europa (verso la quale ci spingono 11 al contrario il dogmatismo e l’ostinazione dei nostri «dirigenti» attuali), ma la sua rifondazione su basi nuove. Il «momento costituente» di cui hanno parlato alcuni di noi dall’inizio della crisi è qui, davanti a noi. Tuttavia ha la possibilità di concretizzarsi solo se l’opinione pubblica, di tutto il continente, cambia e cambia in fretta, per evitare per prima cosa il Grexit (l’espulsione di una nazione al di fuori della comunità) e per porre quindi la domanda: quale Europa? Per chi? Con quali mezzi? Come i Greci nella loro larga maggioranza, noi siamo a favore della costruzione europea, ma la vogliamo completamente diversa. Noi sappiamo che questa è un’opportunità da non mancare. Grazie ad Alexis Tsipras di offrircela. Ma non è sufficiente appassionarsi, sperare, rilanciare l’idea di un’altra Europa. Bisogna agire, è urgente. Da quando si è tenuto il referendum greco, la nuova strategia delle «istituzioni» si è messa in moto. La Banca centrale europea, dicendosi costretta dalla situazione del budget greco, a ridotto ulteriormente le autorizzazioni di liquidità (mentre non c’è nessun vincolo di questo tipo quando si tratta di rimpinguare delle banche private la cui dimensione finanziaria è comparabile o maggiore). L’obiettivo è lo stesso di prima del referendum: creare il panico tra i cittadini e tra le imprese, perché si «rivoltino» contro il loro governo. Si tratta di una tecnica da colpo di stato. Dal canto loro, i governi e la commissione europea hanno reiterato il loro ultimatum e hanno lasciato capire che stanno preparando la «Grexit»: i Tedeschi, gli Olandesi, i Polacchi, con entusiasmo; i Francesi e, in una certa misura, gli Italiani, «malvolentieri». In realtà, si tratta di ottenere dal governo Tsipras che richieda esso stesso quella che si definisce un’ «uscita dolce» o «negoziata» dall’euro (perché non c’è nessuna procedura di espulsione). Si tratta di un ricatto e di un tradimento, di cui l’Europa intera pagherà a lungo il prezzo, se riuscirà a riprendersi. Ribadiamolo con forza: non vi è «Grexit» che non conduca, di fatto, all’esclusione della Grecia dall’Unione europea, in seguito alla quale si profilerà presto la disintegrazione di quest’ultima. Altrimenti ci sarà la colonizzazione, il protettorato del «Nord» sul «Sud». Noi siamo tutti cittadini d’Europa, tutti responsabili quando i nostri dirigenti non lo sono, e dobbiamo manifestare con tutte le nostre forze e con tutti i mezzi contro quest’infamia accompagnata da una regressione storica di settant’anni. * Professore emerito di filosofia all’Université Paris Ouest e alla Kingston University di Londra del 10/07/15, pag. 18 L’annuncio dell’Fbi “L’Is voleva colpire la festa del 4 luglio” Decine di arresti, sventati attacchi di “lupi solitari” Londra ai britannici: troppi rischi, lasciate la Tunisia ANNA LOMBARDI Altro che fuochi d’artificio: l’appello dello Stato Islamico ai lupi solitari ad “attaccare l’Occidente durante il sacro mese del Ramadan” rischiava di far saltare in aria anche la festa più amata dagli americani, quell’Independence day, il giorno dell’Indipendenz appena celebrato lo scorso 4 luglio. Lo ha rivelato ieri il direttore dell’Fbi James Comey a un gruppo dei giornalisti affermando che nelle ultime settimane almeno dieci aspiranti terroristi sono stati arrestati con l’accusa di aver progettato attentati in vista delle festività. E mentre proprio ieri anche il nuovo leader di al-Qaeda in Yemen al Qassim al-Raymi invitava i suoi seguaci “a colpire gli Stati Uniti” non c’è pace nemmeno dall’altra parte del 12 mondo: con il ministero degli esteri britannico Philip Hammond che ha invitato i suoi concittadini a lasciare la Tunisia. Dopo l’attentato della spiaggia di Sousse dello scorso 26 giugno - dove 30 delle 38 vittime erano inglesi - il pericolo non è affatto diminuito. Anzi, secondo il capo della diplomazia le possibilità di nuovi attentati «sono altamente probabili». E questo nonostante non ci siano «specifiche minacce imminenti ». D’altronde non c’erano indicazioni specifiche nemmeno in America, dove pure, lo scorso 29 giugno, il Dipartimento di Sicurezza Nazionale ha diramato un bollettino per allertare le autorità locali del rischio di possibili attentati compiuti da lupi solitari. Un allarme all’indomani della strage di Sousse lanciato proprio per evitare simili carneficine anche negli Usa. Secodo le autorità, infatti, da quando lo scorso agosto Douglas McArthur McCain è stato il primo statunitense a morire nelle fila dello’Is, il numero degli americani recluati dai johadisti è salito vertiginosamente. «Si tratta di uomini e donne che vivono in tutti e 50 stati, insospettabili e dunque imprevedibili, istigati a colpire obiettivi anche modesti» ha detto Comey ai reporter. Insospettabili come la giovane insegnante di catechismo reclutata online e convertitasi con una dichiarazione di fede su Twitter, la cui storia è stata raccontata dal New York Times e Repubblica pochi giorni fa. Lupi solitari che i reclutatori dello Stato Islamico pescano nelle periferie di grandi città come le due ragazze di Brooklyn che volevano far saltare in aria una’autodella polizia con una pentola a pressione ispirata a quella dell’attentato alla Maratona di Boston - o in remote località rurali, affinchè siano più difficili da identificare. Chi siano gli arrestati del 4 luglio e cosa stessero tramando il direttore dell’Fbi non ha voluto dirlo. Limitandosi a scagliarsi contro le grandi aziende tecnologiche che stanno rafforzando i mezzi per garantire la privacy ai loro utenti attraverso sistemidi crittografia sempre più raffinati: «State mettendo in pericolo la sicurezza nazionale. A causa delle nuove tecnolgie abbiamo già perso traccia di decine di potenziali terroristi». Proprio per questo, sostiene Nbc news, gli arresti sono stati tanti: secondo nuove linee guida l’Fbi non si limita più a monitorare i sospetti ma procede ad arresti preventivi lì dove i segnali di radicalizzazione si fanno estremi e i contatti con i jihadisti troppo stretti. I fermi sonoavvenuti a New Orleans, in Ohio e Carolina del Nord. La periferia di un paese che si scopre sempre più minacciato dall’interno: dai suoi stessi cittadini. del 10/07/15, pag. 18 Kerry avverte l’Iran: “Non resteremo al tavolo a lungo” IL VERTICE.PROSEGUONO LE TRATTATIVE MA L’ACCORDO RISCHIA DI SLITTARE ANCORA DI DIVERSI GIORNI.PUTIN INCONTRA IL PRESIDENTE ROUHANI DAL NOSTRO INVIATO DANIELE MASTROGIACOMO VIENNA . L’attesa è febbrile, sfibrante. A volte nevrotica. Si chiude, si rinvia, mancano poche ore, siamo ancora lontani. Anzi, mai stati così vicini. No, slitta a lunedì prossimo. Forse mai. L’orologio diplomatico è fermo. Ma le lancette del tempo scorrono, bruciando date e scadenze. L’accordo sul nucleare iraniano è appeso ad un filo che si può rompere o rafforzare. Con gli umori in balia dei piccoli successi e delle improvvise delusioni. Fino ai toni che si alzano, le battute velenose, le risposte piccate. E’ successo martedì scorso tra 13 il ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif e l’Alto rappresentante della politica estera europea, Federica Mogherini. Nell’aria il rischio costante di un fallimento. «Lavoreremo fino a quando sarà necessario », avverte in serata un Kerry nervoso e stanco, «ma non siamo disposti a restare al tavolo ancora a lungo. Restano irrisolti gli aspetti più duri». Le ispezioni nei siti militari, soprattutto. Chiarire se ci sono stati tentativi di creare una bomba nucleare. I Pasdaran sono contrari. Gli Usa lo pretendono come gesto di fiducia e di buona fede. Il nodo resta. Dopo 22 mesi di incontri, centinaia di viaggi, giorni infiniti e notti insonni, per chiudere 12 anni di gelo. La diplomazia è anche arte della seduzione. Lo si vede soprattutto in queste ultime ore, qui a Vienna, dove si cerca di scrivere il più difficile testo del più importante accordo di questo secolo. Gli aspetti tecnici della trattativa sul nucleare iraniano sono stati quasi tutti risolti. Le commissioni hanno elaborato cinque allegati che faranno parte del documento conclusivo composto tra le 80 e le 100 pagine. Riduzione dell’arricchimento dell’uranio, smantellamento delle centrali, numero di centrifughe, trasferimento del combustibile già arricchito, sviluppo e collaborazione scientifica. Zarif e Mogherini sottoscriveranno un documento di 5 pagine che sarà la dichiarazione finale. Un secondo documento, più corposo, anche questo sottoscritto da entrambi, riassumerà i dettagli dell’accordo. Tutto è pronto per la sigla finale. Manca la parte politica. La più difficile. Dove si toglie e si prende, secondo un equilibrio che deve tenere conto di interessi diversi. Sarà questa a sancire il fallimento o il successo del negoziato. Ognuno deve portare a casa un risultato. Perché l’accordo deve passare al vaglio dei parlamenti. Perché ci sono i fronti da sempre contrari. Perché premono le lobby per rilanciare il business con un paese ricco di materie prime ed energetiche. Perché c’è la guerra ai confini mediorientali, perché ci sono i tagliagole dell’Is che dilagano e l’Iran che si offre di fare il lavoro sporco sul campo. Perché c’è la Russia che vuole rientrare sui mercati. Perché il mondo in questo momento ha bisogno di una buona notizia. Il filo conduttore di questa ultima, tesissima trattativa, sono i tempi: quando e come revocare le sanzioni che dal 2006 hanno isolato l’Iran dal mondo. Teheran vuole toglierle subito. Gli Usa, assieme ai francesi, inglesi e tedeschi, sono per una sospensione graduale. E sul commercio bellico non cedono. Putin ostenta “ottimismo” con il presidente iraniano Rouhani; Lavrov, ministro degli Esteri russo, ricorda che l’embargo sulle armi è roba vecchia e si augura che «venga revocato il prima possibile». Fallire, a questo punto, sarebbe un vero disastro per tutti. L’Iran lo sa e gioca su questo incubo. «Nessuna data è decisiva», obiettano. Meglio trattare ancora e ottenere un buon risultato. La Mogherini e il Gruppo dei 5+1 vedono bruciata anche la scadenza del 9 luglio. Chiude il Congresso Usa: avrà non più 30 ma 60 giorni per approvare l’accordo. del 10/07/15, pag. 19 LA GIORNATA “Povertà,il sistema non regge più” Fa discutere il dono di Morales Un crocifisso su falce e martello DAL NOSTRO INVIATO MARCO ANSALDO LA PAZ . «Ecco, Santitad, i miei regali». Il presidente boliviano Evo Morales infila attorno al collo del Pontefice una collana. È un medaglione con impresso a sbalzo il simbolo della falce e martello. Jorge Bergoglio se ne accorge solo quando l’ha indosso. Non sa che 14 faccia fare. Abbozza un sorriso stirato. «E poi c’è questo». Da un tavolino alla sua destra, il leader delle nuova Bolivia afferra un crocifisso in bronzo, steso sulla testa di un martello, le gambe che appoggiano su una falce. «È un’onorificenza che ricorda il sacrificio di padre Luis Espinal», aggiunge. È il gesuita sul cui luogo del martirio Francesco si è appena fermato, nella discesa che dai 4000 metri dell’aeroporto di El Alto piomba fino a La Paz, per pregare per il sacerdote difensore dei minatori torturato qui a morte nel 1980 dal regime militare. Il Papa è incredulo. «Questo non lo sapevo» fa in tempo a mormorare. Non puo’ proprio dire nulla. Ma l’uno-due messo a segno dall’astutissimo Morales è un colpo immortalato dai flash di una foto che fa il giro del mondo: il Papa che indossa il simbolo del comunismo e prende nelle sue mani falce, martello e Cristo. Qui al Palazzo presidenziale di La Paz, con la folla nella Cattedrale che rumoreggia e addirittura fischia quando il leader allunga al Pontefice pure un suo libro, basta vedere la faccia del Segretario di Stato vaticano Pietro Parolin per capire gli umori dell’entourage papale, preso del tutto alla sprovvista dalla mossa del presidente. Titola difatti El Deber , quotidiano di Santa Cruz dove Francesco subito dopo va a dire messa accolto da 2 milioni di boliviani: «Un regalo che ha sorpreso il Paese, contro tutti i pronostici». Nemmeno il nunzio in Bo-livia, come i diplomatici vaticani appurano, conosceva il regalo a sorpresa di Morales. Per non contare del suo discorso dal sapore internazionalista, e del pugno chiuso alzato a fianco del Papa mentre suonano gli inni. Maèai cartoneros , ai “frugatori tra le cose”, e ai movimenti popolari che Francesco fa un lungo, articolato discorso, quando in Italia è ormai notte. Questo: «Iniziamo riconoscendo che abbiamo bisogno di un cambiamento ». Parla di «problemi comuni» non solo a tutti i latino-americani, il Papa, ma «a tutta l’umanità», problemi che hanno una «matrice globale e che oggi nessuno Stato e`in grado di risolvere da solo». Parla poi di «contadini senza terra, molte famiglie senza casa, lavoratori senza diritti, persone ferite nella loro dignità», ricorda le guerre insensate e la violenza fratricida che aumenta nei nostri quartieri». Infine l’affondo: «E allora diciamolo senza timore: abbiamo bisogno e vogliamo un cambiamento. Non si tratta di problemi isolati. Se è`cosi, insisto, diciamolo senza timore: noi vogliamo un cambiamento, un vero cambiamento, un cambiamento delle strutture. Questo sistema non regge più, non lo sopportano i contadini, i lavoratori, le comunità, i villaggi ... E non lo sopporta piu`la Terra, la sorella Madre Terra, come diceva san Francesco. Vogliamo un cambiamento nella nostra vita, nei nostri quartieri, nel salario minimo, nella nostra realta` piu`vicina; e pure un cambiamento che tocchi tutto il mondo. Mettere l’economia al servizio dei popoli, un’economia veramente comunitaria, di ispirazione cristiana. L’equa distribuzione è un dovere morale. Per i cristiani, l’impegno e`ancora piu`forte: è`un comandamento. Si tratta di restituire ai poveri e ai popoli cio`che appartiene a loro». del 10/07/15, pag. 22 Il caso. La società di spionaggio dopo l’attacco informatico subito: “Situazione fuori controllo”. A rischio centinaia di inchieste. E Wikileaks pubblica un milione di mail del gruppo Hacking Team è allarme mondiale “I segreti dei governi in mani criminali” 15 FABIO CHIUSI FABIO TONACCI ROMA. Dal calderone violato dell’Hacking Team sta uscendo qualcosa che potrebbe mettere a rischio centinaia di indagini in corso. «Abbiamo perso la capacità di controllare chi utilizza la nostra tecnologia. Terroristi, estorsori e altri possono implementarla a volontà », ammette l’azienda milanese. Quello che non dice, però, è che il suo software spia Galileo usato in Italia anche da Carabinieri, Polizia postale e Finanza è diventato - ora che gli autori dell’attacco informatico del 6 luglio ne hanno diffuso online i codici sorgente individuabile dai produttori di antivirus. Nell’arco temporale di qualche giorno invieranno ai loro utenti gli aggiornamenti per debellare Galileo. Con un corollario di facile intuizione: chi è sottoposto a intercettazione telematica da parte della magistratura, lo verrà a sapere. È lo scenario ipotizzato da alcuni esperti di sicurezza informatica e suggerito dalla logica, visto che Galileo è né più né meno che un virus, un trojan inoculato nei computer e negli smartphone attraverso vulnerabilità di sistema. «Non passeranno più di 48 ore prima che gli antivirus inizieranno a rilevarlo- spiega Matteo Flora, amministratore di The Fool e esperto di cybersecurity - tra qualche giorno sarà possibile pure individuare la fonte dello spionaggio». Cioè i clienti di Hacking Team. Il governo italiano sta prendendo estremamente sul serio la faccenda. Il Garante della Privacy ieri a Milano ha fatto un’ispezione nella sede di via Moscova della Ht srl, assieme agli investigatori della Postale delegati a indagare sull’intrusione informatica dal procuratore aggiunto di Milano Maurizio Romanelli. «Nessuno può sentirsi più al sicuro», dice il comandante dei Carabinieri Tullio del Sette. «L’Aise, il servizio di spionaggio estero, utilizzava Galileo, ma non sembra che ci siano state intrusioni nelle nostre banche dati», dichiara Giampiero Massolo, il direttore della nostra intelligence, nell’audizione davanti al Copasir. La Ht Srl, che produce Galileo e altri software di sorveglianza cibernetica, è detenuta al 32,85 % dall’amministratore delegato David Vincenzetti. Nel pacchetto azionario figurano la società di fondi mobiliari Finlombarda Gestioni (26,03 %), il fondo di investimento Innogest (26,03 %) e Vittorio Levi (4,09%). Dalla mole di file e documenti hackerati, circa 400 Gigabyte, continuano a venir fuori contratti, fatture, mail che - se autentici - dimostrano inequivocabilmente le consolidate relazioni con regimi antidemocratici e dubbie agenzie governative. Relazioni fino a quattro giorni fa sempre negate dall’azienda e ora invece rilanciate da decine di blogger che stanno consultando il materiale scaricato dal web. Ancora a gennaio 2014, secondo un paio di fatture pubblicate in Rete, Ht srl manteneva rapporti con il Sudan, cui offriva il servizio di manutenzione del software. Nel maggio scorso due rappresentanti sono stati inviati in Bangladesh per mostrare le potenzialità del prodotto al “Rapid Action Battalion”, agenzia paramilitare definita da Human Rights Watch “uno squadrone della morte”. Ci sono tracce anche di contatti con due ufficiali dell’intelligence bielorussa, con apparati della Russia di Putin, con il ministero della Difesa del Barhain, con la Dea statunitense (Galileo sarebbe stato usato per compiere operazioni di sorveglianza, anche di massa, attraverso l’ambasciata di Bogotà). Tutta la corrispondenza interna dei dipendenti di Ht negli ultimi anni è stata copiata e diffusa. Wikileaks sul suo sito ha pubblicato ieri, in formato navigabile, più di 1 milione di email. Ce ne sono alcune del fondatore, Vincenzetti, che definisce «idioti» e «bravi a manipolare le cose e a demonizzare compagni» coloro che negli anni ne hanno criticato le politiche e le strategie commerciali. Tra questi, ad esempio, gli attivisti per i diritti umani Human Rights Watch, Privacy International, gli hacktivisti di Anonymous e i ricercatori del Citizen Lab dell’Università di Toronto. «Lo scorso anno il governo italiano aveva bloccato le esportazioni dell’Hacking Team - osserva Andrea Menapace, direttore della Cild, 16 Coalizione italiana libertà e diritti civili - esportazioni poi riprese: come mai? Inoltre nel 2007 hanno ricevuto 1,5 milioni di euro da due fondi di venture capital, uno dei quali interamente partecipato dalla regione Lombardia, una notizia riportata da giornali italiani: qual è la posizione del governo regionale? ». Tra il materiale diffuso dagli hacker che hanno bucato i server aziendali ci sono anche due documenti - due prezzari scoperti dalla rivista Forbes - che paiono dimostrare l’esistenza di un “Custom App Project”: app per la sorveglianza mobile da utilizzare dopo 3-6 mesi di funzionamento di Galileo. «Chiunque navighi negli app store di Apple o di Google dovrebbe fare attenzione a cosa scarica», avverte Forbes. 17 LEGALITA’DEMOCRATICA del 10/07/15, pag. 14 “Roma devastata dalla corruzione Marino sottovalutò il problema” La relazione Gabrielli: “No allo scioglimento del Comune, ma la discontinuità con Alemanno è stata tardiva”. Si dimette il segretario del Campidoglio CARLO BONINI ROMA . Come in certe sentenze di assoluzione per insufficienza di prove, che finiscono con l’essere peggiori di una condanna, la Relazione Gabrielli al ministro dell’Interno Alfano che esclude l’ipotesi di scioglimento del Consiglio comunale di Roma consegna all’opinione pubblica un sindaco e una Giunta se possibile ancora più fragili. Naufraghi scampati a una tempesta e a un abisso di cui — se non fosse stato per il lavoro della magistratura — non avevano e non avrebbero forse mai avuto reale percezione. Nelle 103 pagine del documento, di fronte all’oggettivo e «devastante » spettacolo di una «amministrazione locale devastata», Ignazio Marino appare infatti ora “inconsapevole”, ora oggettivamente “inerme”. Certamente volitivo e moralmente immacolato, ma sicuramente sempre in ritardo nel tamponare gli squarci che, tra il dicembre 2014 e il giugno scorso, vengono aperti dall’inchiesta Mafia Capitale. Un Forrest Gump che, aiutato dalla fortuna, dalla dirittura morale e se si vuole dalla sua assoluta estraneità a Roma e al suo sistema malato di relazioni, non se ne lascia travolgere. Non a caso, a salvarlo dallo scioglimento, come si legge nella relazione, è soltanto l’interpretazione e l’applicazione che dell’articolo 143 del Testo Unico di legge sugli Enti Locali decide di dare il prefetto Franco Gabrielli in disaccordo con le conclusioni della commissione prefettizia di accesso agli atti insediata dal precedente prefetto Giuseppe Pecoraro. Secondo quella norma è necessario, per poter parlare di inquinamento mafioso, che gli «elementi su collegamenti diretti o indiretti degli amministratori locali con la criminalità organizzata siano concreti, univoci e rilevanti». Ebbene, «non appare irragionevole ritenere — scrive il prefetto nelle conclusioni — che gli elementi emersi di Roma Capitale, riferiti evidentemente alla sua gestione sotto la Giunta Marino, pur presentando i caratteri di rilevanza e concretezza, non riuniscano l’indispensabile tratto della univocità che consente di escludere in toto letture anfibologiche delle situazioni riscontrate». Anfibologico : l’aggettivo che salva Sindaco, Giunta e consiliatura, sinonimo di “ambiguo”, “equivoco”, “passibile di doppia interpretazione” finisce per essere un epitaffio che fotografa una stagione politica. E, con lei, numeri e atti della Giunta Marino almeno nel suo primo anno e mezzo di vita, fino cioè al dicembre 2014, quando Roma e il Paese scoprono la coppia Buzzi-Carminati e al capezzale del Campidoglio viene chiamato in gran fretta come assessore alla legalità il magistrato antimafia Alfonso Sabella. La Commissione prefettizia, infatti, per provare a misurare la qualità della «discontinuità» politica e amministrativa tra la Giunta Alemanno (che di Buzzi e Carminati è poco più che una depandance ) e quella della “rinascita” di Marino, lavora su una statistica: «Tra il primo gennaio 2011 e il 13 giugno 2013 (gli ultimi due anni della Giunta Alemanno) le procedure negoziate( affidamenti di appalti senza gara)rappresentano il 36,28 per cento del totale degli affidamenti del Comune, per un valore di 5 miliardi e 108 milioni. 18 Tra il 13 giugno 2013 e il 31 dicembre 2014, le procedure negoziate della Giunta Marino sono pari al 72 per cento del valore complessivo degli affidamenti, per un valore di 1 miliardo e 73 milioni». Di fatto, per almeno un anno e mezzo, la Giunta Marino non fa gare. Schiacciata dalla coda della gestione Alemanno procede per “somma urgenza” rinnovando affidamenti che fanno grassa la “mucca” di Buzzi e Carminati. Dunque? Dunque, osserva la Commissione, «il condizionamento mafioso si è realizzato secondo schemi e copioni non intaccati dal cambio di amministrazione » e «si ritengono sussistenti i presupposti per l’applicazione di tutte le misure contenute nell’articolo 143: lo scioglimento dell’organo consiliare di Roma capitale per infiltrazioni mafiose e l’applicazione di misure di rigore di cui al quinto comma della medesima disposizione nei confronti di un’ampia serie di soggetti della componente burocratica dell’Ente». Gabrielli, al contrario, intravede la “discontinuità” politica e amministrativa che la Commissione nega. E tuttavia ne dà un quadro obiettivo che non consente a Marino di considerare queste 103 pagine come un salvacondotto. «Va evidenziato — scrive infatti — come la Giunta Marino abbia dato alcuni precisi e non trascurabili segnali di discontinuità. Ma va anche evidenziato per dovere di obiettività che, almeno all’inizio della gestione, si tratti di scelte non dettate da una precisa e consapevole volontà di contrastare l’illegittimità ed il malaffare, quanto piuttosto di comportamenti ispirati agli ordinari parametri di legalità cui, di norma, dovrebbe uniformarsi l’azione amministrativa, che diventano “straordinari” solo se correlati ex post alle dimensioni e alla pervasività del sistema corruttivo disvelato dalle indagini giudiziarie». Qualcuno dunque, deve pagare. «Sicuramente ricorrono tutti i presupposti per lo scioglimento del X Municipio di Ostia — scrive Gabrielli — dove va segnalato che l’accesso sia stato disposto solo dopo l’esecuzione della prima ordinanza di custodia cautelare di Mafia Capitale ». Sicuramente almeno una ventina tra dirigenti e funzionari pubblici vanno rimossi. Liborio Iudicello, segretario generale del Comune, ha provveduto da solo dimettendosi ieri sera. E, altrettanto sicuramente, annota il prefetto con un affondo che suona censura al suo predecessore Pecoraro, «la Giunta Marino ha operato in assenza di precisi segnali di allarme che sarebbero dovuti provenire da organi terzi e che ben avrebbero potuto indirizzare l’azione di ripristino della legalità verso percorsi più decisi». del 10/07/15, pag. 14 “Qui magnano tutti” Così, tra silenzi e paure Ostia ora fa i conti con la sua mafiosità IL REPORTAGE DAL NOSTRO INVIATO ATTILIO BOLZONI OSTIA. . Signor Spada, lo sa che chiudono Ostia per mafia? «Qui magnano tutti». E lei che dice, è contento? «Noi Spada siamo in duecento, per queste cose però è sempre meglio parlare con mio cugino Roberto». Music bar, quartiere generale degli Spada, uno dei clan che regna nell’avamposto di Mafia Capitale. Mezzogiorno: materassi sventrati e gatti neri che rotolano fra i cassonetti dell’immondizia, un Roberto Spada chiama un altro Roberto Spada — quello che un paio di settimane fa si era candidato su Facebook a presidente del X Municipio — e uno dei parenti più illustri che i Casamonica hanno sul litorale romano comincia a spiegare 19 «politicamente» perché hanno deciso di mettere un marchio con una grande «M» su Ostia: «Non hanno avuto il coraggio di farlo con Roma, quella è la capitale d’Italia e se lo facevano succedeva un patatrac..sì, l’hanno fatto con Ostia perché non vale niente, quando io parlo mi fanno sembrare quello che non sono, però una cosa oggi la dico: prima o poi sarà il popolo a giudicare il destino della nostra Ostia». Il giorno dopo Ostia ha paura ma fa finta di niente. Ostia aspetta, si nasconde, Ostia per la prima volta fa i conti con la sua mafiosità. Il Music bar è a due passi da piazza Gasparri, simbolo del malaffare più ostentato di questa città nella città dove il mare non si vede mai, in via Cagni ci sono i locali comunali occupati abusivamente e per anni da una scuola di danza che era degli Spada, in via Forni c’è ancora il ricordo dell’agguato che si sono portati via «Baficchio» e «Sorcanera », Giovanni Galleoni e Francesco Antonini, due che hanno ammazzato per mafia in un’Ostia che appena un prefetto fa — Giuseppe Pecoraro — faticava a riconoscere come mafia. Via Baffigo, via del Sommergibile, via della Corazzata, corso Duca di Genova, piazza della Stazione Vecchia, non ci sono più confini fra un’Ostia e un’altra Ostia che porta sotto i porticati e dentro il palazzo del governatorato diventato bivacco non solo degli Spada ma anche dei Fasciani e dei Triassi. E dei Balini, quelli che non sono «famiglia» ma che fra il mare e la pineta contano cento volte più degli altri. Tufo giallo, altorilievi con polvere di travertino di Tivoli, torri, colonne, corti, cancelli sbarrati e un silenzio di tomba nelle austere e misteriose stanze del X Municipio di Roma. Cosa pensate di Ostia chiusa per mafia? Il custode del primo piano Franco Garinei con un attimo di ritardo copre con la mano il suo nome dal badge e sparge la voce: «State attenti, c’è un giornalista in giro per il Municipio». Cosa pensate di Ostia chiusa per mafia? Ufficio affissioni, ufficio commerciale, ufficio tributi, ufficio forma- zione e sorveglianza sanitaria, gli impiegati e i funzionari sembrano vivere in un altro mondo: «Non sappiamo niente»; «Abbiamo letto qualcosa sul giornale», «Può parlare solo il direttore generale». Il direttore generale, la dottoressa Proverbio, «non c’è» o «è in riunione», riceve solo per appuntamento. Cosa pensate di Ostia chiusa per mafia? Certificati e carte d’identità in via Claudio numero 1, la targa fuori dice che questo è ancora il XIII Municipio, la sala consiliare dentro puzza di chiuso e — stando alla relazione del prefetto Gabrielli — puzza anche di 416 bis. È un rettangolo buio, da una parte la poltrona più grande sta in alto — si sedeva lì il presidente Andrea Tassone arrestato per i suoi rapporti con Buzzi e quelle altre sanguisughe dei suoi amici — e difronte 25 sedie tante quante i consiglieri del «parlamentino» di Ostia, quelli che saranno cacciati dal palazzo del governatorato con ordinanza prefettizia e disonore. «Là in fondo, erano seduti pure gli assessori, la Droghei e tutti gli altri», ricorda l’addetta alle pulizie. La Droghei, Emanuela Droghei, consigliere a Ostia e moglie di Francesco D’Ausilio (consigliere a Roma, capogruppo Pd prima di dimettersi, ingoiato dallo scandalo di Mafia Capitale) e in contatto con altri indagati come il consigliere regionale Eugenio Patanè, tutti molto interessati alle sorti di Ostia e del suo lungomare o al suo lungomuro, lidi liberi e lidi imprigionati dal reticolato, un giro fra affarismo e ambientalismo in nome di antiche militanze politiche. Dalla sala consiliare alla stanza di Tassone, anche qui tanfo di chiuso, persiane serrate, dal 29 aprile 2015 Ostia non ha più un presidente. Accanto all’immagine del Capo dello Stato Sergio Mattarella una targa con su scritto — non è uno scherzo — «Municipi senza mafia», le bandiere d’Europa, d’Italia e quella giallo-rossa di Roma, riviste di auto da rally. E alla parete davanti alla scrivania una bellissima foto dall’alto di un’Ostia che non c’è più, senza quegli stabilimenti mostruosi che hanno cancellato il mare per undici chilometri e trecento metri. Nella stanza di Tassone ogni tanto entra l’assessore comunale alla legalità 20 Alfonso Sabella, nominato qualche mese fa commissario a Ostia dal sindaco Marino per portare decoro nel palazzo del governatorato e alla città. Il giorno dopo l’annuncio dello scioglimento del X Municipio di Roma anche lui, magistrato che in Sicilia non ha mai avuto paura degli amici in guanti gialli di Totò Riina, sa che dovrà presto andarsene per fare posto a un viceprefetto. E sa anche che una svolta c’è già stata qui, a Ostia: «Siamo ancora in tempo perché non diventi com’era una volta il quartiere Brancaccio a Palermo o una Casal di Principe». Come assessore alla legalità del Comune di Roma, anche con lo scioglimento del Municipio per mafia, manterrà la delega al litorale. Avverte: «Molti proprietari degli stabilimenti balneari di Ostia non stappino oggi le bottiglie di champagne, perché se non si metteranno in regola in autunno arriveranno sicuramente le ruspe». “State attenti, c’è un giornalista in giro per il Municipio... Non sappiamo niente noi” Sabella: “Siamo ancora in tempo perché questa città non diventi un’altra Casal di Principe” “Quegli stabilimenti mostruosi hanno cancellato il mare per undici chilometri” del 10/07/15, pag. 17 Lo strappo dei figli di Borsellino “In Sicilia antimafia di facciata” Manfredi: non andremo alle cerimonie in ricordo di mio padre Laura Anello «Il 19 luglio? Non ci sarò. Mi sono messo di turno al lavoro, a cercare di fare qualcosa di concreto, non ho tempo per commemorazioni senza senso. Per me, appassionato di calcio, i memorial sono quelli sui campi, non ne esistono altri». L’ironia supera l’amarezza negli occhi di Manfredi Borsellino, figlio del giudice ucciso ventitré anni fa in via D’Amelio e oggi commissario di polizia a Cefalù. Se la sorella Lucia si è appena dimessa da assessore regionale alla Sanità attaccando l’«antimafia di facciata» e invitando tutti a non invitarla per l’anniversario, adesso è lui a smarcarsi dalla commemorazione. Profezia di Sciascia Quest’anno, insomma, dei tre figli non ci sarà nessuno. Segno dell’implosione dell’antimafia, dopo le inchieste e gli arresti sui suoi presunti paladini. Segno, paradossalmente, dell’avverarsi della profezia di Leonardo Sciascia che contro i «professionisti dell’antimafia» tuonò profeticamente nel 1987 sbagliando però bersaglio: Borsellino, appunto, con cui poi chiarì e fece pace in un incontro memorabile. «Noi figli non ci saremo. Fiammetta da sei anni – racconta Manfredi – passa questo periodo a Pantelleria. Il 19 luglio fa celebrare una messa in memoria di papà in una chiesetta di contrada Khamma, sull’isola, dove entrano a malapena dieci persone. Lucia quest’anno sarà lì con lei. E io sarò in servizio, il 17, il 18 e il 19. Sono stato educato da mio padre all’etica del lavoro, alla concretezza, al rifiuto delle passerelle. Tre anni fa, pochi giorni prima dell’anniversario, abbiamo fatto un blitz contro la criminalità delle Madonie, il migliore modo di commemorarlo». Antimafia di facciata Non commenta gli ultimi casi che su quell’antimafia di facciata hanno alzato il velo – l’arresto per tangenti del presidente della Camera di Commercio di Palermo, Roberto Helg; l’inchiesta sul leader della Confindustria regionale Antonello Montante, entrambi campioni di parole sulla legalità – una cosa però la dice: «Mia sorella ha parlato di antimafia di facciata, e io quelle parole me le sono appese in ufficio, tanto le condivido, tanto mi 21 sembrano arrivare dritte dalla voce di mio padre. Lei è la più figlia di Paolo Borsellino, è quella che ha nel sangue i suoi geni migliori». Fu lei che volle entrare nella camera mortuaria, quel 19 luglio 1992, lo guardò, lo accarezzò per l’ultima volta e disse alla famiglia: «Tranquilli, sotto i baffi papà sorrideva». Senso del dovere Una roccia. Una donna con un senso del dovere smisurato. Che è rimasta al suo posto di assessore alla Sanità nella giunta Crocetta - pur con molti mal di pancia - fino a quando è stato arrestato il pupillo del presidente, Matteo Tutino, chirurgo plastico accusato di fare lifting e liposuzioni in un ospedale pubblico, a spese del contribuente. Lucia di fare l’orpello antimafioso, la foglia di fico non aveva proprio voglia. Se n’è andata dicendo basta con la politica e tagliando corto: «Non capisco l’antimafia come categoria, sembra quasi un modo di costruire carriere. La legalità per me non è facciata, ma la precondizione di qualsiasi attività». E Manfredi rincara la dose. «Io penso che le parole di mia sorella dovrebbero aprire un dibattito, ma non tocca a me farlo. Quel che posso dire è che tutti noi fratelli, anche Fiammetta che appare più defilata ma segue tutto con grande attenzione, la pensiamo esattamente come Lucia». Fratelli uniti E tutti insieme, i tre fratelli, hanno detto di no alla traslazione della salma del padre nella chiesa di San Domenico, Pantheon della città, come invece è avvenuto per Falcone. «Non c’è stata alcuna opposizione polemica – spiega Manfredi - mia sorella Lucia da assessore alla Sanità ha pure dato il nulla osta a quel trasferimento. Noi semplicemente abbiamo ringraziato e detto di no. Per noi era inconcepibile separare mio padre da mia madre. Mia madre ha fatto tanti sacrifici per costruire la cappella al cimitero di Santa Maria di Gesù, per stare insieme con lui. Dopo la strage, sempre più credente, ha aspettato ogni giorno di ricongiungersi a papà. È rimasta qui, ha resistito, grazie all’amore per noi e per i suoi nipoti che ha visto nascere. Tutti, a eccezione della più piccola, la seconda bambina di Fiammetta, che è nata dopo la sua morte. Mai li avremmo separati». 22 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE del 10/07/15, pag. 20 Migranti,la Ue verso l’accordo “Sì alle quote di accoglienza” Nuova strage nel Mediterraneo Germania e Francia disposte a dare ospitalità a 21 mila rifugiati La soddisfazione di Alfano. Ma al largo della Libia altre 12 vittime GIAMPAOLO CADALANU La strada verso un accordo completo sull’immigrazione ancora non è conclusa, ma è aperta: al vertice informale di Lussemburgo i ministri degli Interni hanno concordato un primo “via libera” alla redistribuzione dei profughi sui paesi dell’Unione, rinviando però l’accordo definitivo al un nuovo incontro, previsto per il 20 luglio. Che l’emergenza sia conclamata non lo dimostrano solo gli allarmi dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati — che anche ieri ha chiesto «una risposta forte dall’Europa» — o le grida d’aiuto delle Organizzazioni non governative: lo dimostra prima di tutto la cronaca, con lo stillicidio di tragedie del mare. Anche ieri i mezzi della Guardia costiera sono intervenuti in soccorso di quattro gommoni, uno dei quali semi affondato, 40 miglia a nord della costa libica. I militari italiani sono riusciti a portare in salvo 393 persone, ma hanno contato almeno dodici vittime. Un altro gommone è stato intercettato dalle motovedette a poca distanza da Lampedusa: a bordo c’erano 106 migranti, che sono stati portati in salvo. Per i primi soccorsi il ruolo della Marina è insostituibile, anche Amnesty International sottolinea che «le operazioni di ricerca e soccorso stanno salvando migliaia di vite» e parla di «marcata diminuzione del numero dei morti in mare». Ma su quello che succede “dopo” serve un’intesa globale europea. Germania e Francia danno l’esempio: Berlino ha accettato di accogliere 12100 fra rifugiati e richiedenti asilo, compresi novemila oggi ospiti delle strutture italiane o greche. Anche Parigi ha aperto le sue porte e accoglierà circa novemila persone, fra cui 6752 già presenti in Italia o Grecia. Gli altri Paesi, invece, per ora non hanno comunicato la loro disponibilità, ma il percorso è avviato. Anzi, a sentire il ministro lussemburghese degli Esteri e dell’Immigrazione Jean Asselborn, che presiedeva la riunione, «siamo vicini all’obiettivo» e il 20 luglio «saranno necessarie solo due o tre ore» per definire gli ultimi dettagli dell’accordo finale. Per i reinsediamenti, sottolinea Asselborn «c’è un’eccedenza di offerte». In più l’Unione ha incassato anche la disponibilità di tre Paesi extra-Ue: Svizzera, Liechtestein e Norvegia, che hanno espresso l’intenzione di dare una mano. Soddisfatto anche Angelino Alfano: il ministro italiano ha parlato di «prima prova di un principio di solidarietà europea», definendo quello di ieri «un passo avanti significativo», in vista anche di un meccanismo di emergenza permanente per il ricollocamento dei profughi. Prima dell’accordo totale, però, l’Ue dovrà vincere le perplessità di Paesi come Spagna e Austria, che al vertice di Lussemburgo hanno “frenato” e per ora non hanno comunicato quanti rifugiati sono disposte ad accogliere. Ancora più dura è la posizione della Slovacchia, che si è espressa apertamente contro il sistema dell’accoglienza su base volontaria. 23 del 10/07/15, pag. 8 Ventimiglia finis terrae Immigrazione. L'interminabile attesa dei migranti africani che da un mese protestano sulla scogliera dei Balzi rossi, a pochi metri dal confine francese. Vogliono raggiungere i paesi del nord ma l'Europa li rifiuta. Una avanguardia abbandonata da tutti che ha smascherato il fallimento della fortezza Europa ormai decrepita che si sta sgretolando nelle sue fondamenta Luca Fazio Ventimiglia I migranti aspettano. Sdraiati all’ombra delle palme con gli occhi chiusi o con le braccia penzoloni sulle ginocchia. Fissano il vuoto. Se si alzano camminano piano. Se prendono un frutto dal tavolo della Croce Rossa lo mangiano piano. Il silenzio è assoluto, anche le cicale danno meno fastidio del solito. Sotto la pineta, ma è solo uno spartitraffico, sono quasi tutti sudanesi. Ci sono anche eritrei, qualcuno arriva dal Mali. Sugli scogli adesso fa troppo caldo. Solo un uomo in riva al mare con il suo ombrellone rompe la linea dell’orizzonte. Cosa pensano? Quelle ore di riflessione silenziosa devono passare come minuti, non può che essere così, altrimenti sarebbero tutti impazziti. Sono lì da un mese. Adesso in trenta e si danno il cambio. Gli altri, circa centocinquanta, sono alloggiati nei locali della stazione di Ventimiglia. Sono tutti liberi ma non li vuole nessuno. Vanno e vengono come se fossero fantasmi. Sono giovani, hanno tutto il tempo che vogliono e se lo prendono per vivere. Alcuni ci hanno messo mesi o anni per arrivare su quella soglia che è la conferma di un miracolo: una nuova vita in un altro mondo. Adesso aspettano. La solitudine, l’attesa e l’idea della morte — perché potrebbero essere tutti annegati — sembrerebbero impossibili da sopportare, per loro invece sono niente. Aspettano. Sembra la scena di una partenza, ma l’immobilità è assoluta. Anche del paesaggio. Il mare è fermo. Le tende, i teloni e i materassi appoggiati sugli scogli sono scoloriti dal sole. Non c’è un filo di vento, le carte da gioco sparpagliate dappertutto sono incollate ai sassi. Gli striscioni sul lungomare ricordano una protesta che non c’è più e dire che un mese fa, quando è cominciato tutto, c’era spazio anche per i sogni: una girandola di foglie secche volta le spalle al posto di frontiera, sulla corolla hanno scritto Citoyen du monde soyons partisans d’un monde sans frontieres. La Francia è cinquanta metri più in là. Quello è il muro. Non c’è niente da fare. Bisogna prendersi tutto il tempo che serve per aspettare che in questi cento metri di confine dove non succede niente, sotto la scogliera dei Balzi rossi, ogni dettaglio ricomponga l’immagine dell’impalpabile destino che attende il vecchio continente. L’Europa oggi è questa. La parete rocciosa che incombe e che conserva tracce dell’antica via romana che portava in Gallia -“una continuità eccezionale in un sito eccezionale” (ironia per turisti) — il mini market di sotto, ultimo avamposto italiano per consumare cose inutili, gli europei sudati e distratti che fanno la fila al bar e al bagno e quelli con un briciolo di umanità che scendono dall’auto con l’imbarazzo di chi porta un’anguria per dissetare degli sconosciuti. La solidarietà, anche quella militante. Sincera ma desolata, destinata a non mutare il corso degli eventi. Sono i ragazzi del presidio permanente No Border. Per alcuni, quei pochi rimasti, è un’esperienza che ha cambiato lo sguardo sulle cose, anche sulla vita. Tre poliziotti francesi vigilano su tutto con l’ingrato compito di prestare il volto all’Europa peggiore degli ultimi settanta anni. Di inquietante c’è che l’attesa in un luogo 24 così si trasforma in una tensione verso qualcosa di ignoto. Dove andranno? Cosa ci starà per succedere? Le loro storie si somigliano. Non sono rassegnati. Dietro le quinte dei Balzi rossi ogni giorno qualcuno tenta di arrampicarsi lungo sentieri mai esplorati e così nascono nuove storie — tutti ormai conoscono quei passaggi delle Alpi marittime. Ahmed ha finito i soldi perché due volte ha provato a prendere il treno per Parigi e due volte i francesi lo hanno ricacciato indietro. Ha solo cinque euro. Anche se i ministri europei hanno già mostrato di voler perseverare nella politica criminale che lo ha portato a Ventimiglia, Ahmed confida in un altro “meeting” dopo il fallimento di due settimane fa e ancora non se la sente di seguire i suoi amici nei boschi. Ha paura di non farcela, servono gambe forti. Sarebbero dieci o quindici chilometri di arrampicata, però qualcuno ce l’ha fatta, hanno telefonato dalla Svezia e dalla Germania. Ma lui vorrebbe vivere proprio in Francia e con un dito indica Mentone. In Libia si è fermato alcuni mesi per fare un po’ di soldi, ha imbiancato case ed è riuscito a racimolare 600 dollari, quanto basta per una traversata. Poi Sicilia, Roma e Ventimiglia. Dice che i libici sono tutti vestiti come militari per cui è come se la polizia fosse ovunque. Non gli hanno fatto del male, forse ha subito qualcosa di peggio, per la prima volta in vita sua si è sentito trattato come “uno zingaro”. Lui è un ingegnere petrolifero: solo dopo questa affermazione concede il suo sguardo, difficile da sostenere. Allora buona fortuna. Gli africani hanno poca voglia di parlare. Hanno già detto tutto quando Ventimiglia era il centro dell’Europa e meno male che qualcuno ha scattato quella foto dei migranti infreddoliti sugli scogli con addosso le coperte termiche della Croce Rossa, una immagine potente e dolorosa della condizione di ogni esule umiliato in mezzo ai propri simili. La foto rimarrà ma l’indignazione è durata tre giorni. Quando si sbloccherà la situazione? I migranti aspettano l’Europa e dicono che sugli scogli potrebbero rimanerci anche un anno. Impossibile. Per il giovane sindaco di Ventimiglia Enrico Ioculano (Pd), che da un mese gestisce con saggezza l’accoglienza dei profughi, un flusso regolare di migranti in città è quasi ordinaria amministrazione. Ma questa volta ne sono arrivati troppi. Non si sente abbandonato, anzi, la “disattenzione” dei media per lui è una buona notizia. In silenzio, lascia intendere, qualcosa comincia a muoversi. Non per merito della politica. Il governo Renzi-Alfano? Non sta a lui dire dell’incapacità di questo governo, per cui se la cava con diplomazia. Ma non si lamenta. “In questo momento — spiega — diamo ospitalità a circa duecento persone ma non possiamo farlo a lungo. I residenti sono stati splendidi, ancora adesso prevale uno spirito di solidarietà ma qualcuno comincia a lamentarsi. Dobbiamo cominciare a ragionare su un orizzonte temporale, il cerino non può rimanere in mano al Comune di Ventimiglia”. Ioculano non si nasconde. Questa esperienza straordinaria fa di lui uno dei sindaci più titolati a parlare di immigrazione (al Pd…) tentando di infrangere qualche tabù. “Non dobbiamo predicare solidarietà a tutti i costi — spiega — ma dico che dobbiamo ragionare seriamente su come gestire questo fenomeno strutturale dotandoci di strutture operative e di risorse per l’accoglienza. Se tranquillizziamo l’elettore medio sul tema della sicurezza sarà chiaro a tutti che i profughi sono brave persone che vanno aiutate”. A Ventimiglia ormai la polizia lascia fare e la latitanza del governo sembra essere l’unica strategia utile per uscire dall’emergenza. La situazione, lentamente, si sbloccherà: all’italiana. I migranti non sono più gli stessi del primo blocco di giugno, alcuni sono riusciti a partire, altri sono tornati sui propri passi. Ci riproveranno. La soluzione sta nel chiudere un occhio, o due. Qui, in stazione, in pineta, tra gli agenti che sorvegliano il litorale, tutti parlano di frontiere più permeabili: il Brennero, per esempio. Ma bisogna dirlo sotto voce e soprattutto bisogna procurarsi un altro biglietto per un’altra destinazione. I cinque dollari di Ahmed non bastano. I liguri che vivono sul confine conoscono bene i passaggi per 25 raggiungere la Francia, il problema non è arrivarci, è attraversarli. Eppure sembra che i mastini della gendarmerie appostati sulle montagne abbiano abbassato un po’ la guardia: la chiameremo “soluzione alla francese”. Questo e nient’altro è capace di fare l’Europa dei “meeting”, come se la silenziosa avanguardia sui Balzi rossi non avesse già smascherato il fallimento di una fortezza ormai decrepita che si sta sgretolando nelle sue fondamenta. del 10/07/15, pag. 8 Una favela nella stazione della vergogna Crotone. Asylanten accampati dal 2013 lungo i binari e nei vagoni merci, divisi per etnie Marco Omizzolo, Roberto Lessio Dal 2013 circa 110 tra profughi e richiedenti asilo vivono tra i binari o dentro i vagoni merci abbandonati alla stazione ferroviaria di Crotone. Sono tutti uomini originari di paesi diversi che sopravvivono grazie al cibo portato loro dai volontari del camper «On The Road» mentre si lavano con la poca acqua a loro disposizione. Una condizione determinata da una grave sottovalutazione istituzionale che ha trasformato un’emergenza umanitaria in una vergogna nazionale. A curarsi di loro ci pensano soprattutto le cooperative Agorà Kroton, Kroton Community e Baobab, e le associazioni Prociv di Isola Capo Rizzuto e Intersos. La stazione ferroviaria crotonese vede una precisa organizzazione ispirata dalle diverse comunità migranti presenti. Subsahariani, afghani e pakistani si ritrovano in zone distinte. I pakistani sono la maggioranza e dimorano nella zona dei vagoni merci dismessi. Camminare accanto a quei vagoni mette i brividi. Ogni tanto qualcuno spunta da dietro una grata dalla quale fino a qualche anno fa usciva solo mais o grano. All’interno si notano i miseri giacigli fatti di coperte e vestiti, mentre si può solo immaginare il caldo torrido che si prova a vivere d’estate dentro quei loculi di ferro. Il nostro sguardo non può che abbassarsi mentre la vergogna e l’indignazione si celano con fatica dietro un timido sorriso. Al centro della stazione, in una ex struttura manutentiva, dormono ragazzi africani e afghani, mentre altri connazionali sono accampati sotto un vecchio cavalcavia che domina la ferrovia. Molti subsahariani orbitano invece attorno all’attuale struttura di manutenzione e all’ampio piazzale antistante. È qui che passano le loro notti, tra topi, serpenti e insetti, su letti improvvisati. Ed è qui che si ammalano, nell’indifferenza quasi generale. Intersos e Agorà Kroton fanno notare che il problema igienico– sanitario principale all’interno della stazione è l’acqua. Le fontanelle pubbliche risultano chiuse, l’accesso alla toilette della stazione limitato e non sono presenti alternative praticabili. I ragazzi in passato raccoglievano le acque reflue per soddisfare, per come possibile, l’igiene personale. Oggi si riforniscono arrivando alle fontane pubbliche più vicine, percorrendo lunghi percorsi a piedi. L’amministrazione e la Prefettura dovrebbero intervenire celermente, per esempio agendo sulle Ferrovie dello Stato per garantire di concerto condizioni igieniche migliori a partire dalla fornitura idrica, bagni chimici e docce, corredate da un’accurata pulizia dell’area. Ma una spessa coltre di inefficienza impedisce di affrontare la questione in modo serio e definitivo. Per esempio si potrebbe individuare una struttura di ricovero notturno necessaria per garantire condizioni minime di sicurezza e dignità. Intanto l’impegno del sindaco di Crotone di non procedere ad alcuno sgombero è già un risultato: la priorità è trovare una 26 sistemazione dignitosa per questi ragazzi e non di usare la forza. Intersos a Crotone ha aperto anche un ambulatorio (progetto Mesoghios) per prestare soccorso e assistenza sanitaria ai richiedenti asilo. Dopo 11 mesi di attività hanno avuto 1.355 accessi, di cui il 54% proviene dalla stazione ferroviaria. Sul totale delle patologie riscontrate più di una su quattro è dovuta alle condizioni totalmente insalubri nelle quali sono costretti a vivere. Intanto le proposte della peggiore destra xenofoba e razzista non si sono fatte attendere. Forza Nuova, guidata da una signora in precedenza iscritta a Rifondazione Comunista, ha dichiarato di voler organizzare le ronde. Non si capisce bene per fare cosa, considerando che i richiedenti asilo sono facilmente individuabili e tutti presenti in stazione. Salvini, invece, già alleato coi fascisti di CasaPound, nei giorni scorsi è andato a Crotone a manifestare davanti al Cara di S. Anna e poi alla stazione ferroviaria dove ha fatto sfoggio ancora una volta della sua delirante ansia da esibizione mediatica, presentando il suo pericoloso armamentario xenofobo. Un volgare atto di speculazione politica su una tragedia umanitaria. Basterebbe un po’ di buon senso e buona volontà politica per risolvere il problema. Merce rara di questi tempi. del 10/07/15, pag. 9 Libia, affonda un gommone recuperati 12 cadaveri Migranti. La tragedia 40 miglia a nord del Paese nordafricano. Salvati altri 500 migranti Leo Lancari ROMA Mentre in Europa si continua a discutere su quanti profughi deve prendersi ogni Stato, nel Mediterraneo si torna a morire. Ieri i mezzi della Guardia costiera hanno recuperato i cadaveri di 12 migranti a 40 miglia a nord della Libia. I migranti erano a bordo di un gommone semi affondato, sul quale c’erano altre 106 persone che sono state tratte in salvo. Stando alle ricostruzioni, rese possibili dalle testimonianze dei sopravvissuti, la tragedia sarebbe avvenuta nelle prime ore del pomeriggio, quando la centrale operativa della Guardia Costiera ha ricevuto l’allarme. Nella zona dove si è verificato il naufragio sono stati inviati i pattugliatori d’altura e due motovedette partite da Lampedusa che ha trovato 4 gommoni, uno dei quali era semi affondato. Gli uomini della Guardia costiera hanno così salvato 393 persone, di cui 106 si trovavano sul gommone semi affondato, e recuperato i corpi dei 12 migranti morti. I soccorritori hanno proseguito le ricerche nella zona per verificare la presenza di altri dispersi. A poca distanza dalla zona del naufragio, le motovedette hanno soccorso un altro gommone, con a bordo 106 persone, che sono state tutte recuperate. Intanto ieri a Lussemburgo i ministri degli Interni dei 28 sono tornati a discutere di quote e di quanti, dei 40 mila siriani, eritrei e, a quanto pare, anche iracheni sbarcati in Italia e Grecia gli Stati dell’Unione devono accogliere nei propri territori. «La Germania è pronta a prendere un grosso numero di richiedenti asilo, ma lo devono fare anche altri Paesi», ha detto prima dell’avvio della riunione il ministro dell’Interno tedesco Thomas De Maiziere. Lo sforzo c’è stato, ma è stato davvero minimo: 9.000 profughi anziché gli 8.763 previsti nella proposta elaborata dalla Commissione europa e bocciata nel consiglio Ue del 25 e 26 giugno. 27 Ancora meno farà la Slovacchia. Grazie a un accordo con Vienna, annunciato ieri a Lussemburgo dai rispettivi ministri degli Interni, Bratislava ha infatti deciso di prendere 500 profughi dall’Austria senza però impegnarsi ad offrire accoglienza per la ripartizione dei 40mila profughi da Italia e Grecia. «Cominceremo con 50 a luglio, ad agosto ne trasferiremo 200, poi in settembre altri 250 per arrivare a 500 a fine settembre. L’Austria resta responsabile del trattamento delle domande di asilo e in caso di risposta positiva saranno accolti in Austria», ha spiegato il ministro degli Interni austriaco Johanna MiklLeitner. «Se aiutiamo l’Austria, che è un Paese di destinazione finale — ha spiegato invece il collega slovacco Kalinak -, sappiamo che quei profughi resteranno in Slovacchia. Ma se prendiamo qualche numero dall’Italia sappiamo che scapperanno per andare in Germania, Austria o Belgio. Questo non è onesto». Per quanto riguarda la Francia, invece, confermati i numeri previsti dalla commissione Juncker, che prevedevano l’accoglienza per 2.375 reinsediamenti di profughi attualmente nei campi in Africa e 6752 ricollocamenti. Una nuova riunione dei ministri degli Interni è prevista sempre a Lussemburgo per il 20 luglio. del 10/07/15, pag. 9 I progetti dei Comuni per mandare a casa rom e sinti Superare i campi. Amministratori a convegno a Roma Carlo Lania Uno dei tanti luoghi comuni che circondano i rom vuole che questa minoranza si ostini a vivere nei campi rifiutando la sola idea di trasferirsi in una casa come tutti. Luogo comune da mesi alimentato insieme ad altri da una propaganda razzista verso le comunità rom e sinti che vivono nel nostro Paese (e composte nella maggioranza dei casi da cittadini italiani), e utile ad accrescere un allarme sociale buono solo per le campagne elettorali. Sarà un caso, ma passata l’ultima tornata elettorale sono diminuite in televisione le magliette con stampate sopra ruspe pronte ad «abbattere» i campi rom. Eppure il tarlo razzista ha ben scavato in un’opinione pubblica sempre più allarmata. «Nella classifica dell’odio sociale rom e sinti oscillano sempre tra la prima e la terza posizione nelle indagini sociologiche. E’ come se questa moltiplicazione di odio avesse fatto cadere il tabù del razzismo, che oggi si dichiara senza più imbarazzi» spiega il senatore Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti umani del Senato introducendo i lavori del convegno «Superamento dei campi, esperienze a confronto». Un allarme che appare ancora più ingiustificato se si pensa che in Italia rom e sinti sono in tutto 160 mila, e di questi solo 40 mila vivono nei campi. A fronte di una popolazione di 60 milioni di abitanti. Eppure non è scritto da nessuna parte che debba essere per forza così. In Europa ci sono Paesi con presenze molto più numerose di rom e sinti in cui è stato possibile raggiungere livelli di integrazione molto alti. In Spagna, ad esempio, all’inizio degli anni 2.000 vivevano 800 mila rom, dei quali 80 mila nella sola Madrid, città che contava nella sua area metropolitano 6,5 milioni di abitanti. La metà di quegli 80 mia erano stranieri e 13 mila risiedevano nei campi. «Nel 1998 prese avvio un programma di integrazione con la creazione di un ente pubblico e l’obiettivo di superare i campi, un progetto reso possibile grazie anche all’utilizzo dei finanziamenti previsti dal fondo europeo sociale», spiega il senatore del Pd Francesco Palermo. Nel 2011 si è cominciato a chiudere i campi, oggi 28 praticamente tutti dismessi avviando un percorso di integrazione delle famiglie rom. «La cosa interessante — prosegue Palermo — è che il 96% delle famiglie riallocate dichiara oggi di sentirsi integrate e la metà ha acquistato la casa in cui vive». E in Italia? Se si supera il fragore della propaganda razzista, si scopre che anche da noi non mancano esperienze positive. Tenute magari un po’ in sordina proprio per non aizzare le solite proteste. Ad Alghero, ad esempio, dagli anni ’80 vivevano un centinaio di rom in un campo alla periferia della città. A settembre del 2014 un censimento ne ha contati 51, tra i quali 30 minori. «Grazie a un finanziamento regionale di 250 mila euro — racconta il sindaco Mario Bruno — abbiamo avviato un progetto per trasferire queste persone in una casa. In città il 60% della case sono seconde abitazioni chiuse per gran parte dell’anno. Abbiamo presentato le famiglie ai proprietari, offrendo la garanzia del comune per l’affitto e lentamente siamo riusciti a vincere le differenze». Il 29 gennaio scorso il campo è stato chiuso definitivamente. Allo stesso tempo l’amministrazione ha avviato un piano di edilizia popolare per gli algheresi senza una casa. Interessante anche l’esperienza di Torino. Qui già nel 1998 era stato avviato un piano di ricollocamento in casa che ha coinvolto più di 500 famiglie rom. Poi la crisi economica ha costretto molte di queste a tornare nei campi per l’impossibilità di continuare a pagare un affitto, per quanto popolare. «Un problema che non riguarda ovviamente solo i rom ma anche i torinesi, al punto che stiamo pensando a nuove forme di edilizia pubblica», spiega il vicesindaco Elide Tisi. Due anni fa è stato avviato un progetto per circa 600 rom che vivevano in un campo situato in una area considerata a rischio. E’ stato stipulato un «patto di emersione», in cui i rom si sono impegnati a iscrivere i bambini a scuola e a rispettare regole della convivenza, e l’amministrazione a trovare degli alloggi in cui trasferirli, ma anche un lavoro nei paesi di origine, favorendo così i rimpatri volontari. A Roma, invece, 25 famiglie rom sono state alloggiate in uan casa popolare grazie a un bando del 2012 indetto dall’allora giunta Alemanno. Si stanno inoltre costituendo 5 cooperative di donne rom. A Milano, infine, il comune sgombera i campi offrendo però subito un’alternativa, come spiega l’assessore all sicurezza Marco Granelli: «Inizialmente si tratta di centri di emergenza sociale dove i rom possono restare al massimo per sei mesi, durante i quali viene avviato un percorso di integrazione. Ma ci sono anche appartamenti gestiti insieme al terzo settore dove le famiglie alloggiano per tre anni durante i quali anziché pagare l’affitto destinano i soldi a un fondo da utilizzare per l’avvio di un’attività. Sono i primi passi verso un’abitazione definitiva». 29 WELFARE E SOCIETA’ del 10/07/15, pag. 7 È inutile, l’Italia resta al palo Rapporto Ocse. Miglioramenti infinitesimali sull’occupazione, giovani e «Neet» senza sbocchi. L’organizzazione internazionale elogia il «Jobs Act», che però non funziona. E i precari rimangono tali Marta Fana Il rapporto, Employment Outlook, sullo stato del mercato del lavoro, pubblicato ieri dall’Ocse non desta nessuna sorpresa: a fine 2014, l’Italia rimane segnata da forte disoccupazione, sottoccupazione e bassi salari. Un’immagine che l’Istat, istituzione che fornisce i dati per Eurostat e Ocse, aveva già fotografato e reso nota. È utile riprendere i dati pubblicati nel rapporto e ripeterli a scanso di equivoci e di facili fraintendimenti propagandistici. La sezione dedicata all’Italia inizia con una doccia fredda «La ripresa italiana rimarrà timida per un certo periodo. Secondo le più recenti proiezioni Ocse, il Pil crescerà dello 0,6% nel 2015 e dell’1,5% nel 2016, valori al di sotto di quelli attesi sia dell’area Euro che dell’intera Ocse». La disoccupazione nel 2015 è diminuita lievemente dopo il picco di fine 2014, attestandosi a maggio 2015 al 12,4%, rimane a un livello doppio rispetto al 2007. Ma soprattutto, spiega l’Ocse, anche a fine 2016 le previsioni indicano che il tasso di disoccupazione si attesterà all’11,6%: un miglioramento sì, ma di poco conto. Il tasso di disoccupazione giovanile è ancora intorno al 42% mentre è allarmante quello relativo ai Neet, oltre un giovane su quattro tra i 15 e i 24 anni non studia e non lavora (speriamo che non guardi nemmeno la tv). Dati negativi che nel 2014 non migliorano, nonostante la propaganda di governo e il decreto Poletti, secondo cui un’ulteriore liberalizzazione del mercato del lavoro avrebbe dovuto aumentare l’occupazione e in particolar modo quella giovanile. Mentre l’occupazione non aumenta, il mercato del lavoro si fa sempre più precario, soprattutto per i giovani e le donne: nel 2014, il 56% dei lavoratori tra 15 e 24 anni ha un contratto a tempo determinato, percentuale in aumento di 14 punti percentuali dal 2007. Non soltanto il lavoro si fa più instabile ma dura anche poco: secondo l’Ocse, circa il 40% dei contratti non supera l’anno nel 2014, dinamica che non migliora nei primi tre mesi del 2015, dove circa il 45% dei contratti ha durata inferiore al mese. Non soltanto la precarietà, ma anche la disoccupazione di lunga durata — che in Italia colpisce oltre il 61% dei disoccupati — contribuisce, a determinare redditi da lavoro persistentemente bassi. Riguardo i redditi da lavoro, su 34 Paesi Ocse, l’Italia si colloca al ventesimo posto nella classifica. Seppure nel 2014, i salari reali siano minimamente aumentati, nel periodo 2007–2014 la loro crescita è stata negativa. Ma non è finita, esiste una sezione in cui l’Italia non è affatto menzionata nell’Employmnet Outlook, quella relativa al salario minimo, che appunto non è mai stato introdotto, grazie anche — si fa per dire — alle resistenze che provengono dal sindacato. Ma, nei paesi in cui esiste, il salario minimo è riuscito ad attenuare le disuguaglianze salariali, senza provocare nessun effetto perverso sull’occupazione, nonostante non sia sempre in grado di prevenire il fenomeno dei working poor. Tuttavia, le disuguaglianze rimangono alte e solo in parte sono spiegate dai differenti livelli di istruzione/competenze tra i lavoratori: molto continua a dipendere dalle condizioni della famiglia di provenienza e dall’andamento dell’economia, sono cioè strutturali. Ma tutto questo non sembra interessare al governo italiano. 30 Ma mentre i dati del 2014 e le previsioni fino al 2016 mostrano soltanto un lieve miglioramento del mercato del lavoro italiano, che si fermerà anche nel 2016 a livelli ben peggiori di quelli del 2007, l’Ocse si lancia in un elogio del Jobs Act, in quanto aumenterebbe gli incentivi per creare posti di lavoro a tempo indeterminato. Sembra che le istituzioni internazionali continuino a soffrire della miopia tipica dell’ideologia neoliberista, secondo cui per creare occupazione basterebbe ridurre il costo del lavoro per le imprese e non invece aumentare la domanda delle famiglie accompagnata soprattutto dalla politica industriale e dal ruolo attivo dello stato. Dovremmo allora ricordare anche all’Ocse che, stando agli ultimi dati Istat, Inps e Ministero del Lavoro, il JobsAct non crea lavoro stabile, se non in quantità infinitesimali, mentre le imprese incassano incentivi senza vincoli di investimento, accontentandosi di un ruolo di subalternità tecnologico e produttivo rispetto ai Paesi del Nord Europa che oggi portano avanti una battaglia non soltanto contro la ripresa e lo sviluppo della Grecia ma di tutti i Paesi dell’Europa mediterranea. 31 DIRITTI CIVILI E LAICITA’ del 10/07/15, pag. 1/23 La libertà e l’interesse dei figli Vladimiro Zagrebelsky Nella discussione aperta dal giornale, il primo contributo, quello di Orsina, si svolge argomentando su due concetti fondamentali: Natura e Tradizione. Io dubito che essi siano tanto definiti, stabili e condivisi da assicurare un ancoraggio sicuro. Forse sono rassicuranti sul piano emotivo (che non voglio sottovalutare), ma non mi sembra possano andare oltre. Innanzitutto mi chiedo se natura e tradizione si confondano, reciprocamente dandosi forza. La sovrapposizione dei due concetti è possibile, ai fini di questa discussione, solo se si accetta che anche la nozione di natura/naturale è relativa nel tempo e nello spazio, evolve, si modifica. Vi sono risultati della scienza in generale e in particolare di quella che riguarda il corpo umano che in tempi antichi sarebbero stati inimmaginabili o condannati come sfide ai limiti della natura, come quella di Icaro. Ancora recentemente - nel 1856, ieri, nella storia dell’umanità- la disumana schiavitù era ritenuta perfettamente costituzionale e conforme a natura dalla Corte Suprema degli Stati Uniti. Ne seguì una guerra civile che permise l’affermarsi dell’idea che naturale era invece l’eguaglianza e la libertà di tutti. Talora, ma non sempre l’evoluzione è da riportare a successi nell’imitazione della natura. Ad esempio certe tecniche di fecondazione oggi generalmente accolte con favore, non imitano, ma superano, aggirano e forzano la costituzione di persone che la natura ha reso sterili. E dunque oggi si ritiene e si sente naturale ciò che ieri (o oggi altrove) sarebbe certo stato bollato come innaturale. D’altronde ancora recentemente, per venire al tema, in diversi paesi europei i rapporti omosessuali erano ritenuti reato e puniti con il carcere. La soluzione dei problemi del matrimonio omosessuale, del tenore della disciplina delle unioni omosessuali e dello scoglio insidioso rappresentato dall’adozione da parte della coppia omosessuale e dell’accesso di essa alle varie tecnologie riproduttive oggi disponibili, può trovare saldo ancoraggio in simili nozioni di natura e tradizione? Io non lo crederei, anche perché una volta ammessa la relatività della nozione di natura e del contenuto della tradizione, si è costretti a prendere atto che nelle nostre società europee ed anche in Italia, convivono più idee su ciò che sia naturale e più tradizioni, più culture, più religioni o convinzioni. Qualche anno fa la Corte europea dei diritti umani, dovendo decidere una causa riguardante la disciplina estremamente restrittiva dell’aborto esistente in Irlanda, si è avventurata su un terreno ad essa estraneo, affermando che quella regolamentazione, così diversa da quella prevalente in Europa, era però giustificata dal radicamento nelle «idee morali profonde del popolo irlandese». Argomento sotto diversi aspetti discutibile in una sentenza, ma che, ai fini nostri e non ostante la differenza di oggetto, potrebbe essere validamente messo in dubbio dal recente esito del referendum popolare sulla ammissione del matrimonio omosessuale. Attenzione dunque quando si richiamano tradizioni e culture attribuendole a interi popoli. Quand’anche poi nel discorrere del contenuto di una nuova legge, fosse possibile riferirsi a stabili e maggioritarie tradizioni e nozioni di natura (e dando per dimostrato il loro valore in ogni caso positivo), occorrerebbe considerare che, nel definire una legge che permette e vieta a tutti, in materia di diritti e libertà la volontà della maggioranza incontra limiti anche in democrazia ed anzi proprio in democrazia. Limiti derivanti dal rispetto della libertà altrui di separarsi da stili di vita e tradizioni maggioritarie. 32 Ed è proprio della libertà altrui che occorre trattare, come ha fatto ieri Riotta entrando in questo dibattito, e non tanto del richiamo al principio di eguaglianza. Il principio di eguaglianza è violato quando si trattano diversamente situazioni eguali, così come quando si trattano egualmente situazioni diseguali. E’ evidente che la coppia omosessuale è diversa da quella eterosessuale. Ma fin dove e sotto quale aspetto è invece eguale? Questo è un quesito inevitabile e senza risposta certa, inequivoca, tale da essere da tutti accettata. Tanto più che la Costituzione e tutte le Carte dei diritti fondamentali vietano discriminazioni fondate sulla differenza di sesso. Prioritario è invece a mio parere l’approccio libertario, che muove dal rispetto della libertà altrui. In una società libera occorrono buone e forti ragioni per vietare, non per permettere. Nel mondo occidentale e nell’Europa di cui l’Italia è per fortuna parte integrante, non possono essere ignorate linee di tendenza che emergono chiaramente e ora abbattono velocemente divieti e tabù tradizionali. E molto si può comunque fare facilmente passando il confine, presentando poi a sindaci, ministri e giudici situazioni che chiedono soluzione e non ammettono il rifiuto di vederle. Le più o meno finte registrazioni che alcuni sindaci hanno effettuato di matrimoni omosessuali conclusi all’estero, sono lì a dimostrare l’insufficienza di una pura e semplice negazione. In Italia la possibilità di un matrimonio tra persone dello stesso sesso è esclusa dalla Costituzione. E nessun obbligo di introdurlo deriva dalle Carte europee dei diritti fondamentali. Esse soltanto ne ammetto la possibilità. La Corte Costituzionale nel confermare che il matrimonio riconosciuto dalla Costituzione è quello eterosessuale, ha però affermato – in linea con il diritto europeo dei diritti umani - che il riconoscimento dei diritti fondamentali dell’uomo e delle formazioni sociali riguarda anche «la stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri». E ha aggiunto che, per certi aspetti, la ragionevolezza può rendere necessario «un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale». Ora è evidente che la legge italiana che regolerà le unioni non matrimoniali omosessuali riconoscerà una serie di assimilazioni alla disciplina del matrimonio. Ma il contrasto è profondo quando si considera la possibilità che la coppia omosessuale riconosciuta dalla nuova legge possa adottare, ovvero accedere alle tecniche che oggi le permettono la generazione di un figlio. Qui il conflitto è radicale e la posizione negativa argomenta richiamando l’interesse del figlio, il cui benessere e la cui armoniosa formazione sarebbe assicurata solo dalla vita in una famiglia che gli dia la presenza della figura paterna e di quella materna. Tendo anch’io a credere che questa sia la condizione preferibile, anche se conosciamo tremendi coniugi eterosessuali. Non è tuttavia dimostrato che il figlio delle coppie omosessuali patisca per il carattere della sua famiglia, anche se è possibile che il contesto sociale esterno reagisca sfavorevolmente, incidendo sulla integrazione di chi è sentito «diverso» per il fatto d’avere due padri o due madri. Qualcosa di simile al fenomeno ben noto che riguarda il figlio adottato, le cui fattezze esterne rivelano la diversa origine rispetto a quella dei genitori adottati. Ma come quest’ultima difficoltà sociale va scomparendo, anche quell’altra sarebbe destinata a essere superata. E comunque l’indisponibilità sociale ad accogliere la novità richiede alla società di evolvere nel rispetto degli altri. Ciò detto, quello che colpisce nell’argomento forte legato all’interesse dei figli è la comparazione che si fa tra la coppia eterosessuale e quella omosessuale, come se si trattasse di scegliere l’una o l’altra. Ma non è così. Il divieto di procreare imposto alla coppia omosessuale non indirizza verso una famiglia eterosessuale ritenuta preferibile, ma impedisce di nascere. 33 INFORMAZIONE del 10/07/15, pag. 16 Rai, più vicina la legge. Opposizioni pronte alle barricate VIA LIBERA DELLA COMMISSIONE AL SENATO.IL M5S ALZA IL TIRO.DUE DONNE IN POLE PER IL DOPO GUBITOSI ROMA . Miracolo Rai. Mentre i gruppi alla Camera litigano sulla buona scuola, al Senato il disegno di legge di riforma della Rai mette tutti d’accordo. Compresi Forza Italia e Movimento 5 Stelle, che votano il mandato ai relatori insieme alla maggioranza. Certo, nel Pd qualcuno mugugna che le concessioni fatte alle opposizioni abbiano diluito troppo la riforma della governance del servizio pubblico. E lo dimostrerebbe l’esultanza di Maurizio Gasparri, che rivendica come un merito il fatto che la nuova legge ricalchi sostanzialmente la sua «al 99 per cento». In ogni caso Renzi, che ha dovuto ingoiare il rinvio a settembre della riforma costituzionale, è convinto di poter incassare il via libera finale del Senato entro la pausa estiva. Il Pd esprime soddisfazione per un risultato tutt’altro che scontato. La linea della trattativa, portata avanti dal sottosegretario Antonello Giacomelli intanto ha portato al primo sì bipartisan in commissione lavori pubblici. Ricompare quindi la figura del «presidente di garanzia », eletto con un quorum qualificato dei due terzi della commissione di Vigilanza. E si conferma la stessa commissione di Vigilanza, che inizialmente Renzi pensava di abolire. Resta ugualmente centrale il Consiglio d’amministrazione, al cui parere «obbligatorio» e «vincolante » l’amministratore delegato dovrà sottomettere le nomine dei direttori di reti e Tg. (quando il parere sarà espresso con una maggioranza qualificata). A Forza Italia, che pure ha incassato molto, nemmeno basta. Tanto che Augusto Minzolini in commissione si è astenuto, puntando a un ulteriore depotenziamento dell’A.d. quando il ddl passerà in aula. Attendono al varco anche i 5Stelle. «Ci giochiamo tutto — ha spiegato Alberto Airola — sulle norme per la trasparenza e i requisiti per essere nominati nel Cda». Roberto Fico, il presidente della Vigilanza, già minaccia: «Se non verranno approvati i nostri emendamenti sarà battaglia durissima». Ai malumori del Pd per le troppe concessioni dà voce Michele Anzaldi. L’Adnkronos raccoglie il suo sfogo: «È stupefacente che si preveda la nomina dei direttori di rete da parte della Vigilanza. Altro che meno politica, la politica raddoppia! E risulta assordante anche il silenzio, che insospettisce, dell’Usigrai». L’approvazione definitiva della riforma consentirà il rinnovo dei vertici di viale Mazzini. Per la successione di Gubitosi, appaiono in pole position due donne: Marinella Soldi di Discovery e Patrizia Greco, presidente di Enel. Restano in corsa Andrea Scrosati di Sky e Vincenzo Novari di H3g. (f.bei) Da la Stampa del 10/07/15, pag. 9 Con la riforma della Rai 34 si prepara quella dei talk-show Per il premier il racconto della politica in tv è deleterio Entro l’estate il nuovo sistema di governance di Viale Mazzini Fabio Martini Alla Humboldt di Berlino - l’università dove insegnarono Hegel, Schopenhauer ed Einstein - la mattina del primo luglio il dottor Matteo Renzi era chiamato a parlare del futuro dell’Europa, ma sul più bello spiazzò cattedratici e studenti con una tirata sui talk-show televisivi italiani: «Sono il grande pollaio senza anima che ha preso il posto delle fiction, pieni di colpi di scena dove non succede mai niente con teatranti di terzo ordine e dove gli spot sono la parte più credibile dell’intera trasmissione». Un distillato di sincero disprezzo per un genere televisivo che, per quanto inflazionato e in crisi, da anni è un porto franco del pluralismo politico ed informativo. A Renzi, che ha costruito il suo successo in gran parte grazie alla partecipazione a queste trasmissioni, da qualche mese i talk-show non piacciono più. Ha scritto in uno dei suoi tweet: «Trame, segreti, finti scoop, balle spaziali e retropensieri: basta una sera alla Tv e finalmente capisci la crisi dei talk show in Italia». Al presidente del Consiglio queste trasmissioni non piacciono perché, a suo avviso, nel complesso forniscono una immagine deformata della realtà politica e sociale, rappresentazione spesso virata sul lamento, sulla recriminazione cronica e sulla sistematica omissione di ciò che cambia o funziona. Un tipo di critica che Renzi ha pubblicamente esternato e alla quale se ne accompagna una espressa in sedi più ristrette, perché più delicata: in tv e in particolare in Rai, non se ne può più della proliferazioni dei talk-show a qualsiasi ora del giorno e della notte. Ma alle critiche da telespettatore, Renzi ha aggiunto osservazioni che alludono ad una vocazione da amministratore delegato. In un tweet ha scritto: «Dobbiamo cambiare modo di raccontare l’Italia e la politica. Non siamo quella roba lì». L’espressione «dobbiamo cambiare» significa che Renzi si prepara a suggerire ai prossimi direttori Rai un cambio nel modo di fare informazione? Si va verso una “riforma dei talk-show” e si punta alla loro concentrazione in una unica rete? Ovvero, alla loro rarefazione? Seguendo un riflesso di molti politici che finiscono per attribuire le proprie difficoltà a vizi comunicativi, lunedì scorso Renzi ha tenuto una lezione ai suoi parlamentari su come si tiene botta in tv, ma la vera novità è un’altra: il governo vuole accelerare la riforma della Rai, nel tentativo di approvarla entro l’estate. Un’impennata decisionista che contraddice la vulgata precedente secondo la quale il governo si era rassegnato a rinnovare i vertici aziendali con la vigente legge Gasparri. In altre parole, la perdurante difficoltà nel chiudere alcune riforme stagnanti (a cominciare da quella istituzionale), avrebbe indotto palazzo Chigi a considerare come prioritaria la riforma della Rai, promossa a “scalpo” agostano. Nella riforma Rai targata Renzi, il nuovo amministratore delegato (indicato dal governo), avrà il potere di nominare i direttori di rete e dei Tg. Il premier sa bene che proprio su quelle nomine (ad e direttori giornalistici) saranno accesi i riflettori, sa che non può sbagliare il colpo, magari anche a costo di ridimensionare qualche sua “pulsione”. Ecco perché per il ruolo di Ad accarezza l’ipotesi di affidare l’incarico ad una manager come Patrizia Grieco, attuale presidente dell’Enel, mentre per l’informazione Renzi ha stima per la direttrice di Sky Tg24 Sarah Varetto. Anche se il personaggio che - in tutte le caselle top - finirebbe per raccogliere un vasto consenso, per storia personale e peso professionale, è un giornalista che il premier apprezza, anche a dispetto delle critiche subite: Enrico Mentana. 35 SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI del 10/07/15, pag. 10 LA GIORNATA Scuola,la riforma diventa legge ma il Pd si spacca La minoranza esce dall’aula, sì dei verdiniani.È la meno votata tra le riforme Il premier:100mila assunzioni,più merito, più autonomia.Ora P.A. e fisco ALBERTO CUSTODERO ROMA . La “buona scuola” è legge, tra le proteste dei sindacati dei docenti, Cobas in testa, in piazza Montecitorio. L’Aula della Camera, in terza lettura, ha dato il via libera alla riforma del sistema scolastico del governo, con 277 sì, 173 no e 4 astenuti. Contrari, M5S, Forza Italia, Lega, Sel, Alternativa libera, Fratelli d’Italia. Quattro astenuti. Il premier Renzi esulta: «È il più grande sforzo di riforme strutturali della storia repubblicana. Ora avanti su fisco e Pa». In un tweet, ha sottolineato il risvolto occupazionale: «Centomila assunzioni, più merito, più autonomia». Su questo punto è intervenuto anche ilministro dell’Istruzione. «Le assunzioni - ha detto Stefania Giannini non sono né dovute né fittizie, sono nuovi posti, risorse umane che vanno alla scuola». «Non c’è una legge perfetta - ha aggiunto il ministro, quasi rispondendo alle proteste sindacali- ci saranno punti deboli e ci sarà la possibilità di correggerli, ma è una grande opportunità, che consegniamo nelle mani di studenti, famiglie e insegnanti». Ma al Pd l’approvazione del ddl è costata una spaccatura interna. L’assenso meno ampio del previsto - è la riforma meno votata del governo Renzi- è stato provocato dalla decisione di 39 deputati dem, 24 della minoranza, tra i quali Bersani e Cuperlo, di non partecipare al voto. In 5, tra cui D’Attorre, hanno votato no. Prima delle votazioni, s’è consumata in Aula una bagarre inscenata dalle opposizioni. Sel, durante le dichiarazioni di voto finali, ha esposto cartelli con la scritta Oxi (mutuando il “no” del referendum greco), mentre tutti i deputati del M5S hanno letto, in coro e in piedi, i tre articoli - 3, 33 e 34- della Costituzione dedicati alla scuola. Prima di loro, i deputati del Carroccio avevano sventolato fogli che intimavano “Giù le mani dai bambini” costringendo la presidenza a sospendere la seduta per alcuni minuti, e a espellere dall’aula il capogruppo Fedriga. Fi s’è spaccata, con Renato Brunetta, capogruppo, che l’ha bocciata (« Se si arriverà a un referendum, voteremo sì», ha detto), ma ben 4 esponenti vicini a Denis Verdini (Faenzi, Pairsi, D’Alessandro, Mottola ) hanno votato per il sì. Il fronte del dissenso, tuttavia, resta agguerrito. I sindacati, che hanno visto sfumare la possibilità di incassare le modifiche richieste, stanno preparando un’offensiva per settembre. del 10/07/15, pag. 4 La riforma più odiata 36 Camera. La Camera approva il Ddl scuola con 277 sì, 173 no, 4 astenuti. Il movimento della scuola non si ferma e promette battaglia da settembre. In autunno i sindacati annunciano il più grande contezioso giudiziario italiano e gli studenti la boicotteranno "dal primo giorno" Roberto Ciccarelli ROMA La Camera ha approvato ieri in maniera definitiva la riforma sulla scuola con 277 sì, 173 no e 4 astenuti. Dopo tre mesi e mezzo di iter parlamentare ricattatorio il governo Renzi è riuscito ad imporre alle quasi 8 mila scuole italiane un’organizzazione aziendalista. La cosiddetta «buona scuola» istituisce la chiamata diretta dei docenti da parte del «presidemanager» (detto «sceriffo» o «sindaco»), una norma già contenuta in un analogo provvedimento dei governi Berlusconi e poi Monti (il Ddl Aprea) respinto nel 2012. Questo preside, a metà di un dirigente di azienda e un padre-padrone, sceglierà una parte dei docenti neo-assunti (102 mila) in base al curriculum una volta realizzati gli albi territoriali dal 2016. Gli è stata riconosciuta la facoltà di conferire e rinnovare al docente un incarico triennale in base alla sua discrezionalità. Il preside deciderà anche di aumentare lo stipendio a una minoranza di docenti sulla base di criteri da lui stabiliti nel piano triennale e non in base alla negoziazione contrattuale. Al dirigente scolastico è stata attribuita infine la potestà di rescindere il contratto a chi tra i docenti neo-assunti non supererà l’anno di prova. In questa cornice sarà ridotto drasticamente il ruolo dei sindacati nella contrattazione, una strategia che rientra nel piano renziano di esautorare il ruolo dei corpi intermedi e della mediazione socio-professionale a favore di una visione autoritaria e personalistica. La riforma approvata ieri ha istituito un comitato di valutazione con genitori e studenti che entra in contrasto con il collegio di istituto e quello dei docenti. Questo organo deciderà sugli aspetti didattici, professionali e salariali, materie sulle quali non ha alcuna competenza specifica e che, anzi, rischia di creare conflitti personali con i docenti. Nei termini di una gestione aziendale — questo è il punto di vista del governo — preside e comitato di valutazione favoriranno la «customizzazione» della scuola. La libertà di insegnamento sarà subordinata alle esigenze dei «clienti» e la didattica sarà trattata come un «prodotto». Chi non si adatterà alle esigenze del mercato dove concorreranno istituti di serie A e B, o al pubblico che garantisce anche finanziamenti, non sarà giudicato compatibile con la scuola-azienda. Il collegio docenti è stato inoltre esautorato e, con esso, anche la dimensione cooperativa e collegiale del lavoro dei docenti. L’obiettivo della «scuola dell’autonomia», imposta quindici anni fa da Luigi Berlinguer, e faro della pedagogia liberista sostenuta anche dagli eredi del partito comunista (poi Pds, Ds e oggi Pd) è stato pienamente realizzato. Per i sindacati, gli studenti e i docenti che si sono mobilitati in maniera instancabile a partire dallo sciopero generale del 5 maggio scorso, la riforma che istituisce la «chiamata diretta» lede una serie di principi costituzionali come la libertà d’insegnamento. Problemi arriveranno anche dalla creazione dell’organico territoriale dei docenti, dalla disparità di trattamento sulla titolarità d’istituto tra docenti e personale Ata. Nemmeno il tema qualificante della riforma — la «scomparsa» del precariato — può essere considerato tale. Sono all’incirca 100 mila i docenti precari abilitati e idonei ad altri concorsi esclusi dalle assunzioni; non saranno stabilizzati gli Ata con almeno 36 mesi di servizio, mentre nell’organico di diritto restano scoperti 30 mila posti sul sostegno. Su questi presupposti, da settembre, i sindacati sono d’accordo nel sollevare il più grande contenzioso giudiziario nella storia della scuola italiana. Marcello Pacifico (Anief) annuncia richieste di risarcimenti milionari, mentre Stefano D’Errico (Unicobas) prevede che mancherà il numero legale nei collegi docenti chiamati a votare sul nuovo «organico 37 funzionale». Per Francesco Scrima (Cisl Scuola) «il governo si è assunto la grave responsabilità del mancato confronto con la scuola» e Rino Di meglio (Gilda) accusa Renzi di «arroganza e presunzione». La battaglia avverrà anche contro i decreti attuativi avverte Marco Paolo Nigi (Snals/Confsal). «La mobilitazione continuerà con tutti gli strumenti possibili per contrastare l’applicazione di una legge che fa arretrare il sistema di istruzione» annuncia Domenico Pantaleo (Flc-Cgil). «I sindacati e le strutture di base – è l’appello di Piero Bernocchi (Cobas) – trovino le modalità comuni nella conduzione della “guerriglia” contro questa legge-porcata». La trasversalità del movimento tiene nonostante la sconfitta annunciata nella prima battaglia contro la «Buona scuola» del governo Renzi.Toni, e propositi ugualmente determinati, sono stati espressi dagli studenti. Insieme ai docenti ieri a piazza Montecitorio hanno lanciato libri e urlato a squarciagola «Vergogna!» contro il Palazzo mentre la Camera approvava la riforma. Nella notte tra mercoledì e giovedì gli studenti dell’Uds hanno realizzato anche un blitz in alcuni parchi della Capitale dove hanno imbavagliato decine di statue raffiguranti, ad esempio, quella Cesare Beccaria, filosofo e giurista: «Per rimarcare quanto l’approvazione del ddl scuola prevista per oggi, silenzi il mondo dell’istruzione e della cultura, e al tempo stesso neghi un investimento vero per garantire l’accesso ai saperi il diritto allo studio». « Boicotteremo i dispositivi di valutazione, creeremo nuovi organi di partecipazione, costruiremo proposte alternative da mettere in pratica scuola per scuola — hanno detto gli studenti in un video diffuso sui social network — Boicotteremo la legge in ogni sua forma, contro il mercato dei saperi e la privatizzazione dei diritti». «In autunno le scuole saranno un problema per il Governo Renzi» conferma Danilo Lampis coordinatore Uds. Appuntamento allora «al primo giorno di scuola, che sarà solo la data iniziale di un autunno denso di mobilitazioni studentesche conferma Alberto Irone della Rete degli studenti medi — Gli studenti non accetteranno una scuola azienda, antidemocratica, privatizzata ed escludente. Non ci fermeremo fino a quando la scuola non sarà buona per davvero». In tutt’altra realtà vivono gli esponenti di un governo che ha sudato sette camice per portare a casa una riforma il cui iter parlamentare è stato gestito in maniera caotico e approssimativo, spaccando il partito democratico che ha comunque tenuto. Per la ministra dell’Istruzione Stefania Giannini, la sua approvazione alla Camera «non è un atto finale» ma «l’atto iniziale di un nuovo protagonismo della scuola». «Il caos nella scuola si potrà creare solo se non si va a una applicazione piena della riforma» ha aggiunto rispondendo ai sindacati. E poi ha messo le mani avanti: «Non c’è legge perfetta, ci saranno punti deboli e ci sarà la possibilità di correggerli, ma è una grande opportunità, che consegniamo nelle mani di studenti, famiglie, insegnanti». Si mette in conto, cioè, che la riforma subira vari rimaneggiamenti, anche alla luce delle deleghe che il parlamento ha votato al governo, su aspetti determinanti per l’intero meccanismo ideato. Per la ministra in Italia c’è stato un «precariato stabile» e il governo ha cominciato a risolvere il problema. I sindacati hanno messo in moto i loro centri studi e dimostrano esattamente il contrario: il precariato continuerà, come le supplenze l’anno prossimo. E le assunzioni non risolvono affatto il problema del precariato. L’anno prossimo ci saranno 60 mila insegnanti senza cattedra. Renzi vince in parlamento, ma si ritrova da solo nelle piazze. E nelle sezioni del suo partito. Ieri però ha incassato il favore della Conferenza Episcopale Italiana. Il segretario generale monsignor Nunzio Galantino si è scoperto più renziano dei renziani quando ha detto che la riforma della scuola «è un passo in avanti in un Paese troppo abituato alla stagnazione». Le critiche al governo, e la spaccatura nel Pd, non turbano il monsignore: «Appena si intravede qualcosa di nuovo scatta subito il virus della conflittualità». Segue il sollievo per la bocciatura della presunta norma sul «gender» e l’invito a «investire di più 38 sulla formazione». Probabilmente alludeva alle scuole paritarie cattoliche che hanno ricevuto in regalo dal governo le facilitazioni fiscali contenute nello School Bonus. del 10/07/15, pag. 4 Il bluff delle assunzioni: 60 mila cattedre senza insegnanti nel 2015/6 Riforma Scuola. Gilda: ecco come il governo Renzi intende curare la "supplentite" Roberto Ciccarelli La «Buona Scuola» assumerà in ruolo 102.734 docenti precari. In attesa della definizione di un percorso che si preannuncia tortuoso, nella relazione tecnica al maxiemendamento approvato con la fiducia al Senato sono state chiarite le quattro fasi delle assunzioni. L’Iter dovrebbe svolgersi nel corso del prossimo anno scolastico per arrivare «a regime» all’inizio del prossimo (2016/2017) quando la riforma Renzi-Giannini entrerà effettivamente in vigore con l’istituzione degli «albi territoriali» dai quali i «presidi-manager» prenderanno i docenti che andranno a comporre la loro «squadra del cuore» in base alle necessità da loro stabilite nei «piani di offerta formativa» della durata di tre anni. I posti a disposizione sono 47.476 a cui si sono aggiunti 55.528 posti che rientrano nel cosiddetto «organico potenziato». Nella «fase zero» saranno occupati i posti lasciati liberi dai pensionamenti (o altri eventi come decessi ecc) previsti nel 2015, pari a 21.880 posti. A questi si aggiungono 14.447 posti per gli insegnanti di sostegno. Queste assunzioni riguardano chi è in una «graduatoria di merito», cioè ha vinto un concorso nel 2012 ad esempio. Seguirà chi è iscritto in una «graduatoria ad esaurimento» (Gae) (rapporto 50–50). Al momento restano scoperti 14 mila posti che dovrebbero essere recuperati in una fase successiva. Poi ci sarà «fase b» in cui saranno disponibili 10.849 posti (sia su «posto comune» che sul «sostegno» e riguarderanno sia chi ha vinto i concorsi che gli iscritti nelle «Gae». La «fase c» riguarderà 48.812 posti comuni e 6–446 per il sostegno. Si tratta dei posti previsti dall’organico potenziato, che contiene quei docenti che saranno effettivamente «a disposizione» dei «presidi-manager». Bisogna precisare che, al momento, la scansione delle fasi è ancora incerta, oltre che contraddittoria. Nelle prossime settimane si aspettano lumi dal Miur. Nel frattempo i docenti precari interessati dovranno esprimere cinque preferenze della provincia dove preferiscono insegnare. La proposta di assunzione dovrà essere accettata dall’interessato entro dieci giorni. Se non lo faranno non potranno ricevere altre proposte di assunzione a tempo indeterminato e saranno cancellati dalle graduatorie. Nel caso in cui nella loro classe di concorso non ci sia una cattedra disponibile non ci sarà assunzione. In un resoconto pubblicato dalla Uil scuola si sostiene che al personale nominato in ruolo a settembre sarà assegnata per il prossimo anno scolastico la sede di servizio provvisoria. La sede definitiva sarà attribuita successivamente secondo quanto verrà stabilito dal contratto sulla mobilità relativa all’anno scolastico 2016/17. La decorrenza giuridica delle nuove nomine sarà dal primo settembre 2015, ed economica dal 2016. Chi entrerà in ruolo secondo la normativa in vigore prima della riforma di Renzi potrà mantenere la titolarità della cattedra.Per chi, invece, sarà assunto con l’organico potenziato e farà riferimento agli «ambiti territoriali» non potrà contare su questa titolarità. Da qui la critica sulla disparità di trattamento creato dal governo nel corpo docente. Una discriminazione che è anti-costituzionale. Per la Gilda «questo meccanismo è un bluff. 39 Non ci sarà alcun potenziamento dell’organico perché i posti coperti saranno soltanto quelli delle supplenze. Nel prossimo anno scolastico, comunque vada, avremo circa 60 mila cattedre senza insegnanti di ruolo». E saranno dunque necessari altrettanti «supplenti». In altre parole, il precariato a scuola continuerà ad esistere, nonostante gli annunci del governo. del 10/07/15, pag. 1/5 Perché la scuola non si rassegnerà a Renzi Ddl Scuola. La legge non va corretta in corso d’opera. Serve un referendum abrogativo Alba Sasso Mentre non si ferma la protesta del mondo della scuola, e non si fermerà nei prossimi mesi, è stato approvato oggi il ddl sulla scuola. C’è stato bisogno della fiducia al Senato e della blindatura del testo alla Camera.Un modo di procedere autoritario e arrogante, ma soprattutto un atto irresponsabile. Matteo Renzi sa bene, almeno lo sa qualcuno del suo staff, che da settembre la scuola sarà in un caos totale. Le assunzioni dei precari sono diminuite — da un annuncio all’altro, da un emendamento all’altro — da 148.000 a 100.000 circa fino ad arrivare alle attuali 60.000, banalmente il normale turn over. Poi altre in corso d’anno. Forse. I nodi vengono al pettine: e anche le bugie. Se non si approva il ddl non potranno esserci tutte le assunzioni, si diceva. Non sarà così. Il ddl è stato approvato ma le assunzioni non saranno per tutti (ad alcuni sarà graziosamente concessa la possibilità di fare un altro concorso) e saranno centellinate nel tempo.E ancora, per giustificare la volontà di non fare il decreto per le assunzioni, l’argomentazione ossessivamente ripetuta era: «non si possono fare le assunzioni dei precari nella scuola così com’è». E invece le nuove norme su organizzazione e gestione del sistema andranno in vigore dal 2016. Ma allora? Perché si continua a giocare sulla pelle delle persone? Perché non si tiene in nessun conto una protesta civile e composta come quella della stragrande maggioranza del mondo della scuola? Perché non si è mai tentata con la scuola e le sue rappresentanze un’interlocuzione positiva? Che non è sicuramente quella del «vi ascolto ma poi decido io». Perché si è continuato a ripetere che la gente non capiva, fino ad arrivare alla farsa del gesso e della lavagna? Forse vale la pena riassumere i termini generali, entro i quali il dibattito si è sviluppato. Un dibattito che, come non accadeva da decenni, ha coinvolto non solo gli addetti ai lavori ma una larga e significativa parte dell’intellettualità di questo Paese, anch’essa inascoltata. Lo scontro non è stato di tipo ideologico, innanzitutto. Non si sono confrontati una scuola «di sinistra» contro un governo «di destra», per usare delle semplificazioni pure molto diffuse. Si tratta invece di un mondo, quello degli insegnanti innanzitutto, e poi delle famiglie e dei ragazzi, che da sempre si «prende cura» della scuola, che è in ogni paese civilizzato la garanzia di un futuro migliore, comunque. Ecco, diciamo che lo scontro è tra chi pensa che della scuola pubblica ci si debba prendere cura per il valore costituzionale che rappresenta e chi invece la paragona ad un’azienda, verso cui vanno applicati esclusivamente principi aziendali.Qualcuno l’ha già pensato in passato, Tremonti e Gelmini, per esempio. In quel caso tagli pesantissimi. In questo caso presidi manager, insegnanti scelti dai capi di istituto e una nuova gerarchia tra le scuole, avviando una competizione che rischia di lasciare indietro proprio quelli che hanno più bisogno. Secondo 40 un modello che paesi come gli Stati uniti stanno dismettendo.Ma a tanti, dentro e fuori la scuola, interessa soprattutto che la scuola continui a formare ragazzi che sanno. Conoscono. Riflettono. Imparano. Tutte cose che vanno al di là di una mera filosofia aziendale, non ci sono cattivi da punire con trattenute di stipendio, o bravi da incentivare con regalie in denaro. C’è un intero sistema che va accudito con la cura che merita. È questo l’errore, stavolta sì ideologico, del governo attuale come di quelli precedenti: l’incapacità di misurarsi con la scuola come sistema, e non come un semplice insieme di istituti e persone che vi lavorano dentro. Perciò questa legge non può essere corretta in corso d’opera come sostiene qualcuno, anche in queste ore. Perciò occorrerà un referendum abrogativo.Lo sa bene il popolo della scuola ( insegnanti, studenti, anche tantissimi dirigenti) che continua e continuerà nei prossimi mesi ad essere in piazza, unito come non mai, combattendo una battaglia che ha il respiro largo delle grandi battaglie civili. Come da tempo non avveniva. Non sono persone che non hanno l’ardire dell’innovazione o patiscono la paura di essere valutate. Sono persone che sanno bene come funziona la scuola, a differenza dei tanti che ne scrivono sulle pagine della stampa nazionale guidati solo da impressioni o vecchi pregiudizi. Sono quelli ai quali un recentissimo rapporto Ocse riconosce sempre migliori capacità di governare e migliorare il sistema pubblico della scuola italiana in una società che cambia. Difendere la scuola pubblica ormai è questo, un vero e proprio scontro di civiltà, termine abusato quanti altri mai, ma forse il più adeguato. La scuola pubblica è civiltà. È patrimonio genetico si può dire, del nostro vivere. Questo va fatto capire ai giovanotti del governo, alla loro visione «smart» ed «easy» del fare politica e del governare. Riportarli nel mondo reale, di cui la scuola è maestra e specchio come nessun’altra istituzione. Abbiamo ancora tutti da imparare dalla scuola. Soprattutto loro. 41 CULTURA E SPETTACOLO del 10/07/15, pag. 12 Fare cinema «In progress» Laboratori. Come offrire ai giovani cineasti italiani un sostegno nella ideazione dei loro progetti? Il Milano Film Network prova a rispondere con un workshop di sviluppo nel corso del quale i partecipanti arrivano a un primo trattamento del loro film. Alla fine una commissione deciderà i vincitori, in premio due finanziamenti. Docenti dell’edizione 2015, Carlo Hintermann e Leonardo Di Costanzo Giovanna Branca «Bisogna portare a casa i buoni prodotti, piuttosto che un vecchio dado, una mezza cipolla, dell’olio di semi. Come metterli insieme lo vedremo dopo. Cominciamo col portare a casa dei bei momenti di cinema», dice Leonardo di Costanzo parlando a un suo studente. Poco lontano, in un’altra stanza della Fabbrica del Vapore di Milano trasformata in aula dall’aspetto informale, Carlo Hintermann parla con un ragazzo di una necessità analoga: la ricerca di «pezzi di cinema». I due cineasti – Di Costanzo autore de L’intervallo, Hintermann di The Dark Side of the Sun, e anche produttore, tra i suoi film Ana Arabia di Gitai — seguono i ventiquattro ragazzi selezionati per il workshop «In Progress» — a cura del Milano Film Network, in collaborazione con il festival milanese Filmmaker, e il finanziamento della Fondazione Cariplo. Giunto al suo secondo anno di attività, il workshop segue i vincitori per alcuni mesi nella preparazione di un progetto per un film. Da aprile a settembre, i giovani filmmaker si ritrovano periodicamente per un weekend a Milano nel corso del quale incontrano i loro insegnanti e si confrontano sui progressi fatti. Dodici di loro insieme a Hintermann, gli altri dodici con Di Costanzo tratteggiano lentamente un percorso che li porterà al dossier finale, una sorta di primo abbozzo del loro film che verrà giudicato da una commissione composta dai loro stessi insegnanti e da professionisti esterni. I cinque vincitori potranno continuare il percorso accompagnati dallo staff di «In progress», due avranno un finanziamento di cinquemila euro, ed uno di duemila. La loro provenienza geografica, così come le loro esperienze precedenti sono fra le più diverse. Claudia Brignone, ad esempio, ha trent’anni, viene da Napoli, ed al suo attivo ha già un documentario - La malattia del desiderio - premiato Salina Doc Festival dell’anno scorso. Ma non per questo si sente sicura di sé: «Noi documentaristi — dice — siamo delle anime solitarie che devono capire cosa vogliono dire. Per questo è così importante confrontarsi con dei registi». Il progetto a cui sta lavorando all’interno di In progress nasce da un cortometraggio, L’altalena, che Brignone ha realizzato in un altro laboratorio di cinema a Napoli, ambientato nella villa comunale di Scampia: «Un posto bellissimo, pieno di verde alle cui spalle si stagliano i palazzoni delle Vele». Al workshop di Milano aveva presentato a Carlo Hintermann un’idea più ambiziosa, che si allargava oltre la villa per comprendere tutta Scampia: «Volevo dividere geograficamente il quartiere e seguire delle storie al suo interno» racconta. Alle volte, però, i «bei momenti di cinema» sono più facili da trovare nelle piccole cose: «Carlo mi ha consigliato di tornare a 42 lavorare solo sulla villa comunale, di restringere il campo per non perdermi in un ambiente troppo vasto». Anche Marco Longo è un allievo di Hintermann: di Genova, studia alla scuola di cinema di Milano, ha già girato alcuni cortometraggi e scrive sul sito Filmidee. Nel suo progetto vuole «raccontare da vicino la vita delle persone in stato vegetativo, delle loro famiglie e dei medici che li curano». Dice: «Mi sono appassionato al recente dibattito scientifico sulla coscienza delle persone in questo stato, ai tentativi di testare le risposte coscienti dei malati e soprattutto di stabilire se ce ne siano». Insieme a Hintermann cerca di capire da quale prospettiva entrare in questo mondo, e nell’ambiente della clinica. «Devi cominciare ad avere una relazione con le persone – gli dice Hintermann durante il loro colloquio – E scegliere la tua posizione». In un film del genere, gli spiega ancora, «tutto è incentrato sulla capacità relazionale». Al fianco di Marco c’è Alessandro Stellino, uno dei cinque tutor che aiutano i ragazzi. Gli altri sono Luca Mosso, Alice Arecco, Ottavia Fragnito e Daniela Persico. I tutor seguono gli studenti ancora più da vicino, passo dopo passo, con scambi di mail, telefonate ed aggiornamenti costanti. Stanno al loro fianco quando ad uno ad uno vengono chiamati a discutere i loro progressi con i due docenti mentre gli altri ascoltano, qualche volta intervengono, spesso prendono appunti. Luca Mosso segue gli Aves Project, un collettivo di ragazzi che frequentano l’Accademia di Brera. Sono fra i pochi ad avere già delle immagini a disposizione e le mostrano a Hintermann: c’è una donna che cammina lungo la strada di notte, e parla della sua missione salvare i rospi — spinti «dall’istinto folle di andare al lago per accoppiarsi» — dalle macchine che sfrecciano. L’episodio sui rospi è parte di un trittico sugli amanti degli animali, i ragazzi discutono con il cineasta il modo migliore per far arrivare allo spettatore quello che lui definisce «il viaggio epico dei rospi». Poi mostrano le riprese di una riunione dei «salvatori di ranocchi», Hintermann guarda e dice: «Le riunioni vanno girate con almeno due telecamere, perché quello che può succedere è imprevedibile». Insieme ai due registi e ai tutor, gli studenti di «In progress» hanno la possibilità di assistere a delle masterclass con altre figure professionali del cinema. Quest’anno hanno incontrato Roberto Minervini (Louisiana), che ha raccontato il metodo di lavoro con cui costruisce i suoi documentari; i registi di Materia oscura Massimo D’Anolfi e Martina Parenti; il produttore Paolo Benzi (L’estate di Giacomo); la sceneggiatrice di Garage Olimpo Lara Fremder; il direttore del festival di Locarno Carlo Chatrian. La prossima sarà Michèle Soulignac, direttrice di Périphérie, realtà che come «In progress» segue i progetti di giovani cineasti. Nel pomeriggio, seduti intorno ad un tavolo dopo un rapido pranzo al ristorante cinese, ci sono gli studenti seguiti da Leonardo Di Costanzo. Nicola Roda, ventinovenne piacentino, vorrebbe farsi assumere su una piattaforma di estrazione petrolifera per filmare il mondo di chi ci lavora e ci vive. Di Costanzo osserva che difficilmente troverebbe il tempo per lavorare e filmare contemporaneamente, a meno che — scherza — non voglia rinunciare a dormire per mesi. Ancora una volta il problema è come introdursi nell’universo che si vuole raccontare, come trovare la giusta angolazione e conquistare la fiducia di chi lo abita. Scegliere una persona che abbia già esperienza in questo campo come guida può essere una soluzione? Di Costanzo lo ammonisce: «Il personaggio non deve essere un passepartout». La soluzione forse è più semplice: Nicola — suggerisce il regista napoletano — potrebbe ambientare la sua storia nel centro di training per chi farà questo lavoro, dove è già stato, e che si presta anche da un punto di vista scenografico. Di nuovo il segreto e la risposta ai 43 problemi è la semplicità. Ma bisognerà aspettare il prossimo incontro per sapere cosa ha deciso Nicola. Manuel Coser, come gli Aves Project, ha già del girato che ha mostrato in precedenza a Di Costanzo. Il suo progetto verte intorno ad un ergastolano che ha da poco iniziato un corso di teatro per detenuti, si sta laureando in medicina ed è diventato il bibliotecario del carcere. Oggi Manuel aveva il compito di dare la risposta a due domande poste dal suo insegnante: «Perchè vuoi raccontare questa storia per immagini anzichè con un testo scritto?». E: «Cosa vuoi raccontare?». Manuel comincia a parlare ma Di Costanzo non è convinto dal suo personaggio su cui imbastisce una rapida ed efficace lezione di cinema. «Il protagonista che deve portare il film sulle spalle lavora contro di esso. Si è già costruito un’immagine con cui rappresentarsi, cosa che nel cinema è terribile». L’ergastolano, spiega ancora Di Costanzo «non è un personaggio con cui entri in empatia, non ti accoglie. È già definito, e hai come l’impressione che la macchina da presa lavori solo per confermarlo. L’umanità che c’è dietro non si trova con i discorsi. Mi arriva solo la presentazione della sua autoassoluzione, che dal punto di vista dell’oggetto filmico non ha nessun interesse». La via da intraprendere allora è un’altra: «O il film diventa una lotta in cui tu tenti di far cadere la maschera che si è messo addosso o ti limiti a filmarla, ma questo ha un effetto respingente». Dunque bisogna andare in cerca di qualcosa che «sfugge al suo controllo e restituisce una parte della sua verità». Il segreto è nello sguardo, nelle immagini, nella ricerca della realtà, non nei discorsi. Per spiegarlo il regista racconta un aneddoto su una sua esperienza di lavoro in Ungheria. «Filmavamo una ragazza che vendeva ninnoli al mercato, un signore si è levato il cappello per salutare e sotto ne aveva un altro identico. Questa è la realtà che ti viene incontro». Non olio di semi e vecchie cipolle. del 10/07/15, pag. 28 IL SINDACO DELLA CITTÀ DOVE NACQUERO I LIBRI ADRIANO PROSPERI LA VICENDA del sindaco leghista di Venezia Luigi Brugnaro, così preoccupato di proteggere i bambini delle scuole da far sequestrare libri ritenuti dannosi per loro a casua delle teorie di gender, è una storia che sembra anch’essa uscita da una fiaba. Forse un giorno in una diversa Italia, qualcuno si metterà a tavolino e la racconterà, cominciando magari così: «C’era una volta, in un paese lontano lontano un buon sindaco che amava tanto i bambini». Buono, certamente: voleva liberarli dalla paura. Impresa eroica, donchisciottesca: da sempre nelle fiabe esiste la paura. Senza paura non ci sarebbero le fiabe. È lei la protagonista che protende le sue ombre cupe sulla vita infantile e quasi sempre lo fa proprio dall’interno delle famiglie. Ripensiamo a come siamo cresciuti noi che non abbiamo avuto sindaci così attenti. Il mondo che abbiamo conosciuto attraverso le fiabe era un mondo terribile. Vi accadevano cose spaventose. E tutte con la collaborazione attiva di membri della famiglia. C’erano padri che abbandonavano ripetutamente i figli nel bosco (Pollicino), finte nonnette con tanto di cuffia che standosene in letto spalancavano all’improvviso una bocca enorme e divoravano la nipotina dal cappuccetto rosso, che poi era salvata da un cacciatore di passaggio grazie al coltellaccio con cui apriva la pancia della nonna-lupo (un parto cesareo?). Non augureremmo a nessuno di vivere le esperienze degli eroi delle fiabe, di quelle che hanno occupato le 44 nostre fantasie infantili. I bambini vi attraversavano foreste oscure, erano a rischio di finire nella pentola dell’orco, venivano schiavizzati o condannati a morire da matrigne infernali come quelle di Cenerentola e di Biancaneve. I loro interni di famiglia erano quanto di più irregolare si potesse immaginare. Il capolavoro indimenticabile fu per molti di noi la storia di un burattino che chiamava “babbo” il falegname che lo aveva intagliato da un tronco di legno e incontrava poi una sorellina/mamma in una bambina dai capelli turchini — una crudelissima creatura capace di ignorare le invocazioni del povero burattino impiccato a un ramo della quercia grande. Chissà se quel sindaco lo ha letto. E soprattutto chissà se immagina quali messaggi sotterranei si intreccino nelle storie e nei simboli in apparenza più innocenti — per esempio il cappuccetto rosso di quella bambina. Speriamo che non legga le interpretazioni di Erich Fromm o le brillanti pagine scritte anni fa da Robert Darnton sulle diverse versioni di questa fiaba. Perché se ne avesse anche solo un’idea sarebbe costretto a spingere la sua campagna assai al di là dei confini che finora ha toccato. Ma torniamo alla fiaba che un giorno sarà scritta su questa storia: quale parte toccherà al sindaco? Forse quella del cacciatore che libera Cappuccetto rosso dal ventre della nonnalupo, o quella del Principe Azzurro che risveglia Biancaneve e la sposa. In realtà, il suo ruolo nella vicenda ricorda quello del Pifferaio magico: come il Pifferaio, anche il sindaco ha dato un segnale, ha emesso un ordine del piffero contro i libri ritenuti pericolosi: il suo piffero ha intonato una melodia e tutti, tutti li ha portati via. Evento strano, fiabesco: quel piffero del sindaco ha fatto sparire dalle scuole tanti libretti che a noi non sembravano minacciosi quando li scoprimmo nella bellissima fiera del libro per ragazzi di Bologna e poi li cercammo in libreria per regalarli a figli propri o altrui, e più tardi a nipotini e nipotine: libri coloratissimi, disegnati da maestri assoluti come Altan, popolati di esseri come il Guizzino inventato da Leo Lionni — un pesciolino nero, membro di una famiglia di pesciolini rossi (ma per quale via ? inquietante quel nero fra i rossi, ora che ci pensiamo), sfuggito al grosso tonno che divora tutti i pesciolini rossi della sua famiglia ma pronto a farsi un’altra più grande famiglia per opporsi al tonno. Già, la famiglia. Sta sullo sfondo, irregolare, disforme e complicata, da sempre. Spesso pericolosa, quanto tranquillizzanti gli animali. Il popolo di animali umanizzati abita il paese delle fiabe fin dai tempi di Fedro. Cambia un po’ col tempo. Ai tempi del ciuchino di Pinocchio li si incontrava per la strada e nei campi, oggi c’è la televisione o lo zoo. Ma è sempre un messaggio tipico della fiaba quello di mettere in gioco tutte le forme di vita che ci circondano. Un ultimo suggerimento all’autore futuro: non dimentichi di raccontare che quel sindaco governava una città speciale, davvero fiabesca, dove i libri erano stati sempre di casa. Vi affluivano da lontano come i pesci di Lionni e vi erano nati come gli alberi delle foreste di Pollicino e di Cappuccetto Rosso. In quella città vi erano stati concepiti tanto tempo fa, per la prima volta al mondo, i libri-bambini, bellissimi, così piccoli da poterli mettere in tasca: e infatti li hanno chiamati “tascabili”. Li aveva creati un mago venuto da lontano, di nome Aldo con l’aiuto di un altro mago di nome Erasmo che veniva anche lui da molto lontano. Potremmo chiamarli genitore uno e genitore due. Quella era stata una nascita senza madre. O forse la madre c’era, si chiamava Venezia. Chissà se nel futuro Venezia non sarà diventata anche lei solo il nome di una creatura magica, abitante solo nella fantasia — la fata Venezia. Perché è anche così, con la caccia ai libri, che Venezia muore. 45 ECONOMIA E LAVORO del 10/07/15, pag. 18 Libero scambio / 1. Con 436 a favore e 241 no e 32 astenuti, l’Europarlamento approva le linee al negoziato Ttip, da Strasburgo sì con paletti Giudici indipendenti e appello nelle liti Stato-privato e Ogm vietati Sì dell'Europarlamento a negoziare con gli Usa la creazione di una gigantesca area di libero scambio, ma senza compromettere gli standard di sicurezza alimentare europei, nè tribunali privati. Le ”liti” tra Stati e multinazionali dovranno essere regolate da organismi pubblici. Il Parlamento – a Strasburgo in seduta plenaria – ha approvato, mercoledì, le proprie raccomandazioni per i negoziatori della Commissione Ue sul Ttip ( l’accordo di libero scambio su commercio e investimenti fra Ue e Stati Uniti in corso di negoziazione). Il testo è stato approvato dall’Aula con 436 voti favorevoli, 241 voti contrari e 32 astensioni. Un lungo e paziende lavoro di “cesello” portato avanti da Bernd Lange, presidente della commissione europarlametare “Commercio Internazionale”, che aveva il compito di produrre, sul tema del Ttip, un testo di sintesi. Il compromesso tra i gruppi politici, dopo settimane di discussioni laceranti, di “stop and go”, di voti rinviati (l’Aula di Strasburgo avrebbe dovuto esprimersi un mese fa), prevede che per gli strumenti di risoluzione delle controversie investitore-Stato, un nuovo sistema giudiziario sostituisca l’attuale, che si basa sull’arbitrato privato ed è comune negli accordi commerciali esistenti. Liti investitore-Stato (Isds) La nuova formula afferma che «il sistema Isds sarà rimpiazzato da un nuovo sistema per risolvere le dispute tra investitori e Stato che sia soggetto ai principi democratici», e che assicuri «che potenziali casi siano trattati in maniera trasparente in udienze pubbliche da giudici professionisti e indipendenti», un sistema che includa «un meccanismo di appello in cui sia assicurata la consistenza delle decisioni giuridiche, sia rispettata la giurisdizione delle Corti Ue e di quelle degli Stati membri e dove gli interessi privati non possano minare gli obiettivi delle politiche pubbliche». Igp e Ogm Gli eurodeputati chiedono alla Commissione di assicurarsi che il Ttip garantisca «il pieno riconoscimento e una forte protezione giuridica» delle indicazioni geografiche dell’Unione. L’obiettivo deve essere sopprimere tutti i dazi doganali, tenendo però conto del fatto che «esistono diversi prodotti agricoli e industriali sensibili sulle due sponde dell’Atlantico, per i quali bisognerà compilare delle liste complete durante il processo di negoziazione». Inoltre, il Parlamento specifica che dovranno essere previste delle «misure volte ad affrontare i casi di uso improprio e di informazioni e pratiche fuorvianti» per tutelare i prodotti europei in vendita sul mercato americano. Al contrario, l’Aula di Strasburgo pretende che non ci sia «alcun accordo nei settori in cui Ue e Usa hanno norme molto diverse». Ovvero, dai servizi sanitari pubblici, agli Ogm , al'impiego di ormoni nel settore bovino, al regolamento “Reach” (che riguarda i prodotti chimici, ndr) sino alla clonazione degli animali a scopo di allevamento». Protezione dei dati Il testo della risoluzione Lange esorta poi la Commissione a «garantire che l’insieme dei diritti della Ue in materia di protezione dei dati personali non venga compromesso».E chiedono una clausola indipendente orizzontale «che esoneri totalmente dall’accordo il vigente e futuro quadro giuridico dell’Ue sulla protezione dei dati personali». Perchè 46 l’approvazione definitiva del Ttip «potrebbe essere a rischio fintantoché gli Stati Uniti non cesseranno del tutto le attività di sorveglianza indiscriminata di massa e non si troverà una soluzione adeguata alla questione del diritto alla riservatezza dei dati dei cittadini dell'Unione». Servizi e appalti pubblici Gli eurodeputati chiedono che venga esplicitamente escluso dal perimetro del Ttip qualsiasi servizio d’interesse generale: acqua, sanità, servizi sociali e istruzione. Mentre, considerata la quasi inaccessibilità del mercato Usa degli appalti alle imprese europee, la risoluzione Lange incita la Commissione a negoziare per «eliminare le restrizioni ora vigenti negli Usa a livello federale, statale e locale». Le reazioni «La nostra normativa sugli Ogm non cambierà – ha affermato il commissario Ue al Commercio internazionale, Cecilia Malmstroem –mentre riguardo all’Isds abbiamo l’opportunità di sbarazzarci di un sistema obsoleto e crearne uno nuovo. Qualcosa che definisca chiaramente che gli Stati hanno il diritto di regolamentare e proteggere i cittadini». «Ho l’impressione che l’Isds sia diventato un simbolo – ha concluso ’'autore del testo di compromesso, il socialdemocratico tedesco Bernd Lange – ma la risoluzione riguarda un ventaglio di proposte molto più ampio». Il decimo round dei negoziati commerciali Ue-Usa sul Ttip si terrà il 13-17 luglio 2015 a Bruxelles. Per entrare in vigore, una volta elaborato dai negoziatori, l’accordo dovrà essere approvato dal Parlamento europeo e dal Consiglio. Laura Cavestri del 10/07/15, pag. 5 Il Fondo monetario in pressing “Serve la ristrutturazione del debito” Il capo economista punta a un taglio: “Se chiediamo troppo non avremo nulla” Marco Zatterin Il terzo creditore della Grecia è particolarmente loquace. Sono molti nella bolla europea che lo vorrebbero veder diventare un ex-creditore, ma il Fondo monetario internazionale non arretra d’un passo, per questione di prestigio e opportunità economica, oltre che per non rischiare di perdere troppi soldi. Da dieci giorni Atene è insolvente per 3,5 miliardi nei confronti di Washington, somma che lunedì salirà di 452 milioni. L’esigenza chiaramente espressa di evitare che la linea europea contro Atene diventi troppo dura si manifesta a Washington con l’auspico di una riduzione del debito. «Dicono che se chiediamo troppo, finiremo per non avere nulla», suggerisce una fonte a Bruxelles. Ma è una strategia che, a Berlino e in particolare al ministero delle Finanze tedesco, si fatica a spalleggiare. L’apertura di Blanchard Il capo economista del Fmi, Olivier Blanchard, ieri è stato aperto e prudente. Ha spiegato che una Grexit non è auspicabile, però ha spiegato che gli effetti della crisi greca sul resto del mondo sono «limitati». Non è una Lehman Brothers, ha detto. E’ meno sistemica e avviene in sistema più protetto. Allo stesso tempo, ha negato di voler fare altri sconti, «non possiamo semplicemente estendere gli arretrati sui pagamenti senza un programma», le regole non lo prevedono. «Il Fmi dovrebbe fare di più di quel che ha fatto?», ha chiesto 47 retoricamente in una conferenza stampa svoltasi a Washington. «Tutti dovrebbero», gli ha risposto indirettamente il presidente del Consiglio Ue, Donald Tusk. «A testa bassa» «Continuiamo a lavorare a testa bassa con Bce e Fmi», ha assicurato il numero due della Commissione, Valdis Dombrovskis. Come il Consiglio, anche il Team Juncker è convinto che sia necessario concedere qualcosa sul debito. Blanchard, parlando alla Cnbc, si è spinto sino a riconoscere «la necessità di finanziamenti al Paese e una ristrutturazione del debito». Il direttore del Fondo presentava il nuovo rapporto previsionale: per l’Eurozona ha confermato la crescita 2015 (1,5%) e alzato quella del 2016 (1,7%). Riviste all’insù i numeri italiani, allo 0,7% quest’anno (da 0,5) e a 1,2% il venturo (1,1). Il comportamento del Fondo è centrale nel calcolare di quanti soldi avrà bisogno Atene qualora si raggiunga un accordo di qui a domenica. La stima dei tecnici Ue è che, nella migliore delle ipotesi, non si riuscirà a pagare i greci entro il 20 luglio, giorno in cui la Bce chiederà indietro 3,5 miliardi (e la Bei 25 milioni). Se si metteranno d’accordo, servono 7 miliardi da pagare in dieci giorni. «Senza un artificio giuridico non li può dare il fondo salva-Stati Esm - spiega una fonte europea - perché gli esborsi devono essere condizionati». Occorre un’idea che, ancora, non è emersa. Il tesoretto Il paradosso sarebbe se l’unica dote versata ai greci fosse il tesoretto degli Smp, gli utili sui titoli di Stato comprati della Bce dopo il 2010. Sono 3,3 miliardi. Basterebbero a pagare un solo creditore, e nemmeno. Ma chi? Una fonte greca parla di contatti fra Christine Lagarde e il governo Tsipras nei quali sarebbe stato spiegato che il Fondo è un cliente prioritario. In quel caso, bisognerebbe trasferire l’insolvenza da Washington a Francoforte. Sarebbe un dramma che diventa un horror. La scelta La scelta, dicono più voci, dovrebbe essere politica e punterebbe sulla Bce. Anche qui, spiegano le fonti, mancano regole precise, un default così vasto è del tutto inedito. Diventerà un bel caso di scuola. Prima, però, occorrerà scrivere un accordo ancora tutto da fare. 48