“WE`RE FOREVER TEETERING ON THE BRINK OF THE
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34 35 “WE’RE FOREVER TEETERING ON THE BRINK OF THE UNKNOWABLE”: IL RAPPORTO UOMO/ROBOT IN THE CAVES OF STEEL DI ISAAC ASIMOV S ANTE F ARNARARO Nel corso degli ultimi venti o trent’anni la fantascienza, un fenomeno culturale di portata quanto mai vasta ed eterogenea, è diventata oggetto degli studi più disparati che ne approfondiscono gli aspetti sociologici, antropologici e, molto spesso, anche di costume. In campo letterario si è proceduti inizialmente ad una storicizzazione del fenomeno, e successivamente l’attenzione si è soffermata sugli autori maggiormente rappresentativi, fino ad arrivare a studi più trasversali e settoriali che, per esempio, analizzano la commistione tra fantascienza e alcuni generi affini ormai noti come fantasy e horror. Dalla seconda metà degli anni Venti del Novecento-e più precisamente dall’aprile del 1926, anno in cui Hugo Gernsback pubblica il primo numero della rivista Amazing Stories-la science fiction ha attraversato diverse fasi: quella cosiddetta hard, in cui l’interesse degli scrittori è quasi esclusivamente indirizzato a descrivere i “fenomeni” della scienza e della tecnologia; quella degli anni Quaranta, oggi ricordati come la Golden Age della fantascienza americana poiché hanno rappresentato il momento di più ampia diffusione e di maggior successo delle riviste che pubblicavano racconti e romanzi a puntate; la fase successiva degli anni Cinquanta, in cui è prevalso un interesse per gli aspetti di natura sociologica; e infine le ultime due fasi, quella degli anni Sessanta e il più recente movimento Cyberpunk degli anni Ottanta, in cui la fantascienza sembra essersi appropriata di tecniche narrative più moderne e, talvolta, anche sperimentali. 1 L’atteggiamento dei critici letterari nei confronti della science fiction della prima metà del Novecento non è mai stato particolarmente entusiasta, soprattutto perché, nella maggior parte dei casi, i racconti e i romanzi di questo periodo erano pubblicati su riviste che si rivolgevano ad un pubblico popolare e si presentavano come narrativa di consumo, appartenente ad un genere in fase di evoluzione e, pertanto, ancora lontano da una maturità formale e stilistica. 2 Tra coloro che sono considerati i “padri” della science fiction americana emerge la figura di Isaac Asimov, autore di alcuni dei cicli più famosi di tutta la letteratura fantascientifica. Com’è noto, Asimov ha iniziato molto giovane la carriera di scrittore pubblicando il primo racconto sul finire degli anni Trenta e quasi ininterrottamente fino alla sua morte, avvenuta nel 1992, è rimasto uno dei personaggi di spicco della science fiction. Tuttavia, sebbene tutte le sue opere siano dei bestseller, e da sempre il pubblico apprezzi la sua narrativa, in passato i critici hanno più volte puntato l’indice contro il suo stile asciutto, diretto e poco sofisticato. 3 Al contrario Donald Hassler, autore di una monografia su Asimov, ritiene che “his straightforwardness is his ‘program’” (IA 7), e che quindi il suo stile diretto e lineare non sia dovuto all’incapacità di far uso di una prosa elegante, bensì ad una chiara volontà di seguire sempre percorsi lineari e diretti che possano evitare dubbi e incomprensioni nel lettore. 4 A tale intento, in realtà, accenna più volte Asimov stesso negli editoriali apparsi sulla rivista The Isaac Asimov Magazine of Science Fiction, e nelle introduzioni alle numerose raccolte e antologie di racconti fantascientifici da lui curate. Tra questi scritti, il più famoso resta sicuramente quello in cui Asimov individua due diversi modi di scrivere opere di narrativa. Nel primo caso si dà maggiore importanza all’uso del linguaggio a scapito degli eventi raccontati che, sebbene possano risultare poco chiari, tuttavia sono narrati con uno stile elaborato, arricchito da una simbologia accurata e da una struttura che conduce a più livelli interpretativi. Nel secondo, invece, tutto viene subordinato alla chiarezza, poiché scopo della narrativa è proprio quello di descrivere gli eventi nel modo più diretto e immediato possibile. Attraverso l’uso di una metafora originale e al tempo stesso particolarmente efficace, così Asimov descrive queste due modalità di scrittura: In one way […] you are anxious to write colorfully, to paint a picture of the setting, or the background of the events. You wish to evoke a mood in the reader which will make it possible for him to feel the events taking place more intensely than would be possible through a mere recounting. If you succeed, you have written poetically. You have written with style. […] Such writing is like a glorious mosaic built up out of pieces of colored glass. It may be a gorgeous spectacle and wonderful to look at, but if you’re interested in seeing what’s going on in the street, you’re going to have a little trouble seeing through the mosaic. […] 36 37 There’s another kind of writing, too. […] Words and phrases are chosen not for their freshness and novelty […] but simply for their ability to describe what is going on without themselves getting in the way. […] Such writing might be compared to plate glass in a window. You can see exactly what’s going on in the street and you’re not aware of the glass. (“The Mosaic and the Plate Glass”, AG 60-62) built in. The safety factors might be faulty or inadequate or might fail under unexpected types of stresses; but such failures could always yield experience that could be used to improve the models. [...] So, in 1939, at the age of nineteen, I determined to write a robot story about a robot that was wisely used, that was not dangerous, and that did the job it was supposed to do.7 (“The Robot Chronicles”, Gold 218-219) Nell’articolo appena citato, Asimov risponde polemicamente ad alcuni critici che avevano definito la sua prosa superficiale e priva di stile perché troppo diretta e limpida. Con la metafora delle vetrate trasparenti e dei mosaici colorati, lo scrittore, inoltre, sottolinea come sia stato difficile costruire un vetro cristallino, le cui fasi di lavorazione sono state perfezionate nel XVII secolo. La realizzazione di una vetrata a mosaico, invece, è molto più semplice, poiché le tecniche di produzione del vetro colorato sono più antiche e risalgono al III secolo a.C. Non è detto, aggiunge quindi Asimov, che un’opera letteraria debba essere considerata “artistica” solo perché costruita in modo complesso; al contrario, in alcuni casi è bene tenere a mente che dietro un’apparente semplicità formale si nasconde un duro lavoro da parte dello scrittore per raggiungere un sufficiente grado di chiarezza del linguaggio. Asimov sembra indicare, inoltre, che i metodi di giudizio dei critici letterari debbano prendere in considerazione anche altri aspetti come, ad esempio, una prosa e una lingua in grado di non distrarre il lettore dagli eventi della narrazione. Asimov, come si è visto, non è ricordato come scrittore dalle raffinate qualità “artistiche”; tuttavia, le sue opere hanno acquisito il ruolo di veri e propri classici del genere fantascientifico, in grado di influenzare e ispirare buona parte della produzione odierna. Oltre che alla celebre Foundation Trilogy, 5 il “good Doctor”, come Asimov viene spesso chiamato dai suoi lettori, deve la sua notorietà anche agli altrettanto famosi robot governati dalle Tre Leggi della Robotica. 6 In contrasto con quella che era la tendenza generale, gli automi asimoviani sono delle macchine asservite all’uomo dotate, però, di appropriati dispositivi di sicurezza (le Tre Leggi della Robotica, appunto) che evitano ogni danno agli esseri umani. In un articolo lo scrittore spiega il suo punto di vista: Enunciate da Asimov come dei comandamenti, o una sorta di codice etico al quale i robot non possono sottrarsi, le Tre Leggi sono un dispositivo inserito nel complesso cervello artificiale degli automi, che in nessun caso può essere violato. Per la prima volta, quindi, i robot non rappresentano una minaccia e non si ribellano ai loro creatori cercando di distruggerli, in netto contrasto con tutta la tradizione fantascientifica precedente. In un’intervista fatta ad Asimov nel 1982, in occasione della pubblicazione di Opus 100, Catherine David, considerando la presenza e l’introduzione dei robot nel mondo produttivo industriale come una prospettiva inquietante, chiese allo scrittore un parere su questo tema così scottante, e ottenne la seguente risposta: I saw them [the robots] as machines—advanced machines—but machines. They might be dangerous but surely safety factors would be [...] Todos estamos profundamente marcados por una especie de prejuicio idiota, de carácter religioso, que nos hace considerar el acto de creación como algo que partenece al dominio privado de la Providencia. Como si estuviéramos autorizados a reproducir imitaciones, pero sólo Dios tuviera derecho a dotarles de un alma... Esa es la razón por la que inventamos monstruos sin alma que nos dan miedo. Nunca entendí por qué razón los hombres consideran que el hecho de crear la vida es forzosamente una blasfemia, cuando por otro lado, jamás han tenido el menor escrúpulo para destruir esa misma vida. ¡Qué hipocresía! La televisión nunca enseña ese acto biológico y natural que da origen a la vida; pero en cambio todos los días podemos ver en la TV mil y una maneras de acabar con ella. (1617) Secondo una tradizione che risale alla mitologia classica e a quella cristiana, l’acquisizione della conoscenza e, in particolare, l’atto di creare la vita, sono azioni che, se compiute da un essere umano, sono soggette a punizione divina poiché ritenute di esclusiva competenza degli dei. Ogni azione che scaturisce da una indebita appropriazione di qualcosa che appartiene alla sfera del divino, e che pertanto può essere considerata come un tentativo dell’uomo di paragonarsi e sostituirsi a Dio, è destinata a fallire e a trasformarsi in sconfitta e in distruzione. 8 Ultimi di una serie di miti che si reiterano nella storia della nostra civiltà 38 sono quello di Faust, che per la sua enorme sete di conoscenza vende l’anima al diavolo, e quello di Frankenstein che, emulando Prometeo, ruba agli dei il potere di dare la vita, e per questo viene punito con la morte. L’intervento della giustizia divina, che ha lo scopo di punire e di ristabilire l’ordine sovvertito dalle azioni sconsiderate degli uomini, solitamente indicato con il nome di “nemesi faustiana”, produce una sorta di paura e di terrore che è un tema comune a molta letteratura, compresa quella fantascientifica. Con lo spirito illuminista e razionale 9 che lo contraddistingue, secondo il quale ogni credenza priva di fondamento scientifico deve essere combattuta e contrastata in ogni modo, Asimov cerca di liberarsi, nei racconti e romanzi robotici, del terrore suscitato dalla nemesi faustiana. Gli altri ostacoli da abbattere sono, da una parte, quel senso di inferiorità che gli uomini hanno nei confronti dei robot e di tutto ciò che è diverso da loro –un atteggiamento che spesso si trasforma in intolleranza, razzismo e comportamenti violenti– e dall’altra ciò che lo stesso Asimov chiama “Frankenstein Complex”. Anche questo è un atteggiamento umano che affonda le radici nel mito 10 , e si manifesta come una paura irrazionale che le creature generate dalla conoscenza dell’uomo debbano per forza e irrimediabilmente ribellarsi, decretando così la distruzione del loro creatore e di tutta l’umanità. 11 Se già nei racconti robotici Asimov si propone di combattere e cercare di debellare questi due comportamenti irrazionali dell’uomo, è in The Caves of Steel, il primo dei Robot Novels 12 , che lo scrittore si impegna in un’analisi della psicologia umana e, evidenziandone punti deboli e idiosincrasie, neutralizza definitivamente quelle paure che da millenni caratterizzano il rapporto dell’uomo con la conoscenza –e quindi il rapporto tra uomo e scienza. Nello specifico, in questo primo romanzo l’analisi si incentra sull’uomo del pianeta Terra, mentre nei successivi romanzi del ciclo l’osservazione si sposta su altri mondi, con lo scopo di fornire un quadro completo che possa rappresentare l’intera umanità con le diverse civiltà di cui è composta. È chiaro che il robot, nei racconti e ancor più nei romanzi dell’omonimo ciclo, grazie al legame che si sviluppa tra i due protagonisti, il detective terrestre Elijah Baley e il robot umanoide R. Daneel Olivaw, diventa un elemento di importanza focale, spesso carico di significati profondi e, a volte, inaspettati. Sebbene, come si è detto precedentemente, in più di una occasione Asimov abbia dichiarato che, nella sua intenzione, i robot non volevano essere dei simboli, né tanto meno delle metafore, bensì delle semplici “macchine” al servizio 39 dell’uomo, è, tuttavia, oltremodo evidente che le cose non stiano esattamente in questi termini, in quanto nel quadro generale dell’intero ciclo i robot hanno una funzione precisa che non è quella di mero device fantascientifico. Il robot 13 è simbolo del “diverso”, e su di lui si concentra inesorabilmente il terrore che, da sempre, il rapporto con l’alterità suscita negli uomini, i quali sono espressione della “normalità”. Quindi il robot è come l’indiano d’America, come l’uomo di colore o lo schiavo – e, forse, anche come l’ebreo– considerati inferiori e sfruttati ingiustamente. In effetti, i robot si comportano esattamente come degli schiavi: quelli del pianeta Solaria, in The Naked Sun, chiamano gli uomini “Master”, si inchinano continuamente, e nei loro confronti gli esseri umani adottano un comportamento che non può che definirsi razzista. Basti pensare a Francis Clousarr, il facinoroso medievalista che viene smascherato e arrestato da Baley in The Caves of Steel: il fuorilegge, terrorizzato dall’eventualità che Daneel possa semplicemente toccarlo, si tradisce e ammette di essere un medievalista, pur di mantenere il robot lontano da lui: R. Daneel, unruffled, put out his arm. Clousarr swung backhanded, wildly knocking R. Daneel’s arm to one side. “Damn it, don’t touch me.” He jumped up and away, the tray of food tipping and hitting the floor in a messy clatter […]. “Keep that thing off me.” “That’s no way to speak, “said Baley with equanimity. “The man’s my partner.” “You mean he’s a damn robot,” shrieked Clousarr. (CS 127-128) Questa sorta di razzismo nei confronti dei robot è reso più esplicito nel secondo romanzo del ciclo, grazie alle parole di un sociologo solariano secondo cui la cultura di Solaria ha le stesse caratteristiche di quella di Sparta con i suoi Iloti: una civiltà dove il numero degli schiavi è notevolmente superiore a quello dei loro padroni. Un’altra ipotesi di lettura è quella di interpretare il robot come duplicato dell’uomo, con il quale aspira a identificarsi senza però riuscirci mai. 14 Dopo essere ormai diventato fisicamente indistinguibile dagli esseri umani, il robot fa di tutto per assomigliare a loro anche nei processi mentali, nel modo di pensare. Il modello a cui Daneel si ispira, in questo processo di “umanizzazione”, è Elijah, ed è significativo che il romanzo si concluda descrivendo Daneel che agisce e parla come Gesù 40 Cristo. Dopo che Lije ha cercato di fargli comprendere il significato dell’aggettivo “sacro” riferito alla Bibbia, e il potere che quel testo ha per l’intera umanità a causa anche delle leggi in esso contenute, Daneel, dimostrando di aver compreso anche l’importanza del perdono, chiude il romanzo con questo atto: “He hesitated, then, almost as though he were surprised at his own words, he said, ‘Go and sin no more!’” (CS 206). L’androide, quindi, si fa immagine di Gesù, il Dio che si è fatto uomo ed è sceso tra gli uomini per indicare loro la via del perdono e dell’amore. Curiosamente, nello svolgersi del ciclo il robot umanoide prosegue in questo particolare processo di umanizzazione, spingendosi ben oltre fino a diventare una sorta di demiurgo che, nel corso dei millenni, sorveglia l’intera umanità al fine di impedire che commetta errori irrimediabilmente letali. La figura del robot che desidera a tutti i costi umanizzarsi è stata riproposta da Asimov anche nel romanzo breve The Bicentennial Man (1976), da molti considerato uno dei suoi capolavori. Tale figura si ricollega direttamente a quella del razzismo e del “diverso”—in questo caso un diverso, il robot, decisamente superiore al modello con il quale tende a identificarsi, ossia l’essere umano—che mira a non avere più un ruolo da escluso, bensì anela ad essere inserito in un gruppo. Dopo quelli creati da Asimov, molti saranno i robot che condivideranno queste caratteristiche, soprattutto nella produzione cinematografica e televisiva 15 . Tuttavia non sono questi i ruoli principali per cui i robot sono stati concepiti da Asimov, e attribuire loro esclusivamente questi valori in tutto il ciclo sarebbe limitativo. Per restare il più possibile vicini al significato della figura del robot immaginata da Asimov, è bene partire dal robot come macchina, come risultato del progresso tecnologico, e da qui, attraverso il ruolo sostenuto dall’automa nel romanzo, arrivare a cogliere l’essenza di questo tipo di personaggio. È interessante, anzitutto, osservare il rapporto che lega l’uomo e il robot, un legame quanto mai complesso ed eterogeneo che Asimov descrive e analizza attraverso i due personaggi del ciclo, Elijah Baley e R. Daneel Olivaw, che sono forse quelli meglio riusciti di tutta la sua produzione. Elijah è apparentemente un tipico uomo della Terra, e del suo pianeta sembra incarnare le manie, i difetti, le paure e le idiosincrasie, 16 tra le quali spicca una forte antipatia nei confronti dei robot. Tuttavia, è interessante notare come, nel corso della vicenda, Baley cambi questo suo atteggiamento e contemporaneamente inizi a guardare con occhi diversi e disincantati alla società terrestre nel suo 42 insieme. Fin dalle prime righe del romanzo, si avverte la sua avversione nei confronti degli automi dal modo in cui reagisce alla presenza, in ufficio, di R. Sammy, il nuovo fattorino robot: Lije Baley had just reached his desk when he became aware of R. Sammy watching him expectantly. The dour lines of his long face hardened. “What do you want?” “The boss wants you, Lije. Right away. Soon as you come in.” “All right.” R. Sammy stood there blankly. Baley said, “I said, all right. Go away!” R. Sammy turned on his heel and left to go about his duties. Baley wondered irritably why those same duties couldn’t be done by a man. (CS 9) Il modo in cui cambierà l’atteggiamento nei confronti di R. Sammy è un buon indicatore di come Baley, dal momento in cui comincia a lavorare con Daneel e viene a conoscenza del piano organizzato dagli spaziali per “far nascere” i terrestri, sia disposto a considerare i robot in maniera differente e non ostile: At 15:20 R. Sammy came to his desk and said, “The Commissioner is in now, Lije.” Baley said, “Thanks.” For once he listened to R. Sammy without being annoyed. R. Sammy, after all, was a kind of relation to R. Daneel, and R. Daneel obviously wasn’t a person – or thing, rather – to get annoyed with. Baley wondered how it would be on a new planet with men and robots starting even in a City culture. He considered the situation quite dispassionately. (CS 104) È Daneel, dunque, l’agente principale che fa scaturire in Elijah questo nuovo atteggiamento. Prima di arrivare a tale risultato, però, tra i due si è consumata una vera e propria battaglia psicologica, nella quale Baley ha lottato duramente per affermare la sua superiorità e scoprire i limiti del robot. Elijah, dopo la sorpresa iniziale per l’aspetto sorprendentemente umanoide di Daneel, scopre che il robot è stato reso uguale a lui anche nella posizione sociale e condivide la sua stessa qualifica di detective (la C-5). Tornando da Spacetown a New York, il terrestre corre sui nastri trasportatori, ai quali Daneel non dovrebbe essere abituato, ma alla fine del tragitto il robot sembra non aver avuto nessuna difficoltà, mentre Elijah mostra segni evidenti di affaticamento. Di lì a poco Daneel appare anche più che umano. In un negozio di scarpe, 42 alcuni esseri umani rifiutano di farsi servire dai commessi robot, sempre per quella forte antipatia e intolleranza nei confronti degli automi, e la situazione raggiunge una tensione tale da minacciare un principio di rivolta. Nel panico totale, che non manca di coinvolgere anche lo stesso Elijah, ecco come spicca la figura di Daneel, il quale, tra l’altro, risolve la questione senza il minimo spargimento di sangue: R. Daneel stepped nimbly upon a chair and from that to the top of a Transtex display case. The colored fluorescence gleaming through the slits of polarized molecular film turned his cool, smooth face into something unearthly. Unearthly, thought Baley. The tableau held as R. Daneel waited, a quietly formidable person. (CS 34) Il robot, quindi, sembra incarnare gli ideali divini di bellezza e perfezione, qualcosa di “idealised, almost god-like” (NS 87), un essere superiore che sovrasta Elijah facendogli sentire tutta la sua inferiorità. Elijah, a causa della sua iniziale profonda avversione nei confronti degli automi, arriva anche a sospettare che Daneel sia, in realtà, un uomo che si nasconde dietro la maschera di un robot perfettamente umanoide perché è lui ad aver commesso l’omicidio sul quale stanno indagando. Come suggerisce Ruggero Bianchi, Baley è convinto che Daneel sia al tempo stesso “troppo umano per essere un robot e troppo perfetto per essere un uomo” (129-30), e solo con l’avvicinarsi della fine del romanzo il detective comprende qual è la vera natura di Daneel, e dei robot in generale, e, infine, quali siano le caratteristiche che separano uomini e automi. Nel momento in cui cerca di far capire al medievalista quanto sia stupido il loro atteggiamento intransigente verso i robot, Elijah espone finalmente il suo punto di vista sulla questione: What are we afraid of in robots? If you want my guess, it’s a sense of inferiority. [...] They seem better than us –only they are not. That’s the damned irony of it.” Baley felt his blood heating as he spoke. “Look at this Daneel I’ve been with for over two days. He’s taller than I am, stronger, handsomer. He looks like a Spacer, in fact. He’s got a better memory and knows more facts. He doesn’t have to sleep or eat. He’s not troubled by sickness or panic or love or guilt. “But he’s a machine. I can do anything I want to him, the way I can to that microbalance right there. If I slam the microbalance, it won’t hit me back. Neither will Daneel. [...] We can’t ever build a robot that will be 43 even as good as a human being in anything that counts, let alone better. We can’t create a robot with a sense of beauty or a sense of ethics or a sense of religion. There’s no way we can raise a positronic brain one inch above the level of perfect materialism. (CS 170) Nel romanzo Daneel viene dunque delineato prima come superuomo, poi come creatura terrificante, in un momento successivo come un essere dalle caratteristiche divine e, infine, come macchina i cui limiti sono tanto vistosi da non destare alcuna preoccupazione. Il cervello positronico è completamente diverso da quello umano: i suoi ragionamenti procedono per processi logico-deduttivi e secondo un ben prestabilito schema suggerito dalle tre leggi. Pertanto in un robot manca l’ingegno, la curiosità 17 che, insieme alla necessità di estendere continuamente la conoscenza, è uno dei fattori principali su cui si basa la differenza tra uomo e robot –ma in questo caso sarebbe più esatto parlare di differenza tra cervello umano e cervello positronico. Quando Lije raggiunge tale consapevolezza, dialogando con lui proprio sul concetto di curiosità, capisce finalmente i limiti di Daneel e di tutti i robot: He said, “Have you no personal curiosity, Daneel? You’ve called yourself a detective. Do you know what that implies? Do you understand that an investigation is more than a job of work? It is a challenge. Your mind is pitted against that of the criminal. It is a clash of intellect. Can you abandon the battle and admit defeat?” “If no worthy end is served by a continuation, certainly.” “Would you feel no loss? No wonder? Would there be no little speck of dissatisfaction? Frustrated curiosity?” Baley’s hopes, not strong in the first place, weakened as he spoke. [...] A six-week-old kitten was curious, but how could there be a curious machine, be it ever so humanoid? R. Daneel echoed those thoughts by saying, “What do you mean by curiosity?” Baley put the best face on it. “Curiosity is the name we give to a desire to extend one’s knowledge.” “Such a desire exists within me, when the extension of a knowledge is necessary for the performance of an assigned task. [...] Aimless extension of knowledge, however, which is what I think you really mean by the term curiosity, is merely inefficiency. I am designed to avoid inefficiency.” [...] At least [Baley] suddenly knew what R. Daneel’s weakness must be, the weakness of any thinking machine. He thought feverishly, hopefully: The thing must be literal-minded. (CS 188-189) 44 Chiarita finalmente la vera natura di Daneel, si crea lo spazio per un vero e proprio legame tra i due protagonisti. Proprio perché ormai il detective ha preso una posizione definitiva nei confronti del robot, nel secondo romanzo del ciclo, The Naked Sun, non c’è nessuna sfida uomo/ robot, a dimostrazione che la paura e la diffidenza sono per Elijah cose ormai superate, e da questo momento in poi si crea tra i due un rapporto di sincera e affettuosa amicizia. Con la vittoria finale dell’essere umano sul robot, Asimov sembra aver definitivamente sconfitto il complesso di Frankenstein. Ma nel finale di The Caves of Steel si scopre una cosa piuttosto inquietante che sembra rimettere tutto in discussione: Elijah dimostra che un robot può essere messo nelle condizioni di fare del male all’uomo. Il colpevole dell’omicidio su cui Lije e Daneel stanno indagando si è servito di un robot per commettere il suo crimine. Infatti, sebbene inconsapevole di quali potessero essere le conseguenze delle sue azioni, è stato R. Sammy a portare all’omicida, sotto suo preciso ordine, l’arma per compiere il delitto. Pertanto, anche se indirettamente, il robot è stato utilizzato per fare del male a un uomo. Se le cose stanno così, tanta fede nella scienza e nella tecnologia, oltre ad essere mal riposta può, alla fine, risultare addirittura letale, e le leggi della robotica, apparentemente inattaccabili e sicure, sono insufficienti a garantire sicurezza. L’uomo si ritrova così vittima, ancora una volta, di quelle paure ancestrali nei confronti dei robot tanto duramente combattute da Asimov. In pratica, sembra che l’ottimismo e la cieca fede nella tecnologia finora esaltate mostrino segni di cedimento. Tuttavia è improbabile che Asimov si sia potuto contraddire su una questione tanto importante. Non trattandosi, dunque, di una contraddizione, né tanto meno di una ambiguità ideologica, è necessario comprendere il significato di questo colpo di scena. Nel corso di The Caves of Steel Asimov sembra suggerire sempre più esplicitamente che è l’uomo il vero ago della bilancia nella lotta tra Bene e Male. Anche se più potenti, i robot sono buoni per natura—grazie all’etica imposta dalle Tre Leggi—mentre gli uomini, curiosi, intelligenti, creativi e intuitivi, non avendo leggi fisse come quelle robotiche, che ne limitano l’arbitrio, possono anche permettersi di essere cattivi. Il Male non risiede nella scienza e nella tecnologia ma nell’uomo, che può decidere di assecondarlo o meno. Ecco, dunque, che l’apparentemente cieco scientismo di Asimov 45 assume tinte più attenuate: scienza e tecnologia, compresi naturalmente tutti i loro prodotti dei quali il robot è simbolo, possono essere dispensatrici di benessere per l’umanità ma, a seconda degli usi che gli uomini ne fanno, possono anche rivelarsi letali. Tuttavia, quello che conta è che nella scienza in sé non c’è Male. Ritornando all’uomo, la risposta definitiva si può rintracciare ancora una volta nel primo romanzo, The Caves of Steel, che è il migliore dell’intero ciclo. C’è un dialogo tra Baley e un suo collega d’ufficio, in cui per la prima volta il protagonista del romanzo inavvertitamente propone ad un altro essere umano una soluzione, o per lo meno un tentativo di reazione, ai mali terrestri. Inoltre nelle parole di questo sconosciuto e irrilevante personaggio, Phil Norris, un detective dello stesso grado di Baley, si ritrova direttamente il pensiero dello scrittore che sembra parlare con la sua stessa voce: There’s no way you can stop mankind, Lije. You’ve got to be optimistic about it and have faith in the old human brain. Our greatest resource is ingenuity and we’ll never run out of that, Lije. (CS, 143) Da queste parole, convincenti soprattutto perché provengono da un personaggio che, dopo averle pronunciate, scompare così come è apparso, traspare quello che si è voluto indicare come “l’umanesimo” di Asimov. 18 L’uomo è il centro dell’Universo, è la sede del Bene e del Male e, sebbene talvolta il Male prenda il sopravvento in lui, le capacità e l’intelligenza di cui è dotato sapranno ristabilire prima o poi il corretto ordine. L’essere umano, quindi, rimane per Asimov irraggiungibile e insuperabile da qualsiasi progresso tecnologico. Tutti gli eroi da lui creati, infatti, sono degli anti-eroi, degli uomini semplici e comuni: niente superuomini o titani, ma gente comune, sarti, operai, o vecchi scienziati cadenti e prossimi alla morte 19 . Questi personaggi hanno in comune una sola cosa: sono esseri umani, hanno un cervello umano, talvolta illogico e irrazionale, ma che si rivela, in definitiva, la migliore arma per superare le crisi che nei diversi racconti e romanzi di Asimov l’umanità si trova ad affrontare. Come lo scrittore suggerisce attraverso le parole di Baley, non c’è modo di elevare il cervello positronico al di sopra del più puro materialismo: “We can’t, damn it, we can’t. Not as long as we don’t understand what makes our own brains tick. Not as long as things exist that science can’t 46 47 measure. What is beauty, or goodness, or art, or love, or God? We’re forever teetering on the brink of the unknowable, and trying to understand what can’t be understood. It’s what makes us men. (CS 170) Gli uomini sono, quindi, sempre in bilico tra conoscibile e inconoscibile, tra scienza e supersitizione, tra Bene e Male. La “ingenuity”, quella risorsa inesauribile a cui faceva riferimento precedentemente Phil Norris, e la “curiosità”, che Lije cerca di far comprendere a Daneel, sono due componenti della natura umana che spingono l’umanità a superare continuamente i propri limiti e a non rimanere mai ferma in un equilibrio che, se da un lato può garantire sicurezza, dall’altro è sinonimo, a lungo andare, di sterilità ed estinzione. Il tendere verso la perfezione/conoscenza/divinità può essere considerato un segno dell’imperfezione dell’essere umano. Tuttavia, questa spinta verso il trascendente –o quello che semplicemente appare come tale ma non lo è– secondo Asimov è simbolo della vitalità del movimento che si contrappone alla natura sterile della staticità. Pertanto è proprio grazie al suo essere imperfetto, e al desiderio di migliorare continuamente, che l’uomo può garantirsi la sopravvivenza e la crescita. Gli errori, l’abbandono della retta via, il protendere, a volte, verso il Male, fanno parte del gioco e servono agli uomini per comprendere quali sono i pericoli del loro processo di maturazione e di crescita. Senza tali errori, dai quali l’umanità riesce sempre, in un modo o nell’altro, a salvarsi, l’evoluzione sarebbe impossibile, e così anche il lungo cammino ai limiti del conoscibile e verso la perfezione. La logica sterile e statica del cervello positronico, dove non c’è spazio per la curiosità e per la casualità, rende i robot simili in apparenza alla divinità, sinonimo di perfezione assoluta, ma in realtà fa di loro delle macchine con dei limiti vistosi. Daneel, a conclusione del ciclo appare simile a un demiurgo, un dio che di nascosto veglia sull’umanità, ma nonostante tutto resta sempre un robot, e come tutti gli dei e le religioni del mondo, sembra suggerire Asimov, è una creatura generata dalla conoscenza dell’uomo e pertanto a lui inferiore. UNIVERSITÀ DI S ALERNO, ITALIA NOTE Su questi aspetti storici si vedano, tra gli altri, i saggi di Brian Aldiss, James Gunn, Jean Gattegno, Robert Scholes e, tra i più recenti, quello di Adam Roberts. Tra i contributi 1 italiani resta insuperato il testo di Carlo Pagetti, soprattutto per i raccordi tra la fantascienza del Novecento e i suoi precursori del XIX secolo. 2 Le eccezioni più significative sono rappresentate da Ray Bradbury che, con The Martian Chronicles (1950) e Fahrenheit 451 (1953), si impose all’attenzione del pubblico e dei critici, i quali riscontrarono in lui una maturità stilistica e letteraria superiore a quella degli altri scrittori di fantascienza. Un’altra figura di rilievo, sebbene non amata quanto Bradbury, è Robert Heinlein, il primo ad abbandonare il ghetto delle fanzine per approdare a riviste di qualità maggiore, il primo a pubblicare libri che sono diventati bestseller e, soprattutto, il primo scrittore di science fiction a cui fu dedicata una monografia già negli anni Cinquanta. 3 Cfr., a questo proposito, l’articolo di Luc Sante, il quale definisce la scrittura di Asimov noiosa e banale; inoltre Kim Robinson, confrontando la prosa di Asimov con quella più visionaria di Philip K. Dick, ne evidenzia in più occasioni le scarse qualità letterarie. 4 Tra coloro che hanno riconosciuto le qualità letterarie di Asimov, oltre a Donald Hassler ci sono James Gunn, autore di una degli studi più completi sullo scrittore dal titolo Isaac Asimov. The Foundations of Science Fiction, Jean Fiedler e Jim Mele, che insieme hanno scritto più volte sul “good Doctor”—oltre ad una monografia intitolata Isaac Asimov, va ricordato anche il saggio “Asimov’s Robots” che analizza come si è evoluta la figura dal robot asimoviano dai racconti degli anni Quaranta ai romanzi dei decenni successivi—e William Touponce, autore di Isaac Asimov. 5 Il Ciclo della Fondazione comprende tre romanzi, a loro volta composti di una serie di racconti apparsi, negli anni Quaranta, sulla rivista Astounding Science Fiction curata da John Wood Campbell Jr.: Foundation (1951), Foundation and Empire (1952), Second Foundation (1953)—conosciuti come Foundation Trilogy—più altri quattro scritti negli anni Ottanta, quando Asimov torna alla fantascienza dopo una lunga parentesi dedicata quasi esclusivamente alla divulgazione scientifica: Foundation’s Edge (1982), Foundation and Earth (1983), Prelude to Foundation (1988) e Forward the Foundation, uscito postumo nel 1993. 6 Le Tre Leggi della Robotica sono state enunciate per la prima volta in “Runaround” (1942), un racconto incluso anche in I, Robot: “One, a robot may not injure a human being, or, through inaction, allow a human being to come to harm. […] Two, […] a robot must obey the orders given it by human beings except where such orders would conflict with the First Law. […] And three, a robot must protect its own existence as long as such protection does not conflict with the First or Second Law” (IR 44-45). 7 Il racconto a cui lo scrittore allude è “Robbie”. Asimov, comunque, non è stato il primo ad utilizzare questo diverso punto di vista nei confronti dei robot, prima di lui altri due racconti di successo hanno trattato questo tema: “I, Robot” (1938) di Eando Binder, a cui Asimov riconosce il merito di essere stato fonte di ispirazione—e per questo motivo intitolerà la sua raccolta robotica allo stesso modo—e “Helen O’Loy” (1938) di Lester Del Rey. A questo proposito cfr., anche per una profonda analisi sulle ascendenze letterarie del robot, il saggio di Sandro Pergameno. 8 Il timore nei confronti della conoscenza, come si sa, è presente nella nostra civiltà fin dai primordi: dai miti greci di Prometeo, che ruba il fuoco agli dei, quello di Atteone, che viene tramutato in cervo e poi divorato dai suoi cani per aver visto Artemide al bagno, quello di Samele, che muore per aver visto Zeus nella sua gloria, fino ad arrivare a Adamo ed Eva che, per aver mangiato dall’albero della conoscenza, furono espulsi dal paradiso terrestre, o alla moglie di Lot che si volta indietro per vedere in che modo l’ira del Signore si abbatte sulla città di Sodoma, e paga a caro prezzo la sua curiosità perché viene trasformata in una statua di sale. 9 Sulla “Enlightenment posture” di Asimov, cfr. Hassler (IA 4-17); il primo capitolo della 48 monografia citata era stato pubblicato, inizialmente, nella rivista Extrapolation, con il titolo “Science Fiction and High Art”. 10 Nella mitologia classica, Urano, dominatore dell’universo, fu castrato da suo figlio Cronos e questi, per paura che i suoi discendenti si comportassero nella stessa maniera, prese a divorarli alla nascita, fino a quando uno di essi, Zeus, riuscì a scampare al suo destino e a prendere il posto del padre. Più vicino alla nostra cultura è l’esempio di Satana, il quale riprende perfettamente il tema della ribellione di ogni essere contro il proprio creatore. Ancora una volta gli esempi riconducono a Frankenstein, la cui creatura non esita a distruggere colui al quale avrebbe dovuto invece dimostrare gratitudine per avergli donato la vita. A questo proposito cfr. anche Asimov, “The Machine and the Robot”, in cui lo scrittore crea un parallelismo tra la “fear of supplantation” dei miti di Urano, Cronos e Zeus, e il rapporto uomo-macchina dei nostri tempi. Secondo Asimov, infatti, “surely the great fear is not that machine will harm us –but that it will supplant us” (250). 11 Sui concetti di nemesi faustiana e complesso di Frankenstein nella fantascienza cfr., tra gli altri, gli articoli di Riccardo Valla e Roberta Rambelli. 12 Il ciclo dei robot si compone principalmente di due raccolte di racconti, I, Robot (1950) e The Rest of the Robots (1964), e di quattro romanzi, The Caves of Steel (1954), The Naked Sun (1957), The Robots of Dawn (1983) e Robots and Empire (1985). I primi due romanzi del ciclo sono stati pubblicati inizialmente a puntate nella rivista Galaxy curata da Horace Gold. È importante ricordare che The Caves of Steel è il risultato di una sorta di scommessa tra Asimov e l’editore Gold, il quale aveva sfidato lo scrittore a creare un ibrido tra fantascienza e giallo. Altri racconti robotici sono stati pubblicati in raccolte e antologie successive, come ad esempio The Best of Isaac Asimov (1973), The Bicentennial Man and Other Stories (1976) e Robot Dreams (1986), e solo in parte sono stati raccolti in un unico volume intitolato The Complete Robots (1983). 13 Com’è noto, il termine “robot” fu usato per la prima volta dal drammaturgo ceco Karel Capek che, nel 1920, scrisse un’opera teatrale intitolata R.U.R., rappresentata nel 1921 e successivamente tradotta in inglese nel 1923. La sigla del titolo sta per Rossum’s Universal Robot, dal nome del personaggio inglese, Rossum appunto, che nel dramma costruisce in serie degli esseri meccanici per farli lavorare al posto degli uomini. La parola ceca robota significa “lavoro servile” e il termine robot, dal momento in cui comparve nell’opera di Capek, viene usato per designare dei servi, degli schiavi artificiali. Grazie alla fantascienza, e grazie soprattutto ad Asimov, “robot” è diventata una parola di uso comune con la quale, attraverso una interessante mutazione semantica, si è ormai soliti designare un oggetto meccanico di metallo che è molto simile all’uomo nella forma, ed è in grado di imitarne gli atti. L’androide, invece, è un robot molto più sofisticato e perfezionato nella sua somiglianza con l’uomo: esteriormente non ha rivestimenti di metallo, e a prima vista è pressoché indistinguibile da un essere umano. A popolare i racconti e i romanzi di Asimov sono solitamente i robot, con poche ma significative eccezioni una delle quali è il personaggio di R. Daneel Olivaw, uno dei due protagonisti dei Robot Novels. 14 Sul robot come doppio cfr. Giuseppe Lippi. 15 L’esempio più evidente è quello di un personaggio della serie televisiva Star Trek: The Next Generation, dove compare un robot positronico, il Comandante Data, a tratti ossessionato dal desiderio di essere quanto più possibile simile ad un essere umano non tanto dal punto di vista fisico, perché si tratta di un androide, quanto nei tratti psicologici. Tra i film più recenti che riprendono questo tema si ricorda A.I. (2000) di Stephen Spielberg. 16 Una delle idiosincrasie dei terrestri, frequentissima in moltissime opere di Asimov, è la paura degli spazi aperti e del vuoto che, nel caso di The Caves of Steel, è il risultato di secoli di vita all’interno delle cupole. Lo psicologo Alan C. Elms ha condotto uno studio, con la 49 collaborazione dello stesso Asimov, nel quale ha tentato di dimostrare che l’agorafobia e le altre fobie dei personaggi asimoviani sono, in realtà, le fobie dello stesso scrittore che inconsciamente ha riversato nelle sue opere. 17 Sulla curiosità come elemento distintivo tra uomo e robot Cfr. Hassler IA 79-81. 18 Cfr.,a questo proposito, l’ottimo saggio di Alessandro Portelli. 19 Per esempio, il protagonista di Pebble in the Sky (1950) è un sarto ebreo in pensione che viene fortuitamente catapultato avanti nel tempo e salva la Terra dall’oppressione dell’impero di Trantor; Andrew Harlan, in The End of Eternity (1955), è un tecnico che fa il lavoro più odioso, avendo il compito di operare dei mutamenti nella Storia, all’interno dell’organizzazione che controlla e regola il Tempo; Hari Seldon, il “motore” principale del ciclo della Fondazione, è un vecchio scienziato paralitico che, inventando la scienza della Psicostoria, salva tutta l’umanità dagli orrori del declino di un impero. OPERE CITATE Aldiss, Brian. Trillion Years Spree: The History of Science Fiction. New York: Athenaeum, 1986. Asimov, Isaac. Gold. The Final Science Fiction Collection. New York: HarperCollins, 1996 [citato Gold]. —. The Naked Sun. London: HarperCollins, 1993 [citato NS]. —. The Caves of Steel. London: HarperCollins, 1993 [citato CS]. —. I, Robot. New York: Bantam, 1991 [citato IR]. —. Asimov’s Galaxy. New York: Doubleday, 1989 [citato AG]. —. Tutti I miei robot. Milano: Mondatori, 1985. —. “The Machine and the Robot”. Science Fiction: Contemporary Mythology. The Science Fiction Writers of America – Science Fiction Readers of America Anthology. Eds. Patricia Warwick et al. New York: Harper & Row, 1978, 244-54. Bianchi, Ruggero. Asimov. Firenze: La Nuova Italia, 1977. David, Catherine. “Robots sin fabula: entrevista con Isaac Asimov. Quimera 50(1982): 16-17. Elms, Alan C. “From ‘Nightfall’ to Dawn: Asimov as Acrophobe”. Extrapolation, 28,2(Summer 1987):130-39. Fiedler, Jean et al. Isaac Asimov. New York: Ungar, 1982. —. “Asimov’s Robots”. Crtical Encounters. Writers and Themes in Science Fiction. Ed. Dick F. Riley. New York: Ungar, 1978, 1-22. Gattegno, Jean. Saggio sulla fantascienza. Edizione italiana a cura di Roberto Sanesi, Milano: Fabbri, 1975. Gunn, James. 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