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http://narrativa.giunti.it
Disponibile anche in versione ebook
In copertina: fotografia Archivio Giunti
Negli interni:
Napoli, Santa Lucia vista dalla rotonda Diaz sul lungomare
Fotografia dell’autore: © N. Ruggiero
Progetto grafico: Adria Villa
Mi aveva appena telefonato un amico.
«Ho perso il treno. Ma è stata una fortuna. C’è
tua madre qui con me. Sembra un po’ disorientata. Credo l’abbiano derubata.»
«Mia madre?» ripetei incredulo. Volai.
Mi sentivo come una foca alla deriva su un
frammento di ghiaccio del pack, circondata da
un branco di orche. Decisi che avrei chiesto a
mia moglie di stringere i denti e pazientare. Almeno il tempo necessario a scoprire dove mia
madre volesse andare la sera in cui aveva cercato di partire. Scoprirlo, e poi portarcela davvero.
Quel viaggio mancato – del quale nessuno conosceva la ragione, né tanto meno la destinazione
– rappresentava il suo ultimo desiderio. Dunque
era sacro. Bisognava esaudirlo a tutti i costi.
Flavio Pagano
Perdutamente
Perdutamente
flavio pagano (Napoli, 1962), è un
autore eclettico, che ha spaziato attraverso vari
generi letterari. Alcuni suoi lavori sono diventati spettacoli teatrali, e ha scritto anche per la tv.
Nel 2011 ha ricevuto il Premio speciale Elsa Morante-Isola di Arturo con il libro Ragazzi ubriachi. Per Giunti ha pubblicato nel 2012, con Alessandro Cecchi Paone, Il campione innamorato.
Autodidatta per vocazione, suona il violoncello
e il piano. Ha giocato a rugby, sua grande passione. Collabora con il Corriere del Mezzogiorno
e il manifesto. Vive a Napoli.
Una storia vera, una malattia
terribile e comune che
sconvolge la vita di una famiglia
napoletana, l’antidoto estremo
dell’ironia.
Flavio Pagano
la famiglia riscopre il proprio senso. Figli e
nipoti si trasformano in “badanti estremi”,
pronti a creare intorno all’anziana donna
un’incredibile messinscena per realizzare il
suo sogno di incontrare San Gennaro. Finché la lettera che lei aveva scritto prima di
tentare invano di partire spunta fuori. Una
lettera che svela tutta l’immensità dell’amore di una madre per i propri figli, e li
spinge più che mai a rimanere in trincea
fino all’ultimo, perdutamente accanto a lei.
ISBN 978-88-09-78565-6
9 788809 785656
60019Z
€ 12,00
ROMANZO
­ osa fare quando la persona che ci è più
C
cara si ammala, lottare fino all’ultimo, sognare addirittura di sconfiggere la malattia, o accettare che il distacco è un destino
ineluttabile, e che la vita continua? Perdutamente è un romanzo basato su una storia
vera che si svolge in una Napoli convulsa e
surreale, un inquietante modello di degenerazione metropolitana. È la storia di una
famiglia – tanto allargata quanto scombinata – che si trova ad affrontare una delle emergenze più frequenti della vita di
oggi: assistere l’anziana madre e nonna
che si sta ammalando di Alzheimer. Tutto
comincia con un viaggio che la donna ha
cercato di intraprendere in segreto. Viene
recuperata alla stazione, in stato confusionale, e nessuno riesce a capire dove volesse
andare o da chi. È un piccolo enigma, reso
più oscuro da una misteriosa lettera-testamento scomparsa, sul quale si favoleggia:
vecchi amanti, luoghi sacri del passato...
La malattia si aggrava, la convivenza con
la donna – che dentro la sua mente è tornata bambina ai tempi del fascismo – si fa
ingestibile, ma i suoi stravaganti familiari
vogliono scoprire la destinazione di quel
viaggio, e decidono di resistere. È l’occasione per un confronto struggente, eppure dai
risvolti esilaranti, che penetra nei lati più
riposti del rapporto tra genitori e figli. Ma
i figli di oggi, sono davvero capaci di essere
genitori o sono “figli per sempre”? Tra latitanza e inefficienza dello Stato, mentre si
consuma una delirante battaglia burocratica per ottenere la pensione d’invalidità,
Flavio Pagano
Perdutamente
http://narrativa.giunti.it
© 2013 Giunti Editore S.p.A.
Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia
Via Borgogna 5 – 20122 Milano – Italia
Prima edizione: settembre 2013
Ristampa
Anno
6 5 4 3 2 1 0
2017 2016 2015 2014 2013
«Chi ha coraggio di ridere, è padrone del mondo.»
Giacomo Leopardi, Pensieri (LXXVIII)
Illuminazioni
Tutto cominciò in un tardo pomeriggio di novembre.
Le luci dei negozi brillavano nell’aria lucida di pioggia,
il traffico sembrava impazzito, la gente si destreggiava con
l’ombrello.
La città era andata in tilt, come ad ogni maledetto temporale.
In un concerto assordante di clacson, scesi dal taxi bloccato in un ingorgo che sembrava ormai essersi pietrificato,
saltai il rigagnolo d’acqua sporca che scorreva di fianco al
marciapiede e corsi a prendere il metrò.
Mi aveva appena telefonato un amico.
«Ho perso il treno. Ma è stata una fortuna…»
Io non capivo.
«C’è tua madre qui con me. Sembra un po’ disorientata.
Credo l’abbiano derubata.»
«Mia madre?» ripetei incredulo.
«Ti aspetto,» disse lui «ma fa’ presto, altrimenti perdo
anche quello dopo.»
Volai.
Riemersi dalla metropolitana direttamente all’interno
della Stazione Centrale. E mi precipitai al binario 16.
Lei sedeva sull’ultima panchina, in fondo al marciapiede, avvolta nel suo cappotto scuro, con la mano poggiata
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sul bastone. Il mio amico le stava accanto in piedi, con la
ventiquattrore poggiata a terra tra le gambe, il bavero del
giaccone alzato. Non c’era nessun altro.
Stavano lì, immobili, sullo sfondo del vuoto improvviso
che si intravedeva al di là delle banchine, dove la città sembrava finire di colpo e le linee parallele dei binari parevano
perdersi nell’infinito di un’astrazione euclidea.
Mentre mi avvicinavo, l’immagine si faceva via via più
definita: misi a fuoco la lunga sciarpa di lana, le scarpe
ortopediche «da passeggio», i capelli bianchi che sfioravano le spalle.
Rallentai, per non sembrare troppo agitato. Ma mi sarebbe piaciuto arrivare di corsa, per rendere quel salvataggio più spettacolare, per far capire a mia madre quanto mi
aveva fatto spaventare col gesto assurdo di andarsene da
sola, di sera, alla stazione. Perché sapesse quanto le volevo
bene, e forse anche per farla un po’ sentire in colpa.
Immaginai persino di riportarla indietro in braccio, per
dimostrarle che la mia forza era tutta al suo servizio, che in
fondo era anche sua. Come al tempo in cui, da bambino,
era lei che mi sollevava e mi portava via, e che guidava i
miei primi passi nella vita. Quando bussava a tutte le porte
per far passare me, e il suo sguardo era l’infallibile setaccio
che separava il giusto dall’ingiusto.
Vivere sembrava così facile, lasciandosi portare per mano. Ma se non c’era lei, le porte non si aprivano.
E rimanevo fuori.
Mi passò davanti agli occhi un quarto della mia vita, mentre percorrevo quei cento metri scarsi. Intanto, pian piano,
anche lo sfondo della scena si delineava.
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Intravidi le sagome di locomotori immobili nell’ombra,
di vagoni abbandonati sui binari morti. Qua e là, sopravvissuti in mezzo alle strutture nuove, spiccavano i resti
fatiscenti della vecchia ferrovia. Un deposito fatto di mattoncini rossi, o un silos poggiato su una torretta di travi
in legno con i grossi bulloni arrugginiti, evocavano immediatamente il tempo in cui ogni cosa possedeva una grazia
artigianale, quando, bambina lei, ci si vantava di una bella
calligrafia, di saper fare i conti a mente, si coltivavano le
buone maniere.
Mi riconobbe. E subito s’illuminò. Sorrise. Di quel sorriso che nulla al mondo avrebbe potuto portar via dalle sue
labbra, mentre guardava me.
Il brusio della stazione – quella mutevole città nella
città, dove ogni giorno scorreva un popolo di centomila anime – si era quasi del tutto spento alle mie spalle. I
messaggi della voce registrata che avvisava i viaggiatori
di arrivi, partenze, ritardi e cambi di binario, non erano
ormai che echi confusi.
I miei passi rimbombavano sotto la pensilina. Le luci al
neon tingevano ogni cosa d’un riflesso perlaceo.
Un treno av dalle linee avveniristiche si mosse sul binario 15, scivolando via silenziosamente. Andava a Milano.
Un altro stava invece facendo il suo ingresso in stazione,
sul 17. Un vecchio regionale squadrato e rumoroso, che
proveniva da Caserta.
Raggiunsi la panchina. Mia madre mi accolse con uno
sguardo dolce, ma gonfio di stanchezza. Pallido di rassegnazione. Entrai nel suo campo gravitazionale, e subito
mi curvai verso di lei, poggiandole una mano sulla spalla.
«Mamma, ma che ci fai qua?» chiesi, sforzandomi di
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sorridere: «Dove volevi andare? Perché non ci hai detto
niente?».
Lei non rispose. La stavo mettendo in imbarazzo.
Tirò a sé il bastone con un gesto un po’ stizzoso, mentre con l’altra mano si aggrappava al manico della borsa
poggiata sulle ginocchia.
Non faceva poi così freddo, ma lei aveva i guanti. I suoi
guanti di pelle morbida, blu. Logori ed eleganti.
Da una tasca del cappotto spuntava una busta. Riconobbi subito la sua carta da lettera, quella avoriata, con le
iniziali incise, che mio padre le aveva regalato poco dopo
il loro matrimonio, e che lei aveva sempre custodito con
cura, senza usarla neanche una volta.
«Cos’è?» le domandai, indicandola.
Lei arrossì, e la infilò più dentro. Mi rimproverò con
un’occhiata. Ma non sapevo trattenermi.
«Mamma, ma dove volevi andare?» continuai a chiedere per inerzia, sedendomi accanto a lei, sul marmo gelido
della panchina. Il mio tono adesso era più affabile, ma le
domande continuavano a sembrare quelle di un inquisitore.
«Mi hanno derubata» rispose, guardando lontano. Il
labbro le tremava. Anche un po’ la testa.
«Mi dispiace…» L’ abbracciai. E maledivo quei bastardi,
che s’erano approfittati di una povera vecchia.
«Scusate, io devo scappare,» mormorò il mio amico «se
no riperdo il treno.»
Mia madre gli tese la mano con quella grazia nei puntini sospensivi dell’arrivederci, che solo le persone anziane
sanno avere.
«Grazie di tutto,» gli dissi anch’io «poi ci sentiamo con
calma. Ti chiamo. E grazie ancora.»
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Lui mi fece l’occhiolino, e s’inchinò leggermente mentre
salutava mia madre. Mi sembrò di essere davanti al predellino di un vagone dell’Orient Express.
Mentre il mio amico si allontanava in fretta, mia madre
sfilò la lettera dalla tasca del cappotto e la mise in borsa,
guardandomi sospettosamente con la coda dell’occhio. Poi
fece per alzarsi.
L’ a iutai. L’ a rtrosi la tormentava. Una volta in piedi,
prima di mettersi a camminare, doveva trovare il giusto
assetto.
«Torniamo a casa» disse inarcando leggermente un sopracciglio. C’era un tono di sconfitta nelle sue parole.
Pian piano ci dirigemmo verso l’uscita. Camminammo
sottobraccio, seguendo la linea gialla di sicurezza che correva lungo la banchina. Senza parlare. Procedendo con una
lentezza estenuante. Lei si aiutava col bastone.
Ma come aveva fatto ad arrivare fino alla stazione? Doveva aver avuto un motivo grave per compiere quel gesto
che, più ci pensavo, più mi sembrava folle. Erano anni che
non usciva di casa da sola.
Immaginai come doveva essersi sentita in mezzo a tutta
quella bolgia, quando la situazione le era sfuggita di mano. Stordita dal viavai, dai din-don degli avvisi acustici,
dai tabelloni dove all’improvviso le lettere si mettevano a
ruotare a velocità vertiginosa, componendo nuove parole
e numeri misteriosi. Mentre qualcuno nella folla riconosceva in lei una preda.
Alla fine, confusa, disorientata, s’era avviata chissà perché lungo il marciapiede del binario 16. E lì, sull’ultima
panchina, era finito il suo viaggio.
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Poi per fortuna il mio amico l’aveva vista. L’ aveva riconosciuta. M’aveva chiamato.
A metà percorso ci fermammo. Mia madre doveva riprendere fiato. Incrociammo una squadra di operai, e subito lei mutò la smorfia di fatica che quella breve camminata
le costava, in un sorriso affabile. Il suo senso del decoro era
incrollabile. Batteva di gran lunga la sofferenza dell’artrosi.
Non c’era storia.
Tutti in famiglia interpretammo il gesto di mia madre come una vera e propria fuga, una specie di tentativo d’evasione. Qualcosa di assolutamente clamoroso, insomma,
quasi un episodio da romanzo d’avventura, nonostante la
sua protagonista avesse ormai quasi ottantacinque anni.
A casa se ne discusse fino a tardi. Ma le domande rimasero intatte.
Perché era partita? Dove voleva andare? E cosa c’era
scritto, in quella lettera che s’era portata appresso?
Forse c’era qualcuno che voleva rivedere, o un luogo.
Doveva per forza essere così, lei non aveva mai preso
un’iniziativa simile in tutta la sua vita, e che l’avesse fatto
proprio adesso ci pareva assurdo. Non tanto per l’età, in
fondo, ma perché né io né mio fratello eravamo abituati a
vedere in lei una donna, una persona. Lei era nostra madre.
E niente più.
Per farmi una ragione di quell’improvviso desiderio di
partire, fantasticai di amori giovanili, gelosamente tenuti
nascosti, per anni e anni, dietro le quinte della sua vita.
Oppure di vecchie storie di famiglia, che io non conoscevo.
Doveva aver agito in preda a un’ansia irresistibile. L’ an14
sia causata dall’aver trovato finalmente il coraggio di far
qualcosa che forse non c’era più tempo di fare. E allora,
malgrado gli acciacchi, aveva stretto i denti e s’era lanciata
nell’impresa.
Per salvare un ricordo prezioso dalla deriva inesorabile
del tempo, forse. O per ritrovare un frammento del passato
ormai simile a un miraggio, e scomparire insieme a lui.
Come in un sogno.
Qualche giorno dopo, tornai sull’argomento.
«Mamma,» le chiesi «ma si può sapere dove volevi andare l’altra sera?»
«Me ne volevo andare via» rispose lei, con una rudezza
che non era nel suo stile. Stava seduta sulla solita poltrona
accanto al balcone, circondata dalle solite cose. Il mazzo
di carte sul tavolino ordinato.
«Andar via da cosa?»
«Da tutto» sospirò. E a un tratto mi guardò come volesse
chiedermi scusa.
Gli occhi le si illuminarono di malinconia. Voltò la testa,
fingendo di guardare fuori, attraverso i vetri del balcone,
dove un raggio di sole illuminava le fioriere traboccanti di
ciclamini rosa, il suo colore preferito. Nascose il viso con
la mano. Le tremava un po’ la testa, come accadeva da un
po’ di tempo quando si emozionava.
Sentii un flebile lamento. Mi guardai intorno spaesato,
come se non capissi da dove proveniva. Ma sapevo cos’era.
Era lei che piangeva.
In quel momento fu come se tra di noi si chiudesse silenziosamente un cancello. Compresi che non dovevo più
cercare di passare dall’altra parte del giardino. Eravamo
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giunti sulla soglia di un confine invalicabile. Non tale perché fosse impossibile attraversarlo, ma perché potevamo
farlo solo vicendevolmente. Capii che se io l’avessi varcato
in un senso, lei l’avrebbe varcato in quello opposto. Certi
meccanismi, certi legami, impediscono di allontanarsi,
ma anche d’incontrarsi. Ci tengono uniti come fossimo
pianeti. Ci fanno ruotare su noi stessi, cadendo all’infinito
l’uno intorno all’altro. È il gioco delle parti, pensai. È la
famiglia.
Il confine che io e mia madre avevamo incontrato non
separava i nostri corpi, ma le nostre orbite interiori. Era un
confine fatto di specchi. Specchi strani, capaci di riflettere
anche le ombre.
Non dovevo insistere. Ognuno ha diritto di custodire
intatta una zolla della propria solitudine. Ognuno ha diritto di difendere i propri segreti. Lei era alla sua foce. E
non le domandai più nulla.
Il vero tormento del destino non è nei luoghi di passaggio, ma nel rimanere immobili. Non c’è ragione di temere
il cambiamento. Il cambiamento è vita. E tutto ciò che occorre, a volte, è solo l’umile coraggio di compiere il piccolo,
magico gesto di tacere. Rimanere in silenzio. Quel silenzio
che è l’unica possibilità di sopravvivere, quando sentiamo
sfuggirci il senso della nostra esistenza, ma non vogliamo
rinunciare all’ottimismo di pensare che in fondo, nel divenire di tutte le cose, noi restiamo noi; e che è proprio quel
silenzio a renderci padroni del nostro destino, dei nostri
sogni, della nostra voglia di vivere, e ci libera dal timore di
perderci nell’immensità che si nasconde in ogni incontro.
E in ogni addio.
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Avrei voluto farle una carezza, ma non sapevo come. Dove?
Sui capelli, sulla guancia, forse sulla mano?
Esitavo, e più esitavo, più mi veniva voglia di parlare.
Avevo voglia di prometterle qualcosa di assoluto, di dirle
che non l’avrei mai abbandonata, che le avrei restituito
tutta la certezza dell’amore che avevo ricevuto da lei ogni
istante della mia vita. Voglia di consolarla con quella stessa
frase che un tempo, detta da lei, sapeva consolare me di
tutto: «Non devi aver paura, ci sono io con te».
Riuscii a tacere, ma la carezza non seppi fargliela. E ormai, mentre sedevo ancora accanto a lei, già scivolavo via,
allontanandomi lungo l’ellissi della mia orbita interiore.
Lei mi guardò. Sembrò capire tutto. Capire me, come
sempre, ben al di là di ciò che io sapevo di me stesso.
«Ho scritto una lettera» mi disse «per te e tuo fratello.»
«Quella che avevi in tasca alla stazione?» le domandai.
«Quale stazione?» chiese lei.
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Negli interni:
Napoli, Santa Lucia vista dalla rotonda Diaz sul lungomare
Fotografia dell’autore: © N. Ruggiero
Progetto grafico: Adria Villa
Mi aveva appena telefonato un amico.
«Ho perso il treno. Ma è stata una fortuna. C’è
tua madre qui con me. Sembra un po’ disorientata. Credo l’abbiano derubata.»
«Mia madre?» ripetei incredulo. Volai.
Mi sentivo come una foca alla deriva su un
frammento di ghiaccio del pack, circondata da
un branco di orche. Decisi che avrei chiesto a
mia moglie di stringere i denti e pazientare. Almeno il tempo necessario a scoprire dove mia
madre volesse andare la sera in cui aveva cercato di partire. Scoprirlo, e poi portarcela davvero.
Quel viaggio mancato – del quale nessuno conosceva la ragione, né tanto meno la destinazione
– rappresentava il suo ultimo desiderio. Dunque
era sacro. Bisognava esaudirlo a tutti i costi.
Flavio Pagano
Perdutamente
Perdutamente
flavio pagano (Napoli, 1962), è un
autore eclettico, che ha spaziato attraverso vari
generi letterari. Alcuni suoi lavori sono diventati spettacoli teatrali, e ha scritto anche per la tv.
Nel 2011 ha ricevuto il Premio speciale Elsa Morante-Isola di Arturo con il libro Ragazzi ubriachi. Per Giunti ha pubblicato nel 2012, con Alessandro Cecchi Paone, Il campione innamorato.
Autodidatta per vocazione, suona il violoncello
e il piano. Ha giocato a rugby, sua grande passione. Collabora con il Corriere del Mezzogiorno
e il manifesto. Vive a Napoli.
Una storia vera, una malattia
terribile e comune che
sconvolge la vita di una famiglia
napoletana, l’antidoto estremo
dell’ironia.
Flavio Pagano
la famiglia riscopre il proprio senso. Figli e
nipoti si trasformano in “badanti estremi”,
pronti a creare intorno all’anziana donna
un’incredibile messinscena per realizzare il
suo sogno di incontrare San Gennaro. Finché la lettera che lei aveva scritto prima di
tentare invano di partire spunta fuori. Una
lettera che svela tutta l’immensità dell’amore di una madre per i propri figli, e li
spinge più che mai a rimanere in trincea
fino all’ultimo, perdutamente accanto a lei.
ISBN 978-88-09-78565-6
9 788809 785656
60019Z
€ 12,00
ROMANZO
­ osa fare quando la persona che ci è più
C
cara si ammala, lottare fino all’ultimo, sognare addirittura di sconfiggere la malattia, o accettare che il distacco è un destino
ineluttabile, e che la vita continua? Perdutamente è un romanzo basato su una storia
vera che si svolge in una Napoli convulsa e
surreale, un inquietante modello di degenerazione metropolitana. È la storia di una
famiglia – tanto allargata quanto scombinata – che si trova ad affrontare una delle emergenze più frequenti della vita di
oggi: assistere l’anziana madre e nonna
che si sta ammalando di Alzheimer. Tutto
comincia con un viaggio che la donna ha
cercato di intraprendere in segreto. Viene
recuperata alla stazione, in stato confusionale, e nessuno riesce a capire dove volesse
andare o da chi. È un piccolo enigma, reso
più oscuro da una misteriosa lettera-testamento scomparsa, sul quale si favoleggia:
vecchi amanti, luoghi sacri del passato...
La malattia si aggrava, la convivenza con
la donna – che dentro la sua mente è tornata bambina ai tempi del fascismo – si fa
ingestibile, ma i suoi stravaganti familiari
vogliono scoprire la destinazione di quel
viaggio, e decidono di resistere. È l’occasione per un confronto struggente, eppure dai
risvolti esilaranti, che penetra nei lati più
riposti del rapporto tra genitori e figli. Ma
i figli di oggi, sono davvero capaci di essere
genitori o sono “figli per sempre”? Tra latitanza e inefficienza dello Stato, mentre si
consuma una delirante battaglia burocratica per ottenere la pensione d’invalidità,