Volo degli uccelli e produzione del senso - "Ferraris"

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Volo degli uccelli e produzione del senso - "Ferraris"
Gianmarco Pinciroli1
Volo degli uccelli e produzione del senso
A proposito di due “Profezie” di Leonardo da Vinci
Piglierà il primo volo il grande uccello
sopra del dosso del suo magno Cecero,
empiendo l’universo di stupore,
empiendo di sua fama tutte le scritture,
e gloria eterna al nido dove nacque
Leonardo da Vinci
Immaginiamo per un attimo il giovane Leonardo alla finestra del suo studio. Egli osserva
stupefatto la semplicità naturale e spontanea con la quale gli uccelli prendono il volo e si
librano nell'aria. Perché un movimento così spontaneo, semplice e naturale diventa, invece,
così impossibile prima, goffo e artificiale poi, per chi non è uccello?2 Qual è il segreto del
volo?
Assumiamo come premessa, che valga come ipotesi di lavoro, la seguente affermazione:
il segreto del volo degli uccelli si manifesta come una sorta di loro produzione del senso. Il
movimento degli uccelli è il loro senso, il loro senso naturale, la spontaneità del loro essere
quegli enti che sono, enti che, grazie alla semplicità irriflessa del volo, non hanno nè un qui
Ex-docente di Filosofia e storia presso il liceo scientifico “G. Ferraris” di Varese, oltre che agli annuari
del proprio liceo (“Agorà”, “Prismi”) ha collaborato a riviste di letteratura (“Il Majakovskij”), di musica
(“Musica Jazz”) e cinema (“Cineforum”); ha pubblicato il volume “Comunicazione e segnità” (Thélème,
Torino, 2002); è redattore del periodico di formazione e cultura “Paideutika”.
2
“L’uccello è strumento oprante per legge matematica, il quale strumento è in potestà dell’omo poterlo fare
con tutti li sua moti, ma non con tanta potenza; ma solo s’astende nella potenza del bilicarsi. Adunque direm
che tale strumento, composto per l’omo, non li manca se non l’anima dello uccello, la quale anima bisogna,
che sia contraffatta dall’anima dell’omo. L’anima alle membra degli uccelli, sanza dubbio, obbidirà meglio
a’ bisogni di quelle, che a quelle non farebbe l’anima dell’omo, da esse separato, e massimamente ne’ moti
di quasi insensibili bilicazioni; ma poi che alle molte sensibili varietà di moti noi vediamo l’uccello
provvedere, noi possiamo, per tale esperienza, giudicare, che le forze sensibili potranno essere note alla
cognizione dell’omo, e che esso largamente potrà provvedere alla ruina di quello strumento, del quale lui s’è
fatto anima e guida” (in Leonardo da Vinci, Frammenti letterari e filosofici, a cura di Edmondo Solmi,
Firenze, Giunti Barbèra, 1979, pp. 142-143 [I Pensieri]).
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nè un ora. Essi, infatti, sono privi di spazio e di tempo, di ciò che la nostra riflessione tutta
umana chiama spazio e tempo, poichè la produzione del loro senso attraverso il volo non fa
tesoro del lavoro di una riflessione ma si riduce, com’è ovvio, alla cieca ubbidienza ad una
natura. Ciò nondimeno, noi uomini, quando abbiamo bisogno di comprendere ciò che
chiamiamo la nostra natura, la nostra natura riflessiva, la nostra natura umana, ricorriamo
talvolta a ciò che la natura degli altri enti diversi da noi rivela di sè, e ce la facciamo
assomigliare, cosicchè possiamo parlare, come in questo caso, di qualcosa come la “natura
umana”, quando ci poniamo il problema tutto umano del senso e riflettiamo sulla sua
produzione. Se il volo è, dunque, secondo l’ipotesi-metafora proposta, una sorta di
produzione del senso degli uccelli, allora domandiamoci: in che cosa consiste la produzione
di senso degli uomini? Si può rispondere a questa domanda soltanto con una impostazione
più articolata della domanda stessa, chiedendoci (e questo ci vuole forse problematicamente
descrivere un movimento identitario circolare, una ricerca di sé da parte dell’uomo che
s’interroga; di più, una sorta di tautologia identitaria con la quale il soggetto che s’interroga,
nella misura in cui s’interroga sulla propria soggettività produttrice di senso, proprio in tal
modo e grazie a questo produce senso, e lo produce rispetto a sé, a sè in quanto
interrogantesi, producendo dunque sè come soggetto nella misura in cui, in quanto sé
interrogantesi, si manifesta come produttore di senso) che cosa è “senso” e collegando ciò
che intendiamo con la parola “senso” a quanto intendiamo con la parola “uomo”, poichè, in
senso stretto, già da sempre affermiamo che soltanto l'uomo è produttore di senso, essendo,
gli altri enti, essenti semplici (e dunque: spontanei, naturali, irriflettenti e dunque irriflessi)
e, in quanto tali, non produttori ma semplici riproduttori di senso.
L'uomo, come si dice, “vive”, e il senso del suo vivere ne fa un essere “vivente”,
qualcosa di più di un semplice essente. Attraverso la sua carne e le sue ossa, la sua pelle e il
suo sangue, già da sempre filtrato da un’intenzione riflettente egli, appunto, riflette e
giudica: produce un mondo, non si limita a riprodurlo secondo natura. Da un certo punto di
vista, si potrebbe formulare il seguente paradosso: la produzione del mondo da parte
dell'uomo è una naturale produzione contro-natura; la sua “naturalità” consisterebbe nel
fatto che l'uomo non può non produrre un mondo e al tempo stesso, d'altro canto, la sua
produzione del mondo si esercita contro la semplice datità strutturale cui gli altri enti, come
gli uccelli, invece ubbidiscono nell'opacità di una gioia quieta e senza coscienza. Ciò che
l'uomo chiama “natura” quando considera il comportamento degli altri enti diversi da lui,
quindi, è ciò contro cui egli si edifica, altrettanto “naturalmente”, per quello che ritiene di
essere, ovvero uomo, fino a diventare quello che ritiene di essere, cosicchè la “naturalità”
riflettente con la quale egli opera in qualità di uomo deve poter essere altra cosa dalla
“naturalità” irriflettente contro la quale egli opera. La natura dell'uomo consiste, secondo
tradizione, nella sua capacità di riflessione sulla natura, nel suo distanziarsi da essa, e la
riflessione sulla natura finisce dunque per valere, per quel tanto che si manifesta in quanto
necessariamente legata a ciò che chiamiamo “uomo”, come una natura di secondo grado,
così come l'uomo, corrispondentemente, non è più un semplice ente in mezzo a tutti gli altri
ma, rispetto ad essi, si manifesta anch’esso come un ente, per così dire, di secondo grado. La
“natura” dell'uomo in quanto “riflessione” è stata chiamata da tanto tempo logos, “ragione”,
anche se con questa parola si sono intese, nel corso del tempo, così tante significazioni
differenti che un’acquisizione univoca rispetto a una tal parola oggi è diventata forse, se non
proprio impraticabile, di assai difficile indagine. Ma un tratto comune tra tutte queste molte,
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e forse troppe, significazioni forse c'è, e consiste non tanto in ciò che la ragione è, bensì in
ciò che la ragione, in quanto “natura” di quell’ente che chiamiamo “uomo”, non è: la ragione
non è assimilabile alla natura degli enti non-uomini. L'uomo, allora, è posseduto da una
“natura” che, ominandolo rispetto a tutti gli altri enti, lo fa “altro” da tutti gli altri enti, e
tanto basta per aprire problemi che qui non possono certo essere dibattuti. Tanto basta,
quindi, per sapere, in tutta provvisorietà, che l'uomo è, prima di tutto e per lo più, altro dalla
“natura” dei semplici enti.
Torniamo al volo degli uccelli. Il volo leonardesco degli uccelli, nelle nostre intenzioni, è
una potente metafora: esso infatti consente a questi enti di sollevarsi da terra, raggiungere
luoghi inaccessibili per “natura” all’uomo e osservare a lungo e con agio ciò che resta a
terra, sia librandosi in aria sia restando appesi ai rami di un albero, in bilico sul vuoto
sottostante. Essi vedono la terra dall'alto abbracciandone vaste porzioni. Questo abbraccio –
pensiamo noi uomini che contempliamo, insieme a Leonardo, con meraviglia il volteggiare
degli uccelli in cielo – consente di tenere uniti gli enti rimasti a terra, permette di leggere ciò
che giace a terra secondo collegamenti che, altrimenti, costretti come lo sono, sempre per
“natura”, gli uomini al punto di vista di chi resta a terra, potrebbero essere colti solo
mediante ipotesi, deduzioni ed induzioni svolti da uno sguardo orizzontale; invece, lo
sguardo dall'alto degli uccelli, pensiamo noi, raccoglie in un momento e immediatamente il
tutto di sotto dispiegato, anzi, accorda ad un tale sguardo felicemente verticale il
dispiegamento di ciò che sta sotto che, in tal modo, non è il prodotto di un'ipotesi, di
un'induzione o di una deduzione, bensì rappresenta il risultato di una constatazione
immediata, ovvero, ci vien fatto di pensare, di una rilevazione così e così di uno stato di
fatto delle cose. Ma un tale sguardo totalizzante non rischierebbe forse, se prodotto
dall’uomo, di confondere terra con mondo? Infatti, la datità con cui si offre allo sguardo ciò
che giace in basso non è la terra, ma è un “mondo”. La grande metafora leonardesca del volo
degli uccelli con la quale assomigliamo al loro sguardo il nostro varrebbe allora per
illustrare il lavoro, rischioso e ambiguo, del giudizio da parte dell’uomo: la produzione del
suo senso, la sua messa in scena di un mondo nel pensiero e nell'esperienza rispetto alla
terra, equivarrebbe cioè a una mondificazione3.
Il volo degli uccelli agli occhi dell'uomo appare comunque inspiegabile proprio per la
“naturalezza” con cui si svolge; tutto ciò che è “naturale” (semplice, spontaneo, irriflesso) è,
al suo fondo ultimo, inspiegabile, ovvero inesauribile quanto all'umana possibilità di
conoscenza nei suoi confronti. Anche la “naturalezza” propria dell'uomo fa dell'uomo
qualcosa d'inspiegabile, qualcosa d'inspiegabile proprio a se stesso. Questa è dunque la ben
3
Quanto qui si afferma circa la mondificazione potrebbe equivalere, a livello di comuni intenzioni, a ciò che
Leonardo afferma della funzione della pittura: "Ciò ch’è visibile è connumerato nella scienza della pittura”,
“Se ‘l pittore vuol vedere bellezze, che lo innamorino, egli n’è Signore, di generarle; e se vuol vedere cose
mostruose, che spaventino, o che sieno buffonesche e risibili, o veramente compassionevoli, ei n’è Signore e
Dio; […] E in effetto ciò ch’è nell’universo per essenza, frequenza o immaginazione, esso lo ha prima nella
mente e poi nelle mani; e quelle sono di tanta eccellenza, che in pari tempi generano una proporzionata
armonia in un solo sguardo, qual fanno le cose”, “Ma conoscendo noi, che la pittura abbraccia e contiene in
sé tutte le cose, che produce la natura, e che conduce l’accidentale operazione degli omini, e in ultimo ciò
che si po’ comprendere con gli occhi, mi pare uno tristo maestro quello, che solo una figura fa bene.” (Ivi,
pp. 208-209 [Il pittore e la pittura])
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strana “natura” dell'uomo, di vivere la propria “naturalezza” come un enigma cui è chiamato
comunque a rispondere, o forse meglio: a corrispondere. In ultima analisi, l'uomo, che ogni
volta che riflette sul suo agire diventando domanda a se stesso, può esercitare anch’esso
oggi il volo del suo sguardo, altro in ogni caso dal volo degli uccelli in quanto privo della
loro “naturalezza”, e proprio come il volo degli uccelli, può raccogliere per i suoi usi
anch’esso in un momento il tutto di sotto dispiegato, constatare, selezionando quel che serve
alla propria mondificazione, l'essenziale collegamento di tutto con tutto, senza però poterlo
mai comprendere davvero nella sua totalità. Ed anche questo, allora, si aggiunge come un
tratto comune alla significazione della “ragione” in quanto “natura” di ciò che chiamiamo
“uomo”, e che abbiamo visto consistere provvisoriamente in ciò che essa non è: la ragione
non è la facoltà che tutto comprende sotto di sè, la ragione – proprio grazie a questo limite di
comprensione posseduto dallo sguardo del suo volo – produce senso e, dal momento che non
può comprendere tutto sotto di sé esaurendolo, lo produce, lo deve produrre
incessantemente.
Il mondo degli uomini non è, non può essere mai la terra abbracciata dallo sguardo degli
uccelli. Il mondo degli uomini sembra avere, peraltro, da tempo dimenticato la terra, e la
terra oggi, così si dice, soffoca dentro il mondo mondificato dagli uomini, perchè da tempo
il mondo sembra aver perso il desiderio di lasciar essere la sua antica trasparenza,
nascondendo fino al più profondo oblio la possibilità di lasciar manifestare, attraverso la
trasparenza, la propria origine tutta umana. La terra, infatti, è l'origine del mondo, è il vero
luogo del mondo, il donde e il dove del mondo; ma il mondo sembra essere diventato oggi
l'unica terra esso stesso, e nessuna terra è ormai più custodita, nella trasparenza del senso,
dalla produzione incessante e necessitata del senso del mondo da parte della “natura” degli
uomini. La produzione del mondo consuma la terra e, non potendola comunque mai
esaurire, la toglie alla vista, quella stessa vista che, nel suo volo “naturale”, dovrebbe
guardarla, sì, dall'alto, ma consentendo alla trasparenza del suo senso mondano prodotto di
lasciar filtrare la terra in quanto origine di ogni mondo. Al contrario, la terra si copre di una
nebbia impenetrabile di parole e di immagini sganciate sempre più dalla loro doverosa
relazione con le cose della terra. Le parole e le immagini dovrebbero dire, sì, ma dire le
cose, fare, delle cose, le cose dette, invece le parole e le immagini sostituiscono le cose,
diventano quelle stesse cose, parole e immagini al posto di cose: il mondo, assunto nella
forma onniavvolgente delle parole e delle immagini, sostituisce le cose stesse della terra, le
radici della terra, e il mondo in tal modo non è più un mondo di cose dette, ma diventa un
mondo di parole e immagini e “nulla” più. Il nascondimento profondo qui in gioco può forse
apparire proteggente, e non annichilente, nei confronti delle cose stesse, ma qui non è certo
il caso di chiamare “protezione” la cura maligna con cui si tende, nascondendo l’origine del
mondo, di ogni mondo, a far scomparire la terra sotto i piedi degli uomini. Gli uomini stessi,
dunque, sostituendo un mondo di parole e immagini alla terra delle cose, spezzando il
legame che teneva unite le parole e le immagini alle cose stesse e le cose stesse alle parole e
alle immagini, si tolgono (fuori e dentro la metafora proverbiale) la terra sotto i piedi. In
questo senso, davvero, gli uomini vivono campati per aria, dentro nuvole di senso dove però
il vivere e il morire, soffocati dal senso di un mondo di parole e immagini e “nulla” più,
hanno perso senso; dove tutto è senso, allora niente ha senso.
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Il senso, infatti, vive solo nella mancanza. Solo là dove il senso manca per un attimo e
per un breve tratto alla cosa, là dove la parola o l’immagine colgono al volo la cosa e la
lasciano poi andare rinunciando al possesso (e in tal modo davvero proteggendola), solo là il
senso “vive”. E il fatto che il senso, per essere davvero tale, debba vivere solo nella
mancanza rimanda a quell'ente che della “vita” ha fatto occasione di riflessione segnando la
sua differenza dagli enti che sono ma non riflettono. Il volo del mio sguardo di uomo, nella
sua “naturalezza”, non coniuga però a questa “naturalezza” alcuna spontaneità, alcuna
semplicità. Lo sguardo dell'uomo, al contrario, se è senz'altro “naturale” nei termini chiariti
sopra, la sua semplicità invece deve conquistarsela duramente; grandi difficoltà si aprono
allo sguardo riflettente e comprendente dell'uomo, alla sua intuizione tendenzialmente, ma
ingenuamente totalizzante, tanto che questa totalità, per l'appunto, resta poi una mera
illusione, poichè ciò che finirà per cadere sotto di esso altro non sarà che l’ennesima parte
dell’inattingibile Tutto e il Tutto apparirà come l’impossibile complessità delle infinite parti
collegate tra loro dalle relazioni stabilite nel tempo da quello sguardo. Donde la necessità di
ipotesi, induzioni, deduzioni che colmino con l'autorevolezza di una propria parola di
“verità” umana, “troppo umana”, quella che altrimenti rimarrebbe una semplice promessa
progettuale di verità, un orizzonte di verità “naturalmente” inattingibile, una “cattiva
infinità”. Quanto alla spontaneità, non è certo lo sguardo del senso comune – l'unico in
grado di muoversi mimando la spontaneità di comportamento degli enti che non riflettono –
quello in grado di operare ipotesi, induzioni e deduzioni con una qualche pretesa di “verità”;
lo sguardo dell'uomo che intende riflettere con autenticità necessita allora di una paideia, la
sua spontaneità è sempre anch’essa una spontaneità riflessa, è una spontaneità di secondo
grado, perfettamente corrispondente al tipo di “naturalità” cui appartiene esprimendone le
procedure operative, una “naturalità” di secondo grado, come s'è visto.
Lo sguardo – che abbiamo immaginato in apertura – di Leonardo sul volo degli uccelli,
quindi, produce le domande più esemplari che un uomo, un uomo che rifletta sul volo del
proprio sguardo, possa gettare sulla terra: esso dovrebbe essere la rete che non cattura per il
possesso, ma le cui maglie, intersecandosi liberamente a configurare sulla terra uno dei
mondi possibili, dovrebbero consentire alle cose della terra stessa di essere cose del mondo,
cose per l'uomo, di essere, grazie a parole e immagini senza pretese vicarianti, cose dette per
l’uomo. La sua naturalità di secondo grado non sarebbe per questo meno “naturalità” di
quella che appartiene agli enti non riflessivi, sarebbe semplicemente un’altra naturalità;
risulta quindi necessario, a questo punto, chiarire meglio che cosa si vuole intendere qui con
“naturalità”. “Naturalità”, infatti, è risultato, sulla base di quanto s’è detto finora, sia
riflessione sia non-riflessione, a seconda degli enti che se ne fanno carico; ma qual è allora
l'elemento comune alle due “naturalità”, che consente di nominarle ambedue con lo stesso
termine? Esso sembrerebbe consistere nell'inevitabilità di manifestazione presso i rispettivi
enti (uomini, non-uomini), ovvero nella loro (delle due “nature”) necessità tale che, senza
ognuna delle due “naturalità” manifestantesi (sia essa riflettente o non riflettente) non si
darebbe ente, sia esso ente che riflette o no. L'ente s'identificherebbe, quindi, con la
manifestazione della sua necessaria “naturalità” attraverso lo sguardo che fa e lascia essere
l’ente stesso: essere e “natura” finirebbero per formare una sorta di endiadi, o forse meglio
e più profondamente descriverebbero una reciproca appartenenza. E allora bisognerebbe
forse di nuovo domandarsi: che cosa affascina davvero Leonardo quando osserva il volo
degli uccelli? Il fatto forse che essi si consentono un punto di vista che mima quello divino,
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direzionato com'è dall'alto verso il basso? Ma se così fosse, che cosa risuonerebbe allora in
questo “fascino” del punto di vista dall'alto verso il basso, forse il desiderio di “indiarsi”, di
diventare Dio, di dominare per conoscere secondo theorìa, o persino, anticipando il tempo
presente, di dominare per asservire e possedere la terra come l’ultimo mondo che si
sostituisca alla terra stessa abbandonandola nell’oblio? O piuttosto il desiderio di
considerarsi il “creatore” del mondo? Infatti, come s’è visto, l'uomo è, secondo il senso
autoreferenziale che egli stesso produce ponendosi domande circa la propria stessa
“naturale” propensione alla produzione di senso, il “creatore” del mondo4.
L'uomo, però, crea il mondo solo nella misura in cui c'è una terra, lui stesso essendo terra
a se stesso, lui stesso essendo enigma a se stesso. Ma terra ed enigma non sono lo stesso.
Infatti, sia l'uomo che le cose sono la somma di ciò che in loro è enigma unito a ciò che in
loro non lo è; ciò che in loro non è enigma, ed in tal modo li distanzia dalla terra, è affidato
alla parola. Ma, attenzione, la parola, come s’è visto, non è la cosa, bensì: la parola è nella
cosa; la potenza “creatrice” della parola è creatrice non nel senso che essa sa cavare dal
nulla la cosa che è, ma nel senso che la cosa che è è la cosa che è nella misura in cui, grazie
alla parola che ne fa una cosa detta, essa viene tolta al suo non essere (ancora) cosa che è,
ovvero al suo non essere (ancora) cosa detta, che è poi, comunque, l'unico aspetto della cosa
stessa con cui l'uomo, grazie appunto alla parola, ha a che fare. La parola estrae la cosa detta
dalla cosa stessa (non ancora detta), cosicchè senza la parola la cosa è il buio di se stessa,
giace non tanto in una generica oscurità, o peggio nel “nulla”, quanto nella propria oscurità,
in quel suo esser cosa non (ancora) detta che non la rende (ancora) partecipe del mondo
dell'uomo, del suo distanziarsi, ovvero del mondo tout court. Essa, prima che la parola la
nomini, appartiene ancora interamente alla terra, e la terra non è il mondo, ovvero: è ciò che
non è (ancora) mondo ma che ne costituisce, sotto le forme dei possibili che la abitano, la
promessa. La promessa di un mondo fa della terra un fondamento all'insegna del non (non
ancora) e del mondo un risultato che non si può fermare, il prodotto di un ricominciamento
incessante di produzione del senso, e della “vita riflessa” infine fa l’unica responsabile della
produzione stessa del senso.
“Le penne leveranno li omini, siccome li uccelli, inverso il cielo. Cioè per le lettere fatte
da esse penne”5 Così scrive Leonardo in una delle sue Profezie. E in un'altra: “E molti
terrestri ed acquatici animali monteranno fra le stelle. E pianeti”6 Poichè la gran parte di
4
A commento dei brani riportati nella nota 2, vale la pena ricordare ciò che scrisse Cassirer a proposito
dell’immagine del mondo leonardesca: “E’ innegabile che agli inizi la considerazione leonardiana della
natura è ancora legata alla speculazione filosofico-naturale dell’epoca. Solo se ci si rende conto di questo
legame, si potrà misurare appieno la via che il pensiero ha dovuto percorrere prima di raggiungere i suoi
risultati definitivi e supremi. In Leonardo è l’artista a concepire la natura come un grande organismo vivente
e a presentarla così in immagini di lampante chiarezza. Ecco quindi che per lui la terra diviene un essere
animato, […]. E l’istinto di vita e d’amore dell’uomo diventa la chiave e la quintessenza della natura
universa: […] L’azione della natura si dà a conoscere solo nel ‘modello’ che ci offre la nostra mente. Per
suo concetto e sua origine, ogni forza è una entità spirituale, ‘figliola del moto materiale e nepote del moto
spirituale’” (Ernst Cassirer, Storia della filosofia moderna vol. I, Newton Compton Editori, Roma, 1983, p.
293
5
Cfr. Leonardo da Vinci, op. cit. p. 278 [Le Profezie delle cose filosofiche, n°XI]
6
Ivi, p. 281 [Le Profezie delle cose filosofiche, n°XXVIII]
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queste “profezie” – come suggerisce Augusto Marinoni7 – non sono probabilmente “che
indovinelli da recitarsi nelle adunanze di amici, e probabilmente alla corte del Moro”, non
varrà la pena di prendere troppo sul serio il corpus completo dell'opera rispetto ai suoi
contenuti. Ma non lasciamoci comunque ingannare dal tono complessivo delle sue
intenzioni, sappiamo bene quanto Leonardo prendesse invece sul serio i suoi sogni relativi al
volo; come possiamo allora ridurre a indovinello e sorridere delle due “profezie” citate?
Soprattutto la prima, infatti, pur all'interno di un gioco verbale in cui le penne dei volatili si
confondono con quelle atte alla scrittura, anzi, proprio sfruttando una tale incertezza
semantica, descrive il lato onirico, fantastico, poetico e utopico del pensiero scientifico
leonardesco. Ma noi poi, oggi, non possiamo non soggiacere alla seduzione di una tal
metafora, forse in Leonardo ancora involontaria o non del tutto trasparente nelle sue
implicazioni teoretiche8, che però a noi oggi consente di utilizzare, come abbiamo fatto, il
volo degli uccelli al fine di render conto della produzione del senso da parte dell’uomo e
della sua messa in scena, nell'esperienza di visione dall'alto, della sintassi del mondo, resa
possibile dallo sguardo fatalmente, anzi, necessariamente sovraelevato, rispetto alle cose e
alla terra, della parola che parla dell’uomo e dell'uomo che, instancabilmente, la parla.
7
Introduzione a: Leonardo da Vinci, Scritti letterari, a cura di Augusto Marinoni, Rizzoli, 1974, p. 52
Leonardo intitola uno dei suoi “Pensieri” con queste parole: «Un istinto naturale dell’uomo lo guida a
cercare se stesso nelle cose e negli esseri». Si tratta, va chiarito, di uno dei suoi tanti consigli ai pittori, e vi
si legge: “Deve il pittore fare la sua figura sopra la regola d’un corpo naturale, il quale comunemente sia di
proporzione laudabile; oltre di questo far misurare sé medesimo e vedere, in che parte la sua persona varia
assai o poco da quella antidetta laudabile, e, fatta questa notizia, deve riparare con tutto il suo studio, di non
incorrere ne’ medesimi mancamenti, nelle figure da lui operate, che nella persona sua si trova” ((in
Leonardo da Vinci, Frammenti letterari e filosofici, a cura di Edmondo Solmi, Firenze, Giunti Barbèra,
1979, pp. 150 [I Pensieri]). Il “corpo naturale di proporzione laudabile” nel nostro lavoro è il volo degli
uccelli, e la sua innata perfezione serve per descrivere, come s’è visto, la produzione del senso da parte
dell’uomo il quale ha dunque il compito, producendo senso, “di non incorrere ne’ medesimi mancamenti che
nella persona sua si trova”. Compito arduo, nella sua realizzabilità, ma doveroso se il “pittore-filosofo”
intende ubbidire all’ “istinto naturale dell’uomo” al fine di “cercare se stesso”.
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