“WE`RE FOREVER TEETERING ON THE BRINK OF THE

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“WE’RE FOREVER TEETERING ON THE BRINK OF THE
UNKNOWABLE”: IL RAPPORTO UOMO/ROBOT IN THE CAVES
OF STEEL DI ISAAC ASIMOV
S ANTE F ARNARARO
Nel corso degli ultimi venti o trent’anni la fantascienza, un
fenomeno culturale di portata quanto mai vasta ed eterogenea, è
diventata oggetto degli studi più disparati che ne approfondiscono gli
aspetti sociologici, antropologici e, molto spesso, anche di costume. In
campo letterario si è proceduti inizialmente ad una storicizzazione del
fenomeno, e successivamente l’attenzione si è soffermata sugli autori
maggiormente rappresentativi, fino ad arrivare a studi più trasversali
e settoriali che, per esempio, analizzano la commistione tra fantascienza
e alcuni generi affini ormai noti come fantasy e horror.
Dalla seconda metà degli anni Venti del Novecento-e più
precisamente dall’aprile del 1926, anno in cui Hugo Gernsback pubblica
il primo numero della rivista Amazing Stories-la science fiction ha
attraversato diverse fasi: quella cosiddetta hard, in cui l’interesse degli
scrittori è quasi esclusivamente indirizzato a descrivere i “fenomeni” della
scienza e della tecnologia; quella degli anni Quaranta, oggi ricordati come
la Golden Age della fantascienza americana poiché hanno rappresentato
il momento di più ampia diffusione e di maggior successo delle riviste
che pubblicavano racconti e romanzi a puntate; la fase successiva degli
anni Cinquanta, in cui è prevalso un interesse per gli aspetti di natura
sociologica; e infine le ultime due fasi, quella degli anni Sessanta e il più
recente movimento Cyberpunk degli anni Ottanta, in cui la fantascienza
sembra essersi appropriata di tecniche narrative più moderne e, talvolta,
anche sperimentali. 1
L’atteggiamento dei critici letterari nei confronti della science
fiction della prima metà del Novecento non è mai stato particolarmente
entusiasta, soprattutto perché, nella maggior parte dei casi, i racconti
e i romanzi di questo periodo erano pubblicati su riviste che si rivolgevano
ad un pubblico popolare e si presentavano come narrativa di consumo,
appartenente ad un genere in fase di evoluzione e, pertanto, ancora lontano
da una maturità formale e stilistica. 2 Tra coloro che sono considerati i
“padri” della science fiction americana emerge la figura di Isaac Asimov,
autore di alcuni dei cicli più famosi di tutta la letteratura fantascientifica.
Com’è noto, Asimov ha iniziato molto giovane la carriera di scrittore
pubblicando il primo racconto sul finire degli anni Trenta e quasi
ininterrottamente fino alla sua morte, avvenuta nel 1992, è rimasto uno
dei personaggi di spicco della science fiction. Tuttavia, sebbene tutte le
sue opere siano dei bestseller, e da sempre il pubblico apprezzi la sua
narrativa, in passato i critici hanno più volte puntato l’indice contro il
suo stile asciutto, diretto e poco sofisticato. 3 Al contrario Donald Hassler,
autore di una monografia su Asimov, ritiene che “his straightforwardness
is his ‘program’” (IA 7), e che quindi il suo stile diretto e lineare non sia
dovuto all’incapacità di far uso di una prosa elegante, bensì ad una chiara
volontà di seguire sempre percorsi lineari e diretti che possano evitare
dubbi e incomprensioni nel lettore. 4 A tale intento, in realtà, accenna
più volte Asimov stesso negli editoriali apparsi sulla rivista The Isaac
Asimov Magazine of Science Fiction, e nelle introduzioni alle numerose
raccolte e antologie di racconti fantascientifici da lui curate. Tra questi
scritti, il più famoso resta sicuramente quello in cui Asimov individua
due diversi modi di scrivere opere di narrativa. Nel primo caso si dà
maggiore importanza all’uso del linguaggio a scapito degli eventi
raccontati che, sebbene possano risultare poco chiari, tuttavia sono
narrati con uno stile elaborato, arricchito da una simbologia accurata e
da una struttura che conduce a più livelli interpretativi. Nel secondo,
invece, tutto viene subordinato alla chiarezza, poiché scopo della
narrativa è proprio quello di descrivere gli eventi nel modo più diretto
e immediato possibile. Attraverso l’uso di una metafora originale e al
tempo stesso particolarmente efficace, così Asimov descrive queste due
modalità di scrittura:
In one way […] you are anxious to write colorfully, to paint a picture of
the setting, or the background of the events. You wish to evoke a mood in
the reader which will make it possible for him to feel the events taking
place more intensely than would be possible through a mere recounting.
If you succeed, you have written poetically. You have written with style.
[…] Such writing is like a glorious mosaic built up out of pieces of colored
glass. It may be a gorgeous spectacle and wonderful to look at, but if
you’re interested in seeing what’s going on in the street, you’re going to
have a little trouble seeing through the mosaic. […]
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There’s another kind of writing, too. […] Words and phrases are chosen
not for their freshness and novelty […] but simply for their ability to describe
what is going on without themselves getting in the way. […] Such writing
might be compared to plate glass in a window. You can see exactly what’s
going on in the street and you’re not aware of the glass. (“The Mosaic and
the Plate Glass”, AG 60-62)
built in. The safety factors might be faulty or inadequate or might fail
under unexpected types of stresses; but such failures could always yield
experience that could be used to improve the models. [...] So, in 1939, at
the age of nineteen, I determined to write a robot story about a robot that
was wisely used, that was not dangerous, and that did the job it was supposed
to do.7 (“The Robot Chronicles”, Gold 218-219)
Nell’articolo appena citato, Asimov risponde polemicamente ad
alcuni critici che avevano definito la sua prosa superficiale e priva di
stile perché troppo diretta e limpida. Con la metafora delle vetrate
trasparenti e dei mosaici colorati, lo scrittore, inoltre, sottolinea come
sia stato difficile costruire un vetro cristallino, le cui fasi di lavorazione
sono state perfezionate nel XVII secolo. La realizzazione di una vetrata
a mosaico, invece, è molto più semplice, poiché le tecniche di produzione
del vetro colorato sono più antiche e risalgono al III secolo a.C. Non è
detto, aggiunge quindi Asimov, che un’opera letteraria debba essere
considerata “artistica” solo perché costruita in modo complesso; al
contrario, in alcuni casi è bene tenere a mente che dietro un’apparente
semplicità formale si nasconde un duro lavoro da parte dello scrittore
per raggiungere un sufficiente grado di chiarezza del linguaggio. Asimov
sembra indicare, inoltre, che i metodi di giudizio dei critici letterari
debbano prendere in considerazione anche altri aspetti come, ad
esempio, una prosa e una lingua in grado di non distrarre il lettore
dagli eventi della narrazione.
Asimov, come si è visto, non è ricordato come scrittore dalle
raffinate qualità “artistiche”; tuttavia, le sue opere hanno acquisito il
ruolo di veri e propri classici del genere fantascientifico, in grado di
influenzare e ispirare buona parte della produzione odierna. Oltre che
alla celebre Foundation Trilogy, 5 il “good Doctor”, come Asimov viene
spesso chiamato dai suoi lettori, deve la sua notorietà anche agli
altrettanto famosi robot governati dalle Tre Leggi della Robotica. 6 In
contrasto con quella che era la tendenza generale, gli automi asimoviani
sono delle macchine asservite all’uomo dotate, però, di appropriati
dispositivi di sicurezza (le Tre Leggi della Robotica, appunto) che evitano
ogni danno agli esseri umani. In un articolo lo scrittore spiega il suo
punto di vista:
Enunciate da Asimov come dei comandamenti, o una sorta di codice
etico al quale i robot non possono sottrarsi, le Tre Leggi sono un
dispositivo inserito nel complesso cervello artificiale degli automi, che
in nessun caso può essere violato. Per la prima volta, quindi, i robot non
rappresentano una minaccia e non si ribellano ai loro creatori cercando
di distruggerli, in netto contrasto con tutta la tradizione fantascientifica
precedente. In un’intervista fatta ad Asimov nel 1982, in occasione della
pubblicazione di Opus 100, Catherine David, considerando la presenza
e l’introduzione dei robot nel mondo produttivo industriale come una
prospettiva inquietante, chiese allo scrittore un parere su questo tema
così scottante, e ottenne la seguente risposta:
I saw them [the robots] as machines—advanced machines—but
machines. They might be dangerous but surely safety factors would be
[...] Todos estamos profundamente marcados por una especie de prejuicio
idiota, de carácter religioso, que nos hace considerar el acto de creación
como algo que partenece al dominio privado de la Providencia. Como si
estuviéramos autorizados a reproducir imitaciones, pero sólo Dios tuviera
derecho a dotarles de un alma... Esa es la razón por la que inventamos
monstruos sin alma que nos dan miedo. Nunca entendí por qué razón los
hombres consideran que el hecho de crear la vida es forzosamente una
blasfemia, cuando por otro lado, jamás han tenido el menor escrúpulo
para destruir esa misma vida. ¡Qué hipocresía! La televisión nunca enseña
ese acto biológico y natural que da origen a la vida; pero en cambio todos
los días podemos ver en la TV mil y una maneras de acabar con ella. (1617)
Secondo una tradizione che risale alla mitologia classica e a quella
cristiana, l’acquisizione della conoscenza e, in particolare, l’atto di creare
la vita, sono azioni che, se compiute da un essere umano, sono soggette
a punizione divina poiché ritenute di esclusiva competenza degli dei.
Ogni azione che scaturisce da una indebita appropriazione di qualcosa
che appartiene alla sfera del divino, e che pertanto può essere
considerata come un tentativo dell’uomo di paragonarsi e sostituirsi a
Dio, è destinata a fallire e a trasformarsi in sconfitta e in distruzione. 8
Ultimi di una serie di miti che si reiterano nella storia della nostra civiltà
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sono quello di Faust, che per la sua enorme sete di conoscenza vende
l’anima al diavolo, e quello di Frankenstein che, emulando Prometeo, ruba
agli dei il potere di dare la vita, e per questo viene punito con la morte.
L’intervento della giustizia divina, che ha lo scopo di punire e di ristabilire
l’ordine sovvertito dalle azioni sconsiderate degli uomini, solitamente
indicato con il nome di “nemesi faustiana”, produce una sorta di paura e
di terrore che è un tema comune a molta letteratura, compresa quella
fantascientifica.
Con lo spirito illuminista e razionale 9 che lo contraddistingue,
secondo il quale ogni credenza priva di fondamento scientifico deve
essere combattuta e contrastata in ogni modo, Asimov cerca di liberarsi,
nei racconti e romanzi robotici, del terrore suscitato dalla nemesi
faustiana. Gli altri ostacoli da abbattere sono, da una parte, quel senso
di inferiorità che gli uomini hanno nei confronti dei robot e di tutto ciò
che è diverso da loro –un atteggiamento che spesso si trasforma in
intolleranza, razzismo e comportamenti violenti– e dall’altra ciò che lo
stesso Asimov chiama “Frankenstein Complex”. Anche questo è un
atteggiamento umano che affonda le radici nel mito 10 , e si manifesta
come una paura irrazionale che le creature generate dalla conoscenza
dell’uomo debbano per forza e irrimediabilmente ribellarsi, decretando
così la distruzione del loro creatore e di tutta l’umanità. 11 Se già nei
racconti robotici Asimov si propone di combattere e cercare di debellare
questi due comportamenti irrazionali dell’uomo, è in The Caves of Steel,
il primo dei Robot Novels 12 , che lo scrittore si impegna in un’analisi
della psicologia umana e, evidenziandone punti deboli e idiosincrasie,
neutralizza definitivamente quelle paure che da millenni caratterizzano
il rapporto dell’uomo con la conoscenza –e quindi il rapporto tra uomo e
scienza. Nello specifico, in questo primo romanzo l’analisi si incentra
sull’uomo del pianeta Terra, mentre nei successivi romanzi del ciclo
l’osservazione si sposta su altri mondi, con lo scopo di fornire un quadro
completo che possa rappresentare l’intera umanità con le diverse civiltà
di cui è composta.
È chiaro che il robot, nei racconti e ancor più nei romanzi
dell’omonimo ciclo, grazie al legame che si sviluppa tra i due
protagonisti, il detective terrestre Elijah Baley e il robot umanoide R.
Daneel Olivaw, diventa un elemento di importanza focale, spesso carico
di significati profondi e, a volte, inaspettati. Sebbene, come si è detto
precedentemente, in più di una occasione Asimov abbia dichiarato che,
nella sua intenzione, i robot non volevano essere dei simboli, né tanto
meno delle metafore, bensì delle semplici “macchine” al servizio
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dell’uomo, è, tuttavia, oltremodo evidente che le cose non stiano
esattamente in questi termini, in quanto nel quadro generale dell’intero
ciclo i robot hanno una funzione precisa che non è quella di mero device
fantascientifico.
Il robot 13 è simbolo del “diverso”, e su di lui si concentra
inesorabilmente il terrore che, da sempre, il rapporto con l’alterità
suscita negli uomini, i quali sono espressione della “normalità”. Quindi
il robot è come l’indiano d’America, come l’uomo di colore o lo schiavo –
e, forse, anche come l’ebreo– considerati inferiori e sfruttati
ingiustamente. In effetti, i robot si comportano esattamente come degli
schiavi: quelli del pianeta Solaria, in The Naked Sun, chiamano gli uomini
“Master”, si inchinano continuamente, e nei loro confronti gli esseri
umani adottano un comportamento che non può che definirsi razzista.
Basti pensare a Francis Clousarr, il facinoroso medievalista che viene
smascherato e arrestato da Baley in The Caves of Steel: il fuorilegge,
terrorizzato dall’eventualità che Daneel possa semplicemente toccarlo,
si tradisce e ammette di essere un medievalista, pur di mantenere il
robot lontano da lui:
R. Daneel, unruffled, put out his arm.
Clousarr swung backhanded, wildly knocking R. Daneel’s arm to one
side. “Damn it, don’t touch me.”
He jumped up and away, the tray of food tipping and hitting the floor in
a messy clatter […].
“Keep that thing off me.”
“That’s no way to speak, “said Baley with equanimity. “The man’s my
partner.”
“You mean he’s a damn robot,” shrieked Clousarr. (CS 127-128)
Questa sorta di razzismo nei confronti dei robot è reso più esplicito
nel secondo romanzo del ciclo, grazie alle parole di un sociologo solariano
secondo cui la cultura di Solaria ha le stesse caratteristiche di quella di
Sparta con i suoi Iloti: una civiltà dove il numero degli schiavi è
notevolmente superiore a quello dei loro padroni.
Un’altra ipotesi di lettura è quella di interpretare il robot come
duplicato dell’uomo, con il quale aspira a identificarsi senza però
riuscirci mai. 14 Dopo essere ormai diventato fisicamente indistinguibile
dagli esseri umani, il robot fa di tutto per assomigliare a loro anche nei
processi mentali, nel modo di pensare. Il modello a cui Daneel si ispira,
in questo processo di “umanizzazione”, è Elijah, ed è significativo che il
romanzo si concluda descrivendo Daneel che agisce e parla come Gesù
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Cristo. Dopo che Lije ha cercato di fargli comprendere il significato
dell’aggettivo “sacro” riferito alla Bibbia, e il potere che quel testo ha
per l’intera umanità a causa anche delle leggi in esso contenute, Daneel,
dimostrando di aver compreso anche l’importanza del perdono, chiude
il romanzo con questo atto: “He hesitated, then, almost as though he
were surprised at his own words, he said, ‘Go and sin no more!’” (CS
206). L’androide, quindi, si fa immagine di Gesù, il Dio che si è fatto
uomo ed è sceso tra gli uomini per indicare loro la via del perdono e
dell’amore. Curiosamente, nello svolgersi del ciclo il robot umanoide
prosegue in questo particolare processo di umanizzazione, spingendosi
ben oltre fino a diventare una sorta di demiurgo che, nel corso dei
millenni, sorveglia l’intera umanità al fine di impedire che commetta
errori irrimediabilmente letali.
La figura del robot che desidera a tutti i costi umanizzarsi è stata
riproposta da Asimov anche nel romanzo breve The Bicentennial Man
(1976), da molti considerato uno dei suoi capolavori. Tale figura si
ricollega direttamente a quella del razzismo e del “diverso”—in questo
caso un diverso, il robot, decisamente superiore al modello con il quale
tende a identificarsi, ossia l’essere umano—che mira a non avere più un
ruolo da escluso, bensì anela ad essere inserito in un gruppo. Dopo quelli
creati da Asimov, molti saranno i robot che condivideranno queste
caratteristiche, soprattutto nella produzione cinematografica e
televisiva 15 .
Tuttavia non sono questi i ruoli principali per cui i robot sono stati
concepiti da Asimov, e attribuire loro esclusivamente questi valori in
tutto il ciclo sarebbe limitativo. Per restare il più possibile vicini al
significato della figura del robot immaginata da Asimov, è bene partire
dal robot come macchina, come risultato del progresso tecnologico, e da
qui, attraverso il ruolo sostenuto dall’automa nel romanzo, arrivare a
cogliere l’essenza di questo tipo di personaggio.
È interessante, anzitutto, osservare il rapporto che lega l’uomo e
il robot, un legame quanto mai complesso ed eterogeneo che Asimov
descrive e analizza attraverso i due personaggi del ciclo, Elijah Baley e
R. Daneel Olivaw, che sono forse quelli meglio riusciti di tutta la sua
produzione. Elijah è apparentemente un tipico uomo della Terra, e del
suo pianeta sembra incarnare le manie, i difetti, le paure e le
idiosincrasie, 16 tra le quali spicca una forte antipatia nei confronti dei
robot. Tuttavia, è interessante notare come, nel corso della vicenda,
Baley cambi questo suo atteggiamento e contemporaneamente inizi a
guardare con occhi diversi e disincantati alla società terrestre nel suo
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insieme. Fin dalle prime righe del romanzo, si avverte la sua avversione
nei confronti degli automi dal modo in cui reagisce alla presenza, in
ufficio, di R. Sammy, il nuovo fattorino robot:
Lije Baley had just reached his desk when he became aware of R. Sammy
watching him expectantly.
The dour lines of his long face hardened. “What do you want?”
“The boss wants you, Lije. Right away. Soon as you come in.”
“All right.”
R. Sammy stood there blankly.
Baley said, “I said, all right. Go away!”
R. Sammy turned on his heel and left to go about his duties. Baley
wondered irritably why those same duties couldn’t be done by a man. (CS
9)
Il modo in cui cambierà l’atteggiamento nei confronti di R. Sammy
è un buon indicatore di come Baley, dal momento in cui comincia a
lavorare con Daneel e viene a conoscenza del piano organizzato dagli
spaziali per “far nascere” i terrestri, sia disposto a considerare i robot
in maniera differente e non ostile:
At 15:20 R. Sammy came to his desk and said, “The Commissioner is in
now, Lije.”
Baley said, “Thanks.”
For once he listened to R. Sammy without being annoyed. R. Sammy,
after all, was a kind of relation to R. Daneel, and R. Daneel obviously
wasn’t a person – or thing, rather – to get annoyed with. Baley wondered
how it would be on a new planet with men and robots starting even in a
City culture. He considered the situation quite dispassionately. (CS 104)
È Daneel, dunque, l’agente principale che fa scaturire in Elijah
questo nuovo atteggiamento. Prima di arrivare a tale risultato, però,
tra i due si è consumata una vera e propria battaglia psicologica, nella
quale Baley ha lottato duramente per affermare la sua superiorità e
scoprire i limiti del robot. Elijah, dopo la sorpresa iniziale per l’aspetto
sorprendentemente umanoide di Daneel, scopre che il robot è stato reso
uguale a lui anche nella posizione sociale e condivide la sua stessa
qualifica di detective (la C-5). Tornando da Spacetown a New York, il
terrestre corre sui nastri trasportatori, ai quali Daneel non dovrebbe
essere abituato, ma alla fine del tragitto il robot sembra non aver avuto
nessuna difficoltà, mentre Elijah mostra segni evidenti di affaticamento.
Di lì a poco Daneel appare anche più che umano. In un negozio di scarpe,
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alcuni esseri umani rifiutano di farsi servire dai commessi robot, sempre
per quella forte antipatia e intolleranza nei confronti degli automi, e la
situazione raggiunge una tensione tale da minacciare un principio di
rivolta. Nel panico totale, che non manca di coinvolgere anche lo stesso
Elijah, ecco come spicca la figura di Daneel, il quale, tra l’altro, risolve
la questione senza il minimo spargimento di sangue:
R. Daneel stepped nimbly upon a chair and from that to the top of a
Transtex display case. The colored fluorescence gleaming through the slits
of polarized molecular film turned his cool, smooth face into something
unearthly.
Unearthly, thought Baley.
The tableau held as R. Daneel waited, a quietly formidable person. (CS
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Il robot, quindi, sembra incarnare gli ideali divini di bellezza e
perfezione, qualcosa di “idealised, almost god-like” (NS 87), un essere
superiore che sovrasta Elijah facendogli sentire tutta la sua inferiorità.
Elijah, a causa della sua iniziale profonda avversione nei confronti
degli automi, arriva anche a sospettare che Daneel sia, in realtà, un
uomo che si nasconde dietro la maschera di un robot perfettamente
umanoide perché è lui ad aver commesso l’omicidio sul quale stanno
indagando. Come suggerisce Ruggero Bianchi, Baley è convinto che
Daneel sia al tempo stesso “troppo umano per essere un robot e troppo
perfetto per essere un uomo” (129-30), e solo con l’avvicinarsi della fine
del romanzo il detective comprende qual è la vera natura di Daneel, e
dei robot in generale, e, infine, quali siano le caratteristiche che separano
uomini e automi. Nel momento in cui cerca di far capire al medievalista
quanto sia stupido il loro atteggiamento intransigente verso i robot,
Elijah espone finalmente il suo punto di vista sulla questione:
What are we afraid of in robots? If you want my guess, it’s a sense of
inferiority. [...] They seem better than us –only they are not. That’s the
damned irony of it.”
Baley felt his blood heating as he spoke. “Look at this Daneel I’ve been
with for over two days. He’s taller than I am, stronger, handsomer. He
looks like a Spacer, in fact. He’s got a better memory and knows more
facts. He doesn’t have to sleep or eat. He’s not troubled by sickness or
panic or love or guilt.
“But he’s a machine. I can do anything I want to him, the way I can to
that microbalance right there. If I slam the microbalance, it won’t hit me
back. Neither will Daneel. [...] We can’t ever build a robot that will be
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even as good as a human being in anything that counts, let alone better.
We can’t create a robot with a sense of beauty or a sense of ethics or a
sense of religion. There’s no way we can raise a positronic brain one inch
above the level of perfect materialism. (CS 170)
Nel romanzo Daneel viene dunque delineato prima come
superuomo, poi come creatura terrificante, in un momento successivo
come un essere dalle caratteristiche divine e, infine, come macchina i
cui limiti sono tanto vistosi da non destare alcuna preoccupazione. Il
cervello positronico è completamente diverso da quello umano: i suoi
ragionamenti procedono per processi logico-deduttivi e secondo un ben
prestabilito schema suggerito dalle tre leggi. Pertanto in un robot manca
l’ingegno, la curiosità 17 che, insieme alla necessità di estendere
continuamente la conoscenza, è uno dei fattori principali su cui si basa
la differenza tra uomo e robot –ma in questo caso sarebbe più esatto
parlare di differenza tra cervello umano e cervello positronico. Quando
Lije raggiunge tale consapevolezza, dialogando con lui proprio sul
concetto di curiosità, capisce finalmente i limiti di Daneel e di tutti i
robot:
He said, “Have you no personal curiosity, Daneel? You’ve called yourself
a detective. Do you know what that implies? Do you understand that an
investigation is more than a job of work? It is a challenge. Your mind is
pitted against that of the criminal. It is a clash of intellect. Can you abandon
the battle and admit defeat?”
“If no worthy end is served by a continuation, certainly.”
“Would you feel no loss? No wonder? Would there be no little speck of
dissatisfaction? Frustrated curiosity?”
Baley’s hopes, not strong in the first place, weakened as he spoke. [...]
A six-week-old kitten was curious, but how could there be a curious
machine, be it ever so humanoid?
R. Daneel echoed those thoughts by saying, “What do you mean by
curiosity?”
Baley put the best face on it. “Curiosity is the name we give to a desire
to extend one’s knowledge.”
“Such a desire exists within me, when the extension of a knowledge is
necessary for the performance of an assigned task. [...] Aimless extension
of knowledge, however, which is what I think you really mean by the term
curiosity, is merely inefficiency. I am designed to avoid inefficiency.” [...]
At least [Baley] suddenly knew what R. Daneel’s weakness must be,
the weakness of any thinking machine. He thought feverishly, hopefully:
The thing must be literal-minded. (CS 188-189)
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Chiarita finalmente la vera natura di Daneel, si crea lo spazio per
un vero e proprio legame tra i due protagonisti. Proprio perché ormai il
detective ha preso una posizione definitiva nei confronti del robot, nel
secondo romanzo del ciclo, The Naked Sun, non c’è nessuna sfida uomo/
robot, a dimostrazione che la paura e la diffidenza sono per Elijah cose
ormai superate, e da questo momento in poi si crea tra i due un rapporto
di sincera e affettuosa amicizia.
Con la vittoria finale dell’essere umano sul robot, Asimov sembra
aver definitivamente sconfitto il complesso di Frankenstein. Ma nel
finale di The Caves of Steel si scopre una cosa piuttosto inquietante che
sembra rimettere tutto in discussione: Elijah dimostra che un robot può
essere messo nelle condizioni di fare del male all’uomo. Il colpevole
dell’omicidio su cui Lije e Daneel stanno indagando si è servito di un
robot per commettere il suo crimine. Infatti, sebbene inconsapevole di
quali potessero essere le conseguenze delle sue azioni, è stato R. Sammy
a portare all’omicida, sotto suo preciso ordine, l’arma per compiere il
delitto. Pertanto, anche se indirettamente, il robot è stato utilizzato
per fare del male a un uomo.
Se le cose stanno così, tanta fede nella scienza e nella tecnologia,
oltre ad essere mal riposta può, alla fine, risultare addirittura letale, e
le leggi della robotica, apparentemente inattaccabili e sicure, sono
insufficienti a garantire sicurezza. L’uomo si ritrova così vittima, ancora
una volta, di quelle paure ancestrali nei confronti dei robot tanto
duramente combattute da Asimov. In pratica, sembra che l’ottimismo e
la cieca fede nella tecnologia finora esaltate mostrino segni di cedimento.
Tuttavia è improbabile che Asimov si sia potuto contraddire su una
questione tanto importante. Non trattandosi, dunque, di una
contraddizione, né tanto meno di una ambiguità ideologica, è necessario
comprendere il significato di questo colpo di scena.
Nel corso di The Caves of Steel Asimov sembra suggerire sempre
più esplicitamente che è l’uomo il vero ago della bilancia nella lotta tra
Bene e Male. Anche se più potenti, i robot sono buoni per natura—grazie
all’etica imposta dalle Tre Leggi—mentre gli uomini, curiosi, intelligenti,
creativi e intuitivi, non avendo leggi fisse come quelle robotiche, che ne
limitano l’arbitrio, possono anche permettersi di essere cattivi. Il Male
non risiede nella scienza e nella tecnologia ma nell’uomo, che può
decidere di assecondarlo o meno.
Ecco, dunque, che l’apparentemente cieco scientismo di Asimov
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assume tinte più attenuate: scienza e tecnologia, compresi naturalmente
tutti i loro prodotti dei quali il robot è simbolo, possono essere
dispensatrici di benessere per l’umanità ma, a seconda degli usi che gli
uomini ne fanno, possono anche rivelarsi letali. Tuttavia, quello che conta
è che nella scienza in sé non c’è Male.
Ritornando all’uomo, la risposta definitiva si può rintracciare
ancora una volta nel primo romanzo, The Caves of Steel, che è il migliore
dell’intero ciclo. C’è un dialogo tra Baley e un suo collega d’ufficio, in
cui per la prima volta il protagonista del romanzo inavvertitamente
propone ad un altro essere umano una soluzione, o per lo meno un
tentativo di reazione, ai mali terrestri. Inoltre nelle parole di questo
sconosciuto e irrilevante personaggio, Phil Norris, un detective dello
stesso grado di Baley, si ritrova direttamente il pensiero dello scrittore
che sembra parlare con la sua stessa voce:
There’s no way you can stop mankind, Lije. You’ve got to be optimistic
about it and have faith in the old human brain. Our greatest resource is
ingenuity and we’ll never run out of that, Lije. (CS, 143)
Da queste parole, convincenti soprattutto perché provengono da
un personaggio che, dopo averle pronunciate, scompare così come è
apparso, traspare quello che si è voluto indicare come “l’umanesimo” di
Asimov. 18 L’uomo è il centro dell’Universo, è la sede del Bene e del Male
e, sebbene talvolta il Male prenda il sopravvento in lui, le capacità e
l’intelligenza di cui è dotato sapranno ristabilire prima o poi il corretto
ordine.
L’essere umano, quindi, rimane per Asimov irraggiungibile e
insuperabile da qualsiasi progresso tecnologico. Tutti gli eroi da lui
creati, infatti, sono degli anti-eroi, degli uomini semplici e comuni:
niente superuomini o titani, ma gente comune, sarti, operai, o vecchi
scienziati cadenti e prossimi alla morte 19 . Questi personaggi hanno in
comune una sola cosa: sono esseri umani, hanno un cervello umano,
talvolta illogico e irrazionale, ma che si rivela, in definitiva, la migliore
arma per superare le crisi che nei diversi racconti e romanzi di Asimov
l’umanità si trova ad affrontare. Come lo scrittore suggerisce attraverso
le parole di Baley, non c’è modo di elevare il cervello positronico al di
sopra del più puro materialismo:
“We can’t, damn it, we can’t. Not as long as we don’t understand what
makes our own brains tick. Not as long as things exist that science can’t
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measure. What is beauty, or goodness, or art, or love, or God? We’re forever
teetering on the brink of the unknowable, and trying to understand what
can’t be understood. It’s what makes us men. (CS 170)
Gli uomini sono, quindi, sempre in bilico tra conoscibile e
inconoscibile, tra scienza e supersitizione, tra Bene e Male. La
“ingenuity”, quella risorsa inesauribile a cui faceva riferimento
precedentemente Phil Norris, e la “curiosità”, che Lije cerca di far
comprendere a Daneel, sono due componenti della natura umana che
spingono l’umanità a superare continuamente i propri limiti e a non
rimanere mai ferma in un equilibrio che, se da un lato può garantire
sicurezza, dall’altro è sinonimo, a lungo andare, di sterilità ed estinzione.
Il tendere verso la perfezione/conoscenza/divinità può essere
considerato un segno dell’imperfezione dell’essere umano. Tuttavia,
questa spinta verso il trascendente –o quello che semplicemente appare
come tale ma non lo è– secondo Asimov è simbolo della vitalità del
movimento che si contrappone alla natura sterile della staticità. Pertanto
è proprio grazie al suo essere imperfetto, e al desiderio di migliorare
continuamente, che l’uomo può garantirsi la sopravvivenza e la crescita.
Gli errori, l’abbandono della retta via, il protendere, a volte, verso il
Male, fanno parte del gioco e servono agli uomini per comprendere quali
sono i pericoli del loro processo di maturazione e di crescita. Senza tali
errori, dai quali l’umanità riesce sempre, in un modo o nell’altro, a
salvarsi, l’evoluzione sarebbe impossibile, e così anche il lungo cammino
ai limiti del conoscibile e verso la perfezione.
La logica sterile e statica del cervello positronico, dove non c’è
spazio per la curiosità e per la casualità, rende i robot simili in apparenza
alla divinità, sinonimo di perfezione assoluta, ma in realtà fa di loro
delle macchine con dei limiti vistosi. Daneel, a conclusione del ciclo
appare simile a un demiurgo, un dio che di nascosto veglia sull’umanità,
ma nonostante tutto resta sempre un robot, e come tutti gli dei e le
religioni del mondo, sembra suggerire Asimov, è una creatura generata
dalla conoscenza dell’uomo e pertanto a lui inferiore.
UNIVERSITÀ
DI
S ALERNO, ITALIA
NOTE
Su questi aspetti storici si vedano, tra gli altri, i saggi di Brian Aldiss, James Gunn, Jean
Gattegno, Robert Scholes e, tra i più recenti, quello di Adam Roberts. Tra i contributi
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italiani resta insuperato il testo di Carlo Pagetti, soprattutto per i raccordi tra la
fantascienza del Novecento e i suoi precursori del XIX secolo.
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Le eccezioni più significative sono rappresentate da Ray Bradbury che, con The Martian
Chronicles (1950) e Fahrenheit 451 (1953), si impose all’attenzione del pubblico e dei critici,
i quali riscontrarono in lui una maturità stilistica e letteraria superiore a quella degli altri
scrittori di fantascienza. Un’altra figura di rilievo, sebbene non amata quanto Bradbury, è
Robert Heinlein, il primo ad abbandonare il ghetto delle fanzine per approdare a riviste di
qualità maggiore, il primo a pubblicare libri che sono diventati bestseller e, soprattutto, il
primo scrittore di science fiction a cui fu dedicata una monografia già negli anni Cinquanta.
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Cfr., a questo proposito, l’articolo di Luc Sante, il quale definisce la scrittura di Asimov
noiosa e banale; inoltre Kim Robinson, confrontando la prosa di Asimov con quella più
visionaria di Philip K. Dick, ne evidenzia in più occasioni le scarse qualità letterarie.
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Tra coloro che hanno riconosciuto le qualità letterarie di Asimov, oltre a Donald Hassler
ci sono James Gunn, autore di una degli studi più completi sullo scrittore dal titolo Isaac
Asimov. The Foundations of Science Fiction, Jean Fiedler e Jim Mele, che insieme hanno
scritto più volte sul “good Doctor”—oltre ad una monografia intitolata Isaac Asimov, va
ricordato anche il saggio “Asimov’s Robots” che analizza come si è evoluta la figura dal
robot asimoviano dai racconti degli anni Quaranta ai romanzi dei decenni successivi—e
William Touponce, autore di Isaac Asimov.
5
Il Ciclo della Fondazione comprende tre romanzi, a loro volta composti di una serie di
racconti apparsi, negli anni Quaranta, sulla rivista Astounding Science Fiction curata da
John Wood Campbell Jr.: Foundation (1951), Foundation and Empire (1952), Second
Foundation (1953)—conosciuti come Foundation Trilogy—più altri quattro scritti negli
anni Ottanta, quando Asimov torna alla fantascienza dopo una lunga parentesi dedicata
quasi esclusivamente alla divulgazione scientifica: Foundation’s Edge (1982), Foundation
and Earth (1983), Prelude to Foundation (1988) e Forward the Foundation, uscito postumo
nel 1993.
6
Le Tre Leggi della Robotica sono state enunciate per la prima volta in “Runaround”
(1942), un racconto incluso anche in I, Robot: “One, a robot may not injure a human being,
or, through inaction, allow a human being to come to harm. […] Two, […] a robot must obey
the orders given it by human beings except where such orders would conflict with the First
Law. […] And three, a robot must protect its own existence as long as such protection does
not conflict with the First or Second Law” (IR 44-45).
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Il racconto a cui lo scrittore allude è “Robbie”. Asimov, comunque, non è stato il primo ad
utilizzare questo diverso punto di vista nei confronti dei robot, prima di lui altri due
racconti di successo hanno trattato questo tema: “I, Robot” (1938) di Eando Binder, a cui
Asimov riconosce il merito di essere stato fonte di ispirazione—e per questo motivo
intitolerà la sua raccolta robotica allo stesso modo—e “Helen O’Loy” (1938) di Lester Del
Rey. A questo proposito cfr., anche per una profonda analisi sulle ascendenze letterarie del
robot, il saggio di Sandro Pergameno.
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Il timore nei confronti della conoscenza, come si sa, è presente nella nostra civiltà fin dai
primordi: dai miti greci di Prometeo, che ruba il fuoco agli dei, quello di Atteone, che viene
tramutato in cervo e poi divorato dai suoi cani per aver visto Artemide al bagno, quello di
Samele, che muore per aver visto Zeus nella sua gloria, fino ad arrivare a Adamo ed Eva
che, per aver mangiato dall’albero della conoscenza, furono espulsi dal paradiso terrestre,
o alla moglie di Lot che si volta indietro per vedere in che modo l’ira del Signore si abbatte
sulla città di Sodoma, e paga a caro prezzo la sua curiosità perché viene trasformata in una
statua di sale.
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Sulla “Enlightenment posture” di Asimov, cfr. Hassler (IA 4-17); il primo capitolo della
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monografia citata era stato pubblicato, inizialmente, nella rivista Extrapolation, con il
titolo “Science Fiction and High Art”.
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Nella mitologia classica, Urano, dominatore dell’universo, fu castrato da suo figlio Cronos
e questi, per paura che i suoi discendenti si comportassero nella stessa maniera, prese a
divorarli alla nascita, fino a quando uno di essi, Zeus, riuscì a scampare al suo destino e a
prendere il posto del padre. Più vicino alla nostra cultura è l’esempio di Satana, il quale
riprende perfettamente il tema della ribellione di ogni essere contro il proprio creatore.
Ancora una volta gli esempi riconducono a Frankenstein, la cui creatura non esita a
distruggere colui al quale avrebbe dovuto invece dimostrare gratitudine per avergli donato
la vita. A questo proposito cfr. anche Asimov, “The Machine and the Robot”, in cui lo scrittore
crea un parallelismo tra la “fear of supplantation” dei miti di Urano, Cronos e Zeus, e il
rapporto uomo-macchina dei nostri tempi. Secondo Asimov, infatti, “surely the great fear is
not that machine will harm us –but that it will supplant us” (250).
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Sui concetti di nemesi faustiana e complesso di Frankenstein nella fantascienza cfr., tra
gli altri, gli articoli di Riccardo Valla e Roberta Rambelli.
12
Il ciclo dei robot si compone principalmente di due raccolte di racconti, I, Robot (1950) e
The Rest of the Robots (1964), e di quattro romanzi, The Caves of Steel (1954), The Naked
Sun (1957), The Robots of Dawn (1983) e Robots and Empire (1985). I primi due romanzi del
ciclo sono stati pubblicati inizialmente a puntate nella rivista Galaxy curata da Horace
Gold. È importante ricordare che The Caves of Steel è il risultato di una sorta di scommessa
tra Asimov e l’editore Gold, il quale aveva sfidato lo scrittore a creare un ibrido tra
fantascienza e giallo. Altri racconti robotici sono stati pubblicati in raccolte e antologie
successive, come ad esempio The Best of Isaac Asimov (1973), The Bicentennial Man and
Other Stories (1976) e Robot Dreams (1986), e solo in parte sono stati raccolti in un unico
volume intitolato The Complete Robots (1983).
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Com’è noto, il termine “robot” fu usato per la prima volta dal drammaturgo ceco Karel
Capek che, nel 1920, scrisse un’opera teatrale intitolata R.U.R., rappresentata nel 1921 e
successivamente tradotta in inglese nel 1923. La sigla del titolo sta per Rossum’s Universal
Robot, dal nome del personaggio inglese, Rossum appunto, che nel dramma costruisce in
serie degli esseri meccanici per farli lavorare al posto degli uomini. La parola ceca robota
significa “lavoro servile” e il termine robot, dal momento in cui comparve nell’opera di
Capek, viene usato per designare dei servi, degli schiavi artificiali. Grazie alla fantascienza,
e grazie soprattutto ad Asimov, “robot” è diventata una parola di uso comune con la quale,
attraverso una interessante mutazione semantica, si è ormai soliti designare un oggetto
meccanico di metallo che è molto simile all’uomo nella forma, ed è in grado di imitarne gli
atti. L’androide, invece, è un robot molto più sofisticato e perfezionato nella sua somiglianza
con l’uomo: esteriormente non ha rivestimenti di metallo, e a prima vista è pressoché
indistinguibile da un essere umano. A popolare i racconti e i romanzi di Asimov sono
solitamente i robot, con poche ma significative eccezioni una delle quali è il personaggio di
R. Daneel Olivaw, uno dei due protagonisti dei Robot Novels.
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Sul robot come doppio cfr. Giuseppe Lippi.
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L’esempio più evidente è quello di un personaggio della serie televisiva Star Trek: The
Next Generation, dove compare un robot positronico, il Comandante Data, a tratti
ossessionato dal desiderio di essere quanto più possibile simile ad un essere umano non
tanto dal punto di vista fisico, perché si tratta di un androide, quanto nei tratti psicologici.
Tra i film più recenti che riprendono questo tema si ricorda A.I. (2000) di Stephen Spielberg.
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Una delle idiosincrasie dei terrestri, frequentissima in moltissime opere di Asimov, è la
paura degli spazi aperti e del vuoto che, nel caso di The Caves of Steel, è il risultato di secoli
di vita all’interno delle cupole. Lo psicologo Alan C. Elms ha condotto uno studio, con la
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collaborazione dello stesso Asimov, nel quale ha tentato di dimostrare che l’agorafobia e le
altre fobie dei personaggi asimoviani sono, in realtà, le fobie dello stesso scrittore che
inconsciamente ha riversato nelle sue opere.
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Sulla curiosità come elemento distintivo tra uomo e robot Cfr. Hassler IA 79-81.
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Cfr.,a questo proposito, l’ottimo saggio di Alessandro Portelli.
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Per esempio, il protagonista di Pebble in the Sky (1950) è un sarto ebreo in pensione che
viene fortuitamente catapultato avanti nel tempo e salva la Terra dall’oppressione
dell’impero di Trantor; Andrew Harlan, in The End of Eternity (1955), è un tecnico che fa il
lavoro più odioso, avendo il compito di operare dei mutamenti nella Storia, all’interno
dell’organizzazione che controlla e regola il Tempo; Hari Seldon, il “motore” principale del
ciclo della Fondazione, è un vecchio scienziato paralitico che, inventando la scienza della
Psicostoria, salva tutta l’umanità dagli orrori del declino di un impero.
OPERE CITATE
Aldiss, Brian. Trillion Years Spree: The History of Science Fiction. New
York: Athenaeum, 1986.
Asimov, Isaac. Gold. The Final Science Fiction Collection. New York:
HarperCollins, 1996 [citato Gold].
—. The Naked Sun. London: HarperCollins, 1993 [citato NS].
—. The Caves of Steel. London: HarperCollins, 1993 [citato CS].
—. I, Robot. New York: Bantam, 1991 [citato IR].
—. Asimov’s Galaxy. New York: Doubleday, 1989 [citato AG].
—. Tutti I miei robot. Milano: Mondatori, 1985.
—. “The Machine and the Robot”. Science Fiction: Contemporary
Mythology. The Science Fiction Writers of America – Science Fiction
Readers of America Anthology. Eds. Patricia Warwick et al. New
York: Harper & Row, 1978, 244-54.
Bianchi, Ruggero. Asimov. Firenze: La Nuova Italia, 1977.
David, Catherine. “Robots sin fabula: entrevista con Isaac Asimov.
Quimera 50(1982): 16-17.
Elms, Alan C. “From ‘Nightfall’ to Dawn: Asimov as Acrophobe”.
Extrapolation, 28,2(Summer 1987):130-39.
Fiedler, Jean et al. Isaac Asimov. New York: Ungar, 1982.
—. “Asimov’s Robots”. Crtical Encounters. Writers and Themes in Science
Fiction. Ed. Dick F. Riley. New York: Ungar, 1978, 1-22.
Gattegno, Jean. Saggio sulla fantascienza. Edizione italiana a cura di
Roberto Sanesi, Milano: Fabbri, 1975.
Gunn, James. The Road to SF #3. From Heinlein to Here. Garden City,
NY: Harlan, 1996.
—. Isaac Asimov. The Foundations of Science Fiction. Lanham, Md., and
London: Scarecrow, 1996.
50
Hassler, Donald. Isaac Asimov. Mercer Island, WA: Starmont House, 1991
[citato IA].
—. “Science Fiction and High Art”. Extrapolation, 28,2(Summer 1987):187195.
Lippi, Giuseppe. “L’uomo artificiale”. Introd. a Isaac Asimov, Abissi
d’acciaio. Milano: Mondadori, 1988, 5-10.
Pagetti, Carlo. Il senso del futuro. La fantascienza nella letteratura
americana. Roma: Edizioni di Storia e Letteratura, 1970.
Pergameno, Sandro. “I robot”, intr. a Robotica. I migliori romanzi e
racconti della fantascienza di tutti i tempi su robot, androidi e
macchine pensanti. A cura di Sandro Pergameno. Milano: Editrice
Nord, 1980, i-xxi.
Portelli, Alessandro. “Il presente come utopia: la narrativa di Isaac
Asimov”. Calibano (Il nuovo e il sempreuguale. Sulle forme letterarie
di massa), 2(Roma 1978): 138-89.
Rambelli, Roberta. “Nota del traduttore”. Postfaz. a Isaac Asimov, Io,
robot. Milano: Fabbri, 1989, 317-26.
Roberts, Adam. Science Fiction. London and New York: Routledge, 2000.
Robinson, Kim S. The Novels of Philip K. Dick. Ann Arbor, MI: UMI
Research Press, 1984.
Sante, Luc. “The Temple of Boredom”. Harper’s, 271(October 1985): 6671.
Scholes, Robert et al. Science Fiction. History-Science-Vision. New York:
Oxford U P, 1977.
Touponce, William F. Isaac Asimov. New York: Macmillan, 1991.
Valla, Riccardo. “Uomini e robot”. Introd. a Isaac Asimov, Asimov***. I
massimi della fantascienza. Milano: Mondadori, 1989, v-xvi.
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