Sentieri di cura nella terminalità

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Sentieri di cura nella terminalità
Anziani
n. 1/2009 Prospettive Sociali e Sanitarie
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dove la salute di ogni persona non sia
più influenzata dal posto in cui nasce,
cresce e vive, dal colore della propria
pelle o dalle mancate opportunità per
i genitori, andare lontano e cambiare”.
È ovvio che la Commissione, ponendo
come traguardo una generazione, non si
aspetta che il divario di salute sia colmato o che le grandi differenze di salute tra
Paesi siano cancellate, ma le evidenze di
significativi miglioramenti nel diminuire tale divario ci devono incoraggiare.
L’agenda politica è sicuramente lunga
e piena e richiede investimenti a partire da adesso, con sforzi maggiori nelle
politiche sociali, negli sforzi economici
e nelle azioni politiche. Al centro di tali
sforzi, continua Marmot, devono esserci
quei cittadini, quelle comunità e quei
Paesi che attualmente non condividono
la loro giusta parte. Ciò che più serve
ora è la volontà politica di dare vita a
tali cambiamenti, difficili ma necessari. La Commissione ha già messo in
moto azioni concrete in diverse parti del
mondo: Brasile, Canada, Svezia, Regno
Unito, Kenya, Iran, Mozambico, Cile e
Sri Lanka sono diventati “Paesi partner” della Commissione, impegnandosi
a far progredire l’equità sanitaria, e
stanno già sviluppando politiche in proposito. Questi esempi dimostrano che se
c’è la volontà politica, il cambiamento
è possibile. La strada da fare è ancora
lunga ma, secondo la Commissione, la
direzione è stata fissata e il percorso è
chiaro. L’Oms metterà ora il Rapporto
a disposizione degli Stati membri, che
decideranno come le rispettive agenzie
sanitarie dovranno rispondere. Intanto
il direttore generale dell’Oms, Margaret Chan ha commentato: “le disuguaglianze di salute sono una questione di
vita o di morte, ma i sistemi sanitari non
tendono per loro natura all’uguaglianza. L’assistenza primaria è la cornice
ideale in cui agire per fare in modo che
tutti gli attori, anche al di fuori del sistema sanitario, esaminino il loro impatto
sulla salute”.
...l’abbonamento?
Sentieri di cura
nella terminalità
La nostra società appare avere così tanta paura
della morte naturale da arrivare a dimenticarsi
degli anziani, di coloro che testimoniano che il
nostro destino è segnato. Affidando la cura del
proprio caro ad altri, si prendono le distanze
dalla sua morte e dalla propria, togliendo loro
il diritto di vivere, con l’intensità che merita,
questo determinante
Giorgio Pavan,* Silvana Benvivenga **
evento della propria vita. Israa, Treviso
“Non è ver che sia la morte il peggior
di tutti i mali: è un sollievo pei mortali
che son stanchi di soffrir”
Giovanni Mosca, 1941
Nell’aforisma citato sono contenuti
due aspetti che acquistano un particolare significato se pensiamo al tema della
morte in età avanzata, nella vecchiaia,
quando cioè sembra compiuto quel progetto misterioso che si chiama vita:
• da una parte, parlando di sofferenza, si sottolinea l’importanza della vita
prima della morte, un periodo variabilmente lungo caratterizzato spesso
(soprattutto nelle fasi finali) da condizioni di invalidità, malattia, non autosufficienza;
• dall’altra, parlando di sollievo, si fa
strada l’idea che la morte, questa sconosciuta che alimenta le umane paure,
a un certo punto può diventare sorella,
liberazione, pace.
Le morti di cui si occupa la nostra
società sono quelle ingiuste, spettacolari, che fanno notizia. È esperienza comune parlare e sentir parlare delle morti
che non dovrebbero esserci, quelle che si
dovrebbero evitare, quelle determinate
da incidenti automobilistici, da aerei che
cadono, da malattie precoci, dalla fame
nel terzo mondo, dagli attentati.
Siamo così sommersi dalle morti
non naturali che sembra essere questo
l’unico modo per morire, ipotesi suggestiva che nasconde l’infantile fantasia
di immortalità. La vita viene così vissuta e rappresentata con l’illusione che
la morte sia più un incidente inatteso
che una condizione intrinseca dell’essere umano.
A differenza delle morti “innatu-
rali”, quelle che fanno notizia, quelle
reclamizzate dai media, la morte di un
anziano in età molto avanzata rappresenta, di fatto, un evento del tutto naturale e, proprio per questo, intimamente
più difficile da accettare in quanto non
giudicabile, in modo difensivo, come
ingiusta, prematura, evitabile.
Di fronte alla morte di un vecchio,
il genere umano si presenta dunque
nudo e viene riportato alla realtà terrena, poiché:
• è una morte attesa;
• si compie naturalmente alla fine
dell’esistenza;
• avviene in un momento della vita
nel quale tutto è già avvenuto;
• quando arriva, il tempo del rilancio
è finito e non è possibile pensare a un
cambiamento nel futuro.
È insomma il momento della grande verità, questione che pone non pochi
problemi in un contesto culturale inadeguato, fortemente orientato al consumismo, all’edonismo, vincolato all’immagine, alla ricchezza materiale ostentata, alla massima produzione.
Parlando dell’associazione anziani e
morte, la prima considerazione è che la
nostra società ha così tanta paura della
morte naturale che si sta completamente dimenticando dei vecchi, cioè di coloro
che testimoniano direttamente, in modo
incontrovertibile, che il nostro destino
è segnato, che la nostra vita, anche
senza incidenti, sicuramente finirà. Si
potrebbe obiettare che è inutile stupirsi
di questa rimozione collettiva, poiché è
sempre stato così. Ma non è vero. Nel
Medioevo i morti venivano sepolti all’interno dei villaggi e i familiari vivevano,
da vicino, tutto il periodo che anticipava
le, benessere economico, parametri con
i quali misuriamo la qualità della vita
nelle fasi precedenti.
In questo momento tutto diventa più
sintetico, più essenziale, più vero.
Lavorando e partecipando alla
morte degli anziani, ma soprattutto
nel tempo anche lungo che anticipa
questo evento, si sente spesso l’anziano
parlare, quando può, della storia della
propria vita, evocando le gioie e i dolori,
in un rito inconsapevole di elaborazione e rivisitazione dei nodi significativi
della propria vita, a volte nodi ancora
aperti, nodi che hanno rappresentato
e ancora oggi rappresentano eventi di
perdita o comunque faccende non del
tutto risolte.
Cosa può voler dire allora qualità di
vita del morente o, come oggi si usa dire,
una dolce morte?
A sentire gli anziani, la loro speranza è di morire senza dolore, nella propria casa, in serenità tra i propri cari,
con a fianco le persone più importanti,
quelle cui vogliono bene e dalle quali si
sentono amati. Per ognuno dei questi
desideri però ci sono dei problemi.
Il dolore: il dolore, legato alla malattia, accompagna sovente l’ultimo periodo della vita. L’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) in un recente studio conferma che l’Italia è fortemente
arretrata sul piano della lotta al dolore.
Uno degli indicatori della qualità della
vita si basa sulle dosi annue di morfina
(e farmaci oppioidi) pro capite per curare il dolore. Ebbene, l’Italia nel 2004
era al pari dell’Etiopia e del Ruanda.
Nel 2007 è salita un po’ nella classifica,
ma rimane sempre ultima in Europa,
dopo Malta. È dunque necessario che
la cultura medica e le nuove tecniche di
intervento possano garantire, assieme
a un’adeguata assistenza, a domicilio o
in ricovero, tutti gli accorgimenti che
consentono al morente di evitare il dolore. Con il dolore la morte non può mai
essere di qualità.
La propria casa: è oramai raro assistere a una morte a domicilio. La moderna società, tecnicista ed efficiente, ricorre (anche quando non è necessario) alle
cure dell’ospedale o all’istituzionalizzazione nelle case di riposo. Recuperare
le mura domestiche come luogo dove si
vive e si muore consentirebbe di creare
un’atmosfera di intimità e di rispetto
oggi poco probabili nelle istituzioni. Se
un vecchio potesse morire là dove ha
sempre vissuto chiuderebbe gli occhi
con impresse le immagini dei luoghi
della propria vita.
Note
* Direttore sociosanitario. Presidente Freia Associazione italiana di psicologia gerontologica
** Consulente psicologa. Psicoterapeuta, responsabile del progetto “Sentieri di Cura”.
Anziani
mente e prematuramente, la morte non
sembra cogliere l’anziano di sorpresa.
La teme più per la sofferenza che spesso l’accompagna, ma frequentemente la
evoca, la invita. Rimanendo vicini agli
anziani negli ultimi momenti della loro
vita si coglie, oltre alla preparazione
biologica, il ritiro, il commiato, qualche
volta il dolore, raramente la paura.
L’anziano arriva a questo appuntamento preparato dalla storia della sua
vita. Nel lungo percorso ha già avuto
modo di imbattersi in tanti accadimenti
che hanno minato la sua salute, avvenimenti che gli hanno richiesto adattamenti continui e quindi continui lutti ed
elaborazioni: il corpo che invecchia, la
morte di un familiare, la perdita del proprio ruolo sociale. i problemi economici;
il decadimento sensoriale, la solitudine,
i tanti problemi sanitari, i problemi funzionali, l’incontinenza, l’istituzionalizzazione.
È attraverso questo percorso pieno
di insidie che spesso l’anziano arriva
di fronte alla morte, e quando è lì, nei
mesi, nei giorni e nelle ore che precedono il trapasso, le condizioni si aggravano ulteriormente, preparandolo al
momento topico, in una sorta di funzione educativa che lo solleva dalla paura
dell’ignoto e lo predispone a un’accettazione forse più consapevole.
Sopraggiunge allora la stanchezza
della vita, la debolezza, la sofferenza
(sopraggiunge il “non è ver che sia la
morte…”) alle quali si pone fine solo in
un’unica maniera. I freni si allentano e
sopravviene ciò che il morente ha sempre pensato. Per chi crede, il passaggio
a una vita più piena; per chi non crede,
semplicemente la fine della vita.
Il problema vero è che la resa dei
conti arriva quando le persone hanno
minori forze per decidere la qualità
della propria vita e la qualità del proprio morire. Hanno bisogno in questo di
essere compresi ed aiutati. Per questo è
importante concepire la morte non solo
come evento personale, ma come accadimento sociale, che appartiene ai gruppi
e che i gruppi vivono come propria, morte alla quale non è sufficiente assistere, ma come nelle regole del gruppo, è
necessario partecipare.
Da parte sua, l’anziano mette tutto
ciò che ha per morire al meglio. Chi gli
sta vicino deve interrogarsi su cosa può
fare come operatore, volontario, familiare, amico, parente, perché la sua morte possa avere dignità, possa diventare
una morte di qualità.
“Non è ver che sia la morte” sposta
dunque l’interesse dalla morte alla
qualità di vita del morente, qualità non
più definibile in termini di autonomia,
autodeterminazione, interazione socia-
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la morte delle persone. La morte diventava in questo modo esperienza di vita,
cultura, vicinanza, familiarità.
Ma anche senza scomodare il Medioevo o la cultura orientale, piuttosto che
le pratiche di molte popolazioni africane, è sufficiente ricordare quanto accadeva da noi 50 anni fa. Il vecchio moriva
in famiglia, veniva preparata la stanza
(spesso la camera da letto, ma anche il
salotto) e le notti prima del funerale la
famiglia dormiva assieme al proprio
familiare morto. Ora non è più così.
Oggi la pretesa e l’attesa è di stare
sempre bene, non avere mai malattie
(eventualmente guaribili in poco tempo): il concetto di morte possibile è
rimossa.
Con l’idea della vita a tutti i costi,
con la fatua fantasia della guarigione
attraverso i potenti mezzi della medicina e della tecnica, la morte, anche
quella dei propri anziani genitori, viene
allontanata, rifiutata, negata.
È uno dei motivi per cui, quando la
morte arriva in prossimità di un nostro
caro alla fine della sua esistenza, si
ricorre all’ospedale. Per il suo bene, si
dice, ma anche per le nostre paure e la
nostra impreparazione.
L’ospedale, dal canto suo, applica le
procedure professionali sanitarie, l’organizzazione dei servizi, il regolamento
aziendale e cerca, spesso impotente, di
salvare il corpo di questa persona.
Di dimissioni, nella fase terminale,
non se ne parla.
Ci si sottrae al rapporto diretto con
la morte, sperando, contro ogni ragionevolezza, che la vita non sia ancora arrivata al capolinea. Affidando la cura del
proprio caro ad altri è possibile prendere le distanze dalla sua morte e, quindi,
anche dalla propria morte.
Così facendo, per proteggere sè
stessi, si rende anonima la morte degli
anziani, togliendo loro il diritto di vivere, con l’intensità che merita, il secondo
determinante evento della propria vita
dopo la nascita.
A queste considerazioni sulla morte
si lega il valore attribuito a chi più la
rappresenta in vita: l’anziano. D’altra
parte, quando muore un anziano muore
una persona che non aveva più niente da
dire e da dare, non era più produttiva, in
qualche caso era diventato un peso economico e sociale, aveva bisogno di aiuto
per mangiare, per alzarsi, per andare in
bagno, insomma una persona che, in fin
dei conti, ha fatto la propria vita.
In questa prospettiva, la morte di un
anziano è una morte che non fa notizia,
è una morte di serie B.
Eppure l’anziano avrebbe tutte le
carte in regola per una morte di serie A.
Diversamente da chi perisce accidental-
Anziani
La serenità: è questa, forse, la variabile più impegnativa. Una morte serena presuppone che la persona morente
abbia raggiunto una pace interiore con
sé e con gli altri. Nel corso della vita,
le persone passano per “incroci pericolosi”, di lavoro, di denaro, di rapporti
familiari e sociali, che magari non sono
stati risolti, che sono rimasti aperti.
Rancori, conflitti, dispiaceri, rabbia,
vendetta, rimorsi. Sono tutti sentimenti
che nell’arco di una vita vengono vissuti
più volte.
Il più importante è il rapporto con
i figli o con i fratelli, dove il vissuto di
ingiustizia soggettiva può tenere lontane per anni le persone senza che le
stesse si possano mai incontrare per
un chiarimento, una pacificazione. Gli
anziani stessi ricordano le ingiustizie
subite da piccoli, ricordano le colpe
dei genitori, dei fratelli, dei parenti.
Se queste persone sono morte sembra
prevalere un sentimento di perdono, di
comprensione, di giustificazione. I morti si perdonano, soprattutto quando si è
vicini alla propria morte, in un periodo
nel quale i valori hanno un altro ordine
di importanza. Ma sono le ingiustizie
vissute dai vivi e tra vivi che preoccupano; vere o presunte che siano, sono
questioni che rimangono in sospeso,
non trovano pace, sono ancora presenti
nella mente e nel cuore, anche dopo 30,
40 o 50 anni. Una madre che non vede
il figlio da trent’anni, due fratelli che
non si parlano da venti, i nipoti adolescenti che da 10 non vanno a salutare il
proprio nonno. Come è possibile morire
serenamente senza una riconciliazione
con le persone importanti della propria
vita prima dell’estremo saluto?
La morte in istituzione
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La morte naturale, quando viene
istituzionalizzata, diventa un po’ meno
naturale in quanto avviene in un contesto “altro” rispetto alla storia personale
degli anziani.
Ciò introduce la necessità di creare
utili condizioni affinché il morire di una
persona anziana mantenga le caratteristiche della straordinaria unicità. Ma
questo accade nelle istituzioni?
I due principali soggetti chiamati in
causa sono l’ospedale e la casa di riposo.
L’esperienza comune ci insegna che,
nonostante alcuni tentativi animati da
buoni propositi, la morte in ospedale
rappresenta da una parte il fallimento
del proprio obiettivo (guarire i malati),
dall’altra un’incombenza che corre il
rischio di distogliere l’attenzione del
personale da coloro che possono ancora
utilizzare i servizi. In generale, comunque, l’ospedale non è il luogo migliore
per morire.
Nonostante alcune unità ospedaliere (per esempio, le oncologie) o altre
realtà interessate al fenomeno (per
esempio, gli hospice) si siano impegnati in questi anni per migliorare la
gestione anche emotiva e relazionale
legata a questo evento, quando si tratta di anziani le cose cambiano in modo
sostanziale. Al di là della buona volontà individuale dei singoli operatori, per
questa tipologia di malati non vengono
previsti tempi per l’ascolto, la relazione,
l’accompagnamento, e la qualità della
morte è sostanzialmente nelle mani del
morente e dei suoi familiari, nella loro
capacità di estraniarsi dal contesto per
vivere questo ultimo momento di relazione. Certo molto dipende dai tempi del
lavoro, dalle tante cose da fare, dagli
organici spesso insufficienti, ma il vero
pericolo è che venga anteposta la cultura della patologia alla cultura della
persona.
Qualche parola in più va spesa per le
case di riposo. A differenza dell’ospedale, dove le persone vengono ricoverate
per le acuzie e dove l’obiettivo di efficienza spinge i medici alle dimissioni
per consentire nuovi ricoveri, nelle case
di riposo gli anziani vivono per tempi
più lunghi.
È di fatto la loro nuova casa, probabilmente non bella come la precedente,
ma pur sempre il luogo dove vivono ogni
giorno e dove vivranno, nella maggior
parte dei casi, sino alla morte.
Da qualche anno a questa parte, per
la nota curva demografica, gli anziani
che vengono accolti nelle case di riposo
sono sempre più numerosi, più vecchi,
più gravi. Vivono qualche mese o qualche anno e poi se ne vanno (l’aspettativa
di vita in struttura si sta costantemente
abbassando). Se ci fermassimo ai soli
numeri, scopriremmo che la morte è
assolutamente di casa nelle strutture
per anziani, direi eccessivamente di
casa, poiché non è un lavoro normale
quello che espone a un così alto numero
di lutti.
Molto spesso la morte in questi
luoghi viene digerita e dimenticata
dall’istituzione nel frenetico impegno
di occupare velocemente il posto letto
lasciato vuoto. In verità, per la natura
di questi ambienti, le morti aleggiano
nei reparti, nella memoria degli altri
anziani che la vedono passare accanto
e negli operatori che la incontrano frequentemente.
Se vogliamo ridare un senso alla
vita e alla persona, è fondamentale che
proprio in questi luoghi, deputati ad
accogliere la parte finale dell’esistenza
umana, si sviluppino percorsi in grado
di aiutare gli anziani a realizzare una
morte di qualità, e agli operatori ed ai
familiari la possibilità di interpretare
questo momento in modo utile e proficuo per la propria vita e per il proprio
lavoro.
Ma quali possono essere le sfide per
le case di riposo e quali le indicazioni per
poter costruire all’interno un percorso
di questo tipo? Proviamo a dare alcuni
spunti.
La casa di riposo come comunità: la
casa di riposo può essere intesa come
una comunità dove si intessono relazioni significative tra anziani, le loro famiglie di origine e gli operatori che nella
struttura lavorano. Questa circostanza
costituisce un valore aggiunto, poiché
vengono messe in comune situazioni,
sentimenti, vicinanze, solidarietà che
possono costituire un’importante rete
affettiva di mutua assistenza.
Ma perché possa dare frutti positivi,
è necessario che queste emozioni vengano liberate e veicolate e non soppresse
dagli elementi negativi dell’istituzionalizzazione (orari, procedure, standardizzazioni, lavoro di routine, ecc.). Quando
prevalgono le regole rigide dell’istituzione, gli anziani rischiano di morire soli
pur essendo all’interno di una comunità
numerosa. Se i legami della comunità
sono più forti delle regole dell’istituzione, possono trovare risposta anche quei
tanti anziani che sono soli al mondo e
che non hanno nessuno disposto a piangere per la loro morte.
Gli operatori della casa di riposo: il
lavoro di assistenza agli anziani in casa
di riposo passa attraverso la relazione
(verbale, fisica, emotiva) fatta di rapporti continuativi e stabili; è una conoscenza reciproca centrata sulla continua frequentazione. Ci sono alcune
differenze che favoriscono gli operatori
delle case di riposo rispetto a quelli che
lavorano in ospedale:
• la relazione con l’anziano è tempo di
cura e la cura prestata in casa di riposo
ha tempi più generosi rispetto all’ospedale;
• l’obiettivo degli operatori ospedalieri è centrato sulla guarigione, per cui la
morte della persona sancisce un fallimento piuttosto che un esito normale;
gli operatori della casa di riposo, più
orientati all’assistenza che alla guarigione, hanno in sé la consapevolezza che
la persona rimarrà in quel luogo sino
alla morte; in questo senso, la morte è
la fine naturale del percorso e non il fallimento dell’assistenza;
• in ospedale l’efficienza dell’organizzazione obbliga gli operatori a fare
veloci calcoli e ad agire di conseguenza,
anche al fine di evitare ricoveri impropri o incongrui; in casa di riposo questa
pressione non esiste;
• infine, la cultura ospedaliera è soli-
I sentieri di cura
Un’esperienza importante in questo
senso è stata condotta presso l’Israa di
Treviso. L’idea del progetto “Sentieri di
cura” nasce proprio dal bisogno di fermarsi a riflettere sulla qualità dell’assistenza prestata nei confronti delle
persone gravi o in situazione terminale.
Per le proprie caratteristiche, le strutture per anziani, gli hospice e le unità
di accoglienza per persone in stato vegetativo, sono per eccellenza i luoghi della
“cura” intesa non tanto nel senso della
guarigione ma del “prendersi cura”.
L’empatia è la prima qualità richiesta nel “prendersi cura”. Ma il contatto
empatico quotidiano con i bisogni di queste persone e dei loro familiari comporta
per chi assiste un’esposizione emotiva
intensa, che deve essere compresa e
sostenuta. Se così non fosse, la possibile
conseguenza è l’inaridirsi dei rapporti
e il sopravvenire di un’assistenza standardizzata e centrata sulla prestazione
piuttosto che sulla relazione.
Questo rischio è ancora più evidente quando la persona non è in grado di
richiedere attivamente l’attenzione ed
esprimere i propri bisogni, ovvero in
tutte quelle situazioni dove le condizioni di salute sono gravi o gravissime e
le normali capacità di comunicazione
compromesse o addirittura inesistenti.
Può allora venire in aiuto, per chi
assiste, l’acquisizione di nuove forme
di comunicazione corporea, quali il
nurturing touch , definita come la tecnica del “tocco che nutre”, ideata dalla
trainer neozelandese Peggy Dawson, e
l’aptonomia, la “scienza dell’affettività
trasmessa attraverso il contatto”, sperimentata nell’ambito delle cure palliative da Marie De Hennezel.
Queste tecniche sono state integrate
e rielaborate in un progetto che prende
il nome di “Sentieri di cura”.
Gli obiettivi che si pone questo progetto sono:
• esplorare i processi psicologici sottostanti il tema del morire nella nostra
società;
• illustrare le fasi e i modelli legati al
vissuto della malattia, dalla gestione ai
processi di elaborazione del lutto;
• migliorare la propria capacità di far
fronte emotivamente a situazioni complesse come la sofferenza, il dolore e la
morte, aumentando le competenze emotivo-affettive e comunicativo-corporee,
per realizzare un’assistenza empatica
con il malato e la sua famiglia.
Il metodo di comunicazione corporea
offre un utile strumento a chi assiste e
procura sollievo ai malati, agli anziani e
ai morenti, apportando benefici sul piano fisico, psicologico e spirituale.
Questo progetto è interessante in
quanto propone una metodologia esperenziale motivante, attraverso vere e
proprie esercitazioni pratiche e successive elaborazioni di riconoscimento
e consapevolezza. I partecipanti (Oss,
infermieri, medici, professionisti) vengono infatti guidati e coinvolti attivamente a sperimentare nuovi metodi di
comunicazione corporea, riconoscendo
i propri abituali meccanismi di difesa e
reazione agli stimoli stressanti del lavoro, così da familiarizzare con strumenti
di consapevolezza ed auto-aiuto.
Anziani
anziani che rimangono,: contrariamente a quel che comunemente si pensa, gli
anziani in casa di riposo pensano e parlano frequentemente della morte. Non
sempre l’operatore è preparato a questi
discorsi e, in buona fede, invece di aprire
una disponibilità a un ascolto, chiude
la conversazione banalizzandone la
richiesta (anche per la propria paura di
parlarne). Merita inoltre una riflessione il tema dell’anziano affetto da mali
che impediscono il pensiero, la memoria, l’autodeterminazione (per esempio,
malati di demenza o in situazioni di
terminalità con grave compromissione
cognitiva). Queste persone meritano
un’attenzione particolare perché sono i
più deboli tra i deboli. Quando le parole di senso compiuto non contano più,
devono subentrare altre modalità, come
il tatto, l’intesa visiva, il suono, l’olfatto, alla ricerca di quel contatto possibile
che aiuta nel momento del bisogno.
Qualche idea per
il futuro
Le case di riposo non devono rassegnarsi all’inevitabile, ma assumere un
ruolo attivo nella gestione della terminalità, nella consapevolezza che questo
non implica la fredda applicazione di
un protocollo, ma un lavoro che richiede competenze tecniche, organizzative,
oltre alla disponibilità per un coinvolgimento emotivo come persona, come
essere umano.
Si tratta insomma di capire se gli
operatori “sentono” di poter affrontare
l’agonia di un anziano, di sopportare lo
stress emotivo della morte, di partecipare a questo evento, sino alla chiusura degli occhi, alla composizione della
salma, al congedo dal reparto, al saluto
consolatorio ai familiari.
Ricordiamo alcune strategie generali che possono risultare utili:
• creare per gli operatori percorsi formativi ed esperenziali che trattino con
profondità di cultura e d’animo i temi
dell’assistenza alla persona terminale,
dei rapporti con i familiari, delle implicazioni sanitarie, gerontologiche, psicologiche, affettive e spirituali;
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tamente centrata sulla patologia specifica piuttosto che sulla persona; in casa
di riposo le necessità assistenziali spingono a una presa in carico globale, che
tiene conto dell’insieme della persona.
Per questi motivi, i vissuti degli operatori legati al tema della morte, come la
frustrazione, il senso di colpa, la rabbia,
sono di fatto attenuati dalle circostanze
e dalla cultura della casa di riposo.
Rimangono tuttavia aperte tre questioni di grande importanza.
Le relazioni che si stabiliscono nelle case di riposo tra operatori e anziani
sono normalmente più intense e durature di quelle che nascono negli ospedali, se non altro per la quantità di
tempo che le persone passano assieme.
Le testimonianze sono molteplici: dalle
esplicite attestazioni di affetto alle confidenze reciproche, dall’interesse per
gli accadimenti dell’altro fino al disappunto per i ricoveri ospedalieri inutili o
per l’esito dei ricoveri stessi al rientro
in casa di riposo (piaghe da decubito,
denutrizione, disorientamento, depressione). Se il maggiore legame affettivo
è genuino, nel periodo che anticipa e
segue il trapasso la sofferenza non è solo
del morente, ma anche di chi lo assiste.
Per stare accanto a chi soffre e muore
l’operatore deve quindi avere non solo la
capacità di ascoltare la sofferenza, ma
si trova nella condizione di assumere su
di sé parte di questa sofferenza. Affetti, emozioni, vicinanza emotiva, sono
aspetti che danno il sale alla relazione
umana, ma richiedono al contempo di
salvaguardare l’integrità psichica degli
operatori che si trovano ad affrontare,
in modo continuativo, lutti e separazioni che gravano pesantemente sul
loro bilancio emotivo come esito di un
eccessivo attaccamento, di una forma
di identificazione, dello sviluppo di un
burn out reattivo.
Un’altra questione aperta è la
relazione con i familiari degli anziani:
affinché tutto si svolga secondo l’intendimento, è necessario avviare con la
famiglia degli anziani dei patti fiduciari, degli accordi condivisi (tenuto conto
delle volontà eventualmente espresse
dall’anziano) circa il da farsi in caso di
grave pericolo di morte o comunque di
chiara percezione che si è vicini alla fine
della vita. L’operatore, pur avendo familiarizzato con l’anziano, deve ricordarsi
che quest’ultimo appartiene sempre e
comunque alla sua famiglia, alla quale
va riconosciuto lo spazio per le proprie
esigenze affettive, per le proprie paure,
per la propria “resa dei conti”. E gli operatori non devono essere neutri, sopra
le parti, ma aiutare, creare le condizioni
affinché tutto si compia.
Una terza questione riguarda gli
• la possibilità di partecipare a gruppi
di elaborazione in modo da poter tenere
alta la tensione emotiva e partecipativa, nella salvaguardia dell’equilibrio
psichico degli operatori;
• creare condizioni organizzative e
culturali tali da consentire di affrontare il tema secondo una prospettiva
multiprofessionale, per condividere le
decisioni e sostenere insieme le conseguenze (equipe di assistenza).
Il gruppo è una grande risorsa di
fronte alla morte: permette di condividere le sofferenze e assicura la continuità della vita.
Bibliografia
Infanzia e adolescenza
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APPUNTAMENTI
Si terrà tra marzo e aprile 2009 a Moie di
Maiolati (AN), la terza edizione del Corso
di formazione: “I servizi sociosanitari
nella legislazione nazionale e della
Regione Marche” con i seguenti obiettivi
e contenuti: far conoscere la normativa
nazionale e della regione Marche in tema
di sanità e assistenza sociale. Nello specifico si analizzerà la legislazione regionale riguardante i servizi sociosanitari. In
particolare si cercherà di verificare come
la normativa risponde ai bisogni, alle esigenze ai diritti di quei soggetti che
necessitano in maniera temporanea o
permanente del sistema dei servizi. Il
corso è rivolto a tutti coloro che lavorano
a vario titolo all’interno del sistema dei
servizi sanitari e sociali. Informazioni:
Gruppo Solidarietà - Tel. 0731.703327 [email protected] – www.grusol.it
Si terrà a Trento nei giorni 6-7-8 marzo 2009 il IX Convegno Nazionale dei
gruppi di auto mutuo aiuto nell’elaborazione del lutto dal titolo: “Un Aiuto a
dire addio...”. Il convegno, organizzato dal Comitato di coordinamento
nazionale dei gruppi Ama sul lutto e
dall’Associazione Ama Onlus di
Trento, sarà preceduto da un corso di
formazione per facilitatori. Il convegno rappresenta un importante
momento di informazione, scambio e
sostegno tra operatori sociali e sanitari, familiari e volontari. Informazioni:
Associazione Ama - Tel. 0461.239640
- [email protected] http://www.automutuoaiuto.it
L’integrazione
sociosanitaria in
campo minorile
Con questi due contributi, e altri che
verranno pubblicati nei prossimi numeri, gli
autori presentano un modello di intervento
interistituzionale integrato sui minori a rischio.
Uno sguardo al percorso avviato una decina di anni
fa ha portato alla ripresa del modello e alla sua
applicazione attuale.1
Barbara Carpanini,* Maria Deidda **
Comune di Genova
La storia in breve
L’esperienza che presentata prende
avvio a fine anni ’90, nell’ambito del progetto affido familiare, quando, a seguito della ripresa delle deleghe da parte
del Comune di Genova e la contestuale
istituzione dei distretti sociali, avvenuta nel ’96, emerge sempre più evidente
la necessità di (ri)costituire contesti di
lavoro fortemente integrati tra il sociale e il sanitario. Tale esigenza investe
soprattutto l’ambito di intervento relativo ai minori più a rischio, in particolare quello dell’affidamento familiare.
La spinta parte all’interno di un
progetto specifico dell’affido, quello dei
Neonati a rischio (Near), dove in modo
particolare viene sentita l’importanza di
un’integrazione operativa reale tra Servizi sociali e Servizi sanitari (Maternoinfantile, Salute mentale, Sert). Essa
appare una condizione imprescindibile
per costruire percorsi di valutazione
(diagnostica e prognostica) tempestivi e
coordinati, ma anche accordi sui percorsi
di sostegno, al servizio di decisioni che,
nel caso di neonati, non possono essere
procrastinate nel tempo. È condivisa la
necessità che esse siano le più rapide
possibili, collocate in una dimensione
prospettica e sostenute da valutazioni
solide sul rischio (e danno) per il bambino e sulla trattabilità della situazione
familiare al fine di un possibile recupero
delle competenze genitoriali.
Il tema è di quelli “caldi”, avendo a
che fare con decisioni relative all’allontanamento o meno del bambino e alla
sua durata (definitivo, temporaneo), al
senso e alla ricaduta degli interventi
messi in atto. Si tratti di interventi di
“semplice” tutela/protezione del minore
o anche di recupero della relazione geni-
tori/figli e delle competenze parentali.
La prospettiva da cui guardare e la possibilità di costruire alleanze tra operatori di Servizi diversi (solitamente divisi
da identificazioni totali nella mission del
proprio Servizio) è apparsa da subito la
chiave di volta per poter definire progetti di intervento che tenessero conto della
doppia esigenza di tutelare il bambino e
di sostenere/curare il genitore.
Il progetto che ne è scaturito è stato
sostenuto da un percorso formativo e ha
dato l’avvio alla costituzione di alcuni
gruppi interistituzionali territoriali che
hanno sperimentato il modello proposto
in sede di formazione. Ognuno di essi ha
messo in atto modalità strutturate di
lavoro, con valutazione e presa in carico
congiunta dei casi da parte dei Servizi
sociali e sanitari, finalizzata alla presa
di decisioni condivise, in un contesto di
chiarezza dei compiti e responsabilità
di ciascun Servizio rispetto ai minori e
agli adulti.
Dalla fase della sperimentazione
iniziale, negli anni sono sopravvissuti
due dei cinque gruppi territoriali che
l’avevano avviata. Essi hanno proseguito l’esperienza in maniera spontanea,
non essendo questa mai stata istituzionalizzata attraverso accordi formali tra
i due enti (Asl e Comune).
A distanza di circa sei anni da
quell’avvio, il filo è stato raccolto e portato avanti dai Servizi sociali e sanitari
della zona del Centro. Ancora una volta, l’esperienza è stata accompagnata
e sostenuta da un percorso formativo,
anche questa sotto la responsabilità e la
guida di S. Cirillo, affiancato da G. Cambiaso. Tale percorso si è concluso con un
convegno molto partecipato nel gennaio
2005, che ha rappresentato l’occasione