Sole, caldo… La sua immagine mi richiamava alla mente questo

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Sole, caldo… La sua immagine mi richiamava alla mente questo
Laura Luka
Il professore
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Lo chiamavano così
Il professore
Sole, caldo. La sua immagine mi richiamava alla mente questo. Era il simbolo della bella stagione,
della spensieratezza. Da piccola lo vedevo appoggiato al pozzo dei Gesuiti ad ascoltare musica,
leggere o scrivere. Aveva un block-notes a spirale dai fogli gialli sempre un po’ spiegazzati,
davano l’idea di vecchio, parlavano di lui, custodivano un po’ tutta la sua vita. Una vita che era
stata scritta, annotata probabilmente in tutti i suoi momenti, rimasta però imprigionata in quel mare
giallo, trattenuta dietro le sbarre dei quadretti. Quello che si sapeva di lui era molto poco, sfuggito al
suo silenzio non si sa come, o forse solamente inventato. Ciò che era certo è che un giorno aveva
fatto il professore ed era così, infatti, che tutti lo chiamavano: “il professore”.
Il professore non era giovane e le profonde rughe, sintomo di una vecchiaia ormai avanzata, si
nascondevano sotto la sua aria tranquilla. D’estate o nei tiepidi pomeriggi primaverili, quando il
sole fa per le prime volte la sua timida comparsa nel cielo veneziano, riusciva quasi a mimetizzarsi
sullo sfondo del campo, appoggiato al pozzo, con la faccia rivolta alla fontana.
Spesso io e mia sorella parlavamo di lui, ci stupivamo osservando quanto tempo riuscisse a stare
nella stessa posizione, senza muoversi, senza stancarsi. Quando eravamo bambine, fantasticavamo
su di lui immaginandoci che non avesse una casa, ma che abitasse in campo. In effetti abitava
davvero lì, in un piccolo monolocale poco prima della chiesa. Le sue due finestre erano sempre
aperte, separate dall’esterno solamente da una grata nera; la scrivania era sotto la finestra, sulla
parete opposta una libreria piena di vecchi volumi. Fin da piccola, quando lo vedevo appoggiato al
pozzo o dietro la finestra di casa sua, lo salutavo. Anche lui mi rispondeva, sapevo che mi
conosceva, ma rimasi sorpresa il giorno in cui mi chiamò per nome.
Era estate ed io ero in campo a giocare con altri bambini. Giocavamo a calcio e la palla era finita in
canale, proprio nel mezzo, impossibile prenderla senza l’aiuto di una barca. Stavamo vicini al
muretto di fondamenta S.Caterina, chi appoggiato, chi in piedi a fissare la palla galleggiare
sull’acqua. Quel giorno era strano, insolito. Il quadro del campo era diverso. Le mamme che di
solito sedevano sulle panchine vicino alla fontana, avevano lasciato l’ombra degli alberi per arenarsi
sotto il sole cocente, attorno al pozzo, con le mani appoggiate al coperchio che quasi scottava e il
professore, che aveva appena fatto la sua comparsa in campo, era rimasto interdetto, non sapendo
più dove andare ad appostarsi. Fu allora che si avvicinò a noi e vedendoci smarriti ad osservare la
nostra imprendibile palla, ci insegnò a fare una barchetta con la carta. E’ stato il primo origamo che
ho imparato a fare. La barchetta era piccola, gialla, il colore delle pagine del suo quadernetto. E’
stato allora che porgendomela mi chiamò per nome. Ero stupita. Sapeva il mio nome, sapeva chi
ero, mi conosceva, era testimone della mia vita e ha continuato ad esserlo per almeno altri dieci
anni.
Lo vedevo per lo più d’estate, quando giocavo in campo. Lui c’era, c’era sempre. C’era anche d’
inverno, ma quella a mancare allora ero io. Negli anni successivi mi ha seguita da lontano in tutti i
miei giochi. Anch’io però ero diventata testimone della sua vita. Dal giorno della barchetta di carta
ho cominciato ad osservarlo meglio, a cercarlo appena scendevo in campo, a notare ogni suo
movimento e cambiamento. Il professore non aveva molti amici, o meglio non ne aveva per niente.
Sembrava quasi che la sua vita fosse cominciata ai Gesuiti e che prima avesse vissuto nascosto,
lontano dal mondo e dagli uomini. Le uniche persone che sembrava conoscere erano quelle del
campo, una conoscenza però molto superficiale, relegata a poche frasi di circostanza. I suoi lunghi
anni trascorsi ai Gesuiti non gli avevano regalato alcun legame, alcuna amicizia. Tutti per lui erano
solo dei conoscenti. La sua figura sembrava volteggiare senza mai posarsi a terra, sembrava distante
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dal resto del mondo, divisa da un’invisibile barriera. Poche informazioni erano riuscite a superare
questo ostacolo, con un salto avevano scavalcato quel muro per diffondersi nel mondo di tutti.
L’indeterminatezza delle notizie sul professore andava ad aggiungere alla sua immagine un che di
fiabesco.
Si diceva che il professore non avesse figli e non fosse nemmeno sposato. Si pensava che da
ragazzo avesse vissuto per qualche anno in Asia e che poi fosse tornato in Italia e avesse studiato
per diventare professore. Dove avesse insegnato però non si sapeva. Si sapeva solo che era stato
professore d’inglese.
Quando ero piccola andava a pranzare alla trattoria dopo il ponte dei Gesuiti. A mezzogiorno lo si
vedeva seduto a tavola, sempre solo: gli tenevano compagnia le voci e le risate dei passanti. Per il
resto la sua vita si svolgeva unicamente in campo. Il campo era la sua casa, una casa divisa dal resto
del mondo da quattro ponti.
Il tempo passò.
Passò l’estate e arrivò l’autunno. E come gli alberi persero le foglie, così la vita del professore
sbiadì.
Lo vedevo sempre più raramente, vivere lo affaticava; la sua vista diminuiva. Si rifugiava allora
dietro la finestra di casa sua, seduto alla scrivania a leggere, scrivere, ascoltare musica. Dalla
finestra osservava la vita. La finestra però giorno per giorno si rimpiccioliva e lo imprigionava e il
professore sembrava accettare quella prigionia con un’indifferente rassegnazione.
Dalla finestra continuavano a giungergli le grida dei bambini che forse neppure sentiva più.
Incontrarlo diventava sempre più raro e ancor più difficile era che ricambiasse il mio saluto. Il suo
sguardo non era vivo come un tempo, guardava lontano. Era magrissimo, le spalle si erano
incurvate, era fragile.
Continuavo a passare sotto le sue finestre, non mi vedeva. Lo salutavo, non mi sentiva. Alzavo la
voce e allora lui, accorgendosi della presenza di qualcuno, ripeteva un veloce buongiorno.
Poi scomparve per qualche giorno.
Arrivarono i pompieri, tagliarono l’inferriata ed entrarono in casa. Il professore era là.
I freddi muri, il rigido inverno e quella finestra sempre aperta, lo avevano strappato dal suo campo,
quel campo così amato e così dannato.
Ora, quando il mio sguardo si posa su quella finestra, vedo la grata tagliata. Le sue cose sono
ancora là, la scrivania sotto la finestra, i suoi libri, il ricordo della sua malinconica e solitaria vita.
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