kariba - the struggle with the river god
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kariba - the struggle with the river god
FRANK CLEMENTS KARIBA - LA LOTTA COL DIO FIUME INTRODUZIONE INTRODUZIONE 7 I PRECURSORI 9 I. I PRIMI PASSI La storia della costruzione della diga di Kariba è LA GRANDE DISPUTA qualcosa di più del semplice racconto di una grande realizzazione tecnica. La lotta, descritta GARZANTI PRIME SCARAMUCCE nelle pagine che seguono, fra un dio primitivo e PREPARATIVI PER LA l'uomo contemporaneo non è, come un lettore BASE LOGISTICA esigente potrebbe pensare, un pretesto letterario. Nell'immaginazione di milioni di africani, questa ARRIVANO GLI ITALIANI lotta fu non meno reale del conflitto fra LO SPOSTAMENTO Sant'Antonio e il demonio per milioni di cristiani. DELLE TRIBÙ La maggior parte degli indigeni crede nei vecchi LO SPIEGAMENTO dèi della tribù, ma è anche consapevole del potere DELLE FORZE e dell'autorità degli uomini bianchi che si sono stabiliti in Africa. Gli aspetti superficiali della IL PRIMO ASSALTO cosiddetta civiltà non libereranno l'africano dalle DIETRO LE LINEE sue paure ataviche e dalla brutalità né lo IL DIO ADIRATO compenseranno della perdita dei suoi rigorosi codici morali. Per lui è facile assimilare il peggio ESSI MORIRONO A dei due mondi, quanto diffìcile decidere che cosa GWEMBE valga la pena di conservare del vecchio e accettare NYAMINYAMI DOMATO del nuovo. Per molte generazioni, l'africano più semplice giudicherà solo dai risultati, e tutti gli UNA DIVISIONE NEI africani, tranne qualche eccezione, sono dei RANGHI semplici nel significato migliore e più tradizionale OPERAZIONE NOÈ della parola. Nyaminyami, il dio fiume dello LE CAMPANE DI SANTA Zambesi, per loro non è una pittoresca leggenda. BARBARA Come Jehova, egli personifica le forze soprannaturali. IL FIUME IN PACE Gli indigeni credevano e credono tuttora che egli fosse contrario alla costruzione della diga, e che avrebbe sfogato la sua ira su coloro che lo sfidavano. Per gli ingegneri francesi, italiani e inglesi che costruirono la diga, la piena del 1958 fu un evento sfortunato, ma per i Batonka e per cento altre tribù fu la chiara manifestazione della collera divina. Si potrebbe meditare sul fatto che la piena del 1957, che danneggiò i lavori preparatori della diga, fu la più alta registrata sino allora e che quella del 1958, sopravvenuta nel 23 II. 33 III. 43 IV. 55 V. 65 VI. 77 VII. 93 VIII. 103 IX. 117 X. 129 XI. 143 XII. 155 XIII. 171 XIV. 183 XV. 201 XVI. 215 XVII. Indice delle 30 illustrazioni, a fondo di questa pagina. E 2 223 cartine Indice ([...1] e [...2]) PRIMA EDIZIONE: MAGGIO 1960 Traduzione dall'inglese di Helen Dennis Guglielmini Titolo originale dell'opera: KARIBA THE STRUGGLE WITH THE RIVER momento più critico dei lavori, fu così eccezionale GOD quale si può verificare soltanto una volta ogni (Methuen & Co. Ltd., London, 1959) diecimila anni. Tuttavia - e su questo non c'è Proprietà letteraria riservata dubbio - l'una e l'altra erano state profetizzate dai Printed in Italy, 1960 sacerdoti delle vecchie divinità africane. La grande piena non fu un incidente isolato. La storia della diga è la storia di una serie di brillanti FINITO DI STAMPARE IL 10 successi contro difficoltà imprevedibili. Molti MAGGIO 1960 NELLE OFFICINE degli stessi ingegneri erano ossessionali dall'idea GRAFICHE ALDO GARZANTI di combattere una strana lotta che veniva ad EDITORE IN MILANO aggiungersi al lavoro da essi considerato normale, all'inizio. Anche ora che la diga è finita, la loro soddisfazione è adombrata da un senso di rammarico. Questi uomini positivi, venuti da "A ELIZABETH, che Londra, Parigi, Milano, Siena e Grenoble, sanno partecipò all'ingrato di aver creato ma di avere anche distrutto. Hanno lavoro e ne sostenne lo l'impressione di aver tenuto testa a una forza cieca sforzo" e barbara, e pur meravigliosa, che hanno imparato ad ammirare. Il fiume è stato sbarrato e il grande bastione a Kariba si erge come un monumento al genio dell'uomo bianco, ma sono pochi in Africa ad asserire che Nyaminyami sia stato sconfitto, e molti credono che si vendicherà ancora. Questo strano conflitto nell'animo degli uomini accompagna, su un altro piano, la lotta materiale per il dominio di un continente, gran parte del quale è ancora una sopravvivenza del mondo della preistoria. Dobbiamo tener presente tutto questo per capire ciò che è successo a Kariba. CAPITOLO PRIMO I PRECURSORI Il capitano portoghese Manuel Baretto, in un dispaccio dell'11 dicembre 1667 al suo viceré, scrive che lo Zambesi a metà del suo corso attraversa un paese «dove possono soltanto volare uccelli e strisciare serpenti». Nel centro di questo paese sta la gola di Kariba, e pur tenendo conto del gusto latino per la bella frase, le parole di Baretto fino a dieci anni fa potevano essere ancora appropriate. In quel luogo è stato costruito uno sbarramento alto 126 metri, con uno sviluppo in cresta di 580 metri, largo 24 metri alla base, con un volume di un milione di metri cubi di calcestruzzo: la diga ad arco di Kariba, che crea un lago lungo 282 chilometri con una superficie di oltre 5.700 chilometri quadrati. La costruzione, che sarebbe già di notevole mole se situata in qualsiasi centro industriale, è stata eretta in una delle più selvagge e meno accessibili regioni dell'Africa centrale, priva di strade, di energia elettrica, di qualsiasi comodità, perfino delle semplici capanne di fango ed erba dei villaggi Batonka. Kariba non è soltanto un luogo isolato dal mondo; per le tribù che abitano la vallata dello Zambesi quella zona è sempre stata associata all'idea del pericolo e della paura. Molte sono le leggende che su di essa vengono raccontate dai vecchi, la sera, attorno ai fuochi dei villaggi. La stessa parola «Kariba» significa minaccia, qualunque interpretazione ne diano gli esperti dei dialetti bantu. La nomenclatura, nelle due Rhodesie, così come in tutta l'Africa, permette molta libertà di scelta e ci sono tante varianti del nome della gola quante a suo tempo ce n'erano del nome di Shakespeare. Kariuwa e Kariwa sono le più comuni, e l'ultima, benché forse la meno usata, è probabilmente la più vicina alla pronuncia africana. Tutte le leggende sul nome si riferiscono a una roccia che emerge dai gorghi all'ingresso della gola, in prossimità della diga, e che ora è sepolta oltre trenta metri sotto la superficie del lago nascente. In molte leggende questa roccia era considerata il quartier generale del grande dio fiume Nyaminyami, il quale faceva inabissare nella profondità delle acque le canoe e gli uomini che si avventuravano nelle vicinanze. Talora la roccia era considerata tutt'uno col dio, e associata, nell'immaginazione degli indigeni, con la fatalità, il disastro e il terrore. Per i vecchi, questa roccia era una delle tre che formavano una specie di ponte attraverso la gola e che somigliavano alle trappole usate per catturare gli uccelli e i piccoli animali. «Riwa» è quella parte della trappola che, quando scatta, cade addosso alla vittima e la schiaccia. Molto probabilmente, quindi, Kariba ebbe in un primo tempo il significato di trappola fatale per l'uomo. Pochi indigeni, per non dire nessuno, osavano avventurarsi con le loro rozze canoe oltre la barriera rocciosa, e quegli intrepidi che sfidavano la superstizione venivano quasi sempre ghermiti dai gorghi del fiume, terribili per i Batonka quanto Scilla e Cariddi per gli antichi greci. Gli enormi coccodrilli che infestavano la gola facevano scomparire ogni traccia degli sventurati. Quanto fosse appropriato quel nome mi fu spiegato, con la sua viva immaginazione, da Andre' Coyne, il grande ingegnere civile francese, principale autore del progetto della diga. Nel descrivere le sue impressioni di quando, nel 1954, si trovò per la prima volta sulle alture sovrastanti la gola, egli disse: «Guardando in giù mi sembrava di vedere una trappola rabbiosa» Egli non conosceva ancora le leggende riguardanti la gola, che certamente è una «trappola», tanto insidiosa che l'intera potenza della tecnica moderna fu quasi sopraffatta dalle forze primordiali e selvagge dell'Africa. La ricchezza di leggende orali che riguardano Kariba, contrasta con la povertà dei documenti scritti. Un bambino rhodesiano che abbia frequentato le scuole durante l'ultima guerra con tutta probabilità non ne ha mai sentito parlare e al massimo ne conoscerà solo il nome. Ma la storia dello Zambesi è lunga. Nel 1498 Vasco de Gama giunse sulle coste di quello che oggi è il Mozambico; nei vent'anni successivi i portoghesi penetrarono nel regno di Monomotapa, il quale colpì a tal punto la fantasia dei primi geografi che essi inventarono per lui un impero di tipo europeo: Monomotapa è infatti una creazione dei portoghesi, che adattarono alla loro lingua il nome di qualche capo e lo usarono poi per designare il sovrano della tribù più potente del favoloso territorio. Il suo impero fu identificato col biblico Ophir da dove proveniva l'oro col quale la regina di Saba fece tanta impressione su Salomone. Molte miniere d'oro della Rhodesia del Sud sono antichissime ed è probabile che quelle del rè Salomone, se avevano una precisa ubicazione, si trovassero appunto in Rhodesia. Nel 1531, i soldati e i mercanti portoghesi si ciano inoltrati lungo lo Zambesi sino a Tete e Sena; nel 1540 venne fondata la Compagnia di Gesù, che fu strettamente legata all'esplorazione di questa parte dell'Africa; nel 1560 Padre Sylveira battezzò, e fu strangolato un anno dopo, il Monomotapa regnante, i cui successori furono cristiani solo di nome e alleati poco fidati dei portoghesi. Nel 1832 si trova ancora un cenno all'ultimo debole rappresentante di questo nome, un tempo tanto orgoglioso. Per trecento anni le rive dello Zambesi e la regione circostante furono bagnate dal sangue di martiri e soldati portoghesi, unito a quello di indigeni e schiavi africani. Il sangue delle due razze si mescolò anche nei numerosi sangue-misti che sfruttavano il paese in nome di una fedeltà puramente nominale al Portogallo. A quei tempi in Africa non esistevano frontiere, ma Kariba, se avesse dovuto appartenere a qualcuno, fino a poco più di cento anni fa sarebbe stata considerata parte dell'impero portoghese. Il primo indizio di ciò che sarebbe accaduto nel futuro e della provenienza dei nuovi coloni europei, fu dato, nel 1661, dall'arrivo di una spedizione boera nell'attuale Rhodesia. Quella, però, fu una semplice incursione. Promotore della penetrazione inglese nell'Africa centrale fu David Livingstone. Egli affermò nei suoi scritti che i portoghesi non esercitavano un controllo effettivo, e richiamò l'attenzione dei nomadi avidi di terra e degli avventurieri del Sud, sia afrikaner che inglesi, sulle ricchezze potenziali di quelle regioni la cui povertà spirituale era stata la sua più grande preoccupazione. È improbabile che Livingstone sia mai entrato nella gola di Kariba, pur essendovi passato vicino, e il nome di Kariuwa che egli menziona, potrebbe benissimo riferirsi a un'altra gola più a valle. La topografia dello Zambesi è tuttora incerta; ma nel 1898, Kariba era sconosciuta a tal punto che un certo maggiore Gibbons, nel corso di una spedizione lungo il fiume, scoprì che la gola era a oltre venti chilometri dalla posizione comunemente accettata. Circa venti anni dopo il viaggio di Livingstone, fu Selous, il grande cacciatore, che penetrò infine nella gola, il 24 novembre del 1877. Lo stato selvaggio delle regioni lungo lo Zambesi al tempo degli ottuagenari tuttora viventi è rivelato dal seguente passo preso a caso nel libro di Selous «Peregrinazioni di un cacciatore nell'Africa». Poco dopo una razzia di schiavi effettuata per conto dei portoghesi, egli visitò la terra dei Batonka, la tribù che negli anni 19571958 ha dovuto spostarsi in nuovi villaggi, lungi dalle acque crescenti del lago creato dall'uomo. «22 novembre. Nel pomeriggio passammo per molti villaggi bruciati e trovammo sul sentiero i resti di due Batonka. Le belve avevano trascinato tutti i corpi nella boscaglia» Poi aggiunge schifiltosamente: «...il fetore era spesso insopportabile» Più avanti egli descrive un gruppo di schiave: «Ogni donna aveva un anello di ferro attorno al collo, e tra l'una e l'altra c'era circa un metro e mezzo di catene. Per tutto il tempo che trascorremmo sul luogo non le sciolsero mai; la mattina le mandavano a zappare in un campo di grano sulla sponda meridionale, ed esse lavoravano tutta la giornata, in fila. La sera le chiudevano a chiave, sempre incatenate, in una specie di granaio grande e quadrato. Dalla veranda pendevano tre grosse fruste di ippopotamo, annerite dal sangue» Tale era la sorte delle più deboli tribù dell'Africa centrale sino a quando, nel 1890, una colonna di pionieri mandata dal Sud da Cecil Rhodes, alla quale era aggregato come guida lo stesso Selous, entrò nel Mashonaland e iniziò la creazione delle moderne Rhodesie. L'ultima carovana di schiavi sparì dal territorio portoghese circostante non prima del 1912. È incredibile quanto l'Africa sia vicina a quello stato di barbarie che gli europei generalmente attribuiscono a un remoto passato e quanto sia labile la memoria di coloro che condannano tutto ciò die hanno compiuto i rhodesiani di pelle bianca. «Va' al nord, giovanotto!» Così si diceva in Africa nel periodo in cui i colonizzatori degli Stati Uniti spingevano le loro frontiere verso occidente. Quando il potere inglese si fu stabilito saldamente a Fort Salisbury - che oggi, perduto il prefisso militaresco, è diventata la capitale della Federazione delle Rhodesie e del Niassa - i riferimenti a Kariba divennero più frequenti man mano che gli avventurieri penetravano nel nord. La prima ricognizione ufficiale alla gola fu eseguita da William Keppel Steer che nel 1891 esaminò la possibilità di costruire una strada ferrata che attraversasse lo Zambesi a Kariba. Benché la zona non gli piacesse, l'idea di attraversare lo Zambesi con un ponte ferroviario in quel punto attirò verso la gola numerose spedizioni di periti. La relazione del viaggio compiuto dal maggiore A. Gibbons nel 1898 e 1899, che ebbe tra l'altro l'obiettivo di «scegliere un tracciato per il progetto preliminare dello Zambesi», ci dà la prima testimonianza scritta sul dio Nyaminyami, che ha un'importanza così grande nella storia della diga di Kariba. Egli scrive: «...una barriera rocciosa si erge d'un tratto dalle torbide e cupe acque del fiume; alla sua base, entro pochi metri, la corrente forma un vortice. Qui, dicevano i boys, è il quartier generale del grande dio del fiume, e di tutte le imbarcazioni che sono scese entro questi sacri recinti, né scafi, né carichi, né corpi umani si sono mai ricuperati. I portoghesi - nome col quale suppongo che si volesse indicare la specie negra - vi gettavano sempre vino e tessuti per propiziare i morti. Avrei anch'io fatto altrettanto? Alla mia risposta negativa il loro volto esprimeva la convinzione che prima o poi ci avrebbe colti qualche disgrazia» Un altro legame fra quella prima spedizione e il progetto contemporaneo è dato da una vecchia caldaia a vapore. La spedizione del maggiore Gibbons tentò di forzare il primo passaggio a monte della gola con una imbarcazione di undici metri formata di due lance unite. Il tentativo fallì, benché, per alleggerire l'imbarcazione che si chiamava Constance, fosse stata buttata in acqua a Kariba la caldaia di ricambio. Una cinquantina di anni dopo, un ingegnere incaricato degli studi preliminari per rimpianto idroelettrico della gola di Kariba trovò la caldaia intatta, sulla riva sinistra, circa sei metri sopra il livello di magra. La fece togliere e portare al campo, e di lì a Salisbury, perché fosse consegnata al museo. Disgraziatamente fu lasciata in qualche cortile della città, e poco dopo sparì, forse rubata perché di rame. Chi conosce il vecchio e cadente museo di Salisbury, che in un solo edificio accoglie - in un comune stato di decrepitezza - quasi tutti gli stili architettonici conosciuti, potrebbe non a torto supporre che il direttore non battè ciglio alla notizia della sparizione del cimelio, per la semplice ragione che se avesse dovuto sistemarlo dove era stato destinato, avrebbe corso il rischio di vedersi rovinare sulla testa le sovraffollate sale del museo. Nello stesso periodo della spedizione del maggiore Gibbons, Sir Charles Metcalf eseguì un altro sopraluogo alla gola, dopo di che non si sentì quasi più parlare di Kariba fino al 1914. Ma la polizia e i funzionari del Dipartimento per gl'indigeni cominciavano a interessarsi di quella località. Per l'abbondanza della cacciagione, essa divenne méta di cacciatori di frodo in cerca di avorio e dei taciturni e solitari «bundu-bashers» - come li chiamano in Rhodesia - che venivano a cacciare, esplorare e occuparsi dei loro non sempre legittimi affari, facendosi vedere a lunghi intervalli di tempo nella città a ubriacarsi, acquistare provviste e munizioni, per poi sparire di nuovo nella boscaglia, fino all'ultimo viaggio dal quale non sarebbero più tornati. Probabilmente la maggior parte perivano di febbri tropicali, o in fatali contese con i concorrenti, o vittime di elefanti, bufali o rinoceronti; o, rovesciandosi la canoa, venivano ghermiti dal fiume o da un coccodrillo; o sorpresi da qualche serpente velenoso. Breve o lunga che fosse l'agonia, facevano sempre una morte solitaria. Qualche volta gli indigeni li seppellivano - di solito ai piedi di un baobab - e ne segnavano le tombe. Parecchie di queste patetiche sepolture senza nome sono state messe in luce dai diboscamenti nei tratti del nuovo lago destinati alla pesca commerciale, e decine di esse rimarranno sconosciute per sempre, venti o trenta tese sotto le acque del lago. Molti di quegli uomini conoscevano Kariba, ma non ne svelarono il segreto. La prima vera minaccia alla gola inviolata venne da un rapporto scritto nel 1912 da H. S. Keigwin, il commissario per gl'indigeni a Sinoia, un piccolo paese a 130 chilometri a nord di Salisbury. Kariba si trovava nel suo distretto ed egli ne fece un attento studio. «Questo paese offre interessanti prospettive agli esperti di irrigazione» egli scrisse. «Lo sbarramento dello Zambesi alla gola di Kariba, dove il fiume s'infila in uno stretto canale di circa trenta metri, chiuso fra le rocce, può essere la base di un progetto di irrigazione della vallata che infiammerebbe la loro immaginazione» Nessuna immaginazione si accese di fiamma creativa, però il direttore dell'Ufficio colonizzazione della Compagnia britannica del Sud Africa, che allora governava la Rhodesia del Sud, iniziò una nuova pratica. Egli vedeva grandi possibilità di produzione di zucchero nel terreno alluvionale della vallata dello Zambesi. (Oggi a Chirundu, circa 65 chilometri a valle di Kariba, le verdi piantagioni di canna da zucchero rompono il grigio paesaggio della foresta di mopani). Fece una inchiesta, e stese un rapporto. Nel 1913 organizzò una spedizione a Kariba, composta dagli ingegneri Randall e Howell, entrambi esperti di irrigazione, e dal signor McGregor, proprietario di piantagioni di canna da zucchero nell'Africa Orientale Portoghese. Nel giugno 1914, sir Charles Metcalf telegrafò da Londra che, insieme col colonnello on. Everard Baring, desiderava dare un'altra occhiata a Kariba in relazione al progettato prolungamento della ferrovia attraverso lo Zambesi, prolungamento che, al contrario della produzione dello zucchero, non è stato ancora realizzato. Probabilmente il colonnello fu distratto dagli eventi europei, ma sir Charles venne in Rhodesia, e trovò che Howell si era già dato da fare per l'organizzazione dei trasporti. Il commissario per gl'indigeni, Keigwin, fornì cento portatori. Vennero noleggiati cinque muli da sella, ed altri da traino: otto per un'«ambulanza», sei per un carro a due ruote, e altri otto per un carro a quattro ruote. Howell si permise di domandare in un appunto se sir Charles avrebbe cavalcato un mulo oppure avrebbe richiesto una «machila», specie di lettiga preferita da quegli esploratori vittoriani che non ritenevano incompatibile per l'uomo bianco essere trasportalo come una soma. Sir Charles, che già si considerava un vecchio esperto di Kariba, disprezzò la «machila». La spedizione arrivò a Kariba il 22 settembre, pressappoco con la stessa velocità delle armate germaniche, che avanzavano attraverso le pianure dell'Europa settentrionale. Affari più urgenti sviarono l'attenzione degli organi ufficiali dal loro rapporto, ma non dal rendiconto delle provviste. Il povero Howell fu tormentato dalla necessità di giustificare la perdita di tre zanzariere, e alla fine, tristemente, avanzò la «supposizione» che i signori Randall, McGregor e sir Charles si fossero tenute le loro! D'altra parte non si può negare che la spedizione era ben fornita, se egli annota che "diciassette bottiglie di whisky avanzate erano state vendute vantaggiosamente, dieci a 6 scellini e 3 pence la bottiglia, e sette a 6 scellini e 6 pence": un rapido aumento nel prezzo di una necessità rhodesiana, che denota come la guerra già cominciasse a infliggere le sue privazioni. L'ingrata amministrazione continuò a discutere sino al luglio del 1915 in merito a una spesa di Lire st. 6, 10 scellini e 3 pences per i portatori usati da sir Charles. Alla fine la somma venne addebitata con riluttanza all'Ufficio Colonizzazione, e fu forse la prima spesa a carico di fondi pubblici cui diede luogo il progetto di Kariba. La spedizione del 1914 non diede alcun risultato, ma l'impressione lasciata dal rapporto di Keigwin non si cancellò negli uffici dell'amministrazione rhodesiana. Le risorse non sfruttate del paese costituivano un patrimonio che un giorno sarebbe stato sicuramente utilizzato. Si dovette però attendere fino al 1927 perché venisse fatto un altro tentativo di studiare le possibilità offerte dalla gola, questa volta come fonte di energia idroelettrica. Sembra che l'idea fosse stata espressa per la prima volta dal Sindacato dei Metalli della Rhodesia, allora proprietario delle miniere di rame della Regina oltre Sinuia. Invitate a cooperare a un sopraluogo esplorativo organizzato dal sindacato, le autorità misero a disposizione l'opera di un giovane ingegnere del Dipartimento Irrigazione, arrivato nel paese quattro anni prima. Si chiamava P. H. Haviland e proveniva da Johannesburg. Più tardi, egli lasciò il servizio attivo per divenire capo del dipartimento nel 1944. Quando si ritirò nel 1952, Kariba non era più un sogno o un programma di là da venire, ma un progetto realizzabile. Con i suoi occhi vivi, le maniere brusche e un asciutto sorriso pieno di humour, egli è ancora attivo in Salisbury, dove oggi esercita la professione come consulente. Ricorda bene il suo viaggio a Kariba col rappresentante del sindacato W. R. Grigor Taylor. In quel tempo vi erano solo quattro o cinque persone che conoscevano veramente il luogo, e il viaggio fu, soprattutto dal punto di vista professionale, un viaggio verso l'ignoto. Fino alla miniera di Katkin, dove tre europei tenevano il più avanzato posto della civiltà, gli ingegneri poterono viaggiare con un camion, ma dopo, il loro modo di procedere non differì molto da quello usato da Livingstone. Quaranta portatori reggevano sulla testa provviste ed equipaggiamento. Il grave problema logistico dei lunghi viaggi attraverso le foreste africane era che un portatore, caricato di viveri sufficienti al suo consumo, poteva aggiungere ben poco o nulla al loro peso. Così era invalso l'uso di portare merci che potessero essere scambiate con farina, l'alimento base degli africani, in quantità superiore al rapporto di peso, e di affidarsi, per la carne, alla capacità venatoria del capo della spedizione. I portatori di Haviland si portavano dietro stoffe economiche, asce e sale, molto ricercato nella vallata, mentre lui aveva una riserva di ninnoli e coltelli da regalare ai capi e ai notabili che incontrava lungo il cammino. Al visitatore di un villaggio africano veniva sempre offerto un dono, e ragioni di prestigio, oltre che di buona educazione, richiedevano che il gesto fosse contraccambiato. Sarebbe difficile per l'autista che oggi corre lungo le nuove strade asfaltate della Rhodesia, immaginare come fossero complicati, appena una generazione addietro, i preparativi per un viaggio di centosessanta chilometri verso le rive scoscese dello Zambesi. Oggi i due uomini potrebbero con un'ora di volo da Salisbury raggiungere la vallata, ed essere di ritorno in pochi giorni, dopo aver compiuto la loro missione. Nel 1927, essi dovevano procedere faticosamente attraverso la fitta foresta di mopani lungo i tortuosi sentieri che correvano da un villaggio all'altro. Erano ben fortunati se trovavano in qualche tribù un indigeno disposto a guidarli per un'intera giornata: i più si limitavano a due o tre ore di cammino sino ai confini del territorio da essi conosciuto. Si mettevano in movimento alle prime luci, con gli abiti intrisi di rugiada, e al sorgere del sole erano già in un bagno di sudore. Non superavano mai i ventiquattro chilometri al giorno; a volte ne facevano appena una diecina. La marcia era ritardata non soltanto dall'asprezza del terreno, ma anche dalle lunghe operazioni per porre e levare l'accampamento, dallo scambio di cortesie con i notabili, cerimonia sempre lenta e complicata, e dalle deviazioni nella boscaglia in cerca di selvaggina. Quando all'imbrunire i fuochi diventavano più luminosi e i tratti di cielo fra l'intrico dei rami della foresta diventavano morbidi cuscini per le splendide stelle africane, echeggiavano fra gli alberi le voci acute dei portatori che raccontavano le avventure della giornata, ripetevano all'infinito le vecchie leggende, o emettevano strani suoni, spesso simili alle canzoni che accompagnano i giuochi dei bambini. Appena i portatori tacevano, e nel campo l'unico rumore era quello dell'uomo che alimentava i fuochi gettandovi altra legna, o il mormorio sonnolento dei due ingegneri, la boscaglia si animava della vita rumorosa dei suoi invisibili abitatori. Sul ronzio degli insetti notturni e dei grilli, risuonava da qualche palude vicina il gracidare rauco delle rane tropicali, mentre schianti e barriti lontani annunciavano ravvicinarsi di una mandria di elefanti o le esplorazioni dii lina famiglia di ippopotami che durante la notte lasciavano il fiume per pascolare. Lo scalpitio veloce di zebre o antilopi che fuggivano invase dal panico indicava la presenza di un leone o un leopardo in cerca di preda. Poi, improvviso, tra i persistenti e furtivi rumori della foresta, giungeva un urlo lacerante di terrore, seguito da un terrificante ruggito di trionfo e di orgoglio: la nuova vittima era sacrificata. Il grido più snervante era quello del babbuino quando cadeva tra le grinfie di un leopardo, perché molto simile al grido di dolore di un essere umano. Il grande felino, come il suo parente più piccolo, ha l'abitudine di trastullarsi con la propria vittima, cosicché possono passare anche dieci minuti prima che l'urlio e il disperato piagnucolio svaniscano nel silenzio, lasciando l'ascokatore con un senso di strana colpevolezza per essere stato li senza scomporsi. Haviland racconta due episodi, che fra non molto non faranno più pane della viva esperienza ma diverranno un ricordo del passato. Il primo riguarda il «telegrafo della foresta», espressione con la quale si usa designare il sistema e la velocità, ancora inspiegati, con cui gl'indigeni trasmettono messaggi da un luogo all'altro attraverso il paese. Arrivato in un villaggio lungo le sabbie dell'asciutto fiume Naodza, Haviland chiese al capo una guida sino alla prossima tappa, e senza perdere tempo ripartì. Dopo un'ora di cammino, la comitiva giunse a una piccola radura, dove l'aspettava un gruppo di donne con zucche piene di acqua fresca. Quando Haviland chiese come avevano saputo del suo arrivo, risposero di avere ricevuto l'annuncio circa un'ora prima, cioè quando egli si era accomiatato dal capo tribù. Era impossibile che qualcuno li avesse sorpassati, lungo il sentiero stretto e solitario, e inconcepibile che, con la boscaglia infestata di leoni e di altri animali selvaggi, uno di quei paurosi uomini primitivi avesse potuto prendere una scorciatoia, supposto che ce ne fosse una, attraverso il terreno impervio. Eppure la notizia che visitatori di riguardo erano per la strada doveva essere stata inviata in qualche modo al piccolo villaggio, con l'ordine di preparare un rinfresco. L'altro episodio accadde all'arrivo nell'isola che sta in mezzo alla confluenza dei fiumi Sanyati e Zambesi, vicino alla diga. Qui fu loro mostrata la tomba di un uomo bianco che era stato sepolto pochi giorni prima. Il capo locale consegnò loro tutti gli averi del morto, comprese molte pelli di animali ch'egli aveva uccisi. Tale è la naturale onestà degli africani primitivi, o la loro paura dei morti. L'uomo, sembra un certo Keats Brown, lasciò un diario che nelle ultime pagine sgualcite parlava del fatale attacco di febbre tropicale, e del suo ardente desiderio di avere il conforto di una tazza di tè mentre la morte si avvicinava. Egli aveva continuato a scrivere sino all'ultimo istante. Era uno dei «bundu-bashers», che sino all'ultima guerra s'incontravano frequentemente, e ora sono quasi del tutto scomparsi. Correva voce che avesse avuto qualche infelice esperienza sentimentale, e che si era ritirato nell'isola del Sanyati dopo aver bruciato la barca, giurando di rimanervi per sempre. La sua volontà è stata rispettata. Dorme ancora là sotto sessanta metri di acqua, dato che l'isola è ora il fondo del lago. Due anni dopo il viaggio, Haviland stese il suo rapporto che conteneva una grande quantità di dati scientifici sul regime del fiume, la geografia e la geologia della gola, registrazioni della temperatura e letture barometriche. Haviland non è uomo da sottrarsi a un franco giudizio, e anche se oggi potrebbe sorridere con un senso di rammarico, non è necessario che si scusi della conclusione del suo rapporto: «Tenendo conto dell'energia che può fornire lo Zambesi alle cascate Victoria, la produzione di energia alla gola di Kariba non è da prendere in considerazione» Punto e basta? No, si apre invece un nuovo paragrafo. Trent'anni fa nessuno poteva prevedere l'enorme sviluppo delle miniere di rame della Rhodesia del Nord o il flusso di immigrazione che, in dieci anni, avrebbe più che raddoppiato la popolazione bianca della Rhodesia, trasformando la stagnante vita politica ed economica del paese in una forza turbolenta quanto lo stesso Zambesi, con un potenziale di bene o di male per l'Africa, che è tuttora impossibile pronosticare. Haviland doveva non soltanto essere spettatore, ma anche dare un importante contributo ai primi passi del gigantesco progetto giunto oggi a compimento. CAPITOLO SECONDO I PRIMI PASSI Nei dieci anni successivi allo scoraggiante rapporto di Haviland, la Commissione per l'elettricità nella Rhodesia del Sud cominciò a rivolgere l'attenzione alle risorse idriche del paese in vista delle future richieste di energia elettrica. Non considerando una minuscola centrale sotto le cascate Victoria, le due Rhodesie dipendevano dalle centrali termiche azionate dal carbone estratto a Wankie nell'angolo nord-occidentale della Rhodesia del Sud. Il carbone era discretamente economico e di buona qualità, ma già sorgeva il dubbio che le ferrovie non fossero in grado di trasportarne abbastanza fino ai lontani centri di attività economica in crescente sviluppo. Grazie all'iniziativa di A. B. Cowen, allora presidente della commissione, le vecchie pratiche vennero rispolverate, e nel 1941 furono stanziati fondi per ulteriori studi di possibili impianti idroelettrici. Dato che tutti i giovani ingegneri dipendenti dallo stato servivano nelle forze armate, il governo sa. rivolse a un vecchio sudafricano di origine irlandese, J. L. S. Jeffares, per un ennesimo sopraluogo a Kariba. Egli conosceva già la gola, essendoci stato dieci anni prima, per i rilievi della Sinoia-Kafue, una ferrovia spesso progettata e mai realizzata. Negli anni seguenti Jeffares fece i suoi rapporti regolarmente. Date le circostanze, non potevano essere del tutto esatti; bisogna però riconoscere che fornirono molte essenziali informazioni preliminari, senza le quali la costruzione della diga di Kariba avrebbe dovuto essere differita di molti anni. Compito specifico di Jeffares era di esaminare e indicare i punti in cui poteva essere costruita la diga, ed eseguire un dettagliato controllo del territorio - del quale erano state fatte sommarie rilevazioni - per poter calcolare quali aree sarebbero state inondate in seguito all'erezione della diga. L'importanza del suo operato dev'essere valutata in rapporto alle difficoltà incontrate. L'unico accesso alla zona nei primi anni del '40 era un tortuoso sentiero primitivo proveniente da Miami, che scendendo nella gola per novecento metri, era battuto più da elefanti, rinoceronti e bufali che da esseri umani. Jeffares dovette aprirsi la strada per terreni impervi, spesso scoscesi a precipizio, dove la foschia del calore e della polvere oscurava ogni orizzonte e dove, nelle vallate, egli veniva imprigionato dalle macchie spinose. I fianchi delle alture erano coperti di pietre insidiose, nascoste dal folto dell'erba, l'acqua era scarsa, la temperatura nell'ombra afosa oscillava fra i 38 e i 49 gradi, e la notte non scendeva mai sotto i 27, cosicché non vi era neppure il sollievo di un po' di fresco dopo il tramonto. Il caldo era reso più esasperante dai continui attacchi dell'ape del mopani, piccolo insetto che si trova nelle foreste basse durante la stagione arsa, quando non piove, e si posa sul naso, gli occhi e le labbra degli uomini, attratto dall'umidità del loro sudore. In questo paese infestato da serpenti, mosche tzetze e zanzare, Jeffares svolse il suo lavoro monotono e poco appariscente, facendo rilievi topografici e stendendo rapporti. Il suo contratto era a cottimo, cosicché la rimunerazione risultò alla fine inferiore a quella di un qualsiasi impiegato seduto in un confortevole ufficio di Salisbury, e il Tesoro cavillò anche su quello. L'unico premio all'ingrato compito è l'ammirazione di quei pochi che conobbero la zona. Uno di coloro che lo videro al lavoro fu un giovane rhodesiano chiamato Newby Tatham che, durante la stagione secca, lavorava nella sua concessione di mica presso Kariba. Un giorno egli stava cacciando un bufalo per fornire di carne i suoi operai, quando si trovò in una radura. Il pericoloso bestione attraversò Io spiazzo erboso per sprofondarsi nella boscaglia, ma Tatham perse l'occasione di sparare perché gli apparve all'improvviso un vecchio signore imperturbabile, chino sul suo teodolite sotto un ombrello colorato. Portava gli occhiali; il largo cappello spostato lasciava scoperto il cranio mezzo pelato e coperto da vesciche. Erano con lui un indigeno, che agitava una foglia per tener lontane le mosche, e una donna. Questa era la sua unica collega, una certa signora Goode, quasi certamente la prima donna bianca apparsa a Kariba, che annotava su un libretto i commenti mormorati da Jeffares. Quella visione nella contrada selvaggia, allora piena di animali pericolosi, fu uno spettacolo che Tatham non dimenticò mai. Meno di dieci anni dopo il silenzio della gola sarebbe stato turbato dal crescente rumore delle macchine. Si era iniziato coi singhiozzanti motori dei fuoribordo, quando fragili imbarcazioni portavano gli ingegneri al loro compito di misurare la portata del fiume, per arrivare poi all'incessante fragore dei compressori, delle betoniere e dei frantoi quando, ad ogni ora del giorno e della notte, veniva preparato e gettato il calcestruzzo nella gigantesca muraglia. Dal '45, il Dipartimento dell'Irrigazione della Rhodesia del Sud, i cui rapporti con la gola risalivano alla visita di Randall nel 1914, mantenne sempre la convinzione che un giorno il fiume sarebbe stato imbrigliato a Kariba. J. H. R. Savory, ora direttore del dipartimento, passò qualche tempo con Jeffares nelle sue ultime escursioni; fu organizzata una stazione di misurazione a Chirundu, e nel 1946 venne posto il primo campo a un'estremità della gola, circa venticinque chilometri a valle della posizione della diga. Fu scelto questo punto perché allora non vi erano disponibili imbarcazioni che fossero in grado di superare i gorghi e le correnti della gola, dove il fiume raggiunge la velocità di quindici nodi l'ora. L'accesso con strade era appena possibile nella stagione secca. All'inizio il lavoro dovette essere abbandonato durante le piogge, quando tutti, caricate provviste e attrezzature, si ritiravano dalla gola. Le squadre per le misurazioni operarono in vari punti lungo lo Zambesi fra la gola e le cascate Victoria dato che, al momento di fare i calcoli per il progetto della diga, gli ingegneri avrebbero avuto bisogno del maggior numero possibile di dati sul comportamento del fiume. L'importanza di questo lavoro divenne in particolar modo evidente quando scoppiò la controversia, che per poco non smembrò la federazione appena formata, fra i sostenitori dei due progetti idroelettrici rivali, di Kafue e di Kariba. Quando venne il momento della decisione, si sapeva molto sullo Zambesi e ben poco sul Kafue, e questa circostanza deve aver fortemente influenzato gli esperti francesi che furono chiamati dal governo per dirimere la controversia. Un fatto tipico dello sviluppo delle Rhodesie, negli anni che seguirono la guerra, è che un progetto nel quale sarebbero stati profusi miliardi per l'acquisto delle più moderne attrezzature, sia cominciato con strumenti improvvisati fatti di vecchie casse di bombe della RAF, bottiglie di birra e corde da pianoforte. È proprio con questi materiali che H. W. H. Wallis, l'ingegnere del Dipartimento Irrigazione, incaricato del lavoro, costruì i suoi primi idrometri. In quei giorni di carestia fu così fortunato da trovare una corda da pianoforte a Salisbury, città che non è mai stata particolarmente musicofila: l'unico campione disponibile nella capitale della Rhodesia del Sud si trovava in una fabbrichetta di sapone diretta dai fratelli Pichanick nella strada appropriatamente chiamata «dei Pionieri», dove veniva usato per tagliare il sapone in tavolette. Insieme col controllo delle acque, vennero iniziate in vari punti della gola perforazioni di prova del letto del fiume, per saggiare le fondazioni della futura diga. Il lavoro, che sarebbe stato privo d'importanza nei placidi fiumi d'Europa, poteva essere assai pericoloso nell'impetuosa corrente dello Zambesi. Molte volte, infatti, le imbarcazioni si capovolsero o naufragarono sui banchi di sabbia o sulle rocce del fiume non ancora rilevato. Dopo parecchi salvataggi miracolosi, le schermaglie iniziali della battaglia contro il fiume ebbero la prima fatale disgrazia. Nel 1948, l'imbarcazione sulla quale Wallis stava lavorando venne rovesciata dal!'improvviso vortice di una piena. Un indigeno che si trovava a bordo si mise a nuotare verso la riva lontana non più di una cinquantina di metri, ma dieci secondi dopo fu afferrato da un coccodrillo. Wallis e i suoi colleghi raggiunsero salvi la riva dopo esser rimasti quattro ore nell'acqua. Nyaminyami aveva ricevuto il primo tributo di vite umane che avrebbe preteso da coloro che lo avevano sfidato. Ma la prima volta che le forze con le quali l'uomo stava lottando rivelarono tutta la loro terribile potenza, fu la notte di sabato 18 febbraio 1950. Uno di quei cicloni, provenienti dall'Oceano Indiano, che talvolta si aprono un solco di distruzione attraverso l'Africa centrale, investì la gola di Kariba. Nelle tenebre un vento d'una violenza indescrivibile scagliò a terra trentotto centimetri di pioggia. Il fiume a Chirundu crebbe di 7 metri e mezzo, mentre il Sanyati e lo Zambesi erano invasi dai torrenti precipitanti dalle alture. Non si saprà mai quante vite umane andarono perdute. Al villaggio di Nyamonga, sulle rive del Sanyati vicino a Kariba, quindici persone annegarono e le loro capanne vennero sommerse. La densa vegetazione rivierasca fu asportata come erba sotto la falce: molti giorni dopo, si vedevano corpi di daini in putrefazione ancora appesi con le corna agli alti rami degli alberi dove l'inondazione li aveva deposti, e non erano che la rimanenza delle vittime scaricate nello Zambesi in un tratto di oltre centocinquanta chilometri del suo corso. In una sola notte avvennero venti grandi frane nella zona di Kariba, e una di esse coprì il campo che era stato posto all'uscita della gola. In una capanna di fango sotto il fragile tetto di paglia c'erano quattro giovani addormentati: un ingegnere e un meccanico del Dipartimento Irrigazione, l'aiuto segretario della Commissione per l'energia idroelettrica, e un loro amico dell'Ufficio del revisore dei conti che aveva cercato evasione dall'angusto mondo dei libri mastri e delle fatture per godersi una breve vacanza nella boscaglia. La comitiva aveva attraversato il fiume la sera prima per chiedere al signor P. L. Ross, incaricato delle operazioni di perforazione in uno dei punti scelti per la diga, se poteva portare il giorno dopo a Chirundu uno di loro che aveva la febbre. Alle otto essi tornarono alla riva sud. La mattina dopo, Ross fu chiamato al fiume, e alcuni indigeni dalla riva opposta gli gridarono che i quattro europei erano rimasti uccisi. Poiché una delle sue imbarcazioni era stata spazzata via e l'altra si era riempita di acqua, passò parecchio tempo prima che egli potesse raggiungere l'altra sponda. La coraggiosa e febbrile attività che seguì può essere considerata inutile, dato che i quattro giovani erano morti nel sonno. Ma il ricordarla può aiutare chi non conosce l'Africa a farsi un'idea delle condizioni in cui nacque Kariba. Due indigeni impiegati come domestici nel campo distrutto saltarono in una canoa nel disperato tentativo di portare la notizia del disastro a Chirundu. Essendo originari dell'altoveldt (Veldt, territorio del Sud-Africa privo, o quasi, di boschi), avevano un terrore innato dell'acqua e non possedevano la perizia necessaria per manovrare la massiccia imbarcazione, poco maneggevole, come un canotto esquimese. Riuscirono tuttavia a scampare alle correnti e ai detriti del fiume, e raggiunsero il malsicuro porto della stazione di polizia a Chirundu. Poiché la linea telefonica era stata distrutta, la notizia dovette essere portata da corrieri per una parte del percorso, e raggiunse Salisbury la domenica sera. Venne organizzata in tutta fretta una spedizione di salvataggio. A circa trenta chilometri da Chirundu i soccorritori dovettero abbandonare i mezzi di trasporto poiché l'accesso al ponte sulla strada principale era stato distrutto dalla piena. Attraversarono i fiumi che li separavano da Chirundu servendosi di funi e giunsero al posto di polizia la sera del lunedì. Solo nel pomeriggio di martedì, tre giorni dopo la frana, furono in grado di raggiungere il campo. Ross e i suoi operai avevano ricuperato una salma sul bordo del fiume, ma non prima di mercoledì a mezzogiorno vennero tratte alla luce altre due salme in pigiama, dopo una disperata lotta con pale e picconi contro i detriti di roccia sotto i quali era stato sepolto il bel campo in riva al fiume. L'ultima non fu mai ritrovata. Era stata trascinata nelle sconosciute profondità del regno di Nyaminyami. Il lavoro lungo il fiume proseguì e venne intensificato entro la gola. Furono esaminate quattro possibili posizioni per la diga, ma tutte risultarono difettose o perché l'acqua era troppo profonda o perché i depositi alluvionali sabbiosi le rendevano inadatte per le fondazioni della diga. Allora la ricerca venne spostata a un nuovo punto quasi all'ingresso della gola, esattamente sotto la confluenza del Sanyati e dello Zambesi. Benché poche persone allora se ne rendessero conto, la lunga ricerca era terminata. Quasi all'ombra della roccia che aveva dato il nome a Kariba, ai piedi dell'altare del dio fiume, sarebbe stata lanciata la sfida alla sua potenza. Già sembrava che egli fosse in ritirata. Gli uomini che lavoravano alle sonde erano duri avventurieri, la maggior parte provenienti dal Sud-Africa e un piccolo numero dal Regno Unito e dalla Rhodesia. Agli operai specializzati, si unì a poco alla volta una folla di forti bevitori, di individui rudi e temerari, relitti trascinati verso questo genere di lavori ovunque se ne trovi lungo le frontiere del mondo civile. Nessuno si chiese da dove venissero, e nessuno sa o si cura di sapere dove siano poi andati. Comparvero quando ce ne fu bisogno; lottarono fra loro coi pugni e coi coltelli; portarono con sé i fucili nella boscaglia e uccisero centinaia di capi di selvaggina per il semplice gusto di fare strage; minacciarono l'autorità, rubarono quel poco che c'era da rubare, ma fecero il loro lavoro. Quello che guadagnarono se lo bevvero, se lo giocarono e lo buttarono in grembo alle donne indigene che, per amore o per forza, concedevano loro fuggevoli piaceri. Di essi sono rimaste poche tracce a Kariba, che solo per un breve periodo e in zone isolale assunse l'aspetto d'un campo di miniere dell'Ottocento. Altre influenze che in quella terra selvaggia avrebbero dato vita a una cittadina erano già operanti. Nel maggio del 1952 il signor Martens aveva portato la moglie, la madre e tre figlie al locale campo del Dipartimento Irrigazione. Egli era un provetto cacciatore e manteneva il gruppo originario di una diecina di europei e cinquanta indigeni con la carne degli animali abbattuti e con le verdure che faceva crescere in proporzioni gigantesche nel fertile suolo. Si diceva che uno dei suoi pomodori poteva produrre mezzo litro di succo. Egli fu il solo uomo impegnato nel progetto di Kariba che si crede abbia contratto la malattia del sonno. Benché gli elefanti si aggirassero ogni notte, a breve distanza dal campo, e animali d'ogni specie affluissero a bere nel fiume sottostante, le capanne che Martens aveva costruito si trasformarono a poco a poco in case. Vennero creati giardini, fu installato un primitivo ma efficiente impianto di acqua calda e fredda, e alla luce abbagliante delle lampade a petrolio le conversazioni durante i loro cocktails riecheggiavano quelle che vengono scambiate in migliaia di verande in Rhodesia, quando il giorno precipita nella notte. Importanti visitatori cominciarono a giungere in quello che stava diventando, più che un avamposto, il nucleo di una colonia. Tra essi, sir John Kennedy, il governatore della Rhodesia del Sud. In suo onore venne costruita una dipendenza, quella piccolissima stanza che ha una così importante funzione nel mondo anglo-sassone, chiamata in Rhodesia "il p. k.", o piccanin kia. E vi venne orgogliosamente installata la più bella realizzazione dell'arte idraulica. Il primo water closet ad acqua corrente era arrivato a Kariba. CAPITOLO TERZO LA GRANDE DISPUTA Mentre gli uomini combattevano nella gola per rendere possibile la realizzazione di Kariba, poco mancò che non andasse a monte l'intero progetto a causa della lotta tra le fazioni rivali di Salisbury e di Lusaka. A meno di cento chilometri da Kariba, circa a metà strada fra questa località e Lusaka, la capitale della Rhodesia del Nord, c'è una gola sul fiume Kafue, anch'essa con evidenti possibilità di sviluppo idroelettrico. Lo straordinario sviluppo delle miniere di rame della Rhodesia del Nord aveva aumentato la richiesta di energia in tale misura che la ferrovia a binario unico delle miniere di carbone di Wankie si trovò nell'impossibilità di fornire la quantità di carbone necessaria. Il governo della Rhodesia del Nord incoraggiava il progetto di Kafue per la vicinanza con Lusaka, e anche le grandi compagnie del rame, che sono tutte controllate dal trust rhodesiano e dalla Corporazione anglo-americana, lo sostenevano. La Federazione della Rhodesia e del Niassa fu creata nel 1953. Prima d'allora la Rhodesia del Sud era una colonia con governo autonomo, mentre la Rhodesia del Nord e il Niassa erano due protettorati sottoposti al Ministero delle Colonie britannico. In realtà erano retti dai loro governatori, benché alcuni membri dell'Assemble.ì legislativa della Rhodesia del Nord fossero eletti prevalentemente dagli abitanti europei. Ciò nondimeno i tre elettori avevano già collaborato nella formazione del Consiglio centrale africano, organo con funzioni consultive, al quale però i tre governi interessati potevano delegare taluni poteri. Nel 1946 questo Consiglio centrale africano fu autorizzato a creare una Commissione per l'energia idroelettrica col compito di esaminare possibili progetti nelle due Rhodesie. La commissione risultò infine composta di tre membri della Rhodesia del Sud: A. B. Cowen, C. L. Robertson e P. H. Haviland, l'autore del rapporto del 1927, e due della Rhodesia del Nord: W. D. Wheeler e F. G. Radcliffe. Uno dei primi problemi della commissione fu di decidere fra le due richieste in conflitto, il progetto di Kariba sostenuto dalla Rhodesia del Sud, e quello di Kafue sostenuto dalla Rhodesia del Nord. In quell'epoca non si avevano ancora dati esatti sui costì, ma era certo che i territori non potevano finanziare ambedue i progetti e che la produzione di energia elettrica dell'uno e dell'altro insieme sarebbe stata molto superiore ai bisogni prevedibili in quel millennio. Pertanto nel 1948 la commissione nominò un consiglio di esperti, che fu chiamato la «giuria», costituito di due ingegneri civili, sir W. Halcrow e H. J. F. Gourley, e due ingegneri elettrotecnici, C. H. Pickworth e G. E. Kennedy, tutti appartenenti a grandi società del Regno Unito. La «giuria» ebbe tra l'altro l'incarico di esaminare i meriti relativi dei progetti di Kariba e di Kafue. Nel suo rapporto, che venne consegnato nel mese di luglio 1951, la giuria raccomandò senza esitazioni Kariba. Tale decisione era sostenuta principalmente da due argomenti: che le informazioni su Kafue erano troppo scarse, e che la sua produzione potenziale era poco superiore agli immediati nuovi bisogni delle due Rhodesie, così che se fosse stata costruita la diga di Kafue, sarebbe stata necessaria anche quella di Kariba. La produzione di Kariba avrebbe invece coperto i bisogni di energia previsti per molti anni. Appena il rapporto fu pubblicato, si levarono clamori nella Rhodesia del Nord. A Lusaka tu tenuta una pubblica riunione di protesta, la prima di una lunga serie che avrebbe assordato le orecchie degli uomini politici nei quattro anni seguenti. I commercianti di Lusaka avevano interesse alla diga di Kafue, la cui spesa, allora calcolata trenta milioni di sterline, avrebbe recato prosperità alla loro città; le compagnie del rame si erano pure dichiarate favorevoli a Kafue; le autorità del Nord, con un bilancio attivo dovuto in gran parte al rame, sostenevano naturalmente le miniere, e non è improbabile, anche se allora non ne parlavano esplicitamente, una certa loro riluttanza a devolvere le proprie rendite in un progetto che era stato ideato nella Rhodesia del Sud e che si sarebbe dovuto realizzare al confine e non interamente sul loro territorio. Il governo della Rhodesia del Nord invitò la giuria a preparare un nuovo rapporto, che venne subito steso. Questo secondo rapporto ammetteva che all'inizio Kafue avrebbe potuto produrre energia elettrica più a buon mercato di Kariba, benché in quantità minore, ma aggiungeva scrupolosamente che a lungo andare Kariba sarebbe stata molto più conveniente. Fu tenuta un'altra riunione pubblica a Lusaka, nella quale ebbe una parte di primo piano il signor John Gaunt, membro dell'Assemblea della Rhodesia del Nord. Egli non ebbe difficoltà a suscitare una certa eccitazione politica, ma intanto, sotto l'astuta guida di sir Godfrey Huggins (ora lord Malvern), la Rhodesia del Sud si manteneva quieta e il lavoro nella gola proseguiva senza dare nell'occhio. Essendo imminente la creazione della Federazione, il Segretario per l'economia della Rhodesia del Nord fece uno sforzo per saltare l'ostacolo. Il 7 settembre 1953 annunciò che la Rhodesia del Nord avrebbe proceduto per proprio conto nell'elaborazione del progetto di Kafue e lo avrebbe passato al governo federale non appena questo fosse entrato in funzione e fosse stato in grado di assumerlo. Egli riferì che sir Godfrey Huggins era d'accordo per conto della Rhodesia del Sud e promise che più tardi la Rhodesia del Nord avrebbe sostenuto anche Kariba. Nello stesso tempo creò la Kafue River Hydro-Electric Authority, nella quale erano fortemente rappresentati gli interessi dei produttori di rame. Kariba sembrava condannata, almeno per il momento. È doveroso un breve cenno su lord Malvern, che, in veste di Primo ministro della Federazione, contribuì in modo decisivo all'attuazione del progetto di Kariba. Il molto onorevole visconte Malvern ebbe il titolo nobiliare quando battè il primato di sir Robert Walpole che era stato il Primo ministro rimasto ininterrottamente in carica più di ogni altro in tutto il Commonwealth. Nato a Bexley nel Kent nel 1883, venne in Rhodesia nel 1911 come medico locus tenens per sei mesi, ma decise di restarvi. Dopo il servizio di guerra, nel 1921 divenne consulente chirurgo e due anni dopo entrò in parlamento. Nel 1932 fondò un proprio partito e fu nominato Primo ministro nel 1933. Benché si sia ritirato dalla politica attiva - non si presentò alle elezioni generali della Federazione del 1958 -, la sua autorità non è mai diminuita. È tenuto nella massima considerazione dai molti rhodesiani di vecchio stampo, che egli ha guidato per un sentiero politico progressivo, lungo il quale essi non avrebbero seguito nessuno all'intuori di lui. Tutto ciò che andava bene per «Huggie» andava bene per loro, anche se era contrario ai pareri che essi esprimevano energicamente mentre bevevano la birra fresca. Egli impiegò tutta la sua furbizia e risolutezza politica al servizio delle sue larghe vedute. In questo, come nel timbro acuto della voce, assomigliava a Cecil John Rhodes, del quale consolidò l'operato nell'Africa Centrale. Kariba, per giungere a buon porto, aveva bisogno di tutta la prudente sicurezza di Malvern, di tutta la sua coraggiosa preveggenza, di tutto il suo prestigio. Senza di lui non sarebbe oggi un fatto compiuto. Nella prima seduta del nuovo parlamento federale, nel marzo 1954, sir Malcolm Barrow, allora ministro dell'Industria e del Commercio, presentò il progetto di legge sull'energia idroelettrica. Durante il dibattito, sir Malcolm annunciò che il progetto di Kafue sarebbe stato messo in opera per primo. Ciò significava che il governo federale ratificava e si assumeva la responsabilità di realizzare l'accordo che dava la precedenza a Kafue. Così era stato deciso, e così - molti pensavano - sarebbe stato. Kariba sarebbe tornata agli ippopotami, agli elefanti ed ai coccodrilli, benché questi ultimi fossero stati decimati dai cacciatori bianchi che ne avevano fatto strage per le loro pelli. Nyaminyami non sarebbe stato spodestato. Gli ascoltatori non diedero molta importanza alle parole di lord Malvern quando precisò, durante il dibattito, che la promessa della Rhodesia del Nord di finanziare Kafue non poteva più essere mantenuta. Per un progetto di tale portata le autorità internazionali avrebbero naturalmente prestato il denaro solo al governo federale. Questo era ovvio. Nell'eccitazione del momento nessuno ricordò che anche quando lord Malvern commetteva apparentemente una gaffe, poneva una pietra di fondamenta. Le «autorità internazionali», nelle persone dei rappresentanti della Banca Mondiale, si trovavano per caso non molto lontane, nell'Africa orientale, e nel maggio 1954, interruppero il viaggio di ritomo in America per fare una visita a Salisbury. Per lungo tempo si negò energicamente che la loro visita avesse un qualsiasi legame col finanziamento di un progetto della Commissione federale per l'energia elettrica. Un anno dopo il dottor Andrew Kamarck, uno dei consiglieri economici della Banca Mondiale, dovette ammettere che la missione del 1954 aveva discusso sui rispettivi pregi di Kafue e Kariba. Nel maggio, il signor Garfield Todd, allora Primo ministro delia Rhodesia del Sud, annunciò che potenti interessi premevano in favore di Kafue a danno di Kariba e che dalle ultime informazioni, non ancora rese note, il progetto della seconda risultava più efficiente e più economico. Le parole del signor Todd furono confermate dai fatti una settimana dopo, quando il signor Hany Oppenheimer dell'Anglo-American promise che la propria organizzazione avrebbe aiutato il finanziamento di Kafue. I sostenitori del progetto del Nord trassero un sospiro di sollievo. Il signor Todd aveva le informazioni, ma sir Harry aveva i soldi. Il 28 giugno, lord Malvern annunciò al parlamento federale che la Banca Mondiale era disposta a prendere in considerazione un prestito per lo sviluppo idroelettrico nelle Rhodesie e si riprometteva d'inviare una delegazione ufficiale; nel frattempo era stato accertato che Kafue sarebbe costata molto più di quanto era stato calcolato in un primo tempo, mentre Kariba, non solo sarebbe costata meno, ma poteva essere condotta a termine assai prima di quanto era stato preventivato. Egli spiegò che era necessario il parere di esperti. Era importante però che questi fossero scelti tra i più competenti su scala internazionale e che fossero assolutamente indipendenti nel loro giudizio. I francesi erano rinomati per i loro lavori nel campo idroelettrico, e pertanto egli aveva invitato l'Électricité de France, l'ente nazionale francese di elettricità, a nominare un gruppo di studio. Il presidente della banca, aggiunse lord Malvern, aveva detto, nell'approvare l'idea, che ciò «poteva ben facilitare i lavori della commissione della Banca Mondiale». In altre parole la banca, il cui finanziamento era condizione essenziale per la realizzazione del progetto, non era entusiasta di Kafue. Quando gli esperti francesi, Duffaut, Tisne e Misson, vennero in Rhodesia e fecero i loro studi, fu colta l'occasione per sostituire la vecchia Commissione per l'energia idroelettrica con un nuovo organismo. Nel Consiglio federale per l'energia idroelettrica, come venne chiamato, Cowen e Haviland continuarono a rappresentare la Rhodesia del Sud e due nuovi uomini, J. H. Lascelles e L. G. Hunt, che non sarebbero sopravvissuti alla tempesta che si stava preparando, vennero nominati dalla Rhodesia del Nord. Questo organismo avrebbe avuto la responsabilità dell'esecuzione di qualsiasi progetto fosse stato approvato dal governo. Ricordando che il precedente gruppo di esperti aveva deciso all'unanimità in favore di Kariba, poteva essere considerato nient'altro che una congettura intelligente il cenno fatto da un giornalista di Salisbury nel suo articolo politico verso la fine di agosto, che la missione francese aveva deciso di non raccomandare Kafue. I francesi stesero due rapporti, uno su Kafue e uno su Kariba; e certamente lord Malvern ne conosceva il contenuto quando, nel corso di un'intervista ufficiosa con il rhodesiano Sunday Mail, pubblicata il 14 novembre 1954, egli fece allusione a «importanti cambiamenti». Il 5 gennaio 1955 fu chiaro anche all'osservatore meno attento che Kariba aveva di nuovo buone probabilità, perché quello stesso giorno lord Malvern annunciò che non si sarebbero potute prendere decisioni prima dell'arrivo della missione della Banca Mondiale, aggiungendo che egli aveva chiamato un altro francese, il signor Andre' Coyne, per una relazione sui rapporti. Andre' Coyne, con i bianchi capelli a spazzola e il viso abbronzato, è un anziano signore dagli occhi giovanili. Noto come uno dei più grandi ingegneri civili francesi, è stato invitato più volte a dare il suo esperto consiglio su progetti di costruzioni in Canada, Australia, Stati Uniti, Portogallo, India, Nord e Sud-Africa. Egli è peraltro una rara combinazione di ingegnere di valore e di diplomatico il cui pensiero è così incisivo quanto i suoi modi sono gentili. Senza dubbio era al corrente dei contrasti latenti e attenuò quanto più possibile il colpo nel rapporto steso a Parigi il 9 gennaio, che completò senza aver visitato la Rhodesia. Entrambi i progetti erano buoni, egli disse, entrambi necessari, ed era veramente compito di un economista decidere tra l'uno e l'altro. Però - e questo era il punto decisivo - le informazioni su Kafue erano piuttosto vaghe, e gli sembrava che la sua funzione dovesse essere quella di fonte ausiliaria di energia al progetto principale di Kariba. Lord Malvern stava tendendo una fitta rete attorno ai protagonisti di Kafue, e la serrò ancora un poco quando chiamò un nuovo gruppo di esperti, questa volta contabili britannici, i fratelli Cooper, per esaminare le valutazioni finanziarie dei due progetti. Quindi, il 1° marzo 1955 fece una lunga dichiarazione al parlamento federale. Il Gabinetto aveva deciso di lasciar cadere Kafue e di dar corso a Kariba. Per due giorni Lusaka era stata inquieta per le voci che correvano, dato che qualche indiscrezione delle novità era trapelata nella capitale del Nord, pare attraverso una teletonata di un ministro. Fatto veramente strano, la Rhodesia del Nord non si aspettava ciò che stava per capitare. Seguì un'esplosione di aspro risentimento che per qualche tempo minacciò seriamente resistenza della giovane Federazione, e produsse una frattura tra il governo territoriale del Nord e quello federale che forse non è ancora del tutto sanata. Si parlò di secessione. A una riunione pubblica tenuta al cinema Carlton di Lusaka, novecento persone affollavano la sala mentre quattrocento ascoltavano fuori la trasmissione dei discorsi: fatto senza precedenti in una città dove una riunione si considera ben riuscita se vi partecipano un ventina di persone. Una proposta per una petizione alla regina perché revocasse la Federazione fu respinta di stretta misura. Allusioni alla «frode» e alla «sporca politica» eccitavano la folla. Le frasi fatte si susseguivano accavallandosi confusamente quasi come la folla stessa, finché una di esse prese nuovo vigore per la circostanza, quando tutti si misero a gridare: «Siamo stati venduti!». In mezzo alle bolle e alla schiuma, c'erano correnti pericolose. Il Nord era invidioso e sospettoso del Sud, più progredito politicamente, e pensava che esso avesse favorito la Federazione soltanto per impadronirsi di una parte delle ricche rendite del rame. L'Amministrazione coloniale di Lusaka, prima abituata ad avere rapporti solo con Londra, era seccata di doversi rivolgere a Salisbury. Harry Nkumbula, leader del Congresso nazionale africano, colse subito l'occasione per infiammare gli animi dei suoi seguaci africani, proclamando soddisfatto: «Ora anche gli europei si rendono conto di non potersi fidare della Federazione» I cittadini più in vista di Lusaka parlarono di formare un partito separatista. Fu infine mandata una petizione alla regina e formato un comitato permanente di protesta sotto la presidenza del sindaco. L'Assemblea legislativa della Rhodesia del Nord approvò all'unanimità un ordine del giorno che esprimeva «disappunto e inquietudine per la decisione», e il segretario capo di Lusaka, comprensibilmente irritato di aver appreso il primo annuncio degli avvenimenti dal giornale del mattino, fece capire che egli riteneva il governo federale vincolato dall'accordo in cui la Rhodesia del Nord aveva posto tanta fiducia. Uno dei due rappresentanti della Rhodesia del Nord presso il Consiglio federale per l'energia elettrica, attaccò aspramente il progetto di Kariba, e l'altro, J. H. Lascelles, rassegnò le dimissioni, dichiarando che il governo aveva ignorato il Consiglio e basato la sua decisione «su informazioni inadeguate e cattivi suggerimenti». Ci volle molto tempo perché si spegnessero i clamori, persino dopo che André Coyne ebbe dichiarato in una conferenza stampa che Kariba avrebbe prodotto l'energia più a buon mercato del mondo. Poco dopo questa conferenza egli visitò per la prima volta la gola che in seguito avrebbe visto molto spesso. Mentre tornava al campo dalle alture dalle quali aveva osservato il fiume in basso, mormorò, quasi stupito dei compiti futuri: «Eppure Kariba non è un sogno» CAPITOLO QUARTO PRIME SCARAMUCCE Si calcola che quando l'intero progetto idroelettrico di Kariba sarà terminato, probabilmente nel 1971, il suo costo ammonterà a 113 milioni di sterline, e il suo potenziale sarà superiore a 1500 megawatt. Il primo stadio - in corso di esecuzione - avrà una capacità produttiva di 600 megawatt e verrà a costare poco meno di 80 milioni di sterline. La grandiosità dell'opera, a paragone dello sviluppo del paese, risalta forse meglio tenendo presente che il bilancio federale del tempo si aggirava sui 40 milioni di sterline e che la capacità totale di energia installata era di poco superiore a 800 megawatt. Queste cifre dovrebbero anche indicare quanto sia vasto il potenziale dell'Africa centrale. Le sue riserve incalcolabili di ricchezze minerarie sono state appena intaccate e decine di milioni di acri di suolo fertile sono disponibili per la produzione di alimenti e fibre. Ci vorranno molte chiavi per schiudere questa camera dei tesoro alle popolazioni denutrite e malvestite del mondo, ma se ce n'è una senza la quale non si può aprire la serratura, essa è l'energia elettrica. Fu senza dubbio la consapevolezza di queste possibilità a orientare lord Malvern per la via che egli seguì nel 1955. E quali che fossero i rispettivi pregi dei progetti di Kafue e di Kariba, quest'ultimo aveva un evidente vantaggio politico sull'altro. Lo Zambesi segna il confine tra le due Rhodesie, e il progetto di Kariba, egli può aver pensato, avrebbe contribuito a legare più strettamente i territori in quella che è ancora una federazione molto malsicura. Probabilmente l'instabilità politica che esisteva e che tuttora perdura nella Rhodesia del Nord, indusse i finanziatori internazionali a preferire un progetto che potesse, in caso di emergenza, essere trasferito interamente nell'orbita della più stabile colonia della Rhodesia del Sud. È da notare che la prima centrale di Kariba verrà installata sulla riva della Rhodesia del Sud, benché la maggior parte della sua produzione iniziale sia destinata alle miniere di rame del Nord. Se la controversia fra i progetti di Kariba e Kafue fosse continuata, sarebbe stata messa in pericolo la stessa esistenza della Federazione, che rappresentava un successo personale di lord Malvern. La sua audace decisione di dar corso speditamente al progetto di Kariba pose gli oppositori di fronte al fatto compiuto del paese ormai impegnato a tal punto che non era più possibile fare marcia indietro. Il rischio calcolato che egli affrontò stabilì un precedente che è stato seguito da tutti quelli che ebbero a che tare con Kariba. La sua prima azione sembrerebbe, a un esame retrospettivo, molto azzardata. Infatti se fosse finita in un fallimento invece che in un brillante successo, egli sarebbe passato alla storia come un giocatore temerario e irresponsabile. Lord Malvern autorizzò la spesa di milioni di sterline per i lavori preliminari, pur sapendo che la Federazione non avrebbe potuto finanziare il progetto e prima che una sola lira degli ingenti prestiti necessari fosse stata formalmente promessa. Forse gli erano state fatte assicurazioni private e non ufficiali, ma non prima del luglio 1955 la Banca Mondiale annunciò di essere in linea di massima disposta a finanziare e non prima del gennaio 1956 il suo presidente, Eugene Black, impegnò formalmente la Banca ma per una somma ancora non precisata. Il prestito della Banca Mondiale era l'asse senza il quale la ruota della finanza internazionale non avrebbe mai girato. In circostanze normali la più elementare prudenza avrebbe richiesto di differire Kariba fino a quando i fondi della Banca fossero stati assicurati. Sembra che le audaci vedute di lord Malvern abbiano ispirato gli altri. L'ultima delle numerose relazioni, opera comune di Tisne e Coyne, scritta in seguito agli accertamenti da essi compiuti sul luogo nell'aprile del 1955, non solo confermava il progetto di Kariba, ma diceva che si doveva dare immediato inizio ai lavori. Se alcune opere essenziali venivano eseguite prima delle piogge, che a Kariba cominciano normalmente a dicembre, si poteva guadagnare un intero anno. Bisognava preparare le strade di accesso, costruire una galleria di deviazione, la tura e gli alloggi per gli operai che sarebbero arrivati sul posto quando fosse stato aggiudicato l'appalto principale. Purché tutto andasse liscio in modo che il principale appaltatore iniziasse i lavori appena accettata l'offerta, sarebbe stato possibile intrappolare il fiume durante il 1957. «II resto,» dichiarava il rapporto in un momento di mancata preveggenza dei suoi autori, «non sia che semplice routine» Dimissioni e malcontento resero il Consiglio per l'energia idroelettrica uno strumento inadatto a un'impresa che richiedeva una direzione unitaria. Il Consiglio fu ricostituito sotto la presidenza di Duncan Law Anderson. In questo ingegnere civile, divenuto amministratore, uomo di poche parole che dietro una calma imperturbabile nascondeva un sorprendente vigore, lord Malvern aveva l'elemento in cui poteva riporre la massima fiducia per la riuscita del progetto. Anderson aveva esercitato la professione d'ingegnere civile dal 1922 al 1939; fu poi richiamato alle armi col grado di maggiore e più tardi prestò servizio come brigadiere nello stato maggiore del generale Eisenhower e del generale Alexander. Dopo la guerra ebbe una serie di incarichi amministrativi di primo piano, da presidente della Commissione unita angloamericana-jugoslava a ispettore della regione dei Caraibi per conto dell'Ente per lo sviluppo delle colonie. Il servizio svolto nell'Africa centrale per conto di quest'ultimo e nel Tanganica per l'Ente approvvigionamenti oltremare gli avevano fruttato un'ottima esperienza delle condizioni locali. Uomo dotato di un'incrollabile sicurezza intcriore che non diventa mai presunzione, egli è tanto sprezzante dell'opinione pubblica quanto, una volta presa una decisione, indifferente alle critiche. Entrò in azione con velocità vertiginosa. Nominò ingegneri consulenti della società Sir Alexander Gibb e soci, la Coyne e Bellier e la Société Generale d'Exploitations Industrielles. L'ingegnere capo del corpo di consulenza, un brillante sud-africano, il dottor Olivier, arrivò a Salisbury il 26 giugno. Il 23 giugno, appena un mese dopo la pubblicazione del rapporto finale Coyne-Tisne, fu stipulato un contratto per i lavori preliminari. Anderson fece la sua prima esperienza delle critiche pubbliche quando gli fu contestato d'aver aggiudicato il contratto per 1.600.000 sterline senza indire una gara. Si limitò a rispondere semplicemente che la normale procedura d'una gara d'appalto avrebbe causato un ritardo di ventidue settimane. Fin dall'inizio, non si sottrasse mai a una decisione che soltanto un uomo di integrità inattaccabile poteva permettersi nelle due Rhodesie dove l'affarismo politico e il profitto privato non sono mai stati inseparabili. Cominciarono i preparativi per il grande assalto. In prima linea, come si poteva prevedere, c'era il versatile Dipartimento dell'Irrigazione della Rhodesia del Sud. La idea originale era di prolungare la linea ferroviaria da Sinoia a Kariba - il tracciato, come abbiamo visto, era stato sufficientemente esaminato -, ma non c'era tempo per eseguire questa costosa opera. Da Lion's Den, la stazione terminale subito a nord di Sinoia, la strada principale per lo Zambesi a Chirundu era in grado di sopportare il traffico pesante, secondo il tollerante standard rhodesiano di allora. A circa cinquantasei chilometri a sud di Chirundu c'è una stazione per la lotta contro le mosche, dato che si entra nella regione della tzé-tzé. Qui tutti i veicoli vengono esaminati e spruzzati di insetticidi perche la mosca tzé-tzé, benché in tutta la sua vita si sposti con le proprie forze solo per un centinaio di metri, può essere trasportata da veicoli o animali in zone non contaminate. Subito dopo il posto di controllo di Makuti, un sentiero, staccandosi dalla strada principale, si dirigeva verso Kariba, distante più di ottanta chilometri. Quando A. Coyne fece la sua prima visita alla zona, fu accompagnato da Sir Malcolm Barrow, ora ministro federale per l'Energia elettrica, e da J. H. R. Savory dell'onnipresente Dipartimento dell'Irrigazione, che guidava i dieci uomini della spedizione. I due camion contenenti l'equipaggiamento e le provviste si trascinarono penosamente per otto chilometri sul sentiero, finché rimasero immobilizzati dal pantano e dovettero aspettare una settimana perché i bulldozer venissero a liberarli. La comitiva trasferì tutto il materiale possibile dai camion alle Land Rovers e, viaggiando su quattro ruote, arrivò finalmente alla gola. In questo territorio sarebbe stata costruita la strada di accesso a Kariba dal sud, sulla quale sarebbero passate macchine gigantesche e migliaia di tonnellate di materiale per la. costruzione della diga. La spesa per la costruzione di una strada inghiaiata lunga ottanta chilometri era stata calcolata un milione di sterline, ma il tempo era il fattore più importante. La strada doveva essere completata, per reggere il traffico, con qualsiasi tempo prima del mese di dicembre, altrimenti Kariba sarebbe rimasta isolata per cinque mesi come sempre accadeva durante la stagione delle piogge. Gli esperti dissero che il lavoro non poteva essere eseguito in così breve tempo. Savory, come molti rhodesiani della sua generazione, aveva una profonda conoscenza del veldt, e sapeva che il piu esperto costruttore di strade in Africa è l'elefante: basta che l'uomo segua il sentiero battuto dagli elefanti. Se a Savory fosse stato permesso di ignorare i tracciati ufficiali e costruire lungo il cammino che gli elefanti avevano percorso per centinaia di anni, egli avrebbe dato al Consiglio per l'energia elettrica la strada di cui aveva bisogno e per di più l'avrebbe consegnata in tempo. Un progetto per la produzione di arachidi nell'Africa orientale era naufragato in un costoso fallimento poiché i piani per addomesticare la regione erano stati decisi sulle scrivanie di Londra. Può darsi che Anderson ricordasse questo precedente, avendo prestato la sua opera professionale nella liquidazione del disastro provocato dai burocrati; e la proposta, che sarebbe stata certamente respinta con un sorriso da un esperto che vedesse l'Africa soltanto come una estensione sottosviluppata del Kingston-by-pass, fu accettata. La politica di lord Malvern, di arrischiare tutto su una posta intelligente, faceva scuola. Questa era la regione nella quale Jeffares aveva camminato col suo ombrello: un terreno di burroni franosi e di fitte macchie spinose, dove il cielo è appesantito dalla foschia del calore e dal fumo di migliaia di fuochi che sempre ardono in Africa. Durante il loro lavoro i costruttori della strada trovarono un bulldozer abbandonato, costretto all'immobilità nel corso di qualche impresa ormai dimenticata. Ecco con quale celerità l'Africa cancella le tracce di chi soccombe nella lotta contro di essa. I giovani ingegneri del Dipartimento Irrigazione si misero all'opera con un'allegria quasi impudente. Con il sistema di quando erano nell'esercito, che molti di essi ricordavano ancora, «conquistarono» una ruspa che ritenevano inadeguatamente impiegata al nuovo aeroporto di Kentucky, allora in corso di costruzione fuori di Salisbury. Partirono alla volta della lontana Nairobi e di Lourenço Marques, alla ricerca di macchinari. Un 'Euclid' venne trasportato da Mbeya per 1330 chilometri in due giorni, celerità eccezionale anche per una macchina veloce, e fu messo all'opera il terzo giorno. È quasi vergognoso che il rapporto ufficiale liquidasse quegli sforzi con le parole: «e fu noleggiato altro macchinario» In luglio il lavoro cominciò, e in quello che era ancora un soggiorno preferito di elefanti e di rinoceronti, venne raccolto un insieme di mostri egualmente maldestri ma ancora più potenti. Le loro grandi mascelle d'acciaio e i loro corpi giganteschi avrebbero masticato e aperto la strada attraverso la boscaglia. Alle macchine vennero applicate delle lampade in modo che il loro lavoro potesse continuare la notte. Ogni distinzione scomparve fra gli uomini che guidavano o facevano funzionare i ringhianti motori. Ognuno si prestava a qualsiasi lavoro, lieto di mettere a profitto la propria forza o la propria abilità per far progredire la strada. Di fronte a difhcoltà che di solito s'incontrano soltanto in tempo di guerra, le restrizioni d'uso e i privilegi duramente conquistati nel loro lavoro erano dimenticati. I fogli paga degli operai contenevano fino a centocincpanta ore di lavoro straordinario al mese, ore guadagnate in condizioni di estremo disagio e non senza pericoli. Una citazione della rivista rhodesiana Thè Outpost rinette bene lo spirito di questi uomini, pionieri di Kariba: La strada progrediva come se fosse un'impresa di famiglia; ogni metro in più era un successo personale per gli uomini e per il loro dipartimento. Man mano che procedevano, essi davano nomi commemorativi ai tratti più difficili che venivano superando. Oggi, chi viaggia verso Kariba legge questi nomi romantici sui cartelli indicatori. Sono riportati anche sulle carte topografiche federali e giustamente non saranno mai dimenticati: Collina dell'accampamento, Cresta del rasoio, Collina dei reni, Cresta della naja, Collo del bufalo, Collo del rinoceronte, Il bacino; e più avanti: 'Pazzia di Savory', nome che avrebbe potuto essere un epitaffio per l'intera strada, abbandonata e divorata dalla boscaglia famelica, se non fosse riuscita così stupendamente. Infatti, il nome si riferisce a un tratto di tre chilometri che sgomenterebbe qualsiasi ingegnere stradale: non c'era proprio alcun modo di attraversarlo. Ma la strada doveva passare di lì a tutti i costi, e cosi fu. Il 2 dicembre caddero le prime piogge torrenziali. Con un anticipo di meno di quarantott'ore il sentiero degli elefanti, come infine venne chiamato, fu pronto a portare il peso di enormi autocarri con carichi pesantissimi, rombanti sulla loro via verso la gola, un tempo silenziosa e solitaria. La breccia nelle difese esterne di Kariba era finalmente aperta. Verso la fine del 1955, un visitatore sarebbe arrivato a Kariba probabilmente per via aerea, atterrando su una breve pista che al principio poteva soltanto accogliere i piccoli e vigorosi 'Rapides'. Se egli avesse prestato servizio durante la guerra, quella pista gli avrebbe subito richiamato alla mente una testa di sbarco. Le retrovie erano ancora disseminate dei resti di un esercito avanzante; un esercito, però, armato di arnesi da costruzione. Cartelli di legno grezzo e insegne con figure simboliche indicavano i sentieri sabbiosi verso i depositi di materiali, i quartieri generali delle unità, le mense, le latrine, il posto di assistenza medica. Macchine fuori uso, mezzi cingolati e veicoli giacevano sparsi in giro. Piccoli gruppi di uomini erano in continuo movimento sulle colline sovrastanti la gola, quasi tutti in cachi, alcuni nudi sino alla cintola, altri in camicia da boscaglia, sciarpa, pantaloni di fustagno e stivali da sabbia: la divisa non ufficiale delle armate del deserto. Ad aumentare l'illusione, si aggiungeva il lontano fragore delle esplosioni dalle quali si levavano nubi di fumo bianco e giallastro a vagare con la polvere nel cielo infocato. Quando la Land Rover si arrampicava ballonzolando su per la collina, un rumore sordo e sussultante colpiva le orécchie del visitatore, quel rumore che non è mai cessato per cinque anni: il rombo 'persistente dei giganteschi compressori e lo strepito dei diesel che ancora animano lo sfondo della battaglia. Attraverso la gola egli poteva vedere le minuscole figure degli uomini al lavoro attorno agli ingressi delle gallerie di esplorazione, scavate sui dirupi della riva nord. I neri e bassi ingressi di queste gallerie spie* cavano sui toni grigi e bruni delle rocce; di quando in quando lunghi sbuffi di fumo uscivano dalle loro fauci ogni volta che le mine squarciavano il fianco della collina. Un lieve odore di esplosivo impregnava l'aria. Molto più sotto, le acque nella gola apparivano calme, perché il fiume era al suo livello più basso. Come tutti gli altri corsi d'acqua del Sud-Africa, lo Zambesi si ritira in un canale molto stretto nei mesi asciutti, lasciando sco' perti, come rive sabbiose e rocciose, i fianchi del suo letto. Il comportamento del fiume decise i tempi del progetto. In ottobre, lo Zambesi è al suo più basso livello; comincia a salire sterline verso la fine di novembre, e continua cosi fino a marzo, quando raggiunge improvvisamente il suo massimo livello. Questo si mantiene normalmente per una o due settimane, quindi scende rapidamente e uniformemente sino alla fine di agosto; dopo di che, cala con lentezza sino all'inizio del nuovo ciclo. Tra la minima e la massima portata d'acqua registrata nella gola vi è uno sbalzo di oltre tredicimila metri cubi al secondo. La piena arriva con una violenza travolgente; il fiume sale di trenta metri in una quindicina di giorni. Sulla riva asciutta della sponda nord, le squadre della Cementation stavano ponendo le fondazioni di una tura, una sottile struttura semicircolare in calcestruzzo che serviva per tener lontana la corrente del fiume dal tratto di letto dove sarebbero stati eseguiti i primi scavi per le fondazioni della diga. Anch'essi, come gli uomini che stavano costruendo la strada di accesso, sapevano di dover vincere la gara con le piogge. Il lavoro proseguiva giorno e notte, con turni di dodici ore, che stavano per diventare abituali a Kariba. All'inizio, l'unico legame tra la sponda nord e la base sulla riva sud, era costituito da un pontone a verricelli. Poi, in sette giorni, venne gettato attraverso il fiume un ponte di legno su chiatte. Lungo il suo corso di circa tremila chilometri, lo Zambesi prima di allora era stato attraversato solo in tre punti: a Livingstone e a Chirundu in Rhodesia ed a Sena nel Mozambico. La tensione crebbe quando arrivò il mese di dicembre. Il termometro salì rapidamente e gli operai lavoravano alla tura in uno spazio ristretto, assordati dal fracasso delle macelline, con temperature che raggiungevano i 49 gradi. I montatori dovevano tenere gli strumenti in secchi d'acqua invece che nei porta-attrezzi, altrimenti sarebbero diventati tanto caldi da non potersi tenere in mano. Il medico del cantiere riferì dir la traspirazione degli uomini era di quattro litri e mezzo al giorno. È straordinario il fatto che pochi di essi diventarono irritabili per la tensione, benché fossero per lo più del Sud-Africa e della Rhodesia dove gli operai specializzati hanno una tradizione di lavoro comodo e dove si crede erroneamente nel luogo comune che l'uomo bianco non possa sopportare un prolungato sforzo fisico nei paesi sub-tropicali. Alcuni operai, scoraggiati, se ne andarono, perché mai si cercava di trattenere gli uomini che non potevano sopportare la fatica o il cui spirito non assorbiva l'atmosfera prevalente di orgoglioso cameratismo. La grandiosità dell'impresa, resa peraltro più ardua dalle improvvise sfide del fiume, dava a quasi tutti coloro che vi erano interessati la sensazione di partecipare a eventi trascendenti le normali esperienze. Brontolavano, si lagnavano come fanno i soldati, e si vantavano come vecchie reclute. «Pensate,» dicevano ai visitatori che li ascoltavano stupiti alla mensa, «giù al cantiere la settimana scorsa bisognava bere il tè alla svelta perché altrimenti diventava troppo caldo» Il 16 dicembre l'ingegnere direttore addetto alla tura annunciò: «Se ci saranno concessi ancora dieci giorni saremo soddisfatti» Da quel momento, ogni minuto, un autocarro si trascinava giù nel letto del fiume, rovesciava il suo carico e risaliva faticosamente la ripida sponda verso i depositi di pietrisco e di sabbia. Ma alla vigilia del Natale del 1955, il fiume infierì con una piena che portò via il ponte galleggiante e allagò le fondazioni della tura completate solo in parte. Nyaminyami, si cominciò a mormorare, aveva manifestato l'intenzione di accettare la sfida. Per tutto il resto della stagione delle piogge egli avrebbe risposto alle prime scaramucce con una serie di contrattacchi, alcuni dei quali del tutto inaspettati. Nella storia dello Zambesi non si era mai registrata una piena in cui il fiume avesse raggiunto due volte i livelli massimi, in cui, cioè, dopo essersi ritirato, fosse poi risalito con nuovo vigore. È questo che doveva succedere più tardi in quella prima stagione, dopo che era stato deciso di fermare il fiume. Fu senza dubbio un caso, ma di simili casi dovevano capitarne ancora molti. CAPITOLO QUINTO PREPARATIVI PER LA BASE LOGISTICA In questo primo scontro col fiume, l'uomo subì una piccola sconfitta tattica. La gara per il completamento delle fondazioni della tura fu persa per pochi giorni, ma senza serie conseguenze. Per sei mesi, nel letto dello Zambesi scomparve ogni traccia del lavoro umano, eccetto i solidi piloni costruiti per reggere il futuro ponte stradale. I lavori iniziali della tura furono coperti dalle acque, che nella notte di Natale si alzarono di cinque metri. Le travi del ponte galleggiante, che sia nell'aspetto sia nei principi tecnici non presentavano molta differenza dal primo ponte che Cesare costruì sul Reno, vennero spazzate verso il mare. Solo una teleferica, con un carrello per il trasporto dei passeggeri e delle merci, univa le due sponde. A Kariba rimasero delusi, ma restava da fare ancora tanto lavoro sulle colline e al disopra del livello più alto della furia del fiume che non ci fu tempo per i rimpianti. Il pericolo maggiore per il progetto stava ancora nelle liti fra le città della Federazione. Cenerentola fu in quel Natale la pantomima preterita dai dilettanti di teatro. Le cattive sorelle, chiamate Kafue e Kariba, si contendevano aspramente i lavori del principe. Nel pubblico c'era chi aveva conservato il senso dell'umorismo, e chi no. Un lettore indignato scrisse al direttore di un giornale locale che, poiché la parte del bacino dello Zambesi compresa nella Rhodesia del Nord conteneva il 75 % dell'acqua contro il 10% contenuto nella parte della Rhodesia del Sud, il fiume e tutti i suoi lavori dovevano appartenere al Nord. Un altro protestava che i sudrhodesiani avessero deliberatamente costruito la diramazione della strada per Kariba con un angolo così stretto che un automobilista proveniente dal Nord, per poterla imboccare, era obbligato a fare marcia indietro. Questo, egli dichiarava, era un losco stratagemma per tenere lontani dal cantiere gli uomini d'affari di Lusaka. Assieme ai risentimenti assurdi, ce n'erano anche di pericolosi. Quella che veniva descritta dall'Economist di Londra come una disputa condotta «con un misto di alta tecnica e di affarismo politico» cominuav a ancora. Fra i membri del parlamento federale fu lanciata una campagna per ottenere l'annullamento della decisione. Il movimento guadagnò forza, e raggiunse il culmine quando alla Camera fu presentata una mozione perché i lavori di Kariba venissero interrotti. Sei dei nove parlamentari di secondo piano della Rhodesia del Nord si astennero o votarono contro il governo dopo un aspro dibattito, al quale assistettero, impassibili, un gruppo di rappresentanti della Banca Mondiale in visita. Fu questo l'ultimo serio tentativo di rovesciare per vie costituzionali il progetto di Kariba. Ma la campagna diffamatoria diventava sempre più astiosa. Si parlava di gravi errori nei calcoli finanziari; si sparse la voce che le condizioni del luogo erano così insalubri che gli operai africani «morivano come mosche» a causa dell'umidità e della malaria; e si mormorava, nei bar e nei club, die si era scoperto che il letto del fiume era formato di roccia porosa per cui la diga, se mai fosse stata costruita, sarebbe crollata. Benché la maggior parte di queste voci fosse facilmente confutabile - i decessi per malaria, sino al luglio 1959, erano stati solo cinque sui 20.000 e più indigeni che avevano lavorato a Kariba - , esse pregiudicavano lo sviluppo del progetto. Una campagna contro il reclutamento di lavoratori africani nel Niassa ebbe un certo successo, e il sospetto generale che i nativi nutrivano per Kariba crebbe a tal punto da creare un serio intralcio nello sloggiamento delle tribù dalla zona destinata a essere allagata dalle acque. Il progetto era uno degli argomenti usati per suscitare e poi infiammare quella diffidenza verso la Federazione che alimenta il malcontento politico corrente. È una ironia tipica del mondo africano che da una delle sue più grandi realizzazioni si prendesse motivo per incoraggiare pericolose divisioni politiche. I consulenti erano occupati alla stesura della relazione tecnica che i finanziatori avrebbero richiesto prima di prendere le loro decisioni. Nella lontana Grenoble gli ingegneri cominciarono a costruire un modello della futura diga per svolgere su di esso esperimenti allo scopo di stabilire sterline le dimensioni e la forma definitiva. Vennero firmati diversi contratti per dar corso ai lavori preparatori nel cantiere, per le forniture dei materiali, per un ponte stradale e una passerella pedonale, per il prolungamento della strada di accesso dal sud e per una strada da Lusaka alla riva nord. Prima dell'assalto principale al fiume, si doveva rafforzare la base logistica. Guardando una carta delle Rhodesie, si può notare che il territorio a nord e a sud dello Zambesi porta pochissimi nomi che non siano di fiumi. Le località indicate, anche se hanno un nome, consistono, con tutta probabilità, in un pugno di abitazioni che in Europa o in America sarebbero considerate a malapena un piccolo villaggio. È facile essere tratti in inganno da una carta geografica, ma a chi si metta a studiare l'Africa sulle carte ciò accade quasi sempre. La località di Karoi, ammesso che vi sia indicata, può essere scritta a caratteri grandi quanto quelli di Baltimora o Bergen, ma il numero dei suoi abitanti, tra bianchi e negri, supera appena il centinaio; Miami, che ne! passato era l'ultima tappa verso Kariba provenendo dal sud, ne raccoglie a stento una ventina. Nel cuore di questo territorio, dove il numero dei capi di selvaggina è infinitamente superiore a quello degli esseri umani, e dove fino a poco tempo fa non esistevano costruzioni di maggior mole della tenda o della capanna di fango ed erba, venne fondata una cittadina che, in due anni, sarebbe diventata la sesta, in ordine di grandezza, della Federazione, molto più popolosa della capitale del Niassa. La maggior parte delle costruzioni e degli impianti urbani - case, negozi, banche, scuole, ospedali, luoghi di riunione, strade, servizi elettrici, impianti idrici e fognature - fu affidata alla ditta Richard Costain. Il contratto fu firmato nel febbraio 1956; il termine stabilito era di due anni, ma i lavori vennero compiuti in diciannove mesi. Il costo fu più di tre milioni e mezzo di sterline. Tutto l'occorrente, dai bulldozer alle maniglie delle porte, dai cucchiaini alle betoniere, dovette essere trasportato, nell'ultima parte del viaggio, per oltre trecento chilometri di strade ancora allo stato primitivo. Oltre a duemila indigeni, furono impiegati uomini provenienti da quasi tutti i paesi dell'Europa e del Sud-Africa. Qualunque cosa stesse per accadere lungo il fiume, le alture di Kariba avrebbero portato per sempre l'impronta dell'uomo. Quando, nelle quarantotto ore che seguirono la firma del contratto, il gruppo avanzato di Costain arrivò al cantiere, a Kariba già lavoravano trecento europei e un migliaio di indigeni. La maggior parte di essi viveva sotto teloni di canapa o iuta spruzzati di cemento; da questo brutto e disordinato accampamento s'irradiavano delle strade rudimentali. La futura cittadina sarebbe sorta fra le cime delle alture, trecento metri più sopra. Le strade di accesso ai punti più importanti della città non erano state ancora completate. Imperterrito di fronte a tale spettacolo, il primo piccolo convoglio, prima di muoversi lentamente e faticosamente verso il teatro delle future operazioni, si fermò solo per scambiare grossolani saluti con gli abbronzati e barbuti rappresentanti della vecchia brigata di Kariba, che si erano riuniti per attenderne l'arrivo. In testa venivano i bulldozer che aprivano il passaggio attraverso la fitta boscaglia. Sulla loro scia avanzavano i giganteschi trattori con le quattordici carovane, dipinte coi colori blu e grigio dell'impresa, che avrebbero costituito il quarder generale. Il viaggio fino alla sommità della collina richiese quasi tutta la giornata, ma prima che gli uomini potessero riposare, fu necessario scavare sul ripido pendio un ripiano per ogni carovana. All'alba del giorno seguente ebbero inizio i lavori. Da Salisbury arrivavano rinforzi giornalmente. In un mese le opere essenziali preliminari Furono compiute. La cava era in attività, era stata costruita una fabbrica di mattoni e di blocchi di cemento, installati i serbatoi e le pompe per rimpianto di distribuzione dell'acqua; la centrale elettrica provvisoria era già in funzione, erano state montate le linee di trasmissione e il lavoro di spianamento era iniziato. A voler descrivere dettagliatamente tutto quello che fu fatto a Kariba, da un resoconto di audacia e d'ingegnosità umana si finirebbe in una monotona elencazione. In venti mesi fu costruita una cittadina che sarebbe stata abitata in gran parte da italiani, e che, come la loro capitale, giaceva su sette colli: Pan di zucchero. Colle del campo, Picco, Colle delt'ospedale. Colle aereo, Kariba alta e Giogo del trovante. Il villaggio africano era distante circa cinque chilometri e situato quattrocentocinquanta metri più in basso. Chiamato dapprima l'«arrangiamento», poi l'«alloggio»» oggi, dato che la nomenclatura segue di pari passo le vicende politiche, è classificato come città a sé, chiamata Mahombekombe, che significa «Riva del lago». Benché il lavoro dominasse la vita di ciascuno, si era ancora in un periodo di giorni spensierati. I problemi da affrontare erano immensi, ma gli ostacoli venivano superati in un'atmosfera di gaia avventura. Era una compagnia di giovani - l'età media degli ingegneri e degli ispettori non superava i 35 anni - e ad ascoltarli si aveva l'impressione che l'intero progetto fosse un grandioso divertimento. In tutto ciò che essi facevano c'era una specie di spavalderia. Raccontavano, per esempio, la storia di un balletto: uno dei pochi gruppi di artisti di varietà che andò a Kariba. Erano un uomo, una ragazza e un pianista. Arrivati la mattina presto, i tre rimasero sconcertati nel vedere il luogo ove avrebbero dovuto esibirsi: quattro pareti nude e nient'altro. Ebbene, la sera stessa era stato costruito il palcoscenico, installato un completo impianto di illuminazione, sistemata la platea con panche, seche e persino un tappeto rosso. Praticamente in un giorno era stato costruito un teatro. Allo spettacolo non mancarono interruzioni. Il pianista si era esercitato nel pomeriggio, probabilmente per familiarizzarsi con le bizzarrie e le stonature dell'unico pianoforte di Kariba che, nella birreria in cui era tenuto, era stato protetto dal caldo con frequenti libagioni. Mentre egli suonava, gli uomini costruivano il tetto. Alla premurosa domanda se il rumore lo disturbasse, si alzò e rispose con grave formalismo tedesco: «Niente affatto» Ma quando, la sera, iniziò il programma con un a solo di pianoforte, e un ritardatario salutò i suoi amici con un sussurro furtivo, il pianista chiuse rabbiosamente il piano e si allontanò a lunghi passi dal palcoscenico. Fu necessario che una delegazione gli assicurasse che da allora in poi sarebbe regnato un silenzio assoluto, e allora egli riprese lo spettacolo. Venne quindi il momento dell'a solo del ballerino, un'interpretazione del Cavalier à la mode. Fra le quinte, con gli occhi spalancati, un elettricista negro, che non aveva mai visto il teatro, era così affascinato dalle movenze dell'artista che dimenticò di azionare le luci. Il ballerino avanzò ritmicamente verso l'orlo del palcoscenico, con la spada sguainata, e sibilando: «Verde, idiota!» fece un affondo verso le quinte. Il corpulento negro fuggì con urla di terrore cercando scampo fra gli spettatori. Ma gli uomini di Kariba non si compiacevano d'impressionare soltanto gli artisti in visita. Per vincere una scommessa con un architetto che arrivò un lunedì sera. Con le piante di una casa, essi la costruirono prima che il suo aereo decollasse per Salisbury il giovedì seguente. Eressero una banca in nove giorni. Quando mancava solo una notte per completare la palazzina dell'aeroporto nel tempo di record che si erano imposti, le dattilografe, che erano al lavoro dalle 6,30 del mattino, si unirono ai guidatori dei bulldozer per dipingere il fabbricato alla luce dei fari dei camion e delle Land Rover disposti in cerchio. L'estremità della pista di volo era ostruita da una piccola elevazione: con una serie di potenti esplosioni, la protuberanza incriminata venne soffiata via dalla faccia della terra. L'ospedale era situato sulla cresta rocciosa di una ripida altura; per creare il piano su cui ora si eleva l'edificio con settanta letti, l'intera sommità fu tagliata di netto come un'arancia col coltello. Lavorando per lunghe ore, rimanevano loro poche energie per divertirsi, ma bevevano enormemente. Quando arrivarono, l'unica acqua disponibile era quella portata in botti dallo Zambesi, che naturalmente non era potabile; al solo vederla dava il disgusto tanto che parecchi tipi schifiltosi si radevano con il seltz. Molti preferivano la birra al tè bollito con acqua dello Zambesi, e la usavano anche per inumidire i corn flakes della colazione. Nel corso di sei mesi trecento uomini fecero fuori quasi duecentocinquantamila bottiglie di birra e ventimila di liquori. Queste cifre pantagrueliche sono da considerare in rapporto alle condizioni nelle quali essi vivevano. Per esempio, quando furono costruite le prime case, non vennero mai accesi i boiler elettrici, perché venivano usati per conservare l'acqua potabile che scorreva più fresca dal rubinetto dell'acqua calda che da quello dell'acqua fredda. La birra, quando la decenza lo permetteva, veniva conservata nell'obitorio, costruzione che, nella sua struttura, rifletteva mirabilmente lo stato di confusione attraverso il quale la Rhodesia odierna sta passando nell'evolversi dalla rigida segregazione verso la collaborazione razziale. L'obitorio aveva due ingressi separati alle estremità, uno per i morti europei e l'altro per quelli africani; entrambi però conducevano alla medesima lastra per tutte le razze. «Nella morte,» dicevano i giovani ridendo, «non siamo divisi» Anche le donne bianche, benché nel 1956 nell'esiguo rapporto di uno a trenta, cominciarono ad avere la loro parte a Kariba. La prima a giungere nel cantiere come impiegata fu la signora Grace Everett, che faceva da segretaria a un rappresentante dei consulenti: una giramondo che aveva lavorato in luoghi lontani come la Cina, il Pakistan, la Svizzera e il Kenya. Questa piccola donna spiritosa, la cui esuberanza si alterna a momenti in cui ella si ritrae bruscamente dalla conversazione racchiudendosi in un ironico silenzio, è sempre rimasta a Kariba con l'intenzione di rimanervi sino a quando il progetto non fosse terminato. Al suo arrivo non era sola, perché, pur essendo partita la signora Martens, due altre donne avevano raggiunto nel cantiere i loro mariti. La maggior parte delle mogli che arrivarono nei mesi seguenti provenivano dalle fattorie della Rhodesia o del SudAfrica ed erano abituate a dividere le privazioni dei loro consorti nella boscaglia, secondo la dura tradizione dei pionieri. Sapevano usare il fucile, come cambiare i pannolini a un bimbo, e per lo più erano molto pratiche in tutt'e due i campi. Ma non molto dopo troviamo madame Lucienne Pares, moglie di un ingegnere francese, che cerca di creare, con il suo buon caffè, la sua mordace e incisiva conversazione e l'indomabile eleganza, un'atmosfera da salotto nella piccola stanza con tappeti della casa prefabbricata, un salotto a pochi chilometri dalle pozzanghere dove gli ippopotami e gli elefanti sfidavano ancora il rumore degli uomini sulle alture, per venire di notte ad abbeverarsi. Cominciavano a sorgere i primi problemi domestici. Una fotograna dei primi tempi mostra la signora Mavis Annibald che, accoccolata fuori della sua casetta di alluminio, accende il fuoco con pezzetti di legno per scaldare il latte del suo piccolo Colin. Il 4 giugno nacque a Kariba una bambina europea, la prima di oltre un centinaio. Era la figlia della signora De Witt, moglie di un meccanico assegnato a uno dei campi più isolati, molto lontano dalle altre abitazioni. Un'amica, ostetrica, che era venuta per stare con i De Witt, aiutò la bimba a venire alla luce. L'atmosfera da campo militare si stava a poco a poco trasformando in quella di una colonia. Il gruppetto originario dei lavoratori era stato rinforzato da centinaia di uomini di una dozzina di nazionalità diverse. Tuttavia il visitatore "non poteva ancora avere l'impressione che fossero avvenuti grandi cambiamenti nella gola. Lord Llewellin, primo governatore generale della Federazione, il 10 maggio, tagliando un nastro con un paio di forbici d'oro, inaugurò il più lungo ponte pedonale sospeso del mondo. Sopra il tavolato di duecentodieci metri che beccheggiava e rollava dolcemente come il ponte di una nave in un porto tranquillo, era di nuovo possibile passare a piedi da una riva all'altra. L'unica cosa che si poteva vedere del lavoro fatto dall'uomo nel fiume erano i piloni del futuro ponte stradale, attorno ai quali la corrente vorticosa aveva una velocità da diciotto a trentasette chilometri l'ora. Le fondazioni della tura erano ancora molto sotto la superficie del fiume e sarebbero rimaste nascoste fin dopo la metà dell'anno. Un ciclone, chiamato nei bollettini meteorologici «Edith», aveva colpito le sorgenti dello Zambesi, causando una seconda piena con un ritardo senza precedenti, che aveva ridotto ulteriprmente il poco tempo disponibile per i lavori nel letto del fiume. C'era tuttavia da assolvere un compito urgente, col quale le forze primordiali dell'Africa non potevano interferire. Si trattava dello scavo della galleria di deviazione sulla riva sud, attraverso la quale avrebbe dovuto scorrere una parte dell'acqua dello Zambesi, mentre veniva costruita la diga principale. Questa galleria, in pianta, era a forma di mezzaluna, con le due estremità a monte e a valle della diga; lunga 395 metri, larga 10 e alta 12. Era la più lunga dell'Africa, estendendosi per 1056 metri, comprese le gallerie di accesso. Per mesi e mesi si sentivano nell'aria ventate di gelignite ogni volta che le esplosioni ali'avanzamento della galleria frantumavano duecento tonnellate di roccia. Macchine dalle fauci ruggenti e dalle membra rigide, simili ai mostri del Mondo perduto di Conan Doyle, o agli invasori del pianeta Krong, secondo il gusto del lettore, si aprivano la strada divorando i detriti alla velocità di centocinquanta tonnellate all'ora. Erano servite da tozzi dumptors su ruote, i quali andavano all'indietro sino all'ingresso e versavano i loro carichi entro autocarri perché portassero la roccia alla luce di quel sole che non aveva conosciuto per milioni di anni. Alle due estremità della galleria furono lasciati sottili diaframmi di roccia, in attesa del giorno in cui sarebbero stati fatti saltare per permettere alla calda acqua del fiume di irrompere attraverso lo scavo. La parte preliminare era terminata; tutti i milioni spesi e tutto il lavoro compiuto avevano solo reso possibile l'inizio del compito principale. CAPITOLO SESTO ARRIVANO GLI ITALIANI Fin dall'agosto 1955, il governo federale annunciò il proposito di indire una gara per i principali lavori di ingegneria civile a Kariba. Un annuncio che invitava le imprese interessate a entrare in corrispondenza col governo, fu pubblicato in Africa, in Inghilterra, negli Stati Uniti, in Francia, nella Germania occidentale, in Danimarca, in Svezia, in Olanda e in Svizzera; ma, come si nota, non in Italia. Si sapeva che l'appalto sarebbe stato di almeno trenta milioni di sterline, il più alto offerto alle imprese di costruzione dalla guerra in poi. L'Europa aveva superato il periodo di disperata deficienza materiale e riparato il peggio delle sue devastazioni; cosicché i paesi che poco prima non avrebbero potuto prendere in considerazione il lavoro, ora disponevano delle necessarie risorse. La concorrenza era quindi accanita. Fu presto evidente, però, che nessuna impresa da sola avrebbe potuto assumere il finanziamento e l'esecuzione di un'opera così gigantesca. Seguì un periodo di nascosta attività durante il quale vecchi rivali negoziavano segretamente tra loro per consorziarsi e presentare offerte congiunte. Tutti questi gruppi, tranne uno poco conosciuto, erano di carattere internazionale. Fu dato tempo fino all'aprile del 1956 per preparare le offerte. Il 18 aprile, settanta buste vennero aperte a Salisbury dinanzi a numerosi giornalisti e fotografi. La maggior parte delle offerte riguardavano la fornitura e l'installazione delle attrezzature elettriche per un valore complessivo che eguagliava pressappoco quello dei lavori di ingegneria civile, ma l'interesse pubblico era concentrato sul lavoro più spettacolare, la costruzione della diga e le grandi centrali sotterranee. A. B. Cowen, a nome del presidente del Consiglio federale per l'energia elettrica, aprì, impassibile, i sei grossi plichi che contenevano le offerte per le opere di ingegneria civile, posò per i fotografi mentre esaminava un voluminoso incartamento, e si ritirò sorridendo. Sarebbe passato qualche tempo, egli disse, prima di poter annunciare una decisione. Il pubblico, eccitato dalla competizione e convinto che egli avrebbe proclamato il vincitore dopo un semplice sguardo alle cifre, si rassegnò ad attendere frenando l'impazienza. Offerte di tale importanza erano determinate da tante condizioni che solo dopo un attento studio sarebbe stato possibile metterle a confronto. Un'ulteriore complicazione era costituita dal fatto che il consiglio, dopo gli esperimenti e le ricerche di Andre' Coyne, aveva deciso di aumentare l'altezza della diga e pertanto le offerte dovevano venir modificate in conformità. Ciò nondimeno, i bene informati, pensavano che la decisione sarebbe stata annunciata nel mese di maggio in modo da permettere l'inizio dei lavori al più presto possibile durante la stagione di magra. A metà giugno 1956 nessuna dichiarazione era stata fatta. Nacquero allora voci che qualcosa di insolito bolliva in pentola. I più erano convinti che l'appalto sarebbe stato aggiudicato a un consorzio con forti interessi britannici. Non era stata data la parte del leone per i lavori preliminari alle due filiali africane delle due imprese britanniche, Cementation e Richard Costain? E la loro conoscenza dei problemi e il fatto che già si trovavano sul luogo non avrebbe dato loro un grande vantaggio all'atto dell'offerta? Verso la fine di giugno cominciarono a circolare delle voci, e i giornali riportarono la notizia che l'offerta più bassa era stata presentata da un consorzio di cui non facevano parte imprese britanniche. Nella prima settimana di luglio si seppe da Roma che gli italiani erano sicuri di essersi aggiudicati il contratto, e a Salisbury fu confermato ufficialmente che l'offerta più bassa era stata proprio quella italiana. A Londra, si stavano già adducendo delle scuse. Era difficile per le imprese britanniche trovare dei capi cantiere e sorveglianti pronti a lavorare per un lungo periodo nell'Africa equatoriale. La ricostruzione della City e delle altre città bombardate aveva determinalo la piena occupazione nel campo edile e le compagnie britanniche erano già sovraccariche di commissioni. Gli italiani erano aiutati da una sovvenzione governativa e avrebbero dato paghe molto basse ai loro operai. Fra parentesi, bisogna notare che la prima accusa fu smentita, e che i fatti hanno provato la falsità della seconda. Ormai quasi tutti avevano indovinato che cosa stava in realtà succedendo. Dopo aver mandato degli ingegneri ad assicurarsi della capacità degli italiani di eseguire il lavoro, i consulenti avevano raccomandato di accettare l'offerta più bassa, come del resto desiderava lo stesso consiglio. Dietro le quinte, il governo federale ricevette forti pressioni da parte di interessi britannici perché non accettasse l'offerta più bassa, e la stessa opinione pubblica era favorevole a tale punto di vista. La Rhodesia del Sud, in particolare, fino agli avvenimenti politici più recenti, aveva aggressivamente mantenuto la sua lealtà al legame britannico. La decisione fu ardua e dolorosa; ma, dopo esitazioni comprensibili, fu adottata quella giusta. Il 16 luglio, un annuncio sui giornali rese nota l'assegnazione di contratti per un ammontare complessivo di oltre 50 milioni di sterline. L'offerta di un consorzio italiano, denominato Impresit, era stata accettata per i principali lavori di ingegneria civile: la sua offerta, di poco più di 25 milioni e un quarto, era di circa un milione e mezzo di sterline più bassa di quella del concorrente più vicino. Fu anche assegnato all'Italia il secondo dei maggiori contratti particolari, dell'importo di circa 10 milioni di sterline, riguardante la costruzione della rete di trasmissione lunga 1475 km. da Kariba attraverso alcune delle più selvagge regioni della Rhodesia. Le reazioni rhodesiane alla notizia furono contrastanti. Oltre al naturale disappunto per il fatto che gli inglesi non avrebbero costruito la diga, si temeva che un largo afflusso di operai italiani su una base di basse paghe potesse infrangere il comodo schema della vita sociale e commerciale rhodesiana. Ma verso gli italiani c'era poca ostilità e un rispetto e una simpatia considerevoli. Molti di loro, durante la guerra, erano stati nei campi di prigionia che le autorità imperiali avevano stabilito in Rhodesia. Era stato concesso loro un insolito grado di libertà dato che le condizioni geografìche della Rhodesia costituivano una barriera più efficace del filo spinato; avevano familiarizzato con la popolazione locale e fatto grande impressione per la loro perizia e industriosità. La campagna è punteggiata di fattorie e altri fabbricati costruiti dai prigionieri italiani. La stampa locale appoggiò cautamente la decisione. A Londra invece la decisione venne attaccata; ma «i contratti», come scrisse l'Economist, «si fanno coi prezzi, non con le scuse». Nello stesso periodo vennero concluse le complicate trattative finanziarie, così che i molteplici accordi per i prestiti e i contratti furono firmati quasi con la stessa penna. La Banca Mondiale aveva accordato un prestito di 80 milioni di dollari (pari a 28,6 milioni di sterline di allora); le compagnie del rame che avevano miniere nella Rhodesia del Nord promisero 20 milioni, e la Colonial Development Corporation 15 milioni, ma a un tasso di interesse così alto che questo prestito verrà utilizzato il meno possibile. La differenza fu coperta con un contributo di 5,4 milioni del governo federale, 4 milioni della British South Africa Company, 3 milioni della Commerciai Development Financial Corporation e 4 milioni delle banche Barclays e Standard. Si noterà che il 40% del denaro venne da organizzazioni le cui rendite erano in gran parte o esclusivamente guadagnate nella Federazione. Uno degli aspetti più sorprendenti dell'accordo è che Kariba non è costata e non costerà un soldo ai contribuenti rhodesiani. Dato che i costi di esercizio di un impianto idroelettrico sono trascurabili, i prestiti verranno rimborsati coi proventi della vendita di energia elettrica, e gli interessi, prima che si abbiano utili di esercizio, vengono pagati dal capitale. Altri dati finanziari: nelle gare per la fornitura di apparecchiature elettriche, il 98 % è aggiudicato a fabbricanti inglesi; tenendo conto del denaro che gli italiani avrebbero speso in Rhodesia e in Inghilterra, si calcolò che la componente straniera dei prestiti a Kariba ammontasse al 22,5 % del totale, e che l'importo complessivo delle spese, meno il 23 %, sarebbe stato erogato nel Commonwealth. Benché sia stato destino di Kariba di far nascere controversie in ogni suo aspetto, l'opera è stata mandata avanti con una velocità che nessun altro lavoro di tale mole ha mai eguagliato in tempo di pace. Andre' Coyne, che ha idee ben precise in proposito, disse: «Ogni volta che si è trovato di fronte a una difficoltà, Lord Malvern è stato audace nelle decisioni. A parte il profitto tratto dalla sua iniziativa, siamo stati fortunati perché la Rhodesia è un paese sottosviluppato. Vi sono pochissimi uomini politici e pochissimi tecnici, così che non abbiamo avuto intralci nello svolgimento dei nostri compiti. Sir Malcolm Barrow ci ha protetto in parlamento e, dopo che fummo nominati consulenti, non ha mai permesso interferenze. Di solito invece gli uomini politici intromettono nuovi consulenti a consigliare quelli in carica e bloccano ogni cosa in modo che non è mai possibile prendere una rapida decisione. Nel 1955 fui interpellato per le dighe di Assuan e di Kariba. Mentre abbiamo costruito Kariba, su Assuan si sta ancora discutendo» Un rilievo da lui taciuto per eccesso di modestia è che la celerità dell'esecuzione è dovuta in gran parte alla precisa programmazione dei piani da parte dei consulenti. A Parigi, Grenoble, Londra, Newcastle e Harlow, quattrocento scienziati e tecnici inglesi e francesi hanno elaborato i centomila dettagli del progetto per poi coordinarli in un solo programma concatenato. Sono stati preparati migliaia di disegni esecutivi. In seno al gruppo dei tre consulenti, si è applicato il metodo che i piani formulati da uno di essi, cui era stata affidata la progettazione di ogni particolare del lavoro, venivano controllati dagli altri due: pnx -edimcnto insolito, che peraltro avrebbe potuto causare dissensi dato che due delle società consulenti erano francesi e una inglese. Il capo di questo consorzio internazionale di consulenti è T. A. L. Paton, un uomo dai capelli bianchi, dal viso fresco e porta gli occhiali; ha un aspetto benevolo, gioviale; sembra un direttore di scuola che ancora si diletta a giocare al cricket. I suoi colleghi francesi parlano di lui con calorosa affettuosità che ben di rado viene dimostrata a un inglese dai vicini d'oltre Manica. Pur avendo avuto una parte determinante nel successo di Kariba, egli, come tutti i maggiori interessati nel progetto, cerca sempre di attribuire il merito ad altri. In particolar modo, ne fa lode agli appaltatori. Prima che il lavoro di Kariba sia finito, più di cento società vi avranno preso parte direttamente. Abbiamo già accennato al contributo delle organizzazioni Cementation, John Laing e Richard Costain. Fra le imprese che per prime eseguirono i lavori preliminari, quella del Kenya di A. G. Burton rappresenta l'apporto dell'Africa Orientale a un'iniziativa alla quale ha partecipato quasi ogni paese del mondo libero. Burton costruì la strada di ottantaquattro chilometri che collega Kariba con l'autostrada di Lusaka, sulla quale sono già passate quattrocentomila tonnellate di rifornimenti e apparecchiature. La maggior parte del personaie e delle attrezzature della Burton arrivò in convoglio per via di terra da ogni parte dell'Africa Orientale percorrendo in sette settimane e mezzo i tremiladuecento chilometri di distanza dalle montagne del Ruwenzori in Uganda. A. G. Burton, uomo di taglia massiccia come un agricoltore, con un grosso naso, partecipò di persona al lavoro fin dall'inizio controllando paternamente ed energicamente il suo gruppo di 90 europei e 900 africani. La loro zona era la più calda di Kariba, e quando essi smuovevano la terra si levava una polvere gialla, fine come cipria, ma molto più irritante. La loro impresa, in quel territorio selvaggio e senza acqua, in circostanze normali, avrebbe attirato l'ammirazione che si meritava, ma, come molte altre, è stata oscurata dall'ombra della gigantesca diga nella gola di Kariba. «Appaltatori» è un termine pedestre per definire uomini la cui perizia ed il cui coraggio lascerà per sempre un'impronta sulla faccia dell'Africa, come non o mai svanito dall'Europa il segno di coloro che costruirono le strade romane. Sulla carta, l'Impresit è un consorzio di quattro Società e cioè: l'impresa Umberto (rirola, l'impresa Ing. Lodigiani SpA, l'impresa Dott. Ing. Giuseppe Tomo & C. SpA, tutte e tre specializzate nell'esecuzione di grandi lavori idroelettrici, e la Imprese Italiane all'Estero SpA, soi^tà tecnico-finanziaria specializzata nell'esecuzione di lavori all'estero, consociata della FIAT. In sostanza, TImpresit era un corpo di un migliaio di europei o poco più, i quali, insieme con circa seimila manovali africani, combatterono una battaglia triennale contro il più violento se non il più potente fiume africano. Nella quindicina successiva all'aggiudicazione dell'appalto principale, l'Impresit stabilì il suo quartier generale a Salisbury. Il suo direttore generale in Rhodesia è il dottor A. Bergamasco: uomo dotato di un temperamento calmo e affabile e di una pazienza sempre serena, è il tipo ideale del capo di stato maggiore, al quale si può paragonare anche per il grado di responsabilità. È alle dirette dipendenze del consigliere delegato dell'Impresit, dottor G. Lodigiani, che risiede in Italia ma visita frequentemente il teatro delle operazioni, ed è coadiuvato da un biondo toscano, l'ingegnere Mario Baldassarrini, il cui nome sarà forse ricordato più di ogni altro da tutti coloro che hanno lavorato a Kariba. Baldassarrini è l'ingegnere dell'Impresit direttore del cantiere. Uomo sotto la quarantina, unisce lo slancio impulsivo di un giovane alla mentalità calcolatrice dei veterani. È infaticabile, energico, impavido e al tempo stesso pieno di risorse, accorto e scaltro. Dotato di ingegno vivacissimo e di corporatura straordinariamente vigorosa, la sua figura ricorda i giganteschi e spietati condottieri del Rinascimento italiano. Egli dirige sia con i pugni sia col cervello. Venne in Rhodesia nel giugno 1956. Appena fu firmato il contratto, nel mese seguente, si stabilì a Kariba. Si trovò subito di fronte a un arduo problema da risolvere. La Cementation aveva ancora bisogno di parecchi mesi per terminare tutti i lavori del suo contratto, tra cui la costruzione della prima tura. Pertanto i due appaltatori principali si sarebbero trovati a svolgere in quel periodo il medesimo lavoro, situazione ovviamente irta di difficoltà. Venne raggiunto un accordo, in base al quale l'Impresit sarebbe subentrata alla Cementation per la rimanente parte del suo contratto, assumendo l'intera responsabililà del cantiere dal 31 agosto. Il trapasso poteva dar luogo a gravi attriti fra gli impiegati della uscente Cementation, in massima parte sudafricani e rhodesiani, e gli italiani della subentrante Impresit. Ma, grazie soprattutto al tatto ed alla personalità di W. S. Garrett, rappresentante della Cementation a Kariba, il comprensibile malumore dei suoi operai fu dominato e tutto si svolse senza incidenti. Avvenne, anzi, che circa metà degli impiegati della Cementation rimase per eseguire lavori speciali che l'Impresit subappaltò alla ditta inglese. Per dare un'idea dell'armonia che regnava a Kariba, vale la pena di riferire le generose parole con le quali si espresse, in occasione delle consegne, «Bill» Lodder, l'uomo che aveva diretto i lavori della galleria di deviazione. A chi, con intenzione provocatoria, gli domandava che cosa ne pensasse, rispose: «Gli italiani sono bravi ragazzi e faranno un lavoro di prim'ordine» Il 6 agosto arrivò a Kariba un'avanguardia di cinquantasei fra ingegneri e operai dell'Impresit, e da allora affluirono rinforzi, direttamente dall'Italia per via aerea, alla media di cento uomini al mese. La mano d'opera impiegata per costruire la diga è straordinariamente specializzata e possiede un alto senso di disciplina. Tre quarti sono regolari dipendenti dell'una o dell'altra delle imprese associate; hanno spesso lavorato assieme nel passato, e nelle ore libere si dividono in piccoli gruppi omogenei. Provengono quasi tutti dalle provincie settentrionali dell'Italia. Era stato possibile attirare l'élite degli operai italiani poiché in Europa la maggior parte, degli impianti idroelettrici sono costruiti in località montuose dove non è possibile lavorare durante il periodo delle nevi e delle bufere invernali. Di solito, perciò, gli uomini si trovano disoccupati per tre o quattro mesi all'anno e la prospettiva di un lavoro continuativo a Kariba fu di forte incitamento. Il loro contratto è di due anni e mezzo. Le paghe per gli specializzati variano da 5 scellini e 1 pence a 6 scellini e mezzo l'ora per un mese di 26 giorni equivalenti a 208 ore; gli straordinari sono pagati con la maggiorazione del 25%. In media, ogni mese, vengono fatte 120 ore di lavoro straordinario. In più gli uomini ricevono un premio di fedeltà di 15 sterline al mese per i primi cinque mesi. L'intero premio è versato su un conto speciale aperto per ciascuno di loro; dopo quel periodo, 5 sterline vengono accreditate e 10 pagate in contanti. Pertanto, alla fine del contratto, ogni operaio ha un capitale di 200 sterline da parte. Vengono inoltre pagati premi di rendimento in ragione di 5-10 sterline al mese. Un carpentiere a Kariba percepisce in media 130 sterline al mese, con oscillazioni mensili da un minimo di 110 a un massimo di 155 sterline. Inoltre, tutti gli impiegati hanno alloggi gratuiti in appartamenti o in casette e possono usufruire della mensa che costa mensilmente circa 15 sterline. Agli sposati è anche dato l'alloggio per la famiglia. Poiché Kariba offriva poche occasioni di spendere, gli operai accumulavano in banca la maggior parte dei loro guadagni o li spedivano regolarmente in Italia. Nonostante il duro lavoro, le paghe sono tali che basta il pericolo del licenziamento a imporre un sufficiente controllo disciplinare. Ciò per il fatto che gli uomini sono ammessi nella Federazione solo con un permesso di soggiorno temporaneo corrispondente al periodo del servizio con l'Impresit, e quando, per qualsiasi ragione, il loro impiego venisse a cessare, devono ritornare in Italia. Gli sposati vengono incoraggiati a portare la famiglia, che in Italia normalmente significa diverse persone a carico oltre alla moglie e i figli. L'avere con sé la propria famiglia è un altro lusso insolito. Quando essi lavorano alla costruzione di dighe in Europa, vivono quasi sempre accampati malamente, lontano da casa. Queste sono le condizioni di lavoro degli uomini che sostituirono la Cementation nell'agosto del 1956. A settembre essi erano già occupati agli scavi per il primo blocco della muraglia principale. Bisognò prima di tutto asportare gli strati superficiali di roccia alterata fino a raggiungere la roccia sana a una profondità da sette a otto metri. Dopo di che vennero praticate iniezioni di cemento nel letto roccioso del fiume sino alla profondità di altri quindici metri per riempire ogni fessura sotterranea e saldare nel terreno le fondazioni della diga. Il 6 novembre, lord Malvern fu invitato a Kariba. Non ci fu una grande cerimonia quando egli tirò la leva di una benna per liberare il flusso di due tonnellate di calcestruzzo. Il rumore metallico della bocchetta che si apriva e il tonfo del calcestruzzo a stento potevano essere uditi tra il rumore dei martelli pneumatici, delle pale meccaniche e degli autocarri pesanti che circondavano il piccolo gruppo. Fu anche diffìcile afferrare le sue parole quando, tiratosi lestamente indietro, disse con la sua voce sottile ed acuta: «Che Dio benedica tutte le persone impegnate in questa grande impresa» La pietra di fondazione della grande diga era stata posta; la lotta decisiva stava per iniziare. CAPITOLO SETTIMO LO SPOSTAMENTO DELLE TRIBÙ Se tutto si fosse svolto secondo il programma, si calcolava che lo sbarramento dello Zambesi sarebbe stato compiuto verso la fine del 1958. Benché si dovessero attendere tre o quattro anni prima che il nuovo lago raggiungesse la sua estensione massima di oltre cinquemila chilometri quadrati, l'acqua avrebbe cominciato a salire sterline rapidamente durante la stagione delle piogge successiva alla chiusura della diga. Il territorio a monte della diga era stato esaminato con cura e la futura riva del lago era stata contrassegnata con quattromila picchetti di pietra. Quest'area era abitata da circa cinquantamila persone e da un numero incalcolabile di animali. La popolazione che viveva a ridosso della gola, tranne un piccolo gruppo di Makorikori, apparteneva alla tribù dei Batonka, la più primitiva delle tribù delle Rhodesie e la meno influenzata da quella che, per ora, si considera come l'avanzata della civiltà. Gli affari degli indigeni sono ancora di competenza del governo territoriale e non di quello federale, così che due distinte autorità erano interessate alla sorte dei Batonka della vallata, le cui terre avìte erano condannate. Essi vivevano su entrambe le rive dello Zambesi, così divisi: circa tre quinti dipendevano dal governo della Rhodesia del Nord, a sua volta controllato dal Ministero delle Colonie britannico; gli altri sotto il governo della Rhodesia del Sud, che di fatto, anche se non ancora completamente di diritto, non è soggetto al controllo di Westminster. Benché entrambi i governi della Rhodesia del Nord e del Sud si ispirassero agli stessi principi - fare tutto quello che era umanamente possibile per le sventurate vittime del progresso - i loro metodi differivano considerevolmente. Lo spostamento dei nativi sotto il controllo britannico, ossia, di quelli che vivevano sulla sponda nord, fu accompagnato da resistenza armata e da violenze, in conseguenza delle quali otto di essi vennero uccisi e più di trenta feriti. Fra i Batonka che vivevano sotto la giurisdizione della Rhodesia del Sud non vi furono vittime. L'esodo dei Batonka delle due rive si svolse in circostanze così diverse che è necessario raccontarne la storia separatamente. Lo sfondo però è il medesimo. Soltanto negli ultimi tre o quattrocento anni gli africani di lingua bantu cominciarono ad attraversare lo Zambesi e a muovere verso sud, circa nello stesso periodo in cui gli afrikaner, di lingua olandese, iniziavano il loro spostamento verso nord. Gli aborigeni del Sudafrica ottentotti e boscimani - vennero sopraffatti e, tranne un pugno di questi ultimi, sterminati dalle due ondate di invasori, che a malapena li consideravano esseri umani. Fra le primissime tribù di bantu che arrivarono allo Zambesi vi erano i progenitori degli attuali Batonka. Questi «uomini della vallata» erano protetti dalle infiltrazioni, sia dal carattere inospitale del loro territorio, sia dalla loro reputazione. Un secolo fa, avevano fama di falsità e scaltrezza. Nessuno straniero era al sicuro fra loro, poiché il sistema tradizionale per guadagnarsi i favori del capo era di portargli la testa di chiunque fosse stato scoperto ad attraversare il suo distretto. I crani venivano esposti nel recinto del capo, e il numero e la varietà di essi erano la misura della sua distinzione. Un'altra teoria sul loro passato è che i Batonka, come i cinesi, non opposero mai resistenza agli invasori, finendo in tal modo con l'assorbirli nel proprio sistema di vita. È noto, per esempio, che essi sfuggirono alle terribili scorrerie dei Matabele, cooperando con loro. Finché non vennero sconfitti dai fucili Gatling delle colonne di Rhodes, i Matabele riscuotevano tributi di uomini e di bestiame da tutti i vicini, e i loro giovani non conseguivano la virilità sino a quando le loro lance non erano state bagnate di sangue in una scorreria. Per penetrare negli allevamenti di bestiame delle tribù della Rhodesia del Nord essi dovevano attraversare lo Zambesi, cosa che, per la loro paura ed ignoranza dell'acqua, non sarebbe stata possibile se i Batonka non avessero fatto loro da traghettatori. Per una ragione o per l'altra i Batonka furono lasciati stare e la loro cultura a stento superò l'età della pietra. Erano grandi cacciatori e praticavano un'agricoltura primitiva, seminando due raccolti di miglio all'anno, uno dopo le piogge e l'altro nel terreno alluvionale lasciato sulle rive del fiume in seguito al reflusso delle piene annuali. Non conoscevano la moneta, e tra le cose che la loro economia non procurava, i loro desideri erano limitati a collane, conchiglie di ciprea e sale, che acquistavano barattando avorio e pelli. Erano organizzati con un sistema più familiare che tribale, essendo il «capo» poco più che un capo di villaggio, e, come in tutte le culture primitive, la successione seguiva la linea matriarcale. Le costruzioni più importanti e caratteristiche dei loro villaggi erano i magazzini costruiti su pali, nei quali le messi venivano conservate su alte piattaforme per proteggerle dalle formiche bianche. I polli tenevano a bada queste terribili devastatrici quando tentavano di arrampicarsi sui pali verso le messi immagazzinate. Per quanto non siano mai stati uniti da alcuna forma di associazione politica, i villaggi erano legati da un linguaggio comune, un dialetto bantu più d'ogni altro libero da infiltrazioni straniere, e da varie consuetudini. Fra queste la più nota è l'estirpazione dei quattro incisivi e dei due canini superiori. La credenza popolare che lo scopo fosse di rendersi poco attraenti agli occhi dei razziatori di schiavi confonde la causa con l'effetto. I denti venivano tolti come segno di identificazione, simile nello scopo, se non nelle conseguenze, all'operazione ancora praticata dalle tribù di Shem. L'estrazione, che consisteva propriamente nel far saltare i denti, veniva praticata ai ragazzi e alle ragazze, non appena raggiungevano la pubertà, da vecchi specializzati in questa operazione. Gli adolescenti si assoggettavano volontariamente al dolore di sentirsi martellare i denti con un'ascia o uno scalpello, essendo la loro immaginazione esaltata dal significato religioso. Quando se ne chiedeva loro la ragione puntavano il dito verso il cielo. Il grande invisibile dio richiedeva il sacrificio come tributo per il privilegio di essere uomo o donna. Con l'inizio del secolo, i ragazzi cominciarono ad abbandonare tale pratica, ma fra le donne, più conservatrici, è sopravvissuta sino ad oggi anche se ormai viene eseguita raramente e non più con il pronto consenso delle ragazze. Entrambi i sessi inoltre si trafiggevano durante la fanciullezza la parte inferiore del naso per infilarvi una spina. Questa non veniva tolta fino a quando non si poteva girare facilmente e mettere al suo posto un bastoncino. Lo scopo era puramente decorativo, dato che il bastoncino infilato nel naso era spesso adorno di perline di vetro. Il suo uso serviva evidentemente ad attirare l'altro sesso, tant'è vero che veniva abbandonato dalle persone di mezza età e ripreso da vedovi o vedove per indicare che erano di nuovo in cerca di compagno. Per lo stesso scopo le orecchie dei bambini e delle bambine venivano forate in tenera età ed entrambi i sessi amavano sfoggiare orecchini e gemme. Le donne inoltre si dipingevano il viso e i capelli con ocra rossa, che, oltre ad aumentare le loro attrattive, aveva un effetto profilattico in quanto creava un terreno sfavorevole alla proliferazione dei parassiti nella capigliatura. Questo cosmetico, misto a grasso di capra, scoraggiava gli approcci degli stranieri, ma non rappresentava un ostacolo per i Batonka, che avevano una stretta familiarità con le capre. Al tempo in cui le coperte erano un lusso raro, le vecchie avevano l'abitudine di spartire il giaciglio con la loro capra preferita per farsi riscaldare. Gli uomini e le donne portavano gonnelle (non molto tempo prima gli uomini andavano nudi). Quelle delle donne si distinguevano per lo spacco sui fianchi e perché di solito erano di pelle; quelle degli uomini erano invece di stoffa, che preannuncia l'introduzione del vestito maschile. È importante ricordare che queste notizie sui Batonka non riguardano un lontano passato, ma la vita che essi conducevano quando vennero tracciati i primi rozzi sentieri nella gola di Kariba. Alcuni Batonka andavano per brevi periodi a Ikilawayo, dove si specializzavano nel compito di vuotare secchi in quelle parti della città dove la fognatura non è ancora servita dall'acqua. Il solo altro contatto con la civiltà era la visita annuale del commissario per gl'indigeni. I Batonka conoscono bene il commissario, I. G. Cockcroft, gli sono affezionati e ne hanno fiducia. Fino a poco tempo fa egli rappresentava il favoloso e lontano governo che, in cambio di una tassa di due sterline all'anno per ogni adulto, assicurava loro la possibilità di farsi i propri affari senza essere disturbati dai nemici. Non desideravano altro da qualsiasi governo, e d'altra parte il tributo richiesto, benché implicasse la necessità di guadagnare denaro e pertanto di fare i viaggi a Bulawayo, era un fastidio minimo anche se incomprensibile. I Matabele avevano preteso l'uso delle canoe, e i varungu, come è chiamata la tribù dei bianchi, volevano due fogli di una speciale carta stampata che ogni uomo, andando in città, poteva guadagnarsi in un mese portando semplicemente un secchio sulla testa. Fia un prezzo modesto in cambio dell'indisturbato godimento delle terre che avevano dato loro la vita e nelle quali riposavano gli spiriti dei loro morti. La notizia portata dal commissario che l'acqua avrebbe allagato le loro terre e che essi dovevano spostarsi verso un territorio lontano, arrivò come un fulmine a ciel sereno. Il ministro del Dipartimento per gli indigeni, P. B. (ora Sir Patrick) Fletcher, nei mesi di agosto e settembre del 1955 accompagnò Cockcroft in un giro nei villaggi interessati. Una generazione prima, Sir Patrick e Cockcroft erano entrati in servizio insieme, poi uno aveva dato le dimissioni per fare l'agricoltore e l'uomo politico, e l'altro aveva dedicato la propria vita al servizio degli africani. Ora si trovavano di nuovo uniti in un compito per il quale le loro qualità si completavano. Sir Patrick nascondeva, sotto un'aria di cane smarrito, un'astuta mente politica, e, qualunque cosa si possa dire di lui, è innegabile che durante il suo incarico egli abbia dimostrato una determinata volontà, spesso impopolare, di migliorare la sorte degli africani. Né all'uno né all'altro piaceva quello che dovevano fare. «È una cosa terribile,» disse una volta Sir Patrick in una dichiarazione pubblica, «spostare questa gente dalle loro terre natali, e noi lo facciamo con commiserazione e comprensione». In ogni villaggio si ripeteva la stessa scena. All'ombra di grandi alberi il ministro e il commissario stavano seduti sulle loro sedie di canapa da safari, attorniati da un gruppo di funzionari minori e da vigorose ordinanze africane. Di fronte, accoccolati sui loro sgabelli da cerimonia o seduti per terra, c'erano i capi e gli anziani. Dopo un lungo e grave scambio di saluti, cominciava il lavoro degli indaba (Conferenza fra, o con, indigeni sudafricani). Pazientemente veniva spiegato ciò che stava per accadere e perché essi dovevano lasciare il luogo. Nelle nuove terre, riservate per loro, potevano scegliere dove preferivano vivere. Gli anziani non avevano fretta di rispondere. Scrutavano con i loro occhi vecchi e tristi il viso dolente di Sir Patrick e l'espressione riservata, appena sorridente di Cockcroft, finché si convincevano che, pur essendo incredibile quanto diceva loro l'uomo bianco, era purtroppo vero che il fiume si sarebbe esteso sulle loro case. Insistevano nella domanda: «Possiamo vedere le nuove terre dove dobbiamo andare?» «Com'è oltre le colline?» «Possono andare prima i nostri giovani a cercare il posto per noi?» Da novembre ad aprile, col cadere delle piogge che spazzarono i sentieri e mandarono i fiumi in piena, le terre dei Batonka della vallata rimasero isolate dal resto della Rhodesia del Sud. Soddisfatto che gli uomini delle tribù avessero accettato l'inevitabile, Cockcroft si mise all'opera per preparare le loro future residenze. Si costruirono centinaia di chilometri di strade, si arginarono i torrenti, si crearono pozzi d'acqua mediante perforazioni, vennero scelti fertili appezzamenti di terreno e segnate le posizioni dei nuovi villaggi. Secondo i piani stabiliti, la trasmigrazione doveva cominciare nel 1956, il trasferimento del grosso della popolazione nel 1957 e l'evacuazione dei pochi villaggi che sarebbero stati allagati per ultimi, nel 1958. Quando il lago avrebbe cominciato a formarsi, tutti i Batonka si sarebbero trovati da quaranta a duecentocinquania chilometri lontano dal pericolo e ben sistemati nelle nuove dimore. Rispetto a questo, il programma per la sponda settentrionale era, come si vedrà, ritardato. Ma quando Cockcroft e i funzionari che dovevano sorvegliare la trasmigrazione ritornarono nella vallata alla fine delle piogge del 1956, trovarono quasi completamente distrutto il lavoro svolto precedentemente. Benché fosse stata tagliata fuori dalla Rhodesia del Sud, la vallata era rimasta aperta ai visitatori provenienti dalla riva settentrionale. Il Congresso Nazionale Africano aveva deciso di opporsi a Kariba, e alcuni suoi emissari, inviati ad attizzare il malcontento fra i Batonka della Rhodesia del Nord, erano anche passati sulla riva meridionale. La loro propaganda assunse forme curiose, ma è difficile stabilire fino a che punto i nazionalisti semi-istruiti si prendessero gioco, senza scrupolo, della credulità dei Batonka e fino a che punto la condividessero. «È noto,» diceva la più importante delle loro argomentazioni, «che Nyaminyami è il dio onnipotente del fiume. Egli non permetterà mai agli uomini bianchi di assoggettarlo. Con un colpetto della coda distruggerà tutti i lavori fatti nella gola» Nyaminyami non è un mostro mitico come il dragone delle leggende popolari. Benché qualche volta venga personificato come un grande animale-fiume, il concetto, in senso lato, della sua esistenza è molto più profondo. La religione degli africani è tutt'altro che semplice. Essi credono in uno spirito supremo, invisibile e immortale, che regola l'universo, la vita e la morte. Non c'è diretta comunicazione fra lui e l'uomo, in quanto l'uomo non è che l'oggetto di una delle sue tante cure. L'uomo è congiunto al dio supremo attraverso gli spiriti della tribù e della famiglia, che sono pure immortali, ma si mantengono a contatto con i loro discendenti in vita per mezzo delle diverse categorie di stregoni. E non solo l'uomo, ma ogni cosa al mondo sembra che venga oscuramente intuito - ha il suo legame con l'essere supremo attraverso i propri spiriti. Nyaminyami può essere definito in parte una semplice personificazione delle forze elementari del fiume, come Thor personifica il tuono, ma non è questo il suo solo attributo. Bisogna anche tener presente che i Batonka della vallata, almeno quelli della sponda meridionale, non sono stati convertiti alla fede cristiana. Del resto in nessun luogo il missionario ha avuto molto effetto sugli africani. Nella sua opera si ravvisa un mezzo di educazione secolare più che spirituale. I benefìci della sua scuola sono apprezzati dal punto di vista istruttivo e le bardature della sua fede sono rispettate per usufruire dell'istruzione. Un africano si convertirà a una qualsiasi forma di cristianesimo con la stessa naturalezza con cui si cambierà le scarpe, se vi troverà un vantaggio. Solo quei rari e umili maestri che comprendono come la concezione africana di Dio sia degna di rispetto, anche se vaga come la loro, guadagnano convinti proseliti. Ma per quanto siano profonde le radici della religione africana, i suoi frutti sono spesso vuoti come quelli di qualsiasi altra fede. La credulità degli uomini delle tribù africane non è molto diversa da quella dei contadini siciliani o degli evangelisti del Galles. Non era difficile convincere quei semplicioni che Nyaminyami avrebbe scatenato la sua collera sulla nuova città senza dio, Kariba, così come Jehova - paragone che probabilmente non è stato fatto - punì Sodoma. Ma questo argomento suscitò in essi la sensazione di essere traditi da Nyaminyami. E allora si cominciò a dire che gli spiriti delle famiglie e delle tribù erano adirati al pensiero che la gente stesse per lasciare le rive del fiume. Quei messaggeri del Nord esortarono la gente ad avere fiducia nel proprio dio. Se il popolo non lo abbandonava, Nyaminyami lo avrebbe protetto. Avrebbe fatto in modo che l'acqua ribollisse, e distruggesse il fragile «ponte» costruito dagli uomini bianchi a Kariba; o altrimenti, avrebbe dato ai fedeli la capacità di vivere sott'acqua al sopraggiungere dell'inondazione. Avevano portato delle carte con potere magico e le vendevano per conto del dio. Il loro prezzo era di 150 lire sterline per un ragazzo, 218 per una donna, 305 per un uomo, 870 per un capo famiglia, 5.250 per un capo. Ben pochi non le comperarono. Si scoprì che i documenti rilasciati ai capi erano copie di una petizione che Harry Nkumbula, il leader del Congresso nella Rhodesia del Nord, aveva inviato alla regina chiedendo che il progetto di Kariba fosse abbandonato, e non, come quelli dichiaravano, le copie di un messaggio che uno spirituale «Ari» aveva avuto dal dio; i sottoscrittori meno importanti avevano ricevuto invece una semplice tessera di iscrizione al Congresso. Due erano le strade che potevano essere seguite da Cockcroft e Sir Patrick quando, trovatisi di fronte alla nuova situazione, videro che fra molti Batonka si era sviluppata una forte resistenza al trasferimento. O discutere la questione, come decisero di fare i loro colleghi della sponda settentrionale, col risultato che le piene senza precedenti del 1957 e 1958 - quando Nyaminyami con un colpetto di coda spazzò via i ponti degli uomini bianchi - confermarono in pieno gli argomenti degli agitatori; oppure agire rapidamente mentre alcuni capi influenti dei Batonka erano ancora disposti a cooperare. Sir Patrick si recò di persona nella vallata per discutere con gli uomini delle tribù. Egli chiarì di nuovo le ragioni del trasferimento, spiegò che cosa era stato fatto e che cosa sarebbe stato ancora fatto per aiutarli nelle nuove terre. Il 15 agosto un convoglio di quindici autocarri si presentò in un villaggio in cui si trovavano alcuni dei più rumorosi oppositori. L'evacuazione cominciò la mattina presto, senza alcuna resistenza. Quando i Batonka videro che non arrivava nessuna delle minacciate diaboliche conseguenze, accettarono l'inevitabile e l'operazione si svolse normalmente. Alla fine del mese più di 1500 persone erano state trasferite nelle nuove dimore, una cifra che doveva essere più che triplicata prima della stagione delle piogge. In ogni villaggio, prima dell'evacuazione bisognava placare gli spiriti della tribù. Essi sono generalmente associati ad alcune speciali figurazioni, di solito un albero liscio come il baobab, talvolta uno stagno o una collinetta. Il rito variava; qualche volta consisteva nel gettare nell'acqua una piccola effigie d'uomo fatta di erba: residuo, indubbiamente, dei tempi in cui si sacrificavano esseri umani. Più spesso, alla vigilia della partenza, si svolgeva una cerimonia durante la quale si beveva birra e veniva spiegato agli spiriti perche i Batonka se ne andavano. Gli uomini del villaggio li rassicuravano come vecchi amici, dicendo che non era per inimicizia e che gli spiriti sarebbero rimasti ancora e sempre nel pensiero di ciascuno. Quindi avanzavano il suggerimento che gli spiriti prendessero in considerazione l'idea di venirsene via anche loro, e da ultimo, con distratta cortesia, lasciavano cadere l'avvertimento che se pensavano di combinare guai, vi erano attorno degli spiriti ancora più potenti che avrebbero procurato loro dei dispiaceri. All'alba del giorno dopo, i piccoli mucchi dei loro averi venivano riuniti nel centro del villaggio. Roba da poco: ceste di grano, qualche pentola, talvolta un tamburo decorato o uno strumento a corda ricavato da una zucca, lance, qualche pelle e un'ascia. Quando tutto era pronto e mentre veniva fatto un controllo esatto di ogni oggetto e di ogni persona, le donne e gli uomini stavano accoccolati in gruppi separati, parlando poco, e dando boccate alle loro pipe hubble-bubble dalle quali il fumo di tabacco e di semi di miglio viene aspirato attraverso l'acqua. Quando arrivava il momento di andarsene, erano i bambini che di solito rompevano la tensione. Ridendo e schiamazzando, si arrampicavano sui camion come se si trattasse di un gioco. Alla fine un po' di eccitazione si comunicava agli adulti, pochi dei quali avevano visto prima di allora un veicolo a motore, e cominciavano anch'essi a sorridere e chiacchierare mentre si sistemavano sui bagagli accatastati, pronti per la nuova avventura. L'ultimo a salire sterline era il capo del villaggio o qualche anziano, custode del reliquiario. Col lento, dignitoso passo dei Batonka, simile a un passo di danza, egli andava verso il reliquiario e ancora una volta spiegava agli spiriti ciò che stava accadendo perché non rimanessero tutt'a un tratto offesi o irritati nello scoprire che la gente se n'era andata. Con gli occhi abbuiati dai pensieri che si agitavano nella sua mente, tornava senza fretta agli autocarri, dove una decina di mani si sporgevano per aiutarlo a salire sterline al posto d'onore che gli era stato riservato. Una coltre di polvere stagnava sulla vallata mentre i convogli uscivano uno dopo l'altro per iniziare il lento viaggio su per le ripide scarpate in una terra di fitta boscaglia, diretti verso il sud. Cockcroft e i suoi assistenti stettero fino a diciotto ore al giorno sulle loro Land Rovers guidando la gente e gli armenti. In sette settimane coprirono 230.000 chilometri per trovarsi dovunque vi fosse qualche guaio in vista: un autocarro che si fermava in una zona dove abbondavano bestie pericolose, un litigio sulla sistemazione di un nuovo villaggio, una lagnanza sui luoghi di rifornimento d'acqua, una voce che le capre o il bestiame erano smarriti. Se era necessario interrompere il viaggio di notte, la comitiva si sistemava in un accampamento protetto da un recinto di rovi, uno «schermo», come veniva chiamato, dove tutti potevano riposare e dormire senza essere disturbati dalle belve in cerca di preda. Quando giungevano a destinazione, li attendeva un altro accampamento simile, e lì si fermavano per cercare il luogo dove costruire le capanne. Questo non era un compito insolito e mortificante, come potrebbe sembrare. Il villaggio africano è un poco solido insieme di capanne fatte di canna, erba e fango, e anche in tempi normali accade spesso che venga abbandonato per essere ricostruito altrove. Il vecchio posto può essere stato infestato da qualche flagello; il suolo può essere stato coltivato sino ad esaurimento, per cui si rende necessario lo spostamento verso una zona vergine, o può essere accaduto che gli spiriti familiari abbiano espresso il loro malcontento per il vecchio posto. D'altra parte, a impedire la nostalgia, c'era abbastanza da fare per sgombrare la nuova sede e le terre da coltivare. Talvolta un vecchio che stava abbattendo un albero, credendo di non essere osservato, interrompeva il lavoro, e si chinava a prendere una manciata di terra polverosa. La esaminava tristemente, confrontandola col ricco fango alluvionale che aveva conosciuto, e guardava fisso il cielo infuocato, così diverso dall'atmosfera della sua umida vallata. Scuoteva la testa, lasciava scorrere la polvere tra le dita, e con rassegnazione riprendeva a vibrare l'ascia. È «una cosa terribile», per un vecchio, essere separato dal suo lungo passato, come, per chi muore, essere condannato a non congiungersi alla schiera accogliente dei suoi antenati, e a dover errare solo, in una terra priva di morti. Un'antica e felice cultura era stata cancellata dalla faccia della terra, e un'altra isola di individualità era svanita da quello che sta diventando, sempre più rapidamente, un mondo uniforme. Che la cultura fosse condannata in ogni caso, è una magra consolazione per chi lia adempiuto il compito di affrettarne la fine. Cockcroft non è un sentimentale che si compiace di mantenere allo stato primitivo plaghe di «pittoresco», dove esseri umani vengono conservati come selvaggina, o come vecchi edifici per il piacere e l'istruzione delle masse standardizzate. Nessuno meglio di lui conosce gli aspetti peggiori delle condizioni di vita dei vecchi Batonka, quando la lebbra, la febbre nera, la bilarziosi, la dissenteria, la malaria, la framboesia e la malattia del sonno, mutilavano, indebolivano e uccidevano. Egli ricorda le brutte stagioni quando i bambini dalle gambe sottili e dalla pancia gonfia morivano di rame e quando vecchi e vecchie inutili venivano abbandonati sui loro giacigli e volgevano tremando il viso contro la parete senza un lamento. Egli ha avuto esperienza dell'atrofia di menti agili e vivaci, e sa quanto siano vulnerabili, senza salvezza, coloro che non hanno una qualifica o un'istruzione in una civiltà dominata dalla competizione e dal materialismo. Cockcroft ed altri simili a lui sono decisi a far sì che i Batonka traggano benefici materiali dal trasferimento. Ottomila chilometri quadrati di terra sono riservati a loro. Sono state costruite scuole e i Batonka mandano con entusiasmo i loro figli a imparare quei simboli curiosi che sembrano racchiudere il segreto della sapienza dell'uomo bianco. Una clinica di cento letti è stata costruita per loro a Binga, dove può essere facilmente raggiunta dalle nuove dimore. Specialisti dello «Sviluppo del paese», fra i quali lo stesso figlio di Cockcroft, stanno insegnando loro nuovi sistemi di agricoltura: come si usano i trattori, come si cura la terra, come si conserva l'acqua, come si fanno crescere i raccolti per guadagnare e non solo sopravvivere. Vengono date loro regolarmente delle razioni e si continuerà a fornirle fino a quando essi si saranno impadroniti delle nuove tecniche agricole e potranno di nuovo nutrirsi da sé. I Batonka già cominciano ad acquistare stoffe occidentali, ad ambire biciclette e scarpe, radio portatili e occhiali da sole; alcuni di essi hanno imparato a fare i negozianti e hanno aperto botteghe per servire una popolazione che pochi anni fa sapeva soltanto barattare. Benché siano stati sempre isolati e abbiano condotto una vita primitiva, hanno dimostrato di possedere un alto grado d'intelligenza e, cosa più di tutte inattesa, una particolare disposizione a lavorare con le macchine e a capirle. I giovani e le giovani Batonka, dagli occhi chiari, lo spirito vivace e ben nutriti, affollano oggi le austere aule scolastiche studiando attentamente le lettere ed i numeri. Fra una generazione, forniranno la loro schiera di dottori, avvocati e impiegati, di sognatori e agitatori, di capi e di malcontenti, da aggiungere al fermento dell'Africa. Il gentile e cinico Cockcroft si lasciò un giorno sfuggire l'osservazione che l'errore della maggior parte dei missionari e idealisti sta nel fatto che, invece di prendere la natura umana così come è, costruiscono nella loro mente una personalità utopistica e vorrebbero convertire ognuno in questo tipo. «Naturalmente, ciò conduce ad amare delusioni e alla disperazione. Il massimo che si può sperare è di rendere la vita un po' migliore a chi venga a trovarsi sotto la nostra influenza. Quello che poi gli uomini faranno di ciò che noi possiamo dare, è affare loro» I Batonka sono stati fortunati ad avere avuto un tale uomo a governarli durante i loro anni di prova. Egli è diventato un po' stanco al loro servizio, e l'unica ambizione ora è di possedere un piccolo pezzo di terra a Binga lungo la sponda; stare a vedere che cosa accade sul nuovo lago e che cosa faranno i suoi amici Batonka del loro strano futuro. Più di ventimila persone sono state reinsediate sulle alture. Il trasferimento e costato una sola vittima. Il giovane pilota di un aereo, che volava a bassa quota sul nuovo territorio per disinfestarlo contro la mosca tzé-tzé prima dell'arrivo dei Batonka, perse il controllo dell'aereo e si sfracellò contro un albero. In quel periodo egli era in licenza, ma volle ugualmente pilotare l'apparecchio perché il lavoro fosse finito in tempo. La sua morte fu istantanea. CAPITOLO OTTAVO LO SPIEGAMENTO DELLE FORZE Non appena le decisioni definitive posero fine alle discussioni sul proseguimento o meno del progetto e su chi dovesse costruire la diga, Kariba venne affrontata con una nuova linea di attacco. Alcuni gruppi politici iniziarono una campagna per creare lo scontento fra gli operai indigeni del cantiere e per scoraggiare il reclutamento nel Niassa. Il piano originale della Commissione per l'energia elettrica stabiliva di impiegare a Kariba il maggior numero possibile di uomini del Niassa. I niassa, infatti, sono ottimi e volenterosi lavoratori, purché si dia loro cibo a sufficienza, ciò che di solito non hanno al loro paese, dove tutta la popolazione, salvo un tre per cento, riesce malamente a sopravvivere con il imito dei magri raccolti. La costruzione avrebbe potuto fornire lavoro a 8.000 uomini del poverissimo Niassa, con una paga tre volte più alta di quella che potevano sperare di guadagnare a casa. Ma essendo la diga di Kariba un progetto federale, incontrava forte opposizione da parte degli uomini politici negri del Niassa che mal tolleravano la Federazione alla quale il governo britannico li aveva costretti ad unirsi. I più intelligenti capi niassa non avevano mai negato i benefici che sarebbero derivati da Kariba, ma non è la prima volta che un popolo si ostina in una ripicca politica a spese del proprio interesse economico. Già nel marzo del 1956, Wellington Chirwa, che prima dell'arrivo del dottor Banda era considerato un estremista, descriveva il progetto di Kariba al parlamento federale come un piano tendente a spopolare il Niassa, poiché ne costringeva la popolazione maschile a lavorare in condizioni di schiavitù fra l'umidità malarica. Il Niassa in realtà è molto più piovoso e alberga molte più zanzare di Kariba, e chiunque avesse voluto spopolare la regione, non avrebbe potuto trovare soluzione migliore che abbandonare il Protettorato alla sua miseria. Tuttavia, Wellington Chirwa, che solo per il suo senso del ridicolo non è diventato un fanatico, sebbene sia sempre pronto a parlare come tale, non si rivolgeva alle schiere indignate e scontente del partito federale, ma ai diecimila capi dei villaggi niassa. E questi lo ascoltarono ancor più attentamente quand'egli lasciò cadere il motivo dell'umidità e della malaria che, dal momento che i niassa non avevano mai conosciuto altro, non poteva costituire una seria ragione di protesta. Lagnanze ve n'erano tra gli indigeni di Kariba proprio come ve n'erano fra tutti coloro che lavoravano in quella località isolata e primitiva. Chirwa diceva, e nessuno poteva negarlo, che la carne veniva distribuita una sola volta alla settimana. Questo argomento avrebbe perso non poca efficacia se egli avesse aggiunto che la razione settimanale era di 1.300 grammi, superore cioè a quella che il niassa medio consuma in un mese. Vi erano lamentele per gli alloggi. Alla fine di luglio, infatti, la maggior parte dei 4.000 indigeni di Kariba viveva sotto tettoie di erba, di canapa o di tela da sacco, il che può sembrare, ed è, abbastanza primitivo; ma assolutamente identiche erano le condizioni in cui viveva la maggior parte dei 600 europei finché non vennero costruiti i villaggi per entrambe le razze. In luglio non è poi tanto scomodo vivere sotto la tenda nell'Africa centrale; e vero che, durante le notti fresche, gli operai europei, che dormivano in 30 sotto una tenda, avevano un piccolo vantaggio sugli indigeni il cui numero, sotto un tetto di eguale grandezza, era attentamente controllato da una squadra di ispezione perché «non superasse la ventina». Esisteva, in ogni caso, una deficienza di servizi igienici, e la zona del campo brulicava di topi. Chirwa diede meno rilievo a questo inconveniente di quanto ne desse al fatto che gli operai «erano costretti a prendere medicine, anche quando non erano ammalati», esatto riferimento alla distribuzione di tavolette contro la malaria e contro la spossatezza causata dal caldo. Le condizioni di vita erano indubbiamente dure, come lo sono in qualunque accampamento di una certa grandezza; e poiché si sapeva che era in costruzione un villaggio indigeno per alloggiare 6.000 operai in case e baracche, poco veniva fatto per migliorarle. A nulla servì la pubblicazione, fatta in risposta dalla stampa locale, di fotografie di una donna europea che abbraccia il suo bambino e «guarda con invidia» le casette che vengono costruite per le mogli indigene. Ne' ebbe grande effetto l'invito a visitare il cantiere fatto a gruppi scelti di giornalisti africani e di capi niassa. È possibile intuire un vago senso di riserva nei loro commenti, tuttavia essi riferirono doverosamente che non vi era di che lamentarsi. Nessuno, comunque, nei remoti villaggi del Niassa, lesse mai queste cronache; molta gente, invece, prestò orecchio alle voci che venivano sparse dagli agenti nazionalisti indigeni. Di conseguenza, in agosto, proprio quando gli italiani si preparavano a subentrare e doveva avere inizio il lavoro principale, il reclutamento nel Niassa risultò del tutto negativo. Non vi furono difficoltà, salvo qualche piccolo ritardo, nel reclutare operai da altre parti, dal Mozambico, dall'Angola, dalle due Rhodesie, dalla Beciuania e dal Congo. La mano d'opera indigena divenne eterogenea quanto quella europea, e gli unici a soffrirne furono le migliaia di niassa che preferirono la realtà della loro misera condizione, agli immaginar! orrori di Kariba. Dopo un mese o poco più, tuttavia, qualcuno decise di correre il rischio. Quanto coraggiosi, o disperati, essi fossero è rivelato dalla storia di un gruppo che, subito dopo l'arrivo, venne messo in fila per prendere visione del posto di lavoro. Dalla fila di iacee costernate si fece avanti un portavoce. «Capo,» chiese, «quando ci distribuiranno le cannucce?». Una breve inchiesta rivelò come nel Niassa fosse stato detto loro che gli uomini bianchi stavano costruendo un ponte attraverso il fiume e che i lavori subacquei erano riservati agli indigeni. Essi si attendevano di dover lavorare con una mano, mentre con l'altra avrebbero dovuto tenere stretta la cannuccia forata attraverso la quale speravano di respirare. Erano pronti a lavorare sott'acqua per cinque ore alla volta, alla sola condizione che venissero distribuite loro le cannucce. Questo è il coraggio che un giorno porterà lontano il Niassa. Questo è anche il legato di favole e dicerie che l'Impresit, il gruppo datore di lavoro, ereditò dal canto suo. Quando, a un nucleo di pazienti agitatori, il momento fosse parso maturo, sarebbe stato facile incitare allo sciopero uomini così creduloni. Dovevano ancora passare più di due anni prima che il momento maturasse, l'intera Federazione venisse a trovarsi sull'orlo di una agitazione politica e il progetto di Kariba divenisse più vulnerabile che mai per l'ostilità dell'uomo. Sin dall'inizio, gli indigeni e gli italiani andarono d'accordo. La maggior parte degli operai dell'Impresit è di origine contadina. La loro vita dura nelle pianure del settentrione e ai piedi delle Alpi non li ha incoraggiati ad aver troppe pretese; verso gli indigeni non hanno quella prevenzione razziale che spesso assume manifestazioni morbose fra la maggior parte degli europei della stessa classe. Il loro atteggiamento è privo di inibizioni e amichevole. Per gli italiani, è naturale far visita alla casa di un indigeno del proprio gruppo se è ammalato, portargli regali, chiacchierare con lui e giocare con i suoi figli. Non era tanto la gentilezza che impressionava gli indigeni, perché anche i rhodesiani, come del resto gran parte dell'umanità, sono gentili di natura. Essi erano grati per l'assenza di quegli umori imprevedibili ed arroganti che spesso impediscono ogni senso di cameratismo fra operai neri e bianchi. «Tutti noi dipendenti, sia europei, sia indigeni, facciamo lo stesso lavoro di sollevare e spingere, e lo facciamo insieme, allegramente» Così un veterano «boss-boy» descriveva quella che per la maggior parte degli indigeni era una nuova esperienza. Inoltre, il fatto di dividere i comuni pericoli, univa, come è naturale, tutti quelli che lavoravano alla diga, lungo il fiume, o nelle grandi gallerie che venivano scavate nelle colline. Come in tutte le cose, per ogni atto di coraggio registrato, almeno altri venti passano inosservati, tranne agli occhi di coloro che li vedono da vicino. La storia del «piccolo» Madira, diminutivo africano che pròviene dal Mozambico, è un esempio del laconico coraggio di coloro che lavorano sempre faccia a faccia col pericolo. Il 15 novembre 1956, il motore di una piccola imbarcazione si guastò mentre un gruppo di ingegneri dell'irrigazione stava viaggiando sul fiume. La velocità della corrente era di 18 km. all'ora e il fiume era turbolento per le recenti piogge. L'imbarcazione fu trascinata giù per la gola, rimase impigliata in un cavo teso basso attraverso il fiume e si capovolse. W. G. Wannel, l'ingegnere dell'irrigazione che dirigeva il gruppo, udì uno dei giovani chiedere con voce calma: «Qualcuno mi aiuti, non so nuotare» Wannel lasciò l'imbarcazione capovolta, che gli forniva una certa sicurezza, per sorreggere il compagno che stava annegando. Entrambi vennero ripetutamente risucchiati sott'acqua, sino a quando Wannel, sentendosi mancare le forze, lasciò la presa. Egli non ricorda altro, però era stato visto da Vittorio Soprani, un capo meccanico di Bologna, che si tuffò subito nel fiume. Questi riuscì appena a mantenere a galla Wannel, tanto violenta era la corrente. Dalla riva erano quasi invisibili a causa delle onde che si frangevano contro i loro corpi. Se Madira non li avesse scorti sarebbero entrambi sicuramente affogati o sarebbero stati sbattuti contro la riva rocciosa dai pesanti detriti che la corrente trascinava con sé. Madira proveniva dalla costa ed era abituato sin dall'infanzia a lottare contro le onde dell'Oceano Indiano. Era un forte nuotatore. Per prima cosa condusse in salvo Wannel, quindi tornò indietro per aiutare Soprani a raggiungere la riva nord. Si rituffò poi, per la terza volta, nello Zambesi infuriato per ritornare alle sue occupazioni sulla riva opposta; raccolse i suoi attrezzi e continuò il lavoro come se niente fosse accaduto. La Royal Humane Society consegnò a Wannel e Soprani degli attestati di benemerenza su pergamena e, tramite il governo della Rhodesia del Sud, conferì una medaglia di bronzo a un sorpreso e intimidito Madira. Tutto ciò che fu mai rivisto dell'altro giovane finito in acqua, fu un braccio, il giorno dopo, puntato per un momento verso il cielo, in una pozza d'acqua che brulicava di coccodrilli. Durante gli anni seguenti, raramente passò una settimana senza che morissero uomini per la realizzazione di Kariba. Lo stillicidio di perdite umane, che si mantenne entro le fredde previsioni statistiche, se si eccettua un incidente del 1959 in cui rimasero uccisi 17 uomini, non influì sui lavori in corso. Ma altri due avvenimenti sgradevoli che seguirono, in breve spazio di tempo, pur non costando vite umane avvertirono gli italiani che l'impresa da loro iniziata era assediata da difficoltà che i contabili e i tecnici, nel calcolare il costo di Kariba, non avevano potuto prevedere. Il giorno prima che Madira salvasse in un'ora due vite umane, il fiume segnò un altro successo. Come per la prematura inondazione delle fondazioni della tura, avvenuta l'anno precedente, la sua fu più che altro una vittoria tattica, che disturbò il nemico ma non lo minacciò mai seriamente. Il 14 novembre gli italiani stavano lavorando per ridurre lo spessore dei diaframmi di roccia che la Cementation aveva lasciato ad ogni estremità della galleria di diversione, perché si stava avvicinando il momento in cui dovevano essere eliminati per deviare dal letto dello Zambesi una parte delle acque. Il piano era di portar via a poco a poco la roccia con esplosioni controllate sino a che la barriera, a ciascuna estremità, fosse tanto sottile da poter essere abbattuta al momento di aprire la galleria al fiume. La roccia che chiudeva l'estremità di valle della galleria era attraversata da una fenditura ignorata dagli ingegneri. Un'esplosione, che aveva il solo scopo di ridurre lo spessore a poco più di un metro, si fece strada attraverso tale fenditura verso lo Zambesi. L'esplosione fu così violenta che grandi blocchi di roccia vennero scaraventati a più di 18 metri d'altezza. Questi maldestri missili non fecero altro danno che fratturare alcune ringhiere del ponte sospeso, ma la galleria venne rapidamente inondata da 46.000 metri cubi d'acqua. Benché speciali attrezzature fossero fatte accorrere da Bulawayo, lontana 800 chilometri, gli sforzi per prosciugare la galleria fallirono, e il livello dell'acqua entro di essa non fu ridotto al disotto di tre metri. In conseguenza di ciò, quando un mese più tardi venne aperta l'estremità a monte, si dovette eseguire una difficile esplosione subacquea usando 1350 kg. di dinamite. Lo sfortunato incidente si risolse in una seccatura che venne però a costare 35 milioni. Ciò che allarmò gli ingegneri fu la scoperta della incerta solidità della roccia che formava la riva meridionale perché, all'interno di quella roccia, 170 metri sotto la superficie delle alture, doveva essere scavato un villaggio sotterraneo, disposto attorno alla centrale che da sola sarebbe stata lunga 140 metri, larga 20 e alta 30. Che la prima faglia non fosse un difetto isolato, risultò chiaro il 4 gennaio 1957. Una parte della galleria di accesso, che si stava inoltrando verso la futura centrale, franò, intrappolando tre operai italiani. Con i cavi elettrici e le tubazioni dell'aria compressa tagliati, essi rimasero in uno spiacevole buio e in un silenzio rotto soltanto dal rumore smorzato delle frane che continuavano. Appena gli uomini si tolsero dalla polvere soffocante, riuscirono a vedersi e la compagnia reciproca calmò il panico che nei primi terribili secondi li aveva sopraffatti. Non erano in pericolo immediato essendosi allontanati dalla zona della frana, ma erano preoccupati poiché ignoravano l'effettiva lunghezza della ostruzione che ora si ammucchiava fra loro e l'ingresso della galleria, 60 metri più indietro. Il più giovane dei ire ritornò presso la frana e cominciò furiosamente a spostare i blocchi liberi. L'uomo che subito divenne il capo del terzetto, permise al giovane compagno di sfogare per un po' la sua eccitazione, poi lo chiamò: «Sta' calmo, amico. Conserva le tue forze. Potresti averne bisogno. Non può accadere! nulla di grave, ma può darsi che si debba aspettare a lungo» Un po' vergognato, il giovanotto tornò indietro, e i suoi passi lenti risonarono nella galleria. «Quanto tempo passerà prima che ci trovino?» chiese con una voce che non era così disinvolta quanto egli si sforzava di renderla. «Non lo so, ma non avere paura: verranno» Prima che fosse trascorsa un'ora, udirono i primi rumori dei salvatori, uno strisciare e uno smuovere di terra entro il cumulo di terreno franato. Poi una voce cavernosa, che li fece trasalire sterline tanto era vicina, chiamò: «C'è nessuno qua? Non c'è nessuno?» Una tubazione era stata introdotta lungo la sommità dei detriti; fu seguita da altre attraverso le quali vennero spinti viveri, acqua e candele. Dopo di che, non rimase altro da fare che attendere, giocare a carte e sonnecchiare, mentre i compagni sgombravano le 1500 tonnellate di pietrame. Passarono circa due giorni e due notti prima che i tre uomini venissero liberati. Ridendo, posarono davanti ai fotografi che erano venuti in volo da Salisbury, e il più giovane fece finta di cercare qualcosa nella barba da pirata del capo. Strappò via un pelo con le dita e lo alzò per mostrarlo alla folla: «Guardate,» disse, «gli è cresciuto un pelo grigio. Come vedete si è preoccupato solo per un istante» La preoccupazione degli ingegneri invece durò più a lungo. Ci volle fino a maggio per riparare tutte le conseguenze della frana e per riprendere i lavori nella galleria. Quarantacinquemila chiodi di ancoraggio vennero usati per imbullonare la roccia nella sezione debole che era stata scoperta. Ma prima che la galleria fosse rafforzata, gli uomini dell'Impresit furono costretti ad affrontare un pericolo infinitamente più furioso e potente. Il primo disperato assalto di Nyaminyami era iniziato. CAPITOLO NONO IL PRIMO ASSALTO Gli italiani si rendevano ben conto sin dall'inizio che per essi Kariba costituiva una prova determinante. Si trovavano in un paese straniero e sapevano che ogni loro azione sarebbe stata osservata gelosamente. A qualcuno non sarebbe affatto dispiaciuto vedere il fallimento del progetto, ed altri sarebbero stati felicissimi se gli italiani non fossero riusciti. Professionalmente, gli italiani avevano fiducia nella propria abilità tecnica. Erano membri dello stesso gruppo; per la maggior parte avevano già lavorato insieme e conoscevano a vicenda le proprie forze. Inoltre la sensazione di essere sotto attento esame li univa ancora più saldamente. C'era un'altra ragione per cui il loro morale era eccezionalmente alto. Veniva loro offerta l'occasione di riabilitare la reputazione dell'Italia in Africa, dove le sfortune della guerra l'avevano quasi distrutta. Resi sensibili da questo insieme di cose, erano convinti che sotto le maniere formali e spesso cordiali dei loro colleglli inglesi, rhodesiani e sudafricani, si celasse una certa condiscendenza. Nelle riunioni tecniche, la loro competenza era fuori discussione; tutti ammettevano che i loro operai specializzati fossero insuperabili per industriosità e capacità; ma c'era ancora qualcosa che doveva essere provato: la loro tenacia, o, come i colleghi lo definivano in privato, il loro spirito combattivo. Essi avrebbero avuto presto l'occasione di dimostrarlo. Mai un fiume si battè così selvaggiamente e tenacemente come lo Zambesi stava per fare; mai un progetto è stato intralciato da tante avversità; tuttavia gli italiani non solo le superarono, ma furono sempre in anticipo sui programmi. Non passò molto tempo che essi sentirono parlare di Nyaminyami e della credenza condivisa da molti indigeni primitivi, che sarebbe stato impossibile domare lo Zambesi. Scherzosamente, i loro predecessori li misero al corrente della sua incursione sul finire dell'anno precedente, quando aveva distrutto il ponte di barche ed invaso la tura. Gli italiani risero tra loro; avevano già avuto modo di conoscere quasi tutti i più grandi fiumi del mondo. Ma questa leggenda si accordava con le loro romantiche idee sull'Africa nera. Ne scrivevano a casa con una punta di spavalderia, proprio come raccontavano degli ippopotami dell'isola del Sanyati, dei coccodrilli che prendevano il sole sulle rocce del fiume, dei babbuini abbaianti sulle alture, e dei tamburi che si sentivano dopo il calar del sole nei villaggi indigeni. Erano quasi contenti quando, in novembre, il comportamento dello Zambesi fu definito insolito dagli esperti rhodesiani. Forti piogge cominciarono a cadere un mese prima del previsto, e improvvise piene-lampo ostacolarono il lavoro nel fiume. Lo Zambesi, gonfio per le piogge torrenziali cadute sui vicini bacini imbriferi, cresceva di parecchi piedi in una notte e poi, altrettanto rapidamente, tornava a decrescere. La storia di Nyaminyami era tanto suggestiva che essi erano lieti di poter spiegare, con un po' di fantasia, quei trascurabili capricci climatici come una conferma della leggenda. Ma se tutto ciò che il grande dio fiume poteva fare si limitava a quelle piccole manifestazioni, allora Nyaminyami era non molto più temibile del vecchio, venerabile, padre Tevere e ancora meno pericoloso del loro fiume Po in Lombardia. Gli italiani si imposero uno strenuo orario lavorando in due turni di dodici ore. Protetti dalla tura innalzarono i primi conci della diga, lasciandovi in mezzo delle aperture attraverso le quali potesse passare il fiume quando fosse stato deviato dal letto principale. I pilastri dovevano essere sufficientemente alti, così da permettere la continuazione del lavoro quando il livello del fiume fosse salito; il primo fu completato per la fine di dicembre 1956, e alla fine di febbraio il lavoro era molto in anticipo sul programma. Benché l'immaginazione del pubblico fosse attratta principalmente dallo scavo delle gallerie e dalla costruzione della diga, lo sforzo principale durante questi mesi fu concentrato in quello che gli ufficiali di stato maggiore durante l'ultima guerra chiamavano «le basi logistiche». Nel mese di dicembre vennero gettati nella diga 1.750 metri cubi di calcestruzzo; ma sarebbe venuto il tempo in cui la produzione sarebbe salita a 2.750 metri cubi al giorno. Per rendere possibile una simile impresa fu necessario costruire ogni genere di impianti, assurdi d'aspetto e di dimensioni. Impianti per lavare la sabbia, per rompere la roccia e per mescolare il cemento, si innalzarono sulle loro sottili gambe di acciaio, alte trenta metri e più; con le incastellature protese come tentacoli di mostri della fantascienza, eseguivano lavori così complicati che non era difficile credere che entro i loro tralicci di ferro si nascondesse un cervello indipendente e spietato. Furono innalzate montagne di materie prime. Sulle rive dell'isola del Sanyati un milione di tonnellate di sabbia vennero scavate da macchine che ne inghiottivano dieci tonnellate alla volta e le gettavano negli autocarri. Questi ultimi, percorrevano, in catena ininterrotta, il tragitto di cinque chilometri e mezzo dalla sponda al cantiere e vi depositavano il loro carico creando colline alte decine di metri. Vennero anche accumulate grandi scogliere di granito, ciascuna formata da pietre di differente grandezza; e, posti su file ascendenti intagliate nella roccia della riva settentrionale così da sembrare la tastiera di una gigantesca macchina da scrivere, vennero costruiti dei silos capaci di immagazzinare 24.000 tonnellate di cemento. I vari depositi furono collegati da un sistema di nastri trasportatori e di cavi, progettati in modo da alimentare le benne da 16 tonnellate e mezzo che, scorrendo su alte funi controllate dai blondins, scaricavano il calcestruzzo proprio nel punto desiderato. Questi «blondins», che prendono il nome da un famoso funambolo, sono torri mobili che corrono lungo rotaie su una piattaforma parallela alle sponde del fiume, e reggono ciascuna una fune di 80 mm. ancorata ad un punto fisso sull'altra riva. Dalla cabina sulla torre, il manovratore può quindi muovere le benne in qualsiasi direzione. Benché il compito principale dei blondins fosse di portare il calcestruzzo direttamente dall'impianto di betonaggio alla diga, in seguito, nei casi di emergenza, furono impiegati per eseguire ogni sorta di incarichi, come sollevare un bulldozer dal letto del fiume o trasportare uomini e macchine da una riva all'altra. L'aver raccolto sulle ripide pendici della gola un insieme così eterogeneo di attrezzature, di macchine generatrici d'energia e di materie prime, fu di per se stessa un'impresa di prim'ordine. Queste opere di ingegneria di cui fra qualche anno non rimarrà traccia, furono semplicemente ausiliarie del progetto principale e saranno tutte demolite non appena avranno adempiuto al loro scopo. Nessuna meraviglia se gli italiani, occupati nella costruzione di quel grandioso cantiere all'aperto che si estende su parecchi chilometri quadrati, trattavano con indifferenza i capricci del fiume e talvolta ne erano addirittura divertiti. Ma a 1500 chilometri di distanza anche lo Zambesi stava mobilitando le sue forze. A monte di Kariba il fiume è alimentato da un bacino di 500.000 chilometri quadrati e per tutto novembre, dicembre e gennaio le sature foreste dell'Angola e della Rhodesia del Nord avevano assorbito la maggior parte delle piogge. In febbraio arrivò alla gola il primo annuncio che vaste riserve di acqua si stavano accumulando nell'alto corso del fiume. A Balovale, la stazione di misura al confine dell'Angola, si profilava la minaccia di una piena che avrebbe impiegato da tre a quattro settimane per raggiungere le cascate Victoria. Di qui in altri quindici giorni avrebbe potuto raggiungere Kariba. Fra le cascate e la gola, la piena principale sarebbe stata rinforzata da tre dei grandi affluenti della Rhodesia del Sud, il Gwaai, il Sengwe ed il Bumi, e da un centinaio di affluenti minori. Quasi all'ingresso della gola, poi, in vista dei lavori della diga, stava in agguato il Sanyati con la sua fama di violenza improvvisa. Raccogliendo, sotto una dozzina di nomi diversi, la maggior parte delle acque del bacino meridionale, il Sanyati scorrazza attraverso i pianori della Rhodesia del Sud prima di scendere il ripido declivio verso lo Zambesi. Quando è in piena, la corrente del Sanyati ha l'improvvisa, travolgente irruenza di una carica di cavalleria. Ai primi di marzo non ci fu più alcun dubbio: lo Zambesi si stava preparando per un attacco di intensità mai registrata. Anche nelle stagioni normali il fiume, sopra Livingstone, dilaga per una larghezza di 32 chilometri nella piana di Barotse, ma nel 1957 superò talmente il suo livello normale che in una sola notte spazzò via parecchi villaggi. I quindici annegati che furono registrati erano, probabilmente, solo una parte dell'elenco di morti. Fu allora che ci si ricordò di Nyaminyami. Un anno prima, i suoi stregoni avevano predetto che se l'uomo bianco avesse seriamente tentato di mettere un muro attraverso la gola, il dio fiume avrebbe inviato piene senza precedenti per distruggere i suoi nemici. Per quanto la maggior parte degli africani di Kariba confidasse nella superiorità del potere magico dell'uomo bianco, alcuni di essi cominciarono ad avere dubbi e suggerirono di chiamare gli stregoni per fare le tradizionali offerte a Nyaminyami. Speravano di placarne la furia riconoscendone l'autorità. Sebbene la proposta venisse respinta, non vi è dubbio che alcuni indigeni offrirono tributi personali al dio fiume, come è certo che centinaia di essi si unirono agli italiani in una speciale cerimonia religiosa che si tenne nel laboratorio dei carpentieri per invocare S. Giuseppe, protettore degli umili operai. A mano a mano che il fiume aumentava la sua violenza, gli avamposti delle fortificazioni create dagli uomini nel suo letto cominciarono ad apparire miseramente deboli. I piloni del ponte stradale tremavano sotto l'urto della corrente che raggiungeva i 47 chilometri orari. Gli uomini che lavoravano entro la protezione della tura udivano il frastuono scrosciante dei grandi massi di pietra che rotolavano nel letto del fiume come se fossero ciottoli. Coloro che guardavano dalle sponde vedevano i detriti galleggiare sulla superficie dell'acqua: canoe fracassate, enormi alberi, grovigli di rovi e cespugli; e una volta, vivida testimonianza dei disastri a monte, il tetto quasi intatto di una capanna, che girava pigramente su se stesso mentre scendeva precipitosamente. Le segnalazioni della piena arrivarono per telefono dalle stazioni poste lungo il fiume dal Dipartimento dell'Irrigazione; ma, poiché valutavano i rapporti con calma, gli ingegneri erano del parere che, anche quando fosse venuto il peggio, nessuna delle loro installazioni sarebbe stata in pericolo. Sebbene l'altezza dell'acqua nella gola avesse già superato il livello di massima, raggiunto durante il breve periodo di dieci anni, dal tempo cioè delle prime misurazioni, e benché le comunicazioni da Livingstone rivelassero che la punta della piena doveva ancora venire, essi calcolavano che i due ponti sarebbero stati parecchio al disopra del livello pericoloso, e che la parete della tura fosse abbastanza alta per impedire al fiume di superarla. Imperturbabili, discutevano le quantità di lavoro per i prossimi giorni. Ma proprio come se attendesse questo momento, il Sanyati scese in piena tuonando dalle pendici. Durante la preparazione dei programmi di lavoro, era stata prevista anche la possibilità che le piene del Sanyati e dello Zambesi coincidessero, ma il rischio era parso così esiguo che era stato deciso di accettarlo. Baldassarrini, direttore dell'Impresit a Kariba, quando gli vennero riferite le notizie sorrise: «Dovremo stare attenti con questo fiume. Sembra che conosca esattamente quello che stiamo per combinare» Era il genere di nemico che piaceva a Baldassarrini, il quale diede subito ordine di cessare tutto il lavoro entro la tura e di evacuare tutte le attrezzature da essa protette. Arrivò appena in tempo. Il fiume, quando le prime ondate della cavalleria Sanyati presero d'assalto la gola, crebbe di cinque metri e mezzo in 24 ore. La tura fu superata e solo un vortice turbolento di schiuma segnò la sua posizione sotto l'acqua. Per poche ore, il braccio del derrick che non c'era stato tempo di rimuovere si sporse dalla superficie, aprendo una profonda ferita nelle acque del fiume: poi, con tanta rapidità che nessuno ricorda di essersene accorto, anche il derrick scomparve. Per nulla turbato, Baldassarrini volse le sue forze in difesa del ponte stradale, che era già in pericolo. La struttura si appoggiava sui pilastri, mantenuta in posizione dal proprio peso. Le vibrazioni prodotte dalla corrente già minacciavano di spostarla, e se l'acqua fosse cresciuta fino al livello del ponte stesso, tutta la costruzione sarebbe stata portata via. A quel tempo i cavi dei blondins erano ancora in corso di montaggio, e il ponte stradale costituiva l'unico passaggio da una riva all'altra per i materiali e le attrezzature. Se fosse andato perduto, l'intero programma di Kariba rischiava di essere rimandato di un anno. Per tutta la notte, sotto piogge torrenziali che trasformavano la strada di accesso al ponte in un pantano, alla luce dei riflettori, gli uomini lottarono per ancorare il ponte alle rive con quattro pesanti cavi. Gli autocarri caricati con travi e con tutti gli spezzoni d'acciaio disponibili, scendevano la china fangosa verso il campo di azione; 80 tonnellate di metallo vennero trasportate a mano lungo il ponte per essere accumulate sopra i due pilastri principali allo scopo di tenere a posto il ponte. Il 19 marzo, il livello del fiume era a poche decine di centimetri dal ponte e la piena principale dello Zambesi era annunciata per le prossime ventiquattro ore. Non restava altro da fare che porre degli uomini di guardia e aspettare. Per fortuna la tattica del Sanyati rassomigliò più a quella del principe Rupert che non a quella del maresciallo Ney. Improvvisamente, l'assalto passò. Quando, ventiquattro ore dopo, la poderosa massa dello Zambesi in piena raggiunse la gola, il Sanyati stava scatenando inutilmente la sua violenza trecentovemi chilometri a valle. Il Sanyati era diventato così debole che per un momento, quando le acque dello Zambesi raggiunsero il suo letto, rifluì verso monte. Dal 19 al 24 marzo la fiumana d'acqua si lanciò nella gola, poche decine di centimetri al di sotto del ponte, ma la struttura stessa fu raggiunta soltanto dagli spruzzi infuriati che schizzavano alti nell'aria, attorno ai pilastri. L'unico pericolo era che i rami di qualcuno degli alberi che sbucavano a centinaia sulla superficie del fiume restasse impigliato nelle travi e causasse un accumulo di detriti. Il ponte venne perciò chiuso al traffico e una squadra di operai rimase di guardia per respingere questa possibilità. Il 25 marzo la piena decrebbe, continuando così per il resto della stagione. Il danno, quando venne esaminato, apparve sorprendentemente piccolo a coloro che erano stati testimoni della terribile furia del fiume. Alcuni tratti di strada dovevano essere riallineati, e alcune attrezzature erano andate per-. dute. Inoltre, l'allagamento della tura rendeva impossibile lavorare ai conci della diga principale che essa aveva riparato. Per i semplici operai, la più seria conseguenza della piena fu la scomparsa di Charlie. Charlie era un vecchio ippopotamo che, non disturbato da tutta quella attività, si rotolava tutto il giorno nel fango a poco più di 90 metri a valle del ponte. Ogni sera, all'imbrunire, Charlie si arrampicava sulla riva, si incamminava pesantemente verso il cantiere, e dopo aver ispezionato l'andamento dei lavori, si trascinava indietro di nuovo. Charlie e gli uomini del turno di notte si erano abituati alla presenza reciproca, e questi ultimi avevano finito per considerare l'ippopotamo come una mascotte. Quando le acque di piena decrebbero, Charlie non si vide più, e la sua scomparsa fu considerata un segno di ulteriori sfortune. Ma gli ingegneri non avevano tempo da perdere in tali fantasie. Fino al momento in cui era sopraggiunta la piena, il lavoro della diga era stato in anticipo sul programma, e l'Impresit si considerava già in possesso del premio di 260 milioni di lire sterline offerto dalla Commissione se i lavori preparatori per la diversione del fiume fossero stati completati entro la fine di giugno. Ma la parte essenziale del lavoro che doveva venir eseguito per ottenere il premio dipendeva dallo svuotamento della tura. L'impresa sembrava impossibile, ma gli ingegneri decisero di mettere alla prova la loro tempra e tentare ugualmente. Attesero con impazienza che il fiume decrescesse, e non appena il muro della tura fu accessibile, benché ancora sott'acqua, lo rialzarono con lamiere metalliche così da anticipare il giorno in cui si sarebbe potuto cominciare a pompare. Nei mesi seguenti non accadde nulla di spettacolare; vi furono, tuttavia, giorni e notti di sforzi continui. Il costo per ricuperare le sei settimane perdute fu, probabilmente, maggiore del valore del premio. Ma per gli italiani divenne una questione di orgoglio mostrare a tutti come essi potessero superare le avversità. Erano decisi a non accampare alcuna scusa, per quanto accettabile essa fosse da chi conosceva le difficoltà incontrate. A qualunque costo, dovevano raggiungere il loro primo traguardo. E lo raggiunsero, con quattro giorni di anticipo. Da quel momento non ci furono dubbi sulla capacità degli italiani di far fronte all'impresa. Tempo un anno, infatti, e il pendolo dell'opinione pubblica doveva oscillare al punto di far dire alla gente: «Solo gli italiani avrebbero potuto farcela» Non mancarono, naturalmente, esperti che, quando le notizie sulla piena raggiunsero le città, non ricordassero a tutti di aver detto sin dall'inizio che Kariba era stata progettata troppo in fretta e che era destinata a terminare in un disastro. Se la Commissione per l'energia elettrica e i suoi consiglieri non fossero stati così precipitosi, avrebbero in primo luogo ordinato di costruire la tura più alta, e in tal modo metà dei guai sarebbero stati evitati. Si insinuava, poi, che, affrettando il compimento dell'intero progetto, si voleva salvare la faccia di qualcuno. A posteriori era abbastanza esatto affermare che, se lord Malvern ed i suoi colleghi avessero aspettato, avrebbero potuto accumulare ulteriori dati per prepararsi ad affrontare una piena come quella del 1957; ma avrebbero potuto aspettare anche vent'anni. Difficilmente si combinerebbe qualcosa se si impiegassero nella selvaggia Africa i sistemi di lavoro di un'Europa da lungo tempo domata. Se un commento è richiesto, questo dovrebbe essere soltanto di elogio per il coraggio e lo spirito di iniziativa di quegli uomini, pronti ad assumersi dei rischi che erano stati accuratamente calcolati fin dall'inizio. Duncan Anderson non è uomo da sprecare parole per rispondere a critiche da salotto o da caffè, e se ne rimase zitto; ma si dice che un funzionario della Commissione per l'energia elettrica, perdendo la pazienza per le voci che circolavano, decidesse di prendersi la rivincita. In gran confidenza, in mezzo a un gruppo di conoscenze delle quali sapeva di non potersi fidare, lasciò cadere la notizia che si era appena scoperto come i consulenti, tratti in inganno da un gorgo di ritorno, avessero creduto che lo Zambesi scorresse verso ovest e non verso est, di modo che tutti i lavori e le installazioni della diga si stavano in realtà costruendo a rovescio. L'entusiasmo con cui un buon numero di esperti creduloni diffuse questa divertente informazione riservata, e il loro conseguente imbarazzo quando fu smentita, contribuì molto a screditare ed a scoraggiare future voci di fatalità tecniche. Il motivo che aveva imposto un limite di tempo al primo stadio del lavoro degli italiani fu, naturalmente, qualcosa di più del semplice desiderio di stabilire sterline un primato. La magra del 1957 era un periodo critico per lo sviluppo dell'intero progetto. Se la costruzione della parte centrale della diga attraverso il letto del fiume doveva avere inizio entro l'anno, bisognava deviare il fiume, non solo attraverso la galleria della riva sud, che non poteva in nessun modo accogliere il flusso totale, ma anche attraverso un canale a ridosso della riva nord, dove sorgeva la tura. Questa deviazione non poteva aver luogo fino a quando i conci della diga, all'interno della tura, non fossero stati innalzati tanto da permettere la continuazione del lavoro quando il fiume tosse stato avviato attraverso il canale di deviazione. Nello stesso tempo, usando il ponte stradale come se fosse una incastellatura, 200.000 tonnellate di pietrame erano state gettate nel fiume, a valle della diga, per formare una scogliera di sbarramento, il cui scopo era di mantenere le acque entro il canale di deviazione e creare una zona tranquilla attorno ai conci centrali. In questa zona di acque calme sarebbe stato possibile gettare le fondazioni di un'altra tura più larga, di forma circolare, che in seguito sarebbe Stata prosciugata con le pompe, in modo da portare alla luce il letto del fiume e fornire un riparo entro il quale dare inizio ai lavori della parte centrale della diga. Pertanto, poiché la tura della riva nord aveva esaurito il suo compito, quelle parti di essa che bloccavano il canale di deviazione dovevano venire distrutte. Un gruppo di esperti in esplosivi, guidati da D. Maher, arrivò dall'Unione del Sud-Africa per intraprendere il lavoro. Le parti della tura che andavano demolite furono punteggiate da più di 400 fori e riempite di gel ignite. Le cariche vennero preparate per esplosioni successive ad intervalli di millesimi di secondo, in modo da assicurare una completa fratturazione del calcestruzzo senza arrischiare, negli stretti confini della gola, l'improvvisa detonazione di quattro tonnellate di esplosivo. A mezzogiorno del 6 giugno, una folla di funzionari provenienti da Salisbury, guidati da Sir Malcolm Barrow, ministro dell'Energia, e un gruppo di ingegneri e giornalisti si radunò in un posto di osservazione in cima alle alture della riva sud per vedere quella che stava per essere la più grande esplosione eseguita dall'uomo in Africa. Per la prima volta in un anno, tutti i lavori a Kariba si fermarono e la gola rimase deserta. Entro una galleria sulla riva nord stavano Maher e Franco Vischi, l'ingegnere italiano responsabile della costruzione della diga, con i loro assistenti. Dopo che l'ultima sirena di allarme ebbe suonato, si contarono a rovescio i 60 secondi finali. Agli spettatori quel minuto, mentre i numeri venivano scanditi attraverso gli altoparlanti, sembrò eterno. La tensione venne meno quando l'anonima voce contò laconicamente «5, 4, 3, 2, 1». Deboli lampi arancione apparvero sui lati della tura. Il rumore, quando si udì, più che lo scoppio di un'esplosione parve il rombo di un gigantesco tamburo. Le 400 cariche partirono l'una dopo l'altra, e in un minuto l'ntera tura venne oscurata da una grigia coltre di fumo e polvere che lentamente si aprì nella forma a fungo, a tutti nota in questi tempi di bombe atomiche. Quando il fumo si diradò, il fiume fu visto precipitarsi attraverso le brecce, aperte così nettamente che sembravano tagliate da un gigantesco coltello. Macchiata dal giallo dell'acido picrico, un centinaio di migliaia di tonnellate di acqua invase il nuovo canale con tale violenza che, in un primo tempo, il fiume invertì effettivamente il suo corso, circa 45 metri al di sotto della diga. Tre minuti più tardi la turbolenza e i gorghi si erano placati, e lo Zambesi scorreva indisturbato lungo il nuovo letto che l'uomo gli aveva aperto. Esultante, un giovane ingegnere si rivolse ai giornalisti che erano con lui: «Finalmente abbiamo il fiume sotto il nostro controllo. Ora le piene non possono cambiare più nulla» Uomini ben più anziani di lui dissero la stessa cosa in diversi modi. Nessuno tuttavia può essere criticato per non aver previsto quali riserve lo Zambesi stava per buttare nella battaglia che cominciò il febbraio seguente. CAPITOLO DECIMO DIETRO LE LINEE Alle spalle, e molto spesso addirittura al fianco degli nomini che combattevano il fiume, ve n'erano migliaia di altri la cui importanza è stata oscurata. Essi lavoravano per l'Impresit, e per le altre organizzazioni: impiegati, magazzinieri, uomini dell'ufficio acquisti, disegnatori, contabili, uomini che eseguivano i loro compiti faticosi e abituali in condizioni di continuo disagio, forse più dure da sopportare dei momenti di estremo pericolo. Era tutto il gruppo degli impiegati nei servizi ausiliari, indispensabile per tenere in vita una numerosa collettività e per procurare le forniture necessario a un vasto progetto di ingegneria in quella che era ancora, all'infuori della piccola oasi di attività, la più selvaggia delle contrade. Per via aerea Kariba si trova ad un'ora da Salisbury. Al tempo in cui il viaggio lungo le strade richiedeva dodici ore, se si era fortunati, e poteva durare anche più giorni, venne costruita una primitiva pista di atterraggio vicino al Sanyali. Nel settembre del 1955 la pista venne aperta agli aerei non più grandi dei Rapides, quei pesanti biplani da carico che sono stati i pionieri delle vie aeree commerciali nell'Africa centrale. Il capitano Clive Halse, capo pilota della Hunting-Clan Airways in Rhodesia, fu il primo ad atterrare e da allora ha compiuto lo stesso percorso più di cinquecento volte. Halse ed i suoi nove colleghi hanno avuto molto di più che una semplice veduta di Kariba dall'alto, All'inizio, quando tutti i voli erano fatti a noleggio, i piloti passavano le loro giornate sonnecchiando in quel poco d'ombra che potevano trovare tra la boscaglia vicino alla pista, oppure facevano l'autostop per raggiungere il cantiere in cerca di compagnia e di ristoro, mentre aspettavano che i passeggeri portassero a termine i loro affari. «I primi ricordi,» dice Halse, «comprendono la vista gradita di un grande frigorifero a paraffina all'aperto, pieno di bottiglie, simile ad un orologio di città posto in un accampamento. Attorno ad esso c'era una compagnia di uomini barbuti intenti a cuocere qualcosa sul fuoco mentre mangiavano carne in scatola col cucchiaio» La mercé portata dai Rapides andava dalle bare ai cavoli; i cibi freschi effettivamente rappresentavano una parte importante dei loro primi carichi. I passeggeri erano eterogenei, ma quasi sempre h-a loro si trovava un gentieman di Johannesburg. L'annuncio che quei provinciali di rhodesiani avevano 80 milioni di sterline da spendere aveva suscitato un fremito di interesse da una estremità all'altra di Eloff Street. A intervaili regolari, dagli ambienti commerciali della città delì'oro saltavan fuori strani tipi di venditori che vivacchiavano alla meglio battendo la campagna. Completi di abito nero, borsa, cappello e sorriso sicuro di se, fioccavano a Kariba portando, come riconoscimento dei legami della Rhodesia col mondo britannico, la più caratteristica delle cravatte dei collegi inglesi. L'unica cosa che a quell'epoca si poteva commerciare a Kariba era la birra fredda, ma nessuno di loro voleva crederlo. Immaginavano di trovare a Kariba una città in piena espansione, abitata quasi interamente da agenti di compra-vendita sdraiati sulle loro poltrone, con il libretto degli assegni in mano. «Un commesso viaggiatore di Johannesburg,» continuava Halse, «arrivò stringendosi al petto un asse da gabinetto in plastica. Con la sua parlantina persuase un tale a dargli un passaggio fino al cantiere sulla parte posteriore di un camioncino aperto. Fu sballottato da un angolo all'altro mentre la faccia e il vestito cambiavano colore e per poco non rimase soffocato dalla polvere impalpabile e rossastra. Finì per sedersi sul suo sedile di plastica, che si ruppe subito in due pezzi. Non so che fine abbia fatto, ma me lo figuro ancora, zoppicante, nelle scarpe sottili, vagare di tenda in tenda in cerca di qualcuno che volesse interessarsi alla sua vantaggiosa offerta» Questo accadeva verso la fine del 1955. Col maggio del 1956, il traffico era molto aumentato e la pista primitiva era stata talmente migliorata che venne iniziato un regolare servizio di DC 3. L'atterraggio di Kariba non era mai stato popolare tra i piloti perché correva lungo un'alta collina, e il caldo ed il territorio accidentato rendevano l'aria turbolenta. Inoltre, nei mesi delle piogge, scoppiavano violenti temporali e i turbini di vento o «diavoli di polvere», come li chiamavano i rhodesiani, potevano essere pericolosamente impetuosi. Una volta il pilota di un Rapide, appena scese dalla cabina, dopo aver fatto qualche passo, restò inorridito vedendo sopraggiungere un diavolo di polvere. Mentre lottava per respirare, vide il suo aereo sollevarsi di pochi centimetri, girare su se stesso e ricadere senza danni nel medesimo posto ma col muso rivolto nell'altra direzione. Quando venne la grande piena, un pilota si avvicinava prudentemente a bassissima quota per eseguire un breve atterraggio sullo spazio estremamente ridotto ancora disponibile. Proprio mentre stava per toccare terra, un mastodontico ippopotamo affiorò dalla parte allagata della pista e si rizzò per guardare l'aeroplano. Dando tutto gas all'ultimo minuto, il pilota fece appena in tempo a far fuggire l'animale. Da allora il vecchio campo divenne noto come ippodromo di Kariba. Ora esso giace a circa 60 metri sotto la superficie del lago, ed un piccolo aeroporto moderno è stato costruito a 20 chilometri dalla diga. Specialmente gli uomini della torre di controllo hanno accolto con gioia il nuovo aeroporto. Al vecchio campo, infatti, una delle loro incombenze, prima di dare via libera per l'atterraggio degli aerei, era di vedere se nessuno degli elefanti che frequentavano una fossa lì nei pressi si stesse dirigendo verso la pista. Il loro sollievo per essere sfuggiti a questo noioso incarico diminuì quando una mattina, su uno strato fresco di catrame dei loro nuovi alloggi, essi rinvennero profonde impronte di leoni. Gli animali abbondano ancora, soprattutto quelli delle specie più piccole, e i piloti dell'HuntingClan hanno preso a proteggere una famiglia di facoceri che regolarmente va ad aspettare il DC 3 delle 8,15 a Kariba. Tranne un solo mese, quando il vecchio aeroporto venne sommerso durante la piena del 1958, il collegamento aereo stabilito fra la diga e il mondo esterno non è mai stato interrotto. Per lungo tempo si credette che Kariba fosse una zona insalubre infestata di malattie. Vennero espressi dei dubbi sulla possibilità che gli uomini bianchi potessero lavorarvi e, come si ricorderà, agli indigeni venne detto che sarebbero stati falciati dalla malaria e dalla malattia del sonno. La zona, in effetti, è infestata dalle zanzare e dalle mosche tzé-tzé, ma il clima, come è stato confermato da tutti i meche i che vi hanno soggiornato, nonostante il caldo, è molto salubre. In realtà i problemi sanitari di tutte le alture africane, sorgono non dal clima ma dalle pestilenze, dai parassiti e dalla cattiva nutrizione. Soltanto in questi ultimi anni, con l'introduzione di abitudini civili, è sopraggiunta la complicazione della tubercolosi e delle malattie veneree. Nella Rhodesia del Sud vive una varietà di mosche tzetze che infetta sia gli uomini, sia il bestiame; tuttavia l'insetto è molto più terribile di nome che di fatto. Questo flagello va espandendosi, con grande costernazione dei vecchi rhodesiani che ricordano i giorni in cui estesi tratti di territorio erano impenetrabili a causa della presenza della mosca. Ma i motori a combustione interna e i meccanici, più che gli stessi medici e gli entomologi, hanno quasi distrutto il potere offensivo della mosca. Nel passato essa poteva colpire gli animali da lavoro dai quali dipendeva l'attività dell'uomo; ma ora macchine e trattori sono refrattari alle punture della tzé-tzé ed al parassita che essa può trasmettere. Inoltre una volta che una zona sia stata effettivamente occupata dall'uomo, la tzé-tzé si ritira, e se l'uomo avrà un giorno la possibilità di incivilire sterline le regioni infestate dalla tzé-tzé, essa verrà scacciata del tutto. Col tempo potrebbe svilupparsi una tzé-tzé domestica così come si è sviluppato un topo casalingo; quest'ipotesi rallegra senza dubbio gli intervalli per il tè ai congressi di entomologia. Fra l'altro, ora esistono dei medicamenti che trasformano la malattia del sonno in poco più di una spiacevole febbre rapidamente guaribile. A Kariba, appena fosse cominciata l'attività su larga scala, la mosca non avrebbe più presentato alcuna minaccia. Tuttavia, visto che basta nominarla per spargere il terrore, la zona venne disinfestata prima che vi giungessero gli appaltatori principali. Era molto più grave il rischio affrontato dai piloti dei Tiger Moths mentre volavano fra le alture, a soli tre metri sopra gli alberi, del pericolo che correvano gli operai di essere punti nel cantiere dalla tzé-tzé; ma, psicologicamente, la decisione di disinfestare la zona sarà stata certamente ottima. La malaria, però, rappresentava un problema più difficile. È vero che ai nostri giorni esistono dei profilattici che danno una completa immunità, ma è altrettanto vero che è più difficile acquistare l'abitudine di prendere una pillola alla settimana che quella di fumare venti sigarette al giorno. Ben presto, la Commissione per l'energia elettrica comprese che erano indispensabili il prestigio e l'autorità di un medico per incoraggiare la timida voce del buon senso. Il dottor Maurice Stallmaster, uno che apparteneva al numeroso gruppo dei rhodesiani di origine polacca, si stabili' per primo in una 'rondavel' di alluminio nell'agosto del 1955. Nel suo angusto ambulatorio prefabbricato egli ebbe in cura, fìn dall'inizio, venti o trenta pazienti al giorno, ma la grande maggioranza dei suoi visitatori soffriva di tagli non importanti, di ecchimosi e leggere malattie della pelle. Il suo compito principale era poco alla moda e poco remunerativo e consisteva nell'esercitare la medicina preventiva, attività che gode fra i medici lo stesso prestigio che gode il cappellanato delle carceri fra le gerarchle ecclesiastiche. La sua opera e quella di coloro che lo seguirono ebbe risultati molto soddisfacenti: la percentuale di malattie e di incidenti si è mantenuta inferiore alla metà di quella riscontrata nel più piccolo e meno difficile impianto delle cascate Owen in Uganda. Calcolando anche le più piccole ferite e i disturbi minori, la percentuale ha raggiunto circa il 3,5% all'anno. Una disinfestazione intensiva ha scacciato le zanzare dai confini della città di Kariba, e la distribuzione settimanale di Daraprim ha dato completa immunità contro la malaria. Se qualche caso sporadico compare ancora nei rapporti sanitari e in quelli sui decessi, esso è dovuto interamente alla trascuratezza degli individui, o al fatto che erano già infettati prima di giungere al cantiere. Togliete la sporcizia e i flagelli, e vedrete che, per migliala di chilometri dell'altipiano africano, la razza umana fiorirà come in nessuna altra parte della terra. La florida salute dei bambini che vivono a Kariba sorprende tutti gli stranieri ed ha meravigliato moltissimo anche i medici del luogo. La Commissione per l'energia elettrica ebbe la fortuna di trovare, in Stallmaster e nei suoi successori, un gruppo di medici che potevano permettersi ed erano pronti ad accettare un incarico che dalla maggior parte dei colleghi sarebbe stato considerato poco vantaggioso. Il dottor Mark Webster, che divenne medico capo, è il tipo d'uomo che si diletta ad affrontare un problema, e che si annoia non appena lo ha risolto. Egli è pieno di iniziative, e il compito di creare l'ospedale di Kariba assorbì tutte le sue energie finché non fu compiuto. Nel maggio 1956, l'ospedale fu progettato. Nel maggio del 1957 venne completato e nello stesso mese Webster lo consegnò al colonnello H. S. Smithwick, già del Servizio medico indiano. Nonostante le difficoltà connesse alla posizione, si calcola che il suo costo fu di 1.000 sterline per letto, il che, per le Rhodesie, è molto al di sotto del costo medio; e in altro modo serve anche da modello agli altri ospedali della Federazione. Ricovera pazienti di diverse razze, benché vi siano ali separate per europei e indigeni, e ciò vuoi dire aver evitato i costosi raddoppi dei servizi di laboratorio, chirurgia e amministrazione imposti dalle abitudini segregazioniste di Salisbury. E poiché è diretto dalla Commissione per l'energia elettrica, è libero dai sistemi burocratici caratteristici del servizio medico del governo federale. Non è stato seguito, per esempio, il criterio di dipingere le sale nei soliti scialbi colori che danno a tanti ospedali l'atmosfera di prigione, suggerita anche dalla stessa parola «corsia» (In inglese la parola ward significa corsia di ospedale e cella di prigione). Seche rosso vivo, porte blu, pareti pastello, piccole macchie di colore sui letti, tutto ciò rende gaie le stanze ove le madri indigene hanno imparato a recarsi per dare alla luce i loro bambini. Soffermarsi accanto al grande, sorridente colonnello a guardare i negretti e le donne che lo salutano in queste stanze accoglienti, luminose e veramente civili, ricordarsi che alcuni anni prima in questo posto c'era la boscaglia rocciosa infestata di babbuini; rendersi conto che quelle donne pulite, ben nutrite e riposate, precedentemente avevano partorito rannicchiate vicino al fuoco in una sporca capanna; comprendere tutto questo vuoi dire sentire un poco dell'orgoglio o della speranza che sono l'unico premio alle lotte per il progresso dell'Africa, troppo spesso così amare. Ogni impresa, grande o piccola, resta legata ad altre conquiste completamente diverse dallo scopo principale. E Kariba non è una eccezione. Non si può fare una digressione dalla storia principale di Kariba senza venire a parlare della scuola europea. È sorprendente che il governo federale abbia deciso di costruire una scuola elementare a Kariba. Nei territori scarsamente popolati della Rhodesia molti bambini ricevono ancora la loro prima istruzione a casa. La Scuola per corrispondenza, uno speciale reparto del Ministero, prepara programmi e lezioni dettagliate che vengono inviate alle madri. I ragazzi fanno i compiti a casa, ma il lavoro è corretto ed i loro progressi sono sorvegliati dai maestri per corrispondenza. Le lezioni per radio completano il materiale scritto. Dato che i ragazzi di Kariba figli di genitori rhodesiani sono inferiori al 5 %, e poiché alla grande maggioranza degli altri non sarà concesso, per la restrittiva legge sulla immigrazione, di restare nel paese, una scuola non era statisticamente giustificata. Probabilmente il Ministero sentiva l'obbligo morale di fare qualcosa per i figli degli uomini che stavano costruendo la diga. Sovvenzionare una scuola italiana sarebbe stato costituzionalmente impossibile. Dal momento che uno stato bilingue può originare molte recriminazioni, come ha mostrato la vicina Unione Sudafricana, la Federazione ha stabilito che l'inglese fosse l'unica lingua ufficiale. Se poi ai forestieri fossero state offerte facilitazioni non disponibili normalmente per i rhodesiani, vi sarebbero state senza dubbio delle proteste. La scuola, una volta costruita, avrebbe potuto facilmente ridursi ad una semplice dimostrazione di buona volontà. Il problema di istruire 200 bambini di una dozzina di nazionalità secondo un programma rhodesiano, quando i quattro quinti di essi non conoscevano affatto l'inglese, avrebbe scoraggiato la maggior parte degli insegnanti. Ma ancora una volta Kariba, che aveva polarizzato intorno a sé tutto il meglio della Rhodesia, attirò l'uomo adatto a quel compito. Bill Ames, nato a Bedford, Inghilterra, e stabilitosi in Rhodesia nel 1953, è un giovane fuori del comune. Egli rappresenta una conferma della teoria che i migliori pastori e migliori insegnanti sono quelli che hanno preso parte ai tumulti del mondo prima di seguire la loro vocazione. Si arruolò nell'esercito come «ragazzo» nel 1957; trasferito in aviazione, divenne aviere durante la guerra e solo dopo la smobilitazione studiò per l'insegnamento. Nel pigro, scettico mondo rhodesiano, le sue salde convinzioni religiose e la sua vocazione senza compromessi lo rendono persona molto incomoda. È facile capire che può essere considerato un intollerabile noioso da quelli che non condividono il suo entusiasmo. Ma poiché, nella nostra epoca incerta, questo entusiasta sa ciò che vuole, è riuscito a raggiungere il suo scopo, con l'aiuto della sua bella moglie dai capelli scuri, e non si è fatto scrupolo di crearsi dei nemici. «Voi pensate alla vostra diga in termini di calcestruzzo, non di sforzo umano,» dichiarò una volta allo sconcertato Duncan Anderson, che non è certo abituato a sentirsi apostrofare con simili termini, e si allontanò furibondo per cercare di ottenere dall'Impresit ciò che la Commissione per l'energia elettrica gli rifiutava. La sua scuola in verità era piccolissima e miseramente costruita. Consisteva di una parte amministrativa, tre aule, e un piazzale di ricreazione spianato con quarzite, che ha tutte le qualità del vetro frantumato. Ames si fece prestare dall'Impresit due nuove aule prefabbricate e ottenne da John Laing, dopo che tutti gli appaltatori avevano rifiutato, 500 tonnellate di terreno vegetale. Con lo stesso spirito, Ames esortò e indusse la gente a costruire una piccola chiesa non conformista, dove le panche e l'altare furono ricavati da vecchie porte di gabinetto, l'unico legno che riuscì ad ottenere da chiunque. Il 13 gennaio 1957 la scuola fu inaugurata. Gli alunni erano per il 75 % italiani; per il 15 % erano di lingua inglese e provenivano dall'Inghilterra, Rhodesia, Sud-Africa, Kenya, Tanganika e altrove; il rimanente 10 % era costituito da portoghesi, danesi, francesi, greci, afrikaner di lingua inglese e da una mezza dozzina di altre nazionalità. Non avevano nulla in comune all'infuori, nella maggioranza, del profondo desiderio di vivere altrove. Molte madri italiane inoltre temevano il peggio. Si abbandonavano a scene di disperazione ogni volta che dovevano dividersi dai loro terrorizzati ragazzi. Per i primi tre giorni l'operazione di dividere i ragazzi nelle varie classi fu intralciata da un gruppo di donne che in tutta la mattina non si allontanò mai dalle finestre delle aule perché i «bambini» sapessero che le mamme erano ancora lì per proteggerli. Attorno al recinto della scuola sostava una sottile linea di ansiosi ma silenziosi padri italiani, che venivano a prendere posizione non appena smontavano dal turno di lavoro, per essere a disposizione in caso di disastro. Il disastro quasi arrivò quando Ames scoprì che l'antagonismo fra le province italiane era più forte delle rivalità nazionali. Quando due grandi e bellicosi piemontesi vennero sorpresi a dare una lezione ad un piccolo corso, saltando a turno su di lui, egli li condusse nel suo ufficio e li picchiò col bastone. La notizia si sparse immediatamente, e la scuola fu presa d'assalto. Gli italiani puniscono raramente i loro figli, e quando si sparse la voce che il maestro inglese li stava picchiando «come animali», i peggiori presagi dei genitori contadini furono confermati. Ma i ragazzi apprezzarono la lezione anche se i loro genitori ne furono inorriditi, e tra loro non si verificarono altri atti di violenza. Ames, da allora, non ha mai più usato il bastone. Dopo circa dieci giorni le cose si sistemarono. Ames abbandonò l'intenzione originaria di tenere classi separate per gli italiani e per gli altri, e decise di tenere tutte le lezioni nell'inglese elementare. Con l'aiuto di cinque assistenti, tre delle quali bilingui, la scuola ora fiorisce. Per gli italiani ci sono lezioni supplementari nel pomeriggio, durante le quali vengono svolti i programmi italiani. Alla fine dei corsi fanno gli esami di Stato italiani e conseguono diplomi accettati dal Ministero dell'Istruzione del loro paese. Bill Ames non ha nessuna pretesa che la sua scuola raggiunga un alto livello di profitto scolastico. Infatti al loro ritorno in patria, quasi tutti i ragazzi si troveranno indietro di un anno rispetto ai loro coetanei. Tutti, però, avranno acquistato qualche conoscenza di una lingua che non è la loro, e avranno goduto l'esperienza di conoscere ragazzi stranieri. Alla loro età i pregiudizi razziali sono meno forti della curiosità infantile e del bisogno di compagnia. Le poclie centinaia di bambini che frequentano la scuola di Kariba non sono che una goccia nell'oceano della gioventù africana ed europea, ma tra loro non vi saranno sicuramente degli sciovinisti. Ancora una volta, in margine al suo compito principale, Kariba ha creato qualcosa d'importante: un piccolo lievito che, nel fermento dell'Europa, affretterà il giorno in cui questo, più ricco di tutti i continenti, ritroverà la sua unità essenziale. CAPITOLO UNDICESIMO IL DIO ADIRATO Con il progredire della stagione asciutta del 1957, gli italiani cominciarono a sentirsi padroni della situazione. Le piene li avevano sconcertati e preferivano non pensare ai giorni in cui il pome stradale era minacciato e tutto il programma di lavoro sembrava sul punto di venir distrutto. Essi avevano provato a se stessi ed al mondo intero di essere riusciti ad anticipare i tempi del rigido programma nonostante la piena dello Zambesi avesse superato di due volte il livello massimo normale. Incoraggiati dal successo, accelerarono persino il ritmo di lavoro. Ogni mese qualche migliaio di metri cubi di roccia in più veniva scavato nell'interno delle colline ridotte ad un vero e proprio labirinto di pozzi e di gallerie che conducevano alla grande centrale sotterranea ed alla sala macchine. Ogni mese migliaia di metri cubi di calcestruzzo venivano aggiunti ai conci della parte settentrionale della diga, che cominciava ad assumere quel curioso aspetto turrito caratteristico della costruzione ai suoi primi stadi. Il lavoro alla tura centrale che, con i suoi 116 mt. di diametro, avrebbe racchiuso 10.000 mq. di letto del fiume, progrediva rapidamente. La tura veniva costruita in acque calme e il procedimento era di conficcare nel terreno delle palancole d'acciaio per formare delle strette scatole di metallo. Pezzi lunghi fino a 26 mt. erano infissi nel letto del fiume da battipali che lavoravano su pontoni. Le scatole metalliche venivano legate da paratie di acciaio, e quindi riempite di pietrame. Quest'ultimo veniva poi unito in una massa solida dalla boiacca di cemento iniettata sotto pressione. Il letto del fiume entro il quale venivano forzate queste scatole era coperto da uno strato traditore di roccia e sabbia sciolta. Per ottenere fondazioni solide, la sabbia veniva succhiata fuori e la boiacca era pompata in sua vece sott'acqua, così che il letto e le palancole si confondessero in un'unica struttura. Appena era stata formata una solida fila di palancole, la parte di tura sopra l'acqua veniva costruita con i soliti sistemi. Quando entrarono in funzione i blondins, il compito di gettare il calcestruzzo venne facilitato: il materiale già mescolato veniva portato lungo i cavi dei blondins, nelle benne, per essere scaricato al punto esatto. Il trasporto dall'impianto di betonaggio sulla riva nord, alla zona di lavoro in mezzo al fiume, richiedeva solo qualche minuto. L'abbassamento delle benne veniva diretto a mezzo di radiotelefono da un uomo sulla diga che passava istruzioni al manovratore del blondin, che si trovava a 800 metri di distanza e 240 metri più in alto, nella cabina della gigantesca macchina. Il fiume deviato nel canale a ridosso della sponda nord e, per buona parte del suo volume di magra, nella galleria della sponda meridionale, si era ridotto a poco più di un torrente turbinoso reso insignificante dall'imponenza dei conci della diga e a volte quasi nascosto dalla piatta ombra della tura in costruzione. I mesi di mezzo dell'annata erano freschi e calmi a paragone della calda e burrascosa stagione delle piogge. Verso la metà di novembre 1957, la tura era quasi pronta: nell'acqua sudicia in essa contenuta vennero calate delle pompe montate su zattere. Il pompaggio cominciò il 19 novembre e due giorni più tardi venivano asportati gli ultimi sedimenti. Per la prima volta nelle centinaia di millenni in cui il fiume aveva fluito attraverso la gola, il letto principale dello Zambesi vedeva la luce. Sul fondo giacevano trovanti alti due o tre volte l'altezza di un uomo, consumati dall'acqua così da sembrare crani di mostri preistorici. Quando la prima zattera toccò il fondo, tre uomini trionfanti poterono osservare i contorti segreti del letto del fiume. Si chiamavano Errera, uno degli ingegneri francesi che rappresentava i consulenti. Bergamasco, il direttore dell'Impresit in Rhodesia, e Baldassarrini. Su di loro torreggiava il muro di 57 metri della tura, sul quale gli operai coininuavano a lavorare per portarlo ad una quota superiore a quella raggiunta dalla piena di marzo. Sebbene le probabilità che una simile piena si verificasse per due anni consecutivi fossero minime, non si voleva lasciare nulla al caso. Ogni stadio di esecuzione del progetto riceveva un nome convenzionale, secondo le abitudini del tempo di guerra, e questo intrappolamento dello Zambesi era indicato con la denominazione sclierzosa di «Operazione trappola per topi». Anche se restava ancora da compiere la parte più spettacolare del lavoro, il momento in cui i tre uomini scesero dalla zattera per camminare sul letto del fiume fu decisivo per tutto il programma. Innalzare la diga, ora che il fiume era stato asciugato, era un problema puramente meccanico, una questione di preparazione, di trasporto e di rapido rifornimento dei materiali grezzi necessari alla costruzione. Ed ecco infatti come si espresse Baldassarrini quando, con le scarpe ancora umide per il fango dello Zambesi, i tre ingegneri salutarono i colleghi che li aspettavano sulla riva: «Da questo momento in poi, è soltanto questione di calcestruzzo... calcestruzzo... calcestruzzo..». Tutti in verità erano molto fiduciosi. Dicembre passò senza incidenti e il Natale fu celebrato per la prima volta a Kariba come una festa familiare. Vennero organizzate delle festicciole per bambini; cipressi decorati, usati come alberi di Natale, luccicavano nella notte alle finestre delle case dei rhodesiani. Furono fatti i soliti sforzi per celebrare la festività secondo le tradizioni nordiche e per banchettare con pesanti puddings e torte in una temperatura che non scese mai sotto i 38°. Degli entusiasti, coi visi paonazzi, respirando affannosamente, oppressi da rossi mantelli imbottiti e soffocati da baffi di ovatta, apparvero nelle vesti di Babbo Natale alle festicciole dei bambini. Per gli italiani, il Natale non presenta (Ilici significato commerciale e paganeggiante che i rhodesiani, alla maniera degli inglesi, gli attribuiscono; perciò essi parteciparono ai festeggiamenti soprattutto per dovere di cortesia. Per ricambiare la gentilezza, quasi tutti, a Kariba, assistettero alla messa di mezzanotte, che venne celebrata all'aperto. Gli italiani cortesi decisero di introdurre nella cerimonia un tipico canto inglese. Durante il Credo, da tutti gli altoparlanti si udì la dolciastra voce di Bing Crosby che cantava «l'm dreaming of a white Christmas» (noto in Italia come Bianco Natale) con l'accompagnamento di un'orchestra completa di organo e di sonagli da slitta. La devozione dei rhodesiani mentre, tremanti di emozione, si chinavano commossi in avanti con le mani sugli occhi, sconcertò gli italiani, i quali non avrebbero mai immaginato che gli eretici fossero capaci di un simile profondo sentimento religioso. Natale passò con i suoi plum puddings e i suoi «panettoni» seguito da una notte di Capo d'Anno celebrata più o meno nello stesso stile sebbene sotto una dozzina di nomi diversi. E si ritornò al lavoro. Gli scavi sotterranei stavano dando preoccupazioni, perché ogni metro di roccia doveva venir trattato con precauzione; anche gli scavi per la diga entro la tura erano faticosi, poiché bisognava rimuovere migliaia di tonnellate di sabbia molto bagnata, che doveva essere trasportata via lungo i cavi dei blondins. Ma, alla fine di gennaio, fu possibile iniziare le fondazioni della parte centrale della diga. Gli escavatori avevano appena iniziato il loro lavoro quando arrivò la notizia che, sopra le cascate Victoria, lo Zambesi aveva già superato di 5" metri il livello massimo della piena dell'anno precedente. Tale notizia era addirittura incredibile perché la probabilità che si verificasse una piena come quella del 1957 erano state calcolate 1 contro 1.000, e di conseguenza la possibilità che una simile piena si ripetesse nel 1958 sembrava assolutamente assurda. Poi arrivò la notizia che piogge fenomenali stavano cadendo su tutto il bacino, e che si potevano aspettare piene pericolose in febbraio. Il ritmo di getto fu annientato per innalzare il più possibile i conci della diga, e durante quel mese i bastioni sulle due rive presero l'aspetto di una fortezza incombente sul cerchio della tura centrale. Nel 1957, la piena era stata preavvisata con largo anticipo, ma nel 1958 lo Zambesi si abbattè sulla gola con violenza improvvisa e travolgente. Il 7 di febbraio il ponte stradale, che era stato a stento salvato l'anno prima, ricevette un colpo mortale. Uno dei piloni di sostegno cedette e venne portato via in pochi secondi. Il ponte condannato venne chiuso, ma rimase la passerella sospesa per il traffico pedonale e i blondins per il trasporto delle attrezzature. Anche il Sanyati crebbe di 2 metri e mezzo in 24 ore e prese d'assalto la gola. Il livello dell'acqua salì oltre 3 metri sopra il limite delle piene del '57; e agli uomini sgomenti giunse la notizia che l'attacco principale stava ancora preparandosi e avrebbe colpito Kariba non prima di due settimane. Sembrava che nulla potesse salvare la tura, nonostante la sua altezza eccezionale. Vennero mobilitate squadre di emergenza per erigere impalcature di legno sulla parete di monte, mentre i ronzanti blondins tiravano fuori tutte le attrezzature pesanti, come i bulldozer e gli escavatori. L'acqua cresceva ancora; il Sanyati allagò l'aeroporto e tutto il traffico aereo venne sospeso. Tranne che per le pericolose strade di accesso spazzate dalle tempeste, che non potevano più portare traffico pesante, Kariba era isolata. Il 9 febbraio, attraverso il radiotelefono, si udì la calma voce di un addetto ad una stazione di misurazione dell'alto fiume: «La piena principale ha raggiunto la piana di Barotse. Siate pronti a riceverla fra dieci giorni; temo che sia eccezionale». Un giovane ingegnere italiano, che era arrivato in volo da Milano meno di dieci giorni prima, si accarezzò l'ispida barba di quarantotto ore e rise sui visi sconcertati dei colleghi che circondavano l'apparecchio ricevente. «Mi avete detto che si doveva affrontare l'incredibile. Cosa succederà quando ci troveremo di fronte all'eccezionale?» «Quando sarà il momento,» disse un veterano di Udine, «capirai per la prima volta quanto siano grandi gli inglesi nell'attenuare le cose. Sai che cosa sta per capitarci?» La vecchia volpe fece una pausa nel gioco di impressionare il nuovo venuto. «La pioggia che cade su mezza Europa in un mese, si rovescerà attraverso quel canale laggiù. Stai attento a non bagnarti i piedi» Ma prima che la notte fosse trascorsa, si ritrovarono tutti inzuppati fino alle ossa, poiché un violento temporale si abbattè su Kariba. Sotto la pioggia torrenziale, delle frane cominciarono a muoversi lungo le pendici delle alture, e slittando attraverso le strade di accesso, andarono a riversarsi nel fiume. Dalle rive, investite da ondate vorticose di quattro o cinque metri d'altezza, vennero strappate intere strisce di terra. Sotto le lampade ad arco, piccoli gruppi di uomini combattevano per salvare i piloni principali del ponte stradale, mentre autocarri ribaltabili si trascinavano attraverso il fango con carichi di pietrame per rimpiazzare il terreno che veniva portato via dal fiume. Poiché, nelle 48 ore seguenti, il fiume non accennò a salire sterline ulteriormente, l'instancabile Baldassarrini ordinò che il lavoro entro la tura venisse ripreso. Benché l'acqua tuonasse attorno ai conci della riva nord, lanciando spruzzi alti come una casa, e le onde fossero a due metri e mezzo dal bordo della parete di monte, gli uomini continuarono a lavorare imperturbabili. Nudi sino alla cintola, i torsi abbronzati gocciolanti mentre lavoravano all'unisono, le teste e i volti resi impersonali dagli elmetti rotondi, quegli operai sono stati paragonati centinaia di volte ai legionari romani; ma se mai meritarono tale paragone, fu proprio durante quei giorni, quando lavorarono con silenziosa disciplina nella piccola isola molto al di sotto dell'acqua, sprezzando lo Zambesi che in qualsiasi momento avrebbe potuto sopraffarli. Questo pezzo di terra entro la tura era l'impero che essi avevano conquistato al fiume, protetti da un semplice muro contro il barbarico infierire del nemico. Erano le 22 del 16 febbraio, e Baldassarrini, dopo la lunga giornata trascorsa in cantiere, era appena uscito dalla doccia e si stava vestendo per il pranzo, quando suonò il telefono. Gli giunse una concitata comunicazione dai guardiani della gola: «Ingegnere, si è aperta una falla nella tura» Senza attendere oltre, Baldassarrini buttò giù il ricevitore e gridò una spiegazione che sua moglie non potè sentire. Un attimo dopo era fuori di casa, sulla sua Land Rover e cinque minuti più tardi era già nella gola, proprio in tempo per vedere gli ultimi uomini arrampicarsi fuori e un grande escavatore sparire sott'acqua. Sotto le colossali pressioni, un piccolo angolo delle fondazioni di monte aveva ceduto, e l'acqua vi penetrava attraverso a tutta forza. In meno di 4 ore l'area entro la tura venne allagata. Il fiume aveva riconquistato il suo letto. Sui giornali rhodesiani apparve la fotografia di una conferenza stampa tenuta a Salisbury il giorno seguente. Attorno ad un tavolo siedono Olivier, rappresentante dei consulenti di Salisbury, con un mesto e pallido sorriso; Giuseppe Lodigiani, capo dell'Impresit, che si trovava in Rhodesia per una delle sue frequenti visite, stanco e con la pelle tirata sul magro viso; Bergamasco gli siede vicino, fumando una sigaretta, con una espressione tetra e il pensiero ovviamente lontano. Questo gruppo, circondato da seri assistenti, fa pensare alle fotografie di generali sconfitti, colti dall'obiettivo nel momento in cui sono costretti ad ammettere la loro disfatta. Fu una fotografia che testimoniò, più di ogni altra cosa, la violenza della battaglia che si stava combattendo nella solitaria Kariba. Ma era anche ingannevole. Questi uomini erano stanchi e, per il momento, scoraggiati ma non sconfitti. Inoltre sapevano quello che il pubblico non poteva indovinare e cioè che le forze principali del fiume non avevano ancora attaccato la gola. I loro pensieri, mentre facevano il triste resoconto dei fatti ai giornalisti, erano con i colleghi lasciati a combattere la battaglia più di 320 km. lontano. Nulla poteva essere fatto per aiutarli. Come spesso succede, gli uomini più vicini al pericolo erano meno preoccupati di quelli che potevano dividere i pericoli solo con l'immaginazione. Avevano troppo da fare per perdere tempo in meditazioni. Ma nessuno rideva più delle storie di Nyaminyami. Alle menti già affaticate da lunghe ore di sforzo fisico, sembrava per davvero che il fiume fosse guidato da una specie di intelligenza, alla ricerca dei punti deboli nella difesa dell'uomo e secondo un piano prestabilito. Prima era stato danneggiato il ponte stradale, la principale via dei rifornimenti, ed ora veniva lanciato l'assalto decisivo contro la tura già indebolita da una breccia. «Oggi, il fiume è diventato vivo,» disse Olindo Pierobon, sovrintendente agli scavi nel letto del fiume, quando, il 20 di febbraio, il livello dell'acqua salì oltre la parete della tura ed era arginato solo dalla sopraelevazione improvvisata. Senza dubbio, la tura sarebbe stata presto superata anche dall'esterno, mentre veniva allagata dall'interno. Bisognava correre ai ripari per salvarla. Ciò sarebbe stato possibile se si fosse abbassato il muro di valle. Cedendo questo diritto di passaggio al fiume, le pareti della tura potevano venire salvate. Guidati da Baldassarrini, alcuni uomini si fecero trasportare sulla parete di valle della tura in una benna del blondin. Quando smontarono, l'acqua lambiva i loro piedi; erano accecati dagli spruzzi e assordati dal ruggito del fiume mentre, pericolosamente in equilibrio, pochi centimetri sopra la piena, tentavano di porre alcune cariche di esplosivo. L'unico legame col mondo esterno era la benna oscillante sulle funi sopra le loro teste. Una grossa ondata, causata da qualche ostruzione a valle, spazzò il muro, e due indigeni vennero trascinati nel fiume. Subito Marchi, un italiano di 24 anni, si tuffò dietro di loro. Nuotatore d'eccezione, riuscì ad afferrare uno di essi ed a tenerlo stretto mentre la benna veniva abbassata sino a loro. Entrambi l'afferrarono e vennero sollevati per aria pericolosamente abbracciati ad essa. L'altro indigeno non fu più trovato. La stessa ondata d'acqua strappò gli inneschi così che il tentativo di far saltare via la parte superiore della parete di valle riuscì solo in parte. Allora le benne del blondin vennero caricate di sabbia e lanciate contro la parete. Questo primitivo ariete ebbe successo dove avevano tatto fiasco le moderne tecniche, e la parete della tura fu abbassata di oltre un metro. In quella ciré letteralmente poteva essere considerata una «operazione ramazza», lo Zambesi di nuovo spostò la sua attenzione sul ponte stradale danneggiato. Onde alte come montagne lo attaccarono alle due estremità, aprendo brecce di 6 metri nelle rive. Inzuppate di pioggia e di spruzzi, le squadre assegnate alla sua protezione guardavano senza poter intervenire. Poco dopo con uno spaventoso fragore che più tardi venne paragonato al tuonare di un cannone, il ponte se ne andò. La grande costruzione svanì nell'istante in cui un uomo volse la testa per parlare al compagno. Quando tornò a voltarsi per guardare il fiume, del ponte non restava nemmeno la più piccola traccia. Questa terrificante prova della forza del loro avversario, condusse gli uomini della gola all'orlo della disperazione. Anche Baldassarrini sentì che il fiume aveva vinto, benché allora non lo volesse ammettere. «Sentii,» dichiarò in seguito, «che eravamo contrastati da una forza molto più potente della nostra. Ci era concesso soltanto di salvare quello che si poteva, e attendere che la piena scendesse. Il padrone era il fiume. Potevamo solo attendere per vedere quanto del nostro lavoro fosse stato risparmiato, e quanto avremmo dovuto rifarne». Da Salisbury vennero organizzati voli turistici..»Per 9.000 lire sterline i passeggeri prendevano posto sopra un aereo che volava sulla gola a bassa quota, e ciascuno a turno stava per un minuto nella cabina di pilotaggio per osservare le devastazioni sottostanti. Nella zona della diga il fiume sembrava quasi placido; color cioccolato, si estendeva molto al di là delle sue rive. La sua superficie era segnata solo da chiazze bianche che la corrente formava in corrispondenza delle cime degli alberi del territorio sommerso. «Sembrava che si muovesse senza uno scopo preciso,» commentò in seguito un passeggero, «quasi simile ad una grande folla potenzialmente pericolosa, ma, in quel momento, innocua. Poi, entrato nella gola, sembrava impazzire di rabbia per quello che vi trovava. Si gonfiava allora in una grande massa bianca, che si scagliava con una velocità enorme contro i conci della diga e gli altri lavori che potevamo appena scorgere. A volte, sembrava che l'acqua si ritirasse per prendere d'assalto la diga con nuovo slancio». Quel passeggero non stava fantasticando. Infatti quando un fiume, largo diversi chilometri, si infila alla velocità di 20 nodi in uno stretto canale, si verificano gorghi tumultuosi e controcorrenti, così che le costruzioni, poste all'ingresso di una gola, vengono assalite contemporaneamente da tutte le direzioni. Non solo il fiume cresceva in altezza nel passare attraverso la strettoia, ma la sua velocità, in superficie, veniva quasi raddoppiata. Alla velocità di un treno rapido, centinaia di migliaia di tonnellate di acqua si scagliavano contro ogni ostacolo. I conci della diga non furono mai in pericolo; erano solidamente ancorati per 24 metri entro le rocce del letto del fiume, e tutta l'acqua dell'Africa non sarebbe stata capace di scuoterli. Il resto della costruzione, invece, era seriamente minacciato. «Sembrava un formicaio sfasciato da un calcio,» continuò l'osservatore dell'aereo, descrivendo il cantiere. «Piccoli gruppi di uomini stavano affrettandosi con ordine attorno alle grandi ferite che il fiume aveva aperto entro le rive. Ma nell'attimo stesso in cui si guardava, un altro strappo si apriva nella sagoma della gola. «Quasi mi vergognavo d'aver partecipato alla gita. Sapevo però che quei ragazzi lì sotto non sarebbero mai stati sconfitti. Mi venne di nuovo in mente il formicaio: lo si distrugge con un calcio e le formiche corrono in tutte le direzioni portando i loro patetici, piccoli fardelli. La loro attività sembra inutile. Ma alla fine ci si stanca di tirar calci; non si può restare lì per sempre! Se si torna sul luogo una settimana dopo, si trova che le formiche hanno ricostruito pezzo per pezzo tutto ciò che era stato distrutto». Questa similitudine era forse più aderente di quanto il passeggero potesse immaginare. Il livello dell'acqua stava salendo di 30 cm. ogni 3 ore e la piena principale era ancora ben lontana. Sembrava che non ci fossero limiti a ciò che il fiume poteva fare. Si dovettero prendere precauzioni tali che nessuno aveva immaginato nemmeno lontanamente. Il lavoro sotterraneo venne sospeso, e gli ingressi alle gallerie che conducevano entro la montagna, 30 metri al di sopra del livello massimo previsto, vennero sigillati. Si fecero perfino preparativi per spostare i blondins dalla loro piattaforma. Come le formiche, gli uomini in cantiere sapevano che era inutile resistere alla immensa brutalità dell'attacco. L'unica cosa che si poteva tentare era di conservare le deboli basi sommerse che avrebbero permesso l'inizio della ricostruzione quando la primordiale furia si fosse placata. Già alcune costruzioni stavano per essere strappate via dalle posizioni che erano state ricavatesui fianchi delle alture. Sulla riva nord, restava soltanto un casottino solitario, un gabinetto che, per uno strano capriccio del caso, era rimasto in piedi. Poi, la tura già allagata venne sommersa. Dopo poche ore l'unico segno della sua esistenza fu una cascata, larga 90 metri e alta 12, formata dai fiume che si precipitava dalla parete di monte verso quella di valle. I.a cascata trascinava giù nell'acqua enormi bolle di aria che, nel risalire sterline in superficie, scoppiavano con assordanti esplosioni udibili al di sopra del ruggito del fiume, e mandavano grandi spruzzi d'acqua su verso il cielo. Tutto questo dava l'impressione che la diga si trovasse sotto il fuoco di qualche lontana artiglieria. Durante la notte la cittadina era spesso disturbata dalla selvaggina costretta dalla piena a cercare scampo fra le alture. I babbuini facevano incursioni nelle case in cerca di cibo; gli animali domestici venivano sbranati nei giardini delle ville dalle iene affamate; il barrito degli elefanti ed il ruggito dei predatori si udivano sempre più vicini mentre gli animali venivano spinti dalle acque montanti verso le colline, in cima alle quali sorgeva la nuova cittadina. È sorprendente che, per tutto questo disperato periodo, gli operai indigeni non abbiano mai abbandonato il lavoro. Forse in un momento in cui anche i più evoluti europei erano ossessionati dall'idea di combattere qualcosa di più di un fiume, molti degli indigeni dovevano essere convinti che Nyaminyami li avesse condannati tutti. Forse la più grande speranza di questo continente sta nella fiducia che il credulo africano medio ripone negli europei: fiducia che né l'insolente egoismo di una minoranza di coloni, né l'ignorante benevolenza della maggioranza degli uomini politici stranieri, hanno mai potuto distruggere. La lealtà che l'africano ha così spesso mostrato, genera a sua volta un sentimento che sta al di sopra dei pregiudizi importati in Africa proprio dall'Europa e che l'Europa stessa oggi condanna. In tutta la Rhodesia i fiumi erano in piena con una violenza senza precedenti. Le piogge implacabili cadevano senza tregua; nella zona di Wankie, le precipitazioni di mezzo mese superarono la caduta media di un anno. Si prevedeva che la punta della piena dovesse raggiungere Kariba il 25 febbraio. Perciò, il giorno prima, il governatore generale, lord Dalhousie, salì sul suo aereo e volò sopra il cantiere. Un messaggio venne trasmesso agli uomini che si fermarono per pochi minuti, a guardare il visitatore venuto dal remoto mondo esterno: «Pensiamo a voi, venga o non venga il peggio. Auguri e buona fortuna» Questo era tutto ciò che i 7 milioni di abitanti della Federazione potevano fare. Lo stesso giorno, Baldassarrini condusse un gruppo di 25 uomini, tra europei e indigeni, sul ponte sospeso, nel tentativo inutile, ma coraggioso di salvarlo. Il fiume stava già tentando di afferrare con ingordigia la fragile costruzione. Disorientati dalla pioggia e dagli spruzzi, gli uomini si tennero in equilibrio sulle travi oscillanti per sollevare il ponte di circa un metro. Ma, come essi dovevano già sapere mentre arrischiavano la vita, quel lavoro era inutile: il fiume, infatti, continuò a salire sterline a lungo dopo aver raggiunto il livello massimo previsto. Il 3 marzo, il Sanyati fece un'altra delle sue incursioni. Il ponte lottò disperatamente, contorcendosi e dibattendosi fuori dall'acqua; le sue oscillazioni divennero così violente che talvolta un fianco superava l'altro di 6 metri, e tuttavia restò intatto anche quando l'acqua lo raggiunse. Ma la torre settentrionale crollò, perché le sue fondazioni erano state colpite alla base. In un ultimo gesto di sfida, il ponte si sollevò al di sopra dell'acqua e quindi ricadde spezzato in tre tronchi. Trionfalmente, lo Zambesi trascinò con sé i frammenti del naufragio mentre si rovesciava ormai libero verso il mare. I conci della diga, che erano ancora al di sopra dell'acqua, non opponevano ostacolo al suo avanzare. Nyaminyami aveva mantenuto la sua minaccia: aveva riconquistato la gola. L'acqua, con impeto trionfante, passava sui resti dell'opera dei suoi nemici a più di 16.000 metri cubi al secondo; una piena che, secondo i calcoli, poteva verificarsi solo una volta ogni 10.000 anni. CAPITOLO DODICESIMO ESSI MORIRONO A GWEMBE La notizia del trionfo dello Zambesi rafforzò la determinazione di un gruppo di Batonka che viveva nel distretto di Gwembe, sulla riva nord. Erano 6.000, poco più di un quinto, cioè, di tutti i Batonka che, per lasciar posto alle acque del futuro lago, dovevano venire spostati verso le nuove dimore della Rhodesia del Nord. Per capire perché mai questo gruppo abbia sfidato le autorità e, sotto la guida del capo Chipepo, abbia preso le armi primitive per difendere le proprie dimore ancestrali, è necessario conoscere come e perché il governo della Rhodesia del Nord abbia affrontato il problema di spostare le tribù con metodi diversi da quelli usati nella Rhodesia del Sud. In questa zona vi è la Commissione indigena di Gwembe che esercita alcuni poteri riconosciuti dal governo territoriale. La Commissione è composta da sette capi del distretto, cinque consiglieri nominati dai capi stessi, e sette consiglieri scelti dal popolo. Non appena la decisione di costruire la diga venne comunicata alla Commissione indigena di Gwembe, questa tenne una riunione e sottopose al governatore una serie di domande, conosciute come «i 24 punti», che richiedevano un certo numero di assicurazioni in merito allo spostamento dei Batonka. La maggior parte di queste domande erano ragionevoli. Sottolineavano la preoccupazione dei Batonka, i quali non volevano essere spostati in un ambiente completamente estraneo, non volevano che i loro gruppi familiari e di tribù venissero smembrati, e desideravano inoltre assicurazioni che le loro credenze religiose ed i loro costumi fossero rispettati. Per l'80% dei 29.000 uomini delle tribù da spostare, queste condizioni poterono essere accolte: 23.000 Batonka vennero infatti sistemati in zone nuove, sempre nell'ambito della vallata di Gwembe e non lontano dalle loro dimore di origine. Rimanevano, tuttavia, 6.000 persone per le quali non era disponibile alcun terreno adatto in vicinanza dei vecchi distretti. Si potè soltanto promettere loro che l'ambiente non sarebbe stato cambiato e che i gruppi familiari non sarebbero stati smembrati. Venne assegnata loro mìa zona estremamente fertile vicino al fiume Lusito, presso Chirundo, con una superfìcie di terreno arabile tre volte superiore a quello che avevano prima. Unico svantaggio, la zona si trovava a più di 160 km. dalle vecchie residenze, così che la tribù di Chipepo restava divisa in due parti, assai distanti. La Commissione indigena di Gwembe, di cui faceva parte lo stesso Chipepo, riconobbe che non v'era altra alternativa. Vennero perciò fatti tutti i preparativi necessari date le circostanze. Si costruirono strade, si fecero perforazioni nella zona di Lusito per alleggerire il compito dei nuovi colonizzatori, e i capi tribù vennero esortati a visitare Lusito per scegliere le posizioni dei nuovi villaggi. Fino a questo punto, non v'erano differenze sostanziali tra i metodi adottati nella Rhodesia del Nord e quelli della Rhodesia del Sud. Una variante stava nel fatto che, nella Rhodesia del Nord, agli uomini delle tribù fu promesso un indennizzo in contanti per lo spostamento, mentre, nella Rhodesia del Sud, si stabilì di distribuire razioni gratuite sino al momento in cui gli indigeni si fossero completamente risistemati. Quest'ultima, in seguito, si è dimostrata la disposizione migliore, perché più elastica. La Rhodesia del Sud accettò la responsabilità di nutrire le tribù spostate sino a quando si fossero sistemate completamente, cosa che le protesse dai capricci del clima durante i primi anni di residenza nelle nuove dimore. Il Nord diede loro un'unica somma in contanti, provvedimento che, senza dubbio, venne accolto in un primo tempo con maggiore entusiasmo, ma che, erroneamente, presupponeva la possibilità di prevedere la durata del periodo necessario alle tribù per ottenere i primi raccolti e provvedere al proprio mantenimento. Molto più grave fu la politica dilatoria seguita dal governo della Rhodesia del Nord. Per minimizzare le conseguenze dello spostamento, era indispensabile che venisse trasferito il maggior numero di persone possibile fra il raccolto di una messe e la semina dell'altra. Senza dubbio le autorità della Rhodesia del Nord se ne rendevano conto, ma sciuparono mesi preziosi per spiegare quello che stavano facendo, e per assicurarsi che tutti fossero contenti. Ne conseguì che, quando ebbe luogo la maggior parte degli spostamenti, le tribù avevano lavorato senza scopo le vecchie terre per preparare le semine ed era ormai troppo tardi per dissodare le terre nuove e preparare i prossimi raccolti. Facciamo un confronto tra la situazione del Nord e quella del Sud. All'inizio della stagione delle semine nel 1957, lo spostamento delle tribù, nella Rhodesia del Sud, era virtualmente compiuto e molti indigeni stavano iniziando la seconda semina nelle nuove terre. Nella Rhodesia del Nord, invece, un anno dopo, dovevano ancora venire trasferite 11.000 persone, e fu proposto di spostarne 8.000 nell'ottobre 1958, così tardi che non avrebbero avuto alcuna possibilità di far crescere un ragionevole raccolto nella stagione 1958-1959. Più le autorità della Rhodesia del Nord parlavano, più i Batonka diventavano sospettosi. Quando in un primo tempo venne spiegato loro che a Kariba la diga avrebbe creato un lago che avrebbe sommerso le loro case, essi si fidarono dell'uomo bianco senza riserve. Per loro questa affermazione era tanto difficile da accettare, quanto per una popolazione europea accettare le realtà dell'età nucleare. Ma l'uomo bianco aveva fatto molte cose incredibili, ed essi si erano abituati all'impossibile. Però l'uomo bianco parlava troppo. Perché continuava a ripetere la stessa cosa? Forse egli stesso non credeva a quanto andava dicendo? Questo era il momento di incertezza tanto atteso dal Congresso Nazionale Africano. Sappiamo che, sin dal 1955, uomini che pretendevano di parlare per conto di «Ari» avevano venduto carte magiche che avrebbero impedito la costruzione della diga a Kariba. Gli stessi uomini potevano ora citare le piene del 1957 e del 1958 come prove della potenza di Nyaminyami. Egli aveva distrutto tutti i ponti sul fiume, come aveva minacciato di fare, e per due anni di seguito aveva allagato le ture. Era evidente, quindi, che gli stessi uomini bianchi sapevano ormai di non poterlo vincere. Fin qui, per i Batonka della tribù Chipepo era facile seguire l'argomentazione. Ma allora, perché l'uomo bianco stava cercando di spostarli? «Aaah!» Questa lunga esclamazione indigena va udita durante una discussione perdio si possa apprezzarne la forza oratoria. L'uomo bianco stava abbattendo tutti gli alberi della loro terra? (era stato iniziato il diboscamento per preparare zone ove le barche da pesca potessero operare sul fondo del nuovo lago). Ovviamente l'uomo bianco stava preparando il terreno per costruire fattorie per suo uso e consumo. La storia della diga non era altro che un inganno per cacciare i Batonka dalle loro case. Inganno? (Molti indigeni primitivi si sarebbero rifiutati di crederlo. Nonostante tutti i suoi difetti, l'amministrazione coloniale britannica si è guadagnata una reputazione di sincerità.) Ma guarda! C'erano le prove. Potevano vedere le case in costruzione, e la strada fatta per gli aeroplani. (Effettivamente erano state costruite case prefabbricate provvisorie ed una pista per aerei da parte degli appaltatori del diboscamento.) «Aaah!»... È facile immaginare gli anziani chinati, scuotere le loro barbette l'uno verso l'altro, mentre i dolci occhi si fanno scuri e pensierosi. I giovani fremono e guardano con aria cupa. Con pazienza, di continuo, gli argomenti venivano ripetuti. Se l'uomo bianco credeva veramente che l'acqua stesse per arrivare, avrebbe trasferito tutti quanti, invece di parlare, di parlare sempre. Certamente stava bluffando. Se il popolo di Chipepo avesse dimostrato di essere deciso a rimanere, l'uomo bianco alla fine avrebbe ceduto, ed essi sarebbero stati lasciati in pace. Il capo Chipepo, intelligente, ma non molto energico, lento con la forza del proprio esempio di superare i sospetti della sua tribù, e trasferì la sua famiglia nella nuova zona. Il prestigio del suo rango ebbe poco effetto; ma nel maggio 19.58, sek-entocinqiianta persone acconsentirono di spostarsi dai cinque villaggi e vennero sistemate a Lusito. A questo punto ci fu un momento in cui avrebbe potuto senz'altro essere tentata un'azione decisiva e rapida. Il muro della resistenza era stato incrinato. Ma non vennero fatti altri spostamenti. Si sperava che, quando fossero giunte notizie favorevoli dalle persone colà stabilite, le altre sarebbero state più disposte a seguirle. Ci furono ulteriori discussioni e spiegazioni. Il 4 giugno, i Batonka fecero la loro prima dimostrazione di forza. Un capo, Sianzembwe, si oppose all'ordine del Commissario distrettuale, che era accompagnato da un gruppo di quasi 30 uomini, e non volle intervenire ad una discussione. Quando fu dato l'ordine di arrestarlo, quelli del villaggio lo difesero e cacciarono il Commissario distrettuale con i suoi compagni. In quel momento nel villaggio di Sianzembwe si trovavano 150 guerrieri Batonka, il triplo cioè della popolazione adulta normale, il che dimostra coinè vari villaggi si fossero già alleati tra loro. Da quel giorno in poi, gli eventi cominciarono a sfiorare il patetico. È vero che il capo compromesso nel primo atto di sfida finì per perdere il coraggio e si consegnò, ma tutta la zona uscì dal controllo effettivo delle autorità. Ogni tentativo di spostare altra gente venne sospeso, dando così maggior credito alle affermazioni degli agitatori, e cioè che la resistenza avrebbe portato al risultato che i Batonka sarebbero stati lasciati in pace. Lungi dal convincere i recalcitranti a seguirli, i 650 abitanti che si erano spostati a Lusito tornarono alle vecchie case. Bande di uomini armati con lance e mazze marciavano, si esercitavano e facevano le loro primitive manovre sotto gli occhi della polizia, e in molte occasioni eseguivano finti attacchi. Tutti gli abitanti dei villaggi parlavano apertamente della guerra. I funzionari erano completamente ostacolati nei loro doveri, ma non furono oggetto di alcuna ostilità personale. A. J. Smith, ufficiale distrettuale della zona, mentre passava nei pressi di un villaggio vide un vecchio, che egli conosceva bene, trascinarsi lungo la strada con un pugno di lance in mano. Fermò la sua Land Rover e gli si accostò. «Cosa fai?» gli domandò. «Vado alla guerra» «Ma non sei piuttosto vecchio per queste sciocchezze?» «Devo mostrare ai giovani che sono con loro» «Ma contro chi vai a combattere?» Il vecchio alzò lo sguardo verso l'alto giovane funzionario e gli sorrise: «Ma contro voi, naturalmente!» Si salutarono e si separarono. L'episodio potrebbe essere definito farsesco. Entro due mesi il vecchio era morto di quello che i medici definirono un «emotorace fatale», male causato da piombo penetrato nella cassa toracica. Mancavano meno di tre mesi alla data in cui la diga di Kariba doveva essere chiusa perché il lago potesse cominciare a formarsi. Il tempo disponibile era anche più scarso se si voleva che la gente di Chipepo si trasferisse nella nuova zona in tempo per preparare le semine per il raccolto della prossima stagione. Il 16 agosto, il Commissario distrettuale sostituì il funzionario locale che aveva riferito come non fosse più possibile controllare la situazione. Dopo consultazioni e riunioni, il Commissario provinciale venne a Gwembe per avere conferma delle relazioni del Commissario distrettuale e il 29 agosto incontrò dappertutto folle di guerrieri in atteggiamento minaccioso, ma non violento. Venne letto il «Riot Act» e anche il Commissario provinciale riferì a Lusaka che la situazione era incontrollabile. Il 3 settembre arrivò anche il Segretario per gli Affari Indigeni. I soli che parlarono con lui furono una dozzina di indigeni die si erano concessi qualche ora lontano dalle manovre per bere un po' di birra. Dopo le discussioni, riferì al governatore sulla situazione sfuggita al controllo. Allora sua eccellenza Sir Arthur Benson, governatore della Rhodesia del Nord, venne lui stesso sul luogo dei disordini. Fra accompagnato dalla banda del reggimento della Rhodesia del Nord. Normalmente, l'arrivo del governatore in pompa magna è una cerimonia considerata come un onore e richiede una degna celebrazione da parte degli indigeni. In questa occasione, però, la gente di Chipepo se ne preoccupò così poco da rifiutare di preparare un posto per l'«indaba» o conferenza ufficiale. Il 7 settembre, alle 9 del mattino, sua eccellenza arrivò in alta uniforme, fu ricevuto con gli onori dovuti al suo rango, ispezionò la guardia d'onore e sedette sotto un albero. Per due ore arringò una folla apertamente beffarda o indifferente che rimase almeno a 70 metri da lui così che la sua voce poteva a malapena raggiungerla. Col vento che gli agitava le piume del casco, circondato dai suoi funzionari in divisa bianca, con la banda allineata in uniforme di gala, e con gli African Messengers disposti impassibili nelle loro file, il governatore, con perseveranza e con metodo, parlò all'aria. Questo era il premio per un anno di pazienti spiegazioni: lo scherno ed il malcelato divertimento di parecchie centinaia di guerrieri che si tenevano insolentemente fuori dalla portata di voce, con le lance in mano e aculei di istrice attraverso il naso. L'indomani mattina il governatore tentò di nuovo, questa volta senza cerimonie. A questo secondo indaba assistettero circa 15 uomini della tribù. Dopo 20 minuti egli dichiarò, e c'è da pensare che neanche una mezza dozzina di Batonka abbiano sentito: «Le parole della regina devono venir obbedite. In caso contrario, sarà necessario imporle» Le centinaia di guerrieri erano altrove. Tutto quello che succedeva confermò quello che era stato detto loro. L'uomo bianco stava tentando un inganno. Essi si erano rifiutati di muoversi e non era accaduto nulla. È difficile scoprire che cosa avvenne esattamente nelle vicinanze di quel villaggio indigeno il 10 settembre, quando 34 Batonka rimasero feriti e 8 vennero uccisi da fucilate o da colpi di randello. L'assicurazione ufficiale che il numero dei caduti non fu maggiore è fornita da una relazione che dichiara come, dopo la battaglia, nessun avvoltoio fosse visto volare sulla zona; ciò dimostrerebbe che tutti i morti e i feriti furono rimossi dal campo di battaglia. Ma le rassicuranti conclusioni della commissione, incaricata di fare un'inchiesta sulle circostanze che avevano causato l'incidente, non vanno del tutto d'accordo con i resoconti giornalistici pubblicati subito dopo l'incidente. Questi sono i fatti noti. Più di 100 poliziotti equipaggiati con armi da fuoco cercarono di circondare il villaggio di Chisamu per poterne evacuare gli abitanti. Essi furono attaccati da gruppi di guerrieri il cui numero complessivo fu dagli stessi poliziotti giudicato fra i 250 e i 350. Quando i Batonka caricarono, vennero lanciati i gas lacrimogeni da una distanza di circa 45 mt. ma mostrarono di essere inefficienti. Da parte degli indigeni vennero scagliate lance, pietre, asce e mazze. Una lancia passò tra le gambe di un poliziotto ed un altro fu ferito al polso da una pallottola sparata da un compagno. Su questi gruppi di guerrieri dell'età della pietra - molte delle loro lance erano fatte semplicemente di legno indurito ed affilato - vennero lanciati 194 candelotti lacrimogeni, 232 scariche di cartucce calibro 12 n. 4, 54 scariche di proiettili da 303 e 53 scariche di proiettili da 9 mm., benché molti senza dubbio sparati al suolo o sopra le teste dei guerrieri. L'ufficiale anziano di polizia nella sua testimonianza raccontò alla Commissione di inchiesta che un gruppo era sul punto di arrendersi, ma improvvisamente cambiò parere e caricò con «grande decisione». L'attacco, egli aggiunse, fu così improvviso «che i Batonka riuscirono a passare attraverso lo sbarramento delle forze di polizia». Questa descrizione potrebbe adattarsi a un gruppo di uomini sgomentati dai gas lacrimogeni e dal fuoco di piccole armi, che tenti disperatamente di fuggire attraverso un cordone d'assedio. È raro, invece, che un assalto a fondo irrompa attraverso i ranghi nemici senza causare neanche un morto. È improbabile che l'incidente di Chisamu venga ricordato con orgoglio da coloro che vi parteciparono. Ma la colpa non sta dalla parte della polizia, che per molte settimane era stata sottoposta a umiliazioni esasperanti, ed era stata poi messa di fronte alla snervante vista di una turba di selvaggi. Ne può stare dalla parte dei Batonka, i quali, secondo un missionario americano che viveva fra loro, mai, neanche nel momento in cui venne aperto il fuoco, credettero che le loro terre sarebbero state sommerse, né si convinsero che sarebbero stati costretti a trasferirsi. Le decisioni erano state cambiate così spesso che i loro dubbi possono essere ben capiti. Una parte di responsabilità - non tutta, però - è indubbiamente degli agitatori che ingannarono e incitarono i loro creduli compaesani. Ma anche loro si limitarono a sfruttare una situazione che avrebbe dovuto essere a tutti i costi evitata. Si sviluppò, invece, soprattutto perché, a Londra, l'azione di un qualsiasi impiegato dell'ufficio coloniale può diventare un fatto politico, di modo che la responsabilità di azioni decisive resta troppo grande per gli amministratori locali. Le tribolazioni della gente di Chipepo non erano finite. Come per ironia, una delle parole d'ordine del Congresso Nazionale Africano, sventolata dagli uomini delle tribù che si erano opposti al trasferimento, era: «Desideriamo case migliori». Il loro unico scopo era invece quello di difendere le loro tradizionali, luride catapecchie. A Lusito, li stavano realmente aspettando case migliori. La zona era stata ben sistemata con strade, erano state costruite le scuole, era stata impiantata una clinica, la boscaglia era stata disinfestata contro la tzé-tzé e liberata dagli animali pericolosi, mentre erano state eseguite perforazioni o sbarramenti per l'acqua. Per alcuni giorni, dopo la sparatoria, i disorganizzati Batonka gironzolarono per il territorio in gruppi atterriti, sorvegliati da un aereo da ricognizione. Poi, vergognosamente e senza alcun evidente rancore, si trascinarono indietro verso i loro villaggi. «Sembrava fossero quasi contenti che non ci fosse più ragione di discussione,» disse il loro ufficiale distrettuale A. J. Smith, «e si sentivano sollevati perché era stata presa una decisione». Quello che non disse, ma che molti tra i più giovani del servizio coloniale, come lui, si presume abbiano pensato, era che, purtroppo, una decisione ferma non era stata presa a tempo opportuno, quando avrebbe potuto essere messa in pratica senza l'aiuto delle truppe. A Lusito, venne adottato per il nuovo villaggio lo stesso schema di quello che era stato abbandonato, e furono mantenuti i vecchi nomi. Al posto dell'insanguinato Chisamu che ora giace a trenta e più metri sott'acqua, sorge adesso un Chisamu nuovo, raggruppato attorno al suo moderno impianto per l'acqua dove i bambini e le capre si accalcano insieme sul suolo polveroso. Ma poiché lo spostamento era stato dilazionato, non ci fu tempo sufficiente per preparare la terra per la semina, e la prima stagione dei Batonka nelle nuove dimore fu tutt'altro che facile. Alla fine di dicembre, vennero mosse delle accuse da parte dei capi del Congresso Nazionale Africano perché a Lusito era scoppiata un'epidemia e molti erano morti per dissenteria e diarrea. Inesplicabilmente, il goveno pubblicò una dichiarazione negando che si fosse verificato qualcosa di insolito, e aggiungendo che «dei quattro decessi avvenuti nell'ultima quindicina, nessuno era attribuibile a diarrea». Ma subito dopo, il 12 gennaio, fu ammesso che dal 20 dicembre vi era stata una epidemia con non meno di 32 morti. C'è da credere che il segretariato di Lusaka stesse attraversando un momento di grande confusione. Un ufficiale sanitario che lavorava sul luogo si lasciò sfuggire in un momento di esasperazione: «Nessuno saprà mai quanti ne sono morti» Aveva ragione di essere scoraggiato. Il solo gabinetto di tutta la zona era quello da lui montato per dimostrazione. Il terreno era dovunque insudiciato dagli escrementi di 6.000 persone e delle loro capre, e i bambini vi si rotolavano dentro. Miriadi di mosche pascolavano su quelle ricche messi. L'atteggiamento nei confronti degli ufficiali sanitari era apatico e talvolta risentito. Ci volevano tre quarti d'ora di accanita discussione per indurre i genitori di un bambino ammalato a cederlo per le cure. «Il bambino morirà. Lascialo in pace» Uomini con i gozzi grossi come un pallone rifiutavano le cure. Gli ammalati, accucciati nelle loro capanne, fissavano gli intrusi con occhi inespressivi. Senza dubbio per un momento lo spirito della gente di Chipepo fu gravemente ferito. Troppo a lungo nelle loro orecchie erano risonate voci contrastanti; a tutto quel parlare era seguita tutto ad un tratto una ferocia sconnessa: si trovavano in un paese straniero, a 160 km. dalle loro dimore; avevano abbandonato gli spiriti delle loro tribù, e poteva derivarne solo male. Le piogge delle semine erano arrivate ma la terra non era pronta; il loro mondo era stato mandato in pezzi ed essi non ne comprendevano ancora la ragione. Grazie però all'imperturbabile tenacia del loro ufficiale distrettuale, oggi i Batonka hanno ormai superato la crisi. Rumorosi ed eccitati, i ragazzi affollano le 8 scuole che A. J. Smith ha costruito. È stato aperto uno spaccio, ed è stato creato un embrione di cooperativa agricola. Al dispensario, un giovane medico africano dagli occhi vivaci considera i Batonka con affettuosa, quasi paterna severità; riceve più di trenta ammalati al giorno, e riporta con rapida precisione le sue diagnosi e le sue cure nel registro. Fuori, al sole, siedono i pazienti, vecchie che succhiano le pipe e vecchi raggrinziti che rimuginano le loro fantasticherie. Hanno imparato ad accettare, talvolta con una punta di canzonatura, questo giovanotto e le sue medicine da uomo bianco. Le messi stanno nuovamente crescendo sulle sponde di uno sconosciuto e mansueto Zambesi, 95 km. a valle della diga. Il passato poggia ancora pesantemente sulle loro spalle. Parlate con uno dei loro capi religiosi, e la sua faccia diverrà triste e pensierosa nel ricordare i vecchi tabernacoli e gli spiriti ora sprofondati sott'acqua. Fermatevi presso un abbeveratoio, nel nuovo villaggio Chisamu, e l'uomo che passerà di li con una zappa sulle spalle vi lancerà uno sguardo curioso; troppo bene egli ricorda il tempo in cui attraversava il vecchio villaggio con le lance appoggiate dove ora porta la zappa. Ma tanto lui che il suo Custode degli Spiriti, hanno di recente acquistato il primo giovane manzo con il denaro ricevuto come indennizzo, il primo animale che i Batonka abbiano mai posseduto oltre alle capre. E a scuola, due piccoli Batonka sono stati già destinati a una vita che sarebbe stata sconosciuta e irraggiungibile nelle loro vecchie dimore. Uno di essi siede ai piedi del giovane medico e senz'altro seguirà le sue orme. L'altro, di soli 9 anni, ha una straordinaria competenza in fatto di motori a scoppio. Nella sua testolina ha già costruito la sua futura autorimessa. CAPITOLO TREDICESIMO NYAMINYAMI DOMATO Dopo avere spazzato via il ponte sospeso, lo Zambesi continuò a crescere sino a giungere 83 metri sopra il livello di magra. In quella situazione da incubo, agli stanchi uomini di Kariba pareva che l'acqua non dovesse più smettere di crescere. Un terzo della mano d'opera restò inoperoso, ma dovunque era possibile lavorare si tentava ancora di resistere al fiume. Frastornati dal suo rumore incessante e inzuppati dagli spruzzi, piccoli gruppi lavoravano sulla sommità dei conci della diga che emergevano ancora dall'acqua. Con le comunicazioni interrotte, le attrezzature, le provviste e le materie prime inzuppate d'acqua, vi era ben poco da fare, in fondo. Ma ogni tonnellata di calcestruzzo gettata, ogni centimetro guadagnato in altezza, dimostravano che quegli uomini non erano vinti. In quelle giornate particolari, gli impiegati degli uffici e gli ingegneri si unirono ai muratori che costruivano la diga, per infondere coraggio con la loro presenza e la loro amicizia, mentre il fiume scuro e pieno di relitti scorreva tonando con arroganza poche decine di centimetri al di sotto. Guazzavano sui conci più vicini alla riva sulle cui ruvide superfici spruzzi e pioggia avevano formato delle pozzanghere, e stavano lì ridendo per far vedere che nemmeno loro avevano paura. CARTINA lago Kariba 0 Ognuno si era scelto un proprio punto di riferimento in base al quale misurare il livello del fiume: un masso sui fianchi dell'altura, il tremolante ramo di un albero sommerso, una striscia sul calcestruzzo. Il 7 marzo, quando controllarono per l'ennesima volta il fiume in piena, gli uomini rimasero increduli e silenziosi: ma dopo mezzogiorno non vi fu più alcun dubbio; e verso sera la voce si era sparsa per tutto il cantiere: il fiume non era più cresciuto. La mattina dopo, sia pure impercettibilmente, la piena cominciò a diminuire. Altre volte vi erano state soste nell'attacco, sempre seguite da nuove e ancora più forti ondate di violenza; ma questa volta lo Zambesi aveva esaurito le sue riserve. La piena era ancora travolgente per la sua furia, ma gradualmente s'indebolì. La crisi era passata. Migliala di tonnellate di roccia, di strade, di pietrame dovevano ancora venire asportate dalle sponde, l'ufficio dell'ingegnere capo doveva ancora scivolare nel fiume, ma tali distruzioni non sarebbero state che i colpi di una disperata retroguardia, e non potevano modificare l'esito di una battaglia già perduta e vinta. Una nuova strada di otto metri venne scavata all'ingresso delle gallerie che conducevano ai lavori sotterranei, e gli scavi sotto le colline furono ripresi. Una settimana dopo aver raggiunto il livello massimo, l'acqua era calata di nuovo fino a scoprire l'orlo della parete di monte della tura, ed il 21 marzo affiorò la parete di valle. Il primo lavoro elettrico nella centrale sotterranea ebbe inizio con alcuni giorni di anticipo sul programma; venne costruito un nuovo ponte stradale sospeso, che fu aperto al traffico verso la metà di aprile; venne accelerato anche il getto del calcestruzzo in diga. Benché il danno, come dichiarò significativamente Anderson, fosse «al di sotto del milione di sterline», erano stati solo i lavori ausiliari a soffrirne. La struttura principale non aveva sofferto minimamente. A maggio, l'enorme Zambesi scorreva così mansueto che le torri della diga si riflettevano sulla superficie. Con la più grande perizia e pazienza. La falla nella tura venne tappata, la tura venne prosciugata, e ai primi di giugno il centro del letto del fiume venne nuovamente portato alla luce. Furono necessari mesi di lavoro per asportare i detriti che ostruivano le sponde lungo la gola, per costruire nuove strade ed erigere nuove costruzioni al posto di quelle scomparse; ma guardando il cantiere devastato, che assomigliava ad un campo di battaglia dopo un bombardamento, si poteva vedere che malgrado tutta la sua furia e le devastazioni fatte, lo Zambesi non aveva compiuto altro che una barbarica incursione, lasciando intatta la cittadella dei suoi conquistatori. Quando non vi fu più dubbio che i conci di calcestruzzo che erano a cavalcioni del fiume sarebbero stati riuniti in un unico sbarramento prima della caduta delle prossime piogge, l'immaginazione del pubblico rhodesiano fu eccitata dal pensiero del lago che si sarebbe formato nella gola, dietro la diga. Dapprima, il lago era considerato poco più di un'appendice secondaria dell'impianto idroelettrico. Solo lentamente la gente cominciò ad afferrare l'importanza intrinseca di un grande lago interno. Per gli italiani, invece, che vivono in un paese densamente popolato ed angusto, il lago fu sempre l'aspetto più meraviglioso dell'intero progetto. Che più di 5.000 chilometri quadrati di territorio potessero essere sacrificati per formare un serbatoio, era un'idea tanto al di là della loro esperienza da riuscire quasi incomprensibile, come lo sarebbe per la maggior parte degli europei. Se si sovrapponesse la pianta del lago di Kariba a una carta dell'Inghilterra, ci si renderebbe conto che esso ha un'estensione tale da coprire tutto il territorio compreso tra Londra ed Exeter. Mai prima di allora l'uomo aveva modificato su così vasta scala la geografia del mondo. Il lago, lungo 290 chilometri ed in alcuni punti largo 65, raggiungerà una profondità massima di circa 122 metri. È la prima volta che l'uomo accumula un simile peso sulla terra, ed il comportamento della crosta terrestre nella zona, sotto il nuovo peso di 155 miliardi di tonnellate di acqua, verrà attentamente studiato dai geologi. Se gli scienziati erano affascinati da questa e da molte altre conseguenze del lago, i funzionari statali invece, nei loro uffici di Salisbury e Lusaka, mostravano grande interesse per le sue possibilità economiche. In primo piano furono considerati i possibili sviluppi dell'industria della pesca, soprattutto perchè la deficienza principale nell'alimentazione dell'indigeno è data dalla mancanza di proteine animali. D'altra parte non è possibile ottenere carne in quantità sufficiente fino a che la tzé-tzé non sarà stata cacciata dai milioni di acri di ottima terra da pascolo, e sino a quando la capacità di guadagnare dell'africano non verrà aumentata in modo consistente: la realizzazione di entrambi questi fattori dipende soprattutto dai capitali che verranno impegnati per attuarla. Nel frattempo, gli esperti avevano calcolato che il lago di Kariba potrebbe produrre da 10.000 a parecchie centinaia di migliaia di tonnellate di pesce all'anno. Mentre gli scienziati discutevano fra loro quanti zeri si potevano aggiungere a queste cifre, Tony D'Avray, un impiegato della segreteria di Lusaka, fece presente che, indipendentemente da quanti pesci sarebbero stati più o meno prodotti, il problema importante era quello di pescarli. E come si sarebbe potuta sviluppare una pesca commerciale quando, sotto le acque poco profonde del lago, sarebbe rimasta una foresta di alberi pietrificati che avrebbe lacerato le reti? L'esperienza del lago di McIlwaine, un serbatoio nelle vicinanze di Salisbury, aveva mostrato che, sott'acqua, gli alberi e la macchia della boscaglia africana non marcivano, ma si pietrificavano. Vi era, però, ben poca gente disposta a credere che la regione dello Zambesi potesse venire ripulita prima del riempimento del lago, e ad un costo possibile. Nel 1956, un esperimento condotto dal dipartimento forestale della Rhodesia del Nord, quando era stato ripulito un miglio quadrato del territorio di Chipepo, aveva indicato che il procedimento sarebbe stato lento e assai costoso. Ma D'Avray insistette con le sue argomentazioni e venne perciò interpellata una società di consulenti. R. A. Mullins, uno dei soci, era del parere che il lavoro potesse venire eseguito a circa 9 sterline per acro, una cifra che, pur implicando una spesa di oltre 2 milioni di sterline nel caso ili cui si fossero portati a termine i piani di D'Avray, era economicamente possibile. Nell'aprile 1957, vennero date disposizioni a Mullins di eseguire prove su larga scala nella zona di Sinazongwe. In meno di tre mesi, con l'aiuto di un certo numero di appaltatori, Mullins confermò la sua tesi. In questa impresa il governo della Rhodesia del Nord non potè venir accusato di esitazioni. Fu soprattutto grazie al suo esempio ed alla sua iniziativa se, nel seguente mese di novembre, si dette inizio ad una serie di lavori che avevano lo scopo di ripulire 900 chilometri quadrati di terreno da ogni cosa vivente. Anche questa volta si tratta di un'operazione secondaria rispetto a quella principale di Kariba e che pertanto rimane in secondo piano. Resta il fatto, però, che è un'impresa di proporzioni più grandi di qualsiasi altra dello stesso genere nel mondo. Le aree da ripulire erano sparse in vicinanza delle future sponde del lago, lontane dalle strade e anche dai più piccoli centri abitati. Era un genere di lavoro per il quale non esistevano specialisti. Qualcosa si era appreso dai vari esperimenti eseguiti in Africa occidentale e dallo sfortunato tentativo di creare piantagioni di arachidi in Africa orientale. Si scoprì ben presto, però, che quelle esperienze non erano applicabili alle condizioni locali. Per eseguire il lavoro vennero interpellate parecchie imprese specializzate in movimenti di terra. Ma, poiché nessuna sapeva che cosa esso comportasse, le offerte assunsero una forma insolita. Si garantiva che il costo non avrebbe superato una certa somma per acro, ma l'importo preciso da pagare sarebbe stato calcolato col procedere del lavoro di disboscamento. La vegetazione della zona da disboscare variava nel tipo, ma si poteva grosso modo dividere in tre gruppi. Per la maggior parte, la zona è coperta di mopani. Dalla macchia di mopani, composta di alberi giovani e sottili, poco più alti di 4 metri e mezzo, che crescono molto fitti, si passa alle boscaglie aperte, con poco sottobosco, formate da vecchi grandi alberi il cui diametro raggiunge a volte i 75 centimetri. Il più difficile da ripulire è il territorio della macchia dove non si può penetrare a piedi. È composto per lo più di arbusti dai quali si dirama una massa di ramicelli sottili e pieghevoli che si intrecciano sino a una altezza di 6 metri. Mescolati a questa specie di barriera vi sono alberi spinosi e, qua e là, grandi alberi dal legno duro della famiglia del mogano e dell'ebano. Infine c'è la foresta rivierasca, una folta massa di acacie emergenti da una giungla di arboscelli e liane rampicanti. E tutt'attorno si trovano enormi alberi, come i baobab, con circonferenze perfino di 15 metri. Affinchè il letto del lago fosse definitivamente adatto per la pesca, le condizioni contrattuali imponevano non solo di ripulire le superfici fino al livello del terreno, ma che ogni cosa, esclusi i baobab, venisse bruciata. Questi mostri fibrosi resistono al fuoco, ma fortunatamente, al contrario degli altri alberi, marciscono rapidamente sott'acqua. Non esiste un procedimento unico per abbattere ed eliminare i tipi di vegetazione elencati. In teoria, la zona avrebbe potuto venir ripulita a mano, ma si era calcolato che, per condurre a termine l'impresa, si sarebbero dovuti impiegare 1500 uomini per 4 anni. L'ascia resta indispensabile nei burroni e sulle ripide alture dove le macchine non possono lavorare. Quanto ai mopani, il sistema più rapido per distruggere quelli più grandi è di bruciarli. Infatti, poiché i tronchi hanno l'anima vuota con aperture a livello del suolo e lungo l'alto fusto, se si accende un piccolo fuoco di ramoscelli alla base del tronco, il vuoto interno agisce come una canna fumaria e l'albero brucia completamente, radici comprese. Per quanto utili fossero questi semplici sistemi, tuttavia, il grosso dei 900 chilometri quadrati di boscaglia e foresta non si sarebbe potuto mai ripulire in tempo, se non fosse stato per l'ingegnoso e drastico impiego di un'armata di macchine di immensa potenza. Esistono due modi per arrivare alle sparse zone del disboscamento. Uno è di viaggiare su una grande imbarcazione formata da due pontoni, nota perciò come «i gemelli», che porta provviste ed attrezzature ai vari campi base. Il singolare aspetto di questa barca, è accresciuto da piccole strutture, costruite su ciascuna delle poppe gemelle, che forniscono uu servizio non ancora normalmente disponibile - per i passeggeri del nuovo lago. La vastità del lavoro, tuttavia, può essere meglio apprezzata dall'aereo. Per un centinaio di miglia si vola sul tappeto uniforme e piatto della foresta, rotto soltanto dalle strette fenditure dei letti dei fiumi. A un tratto, sul terreno, compare un'enorme e pallida macchia con i confini rigorosamente geometrici e la superficie segnata da una serie di linee parallele. Per chi abbia esperienze transatlantiche, è un po' come affacciarsi su un vasto campo di football che emerge dall'ombra delle innumerevoli e affollate gradinate. Non appena si scende dall'aereo, le narici sono assalite dal pungente, salato odore di bruciato. Nell'area disboscata, i piedi affondano in circa 12 centimetri di polvere e si scopre che le linee viste dall'alto sono lunghi monticelli di ceneri ancora fumanti. Il calore che emanano supera quello del sole sub-tropicale. La guida informa che migliaia di tonnellate di legname e di arbusti, dopo essere stati sradicati, vengono raccolti in file, disposte in direzione parallela ai venti dominanti, e quindi incendiate. Soffocati dalla polvere e dal tremendo caldo, mentre la Land Rover si avvicina ai bordi della foresta, si nota come quel che ci era parso una cosa vivente sia solo un groviglio di alberi e arbusti tagliati e accatastati verso il cielo. Avvicinandosi si odono schiocchi e schianti, esplosioni, e crepitii simili a quelli di una foresta in fiamme, ma sotto si sente il sordo rumore delle macchine che può crescere terribilmente sino a divenire, in pochi secondi, un acuto stridore. «Attenzione, eccoli che cadono,» grida la guida. Seguendo il suo indice puntato si vedrà la cresta di una fila di alti alberi che vacilla e quindi lentamente si schianta contro il suolo. Mentre gli alberi ed i cespugli più piccoli si sbriciolano si scorge una fila di macchine con enormi cingoli che avanza ondeggiando. Le macchine si arrestano; scivolano, ringhiano e mentre afferrano il pietrame del sottobosco ormai frantumato, i loro motori urlano di nuovo. Dietro di esse, centinaia di uccelli vocianti si levano riluttanti verso il cielo, volteggiando il più vicino possibile ai loro nidi, mentre, uno dopo l'altro, gli alti alberi ancora in piedi tremano violentemente e crollano. I trattori balzano in avanti. Quando questi mostri emergono dalla boscaglia si può vedere che sono legati a due a due da pezzi di catene d'ancora di navi da guerra, alle quali sono attaccate sfere d'acciaio del diametro di 2 metri e 40. Si perdono poi nelle nuvole di polvere che sollevano appena escono dalla foresta. Uno dopo l'altro, si odono i ruggiti dei grandi motori che vanno via via spegnendosi. Seguendo la guida, ci si inoltra nel polverone. Prima che questo si depositi, e permetta di scorgere qualcosa, si odono le voci gutturali dei sudafricani che si chiamano l'un l'altro ridendo. Finalmente si raggiunge un trattore, la cui sagoma è nascosta dalle spoglie degli alberi che gli son caduti sopra. Dentro l'alta gabbia d'acciaio siede un uomo che sembra un bandito dalla faccia affilata, con la bocca coperta da una sciarpa e gli occhi nascosti da occhiali di protezione. La porta della cabina del trattore si apre e l'uomo salta giù. Si strappa la sciarpa e, sollevando gli occhiali protettivi, sorride alla guida. «Goeindag, Colin! Hoe staan che lewe?» La guida fa le presentazioni in inglese, e subito lui risponde in quella lingua, con accento trascurato e leggermente strascicato. «No, amico,» dice, mentre ci si dirige verso l'autocarro da 8 quintali, dove son già pronte le bibite. «Non sono dell'Unione. I miei genitori sono agricoltori vicino a Odzi» E' un rhodesiano della terza generazione proveniente dal distretto orientale della colonia, figlio minore di un agiato piantatore di tabacco. Si scopre che la maggior parte dei suoi colleghi parlano l'afrikaans, sia che provengano dall'Unione, dall'Africa orientale o dalla Rhodesia. Rudi, forti e senza pretese, sono ospiti cortesi e alla mano. Mentre placano la grande arsura con tè freddo, birra o cognac, rispondono alle vostre domande. Con le catene d'ancora e le sfere d'acciaio, possono disboscare 50 acri di boscaglia al giorno. Vi sono, sì, alberi che li sconfiggono, specialmente i giganteschi baobab, ma c'è un bulldozer al seguito della cosiddetta «squadra delle catene» che, munito di una lama speciale, si spinge anche contro gli alberi più grandi «come un dentista, tranne che spinge invece di tirare, fino a che uno dei due cede, e non è certo il bulldozer. Prima o poi l'albero viene via, con radici e tutto». Poi cominciano a fare domande, tutte retoriche: «Sapete che noi abbiamo qui il più grande trattore del mondo?... pesa 42 tonnellate e sviluppa 436 cavalli... Ci hanno detto che abbiamo la più grande batteria di mezzi meccanizzati per movimenti di terra che sia mai stata concentrata in uno stesso luogo. Persino gli americani continuano a venir qui a vedere come abbiamo migliorato le loro macchine» Se si è saggi, li si lascia parlare. I loro racconti tratteranno soprattutto della grande quantità di animali selvaggi che hanno conosciuto e cacciato da quando erano bambini, specialmente elefanti. Vi racconteranno che molto tempo fa, l'elefante maschio imparò che stava più al sicuro sulla sponda Sud dello Zambesi, dove la caccia è più severamente controllata di quanto lo sia nella Rhodesia del Nord. La maggior parte di essi, perciò, ha lasciato la mandria sulla sponda Nord per stabilirsi su quella meridionale. Si sono anche abituati all'idea di attraversare il fiume a nuoto, tutte le volte che le loro elefantesse sono pronte a riceverli. Ma ora che il lago ha cominciato a formarsi, una quantità di elefanti maschi arrabbiati e sgomenti si aggira lungo le rive meridionali; sono divisi dalle loro amate da uno strano specchio d'acqua così vasto che esitano ad attraversarlo. «Amico, ti si spezza il cuore a vederli e a udirli barrire attraverso il lago. Forse che ti piacerebbe, se tornando indietro da un breve giro di affari, trovassi che tua moglie è andata oltremare? Questo deve sembrare a loro, soltanto che loro non possono neanche lavorare per pagarsi il passaggio» «Lo sai, amico, cosa si dovrebbe fare invece di questa operazione Noè? Si dovrebbero costruire un paio di zattere per elefanti, così potrebbero organizzare gite regolari portando i vecchi attraverso il lago per i loro sudici week-end. Jumbo si abituerebbe presto all'idea, e si potrebbe sfruttare la cosa costruendo sulla zattera un nascondiglio dove i turisti possano sedere a pagamento e prendere tutte le foto che desiderano» Tutto questo discorso si conclude inevitabilmente con la storiella di Erasmo e dei visitatori provenienti da Salisbury. Gli elefanti sono stati disturbati dall'apparizione del lago e da tutte le attività dei dintorni. Gli animali giovani se ne sono andati verso zone più calme, ma i maschi più vecchi e più conservatori, come i vecchi Batonka, sono rimasti attaccati ai luoghi che hanno frequentato dalla nascita. Molti dei sentieri lungo i quali essi ed i loro antenati avevano viaggiato per centinaia di anni sono scomparsi sott'acqua o sono siati cancellati dal disboscamento. Irritati e senza capire vagano nella boscaglia, e, poiché il maschio solitario è quasi sempre pericoloso, preoccupano le autorità. Due alti funzionari fecero una visita ad Erasmo, magazziniere e factotum di uno dei campi più isolati del distretto, dove si diceva che gli elefanti fossero particolarmente inquieti. Con pazienza egli rispose a tutte le loro domande. Sì, c'era qualche maschio che si comportava in modo strano; sì, erano ovviamente nervosi e infelici; sì, potevano essere pericolosi; un gruppo dei suoi negri era stato caricato da un elefante poche settimane prima. No, nessuno era stato ferito. L'interrogatorio non finiva più, sino a quando Erasmo, che aveva avuto la siesta disturbata e che si risentiva del modo leggermente presuntuoso dei suoi tormentatori, si imbizzarrì anche lui. Quando, per la decima volta, uno di loro gli chiese: «Quale effettiva prova avete avuto che il loro comportamento sia anormale?» «Beli!» rispose, «non ho voluto raccontarlo prima ma alcuni di loro si suicidano» Una luce brillò per un attimo negli occhi inespressivi dei funzionari. «Ma, caro mio, è impossibile» «Lo pensavo anch'io, ma poi lo vidi coi miei occhi» «Li avete veramente visti a farlo?» «Solo una volta e fu terribile» Nonostante ostentasse una grande esitazione, Erasmo fu esortato a continuare: «Udii un vecchio maschio barrire tutto il pomeriggio. Così, appena il mio lavoro fu terminato, andai a cercarlo. Lo trovai proprio dove il vecchio sentiero si perde nella radura da noi creata. Ovviamente era arrivato alla fine delle sue risorse e non poteva capire cosa fosse successo. Appena lo scorsi, si guardò attorno con uno sguardo terribilmente triste. Lanciò un ultimo barrito e, prima che potessi fare qualcosa, si infilò la proboscide nel sedere e si fece saltare le cervella» Si ride con loro, ma gli uomini si scambiano sguardi, i loro occhi ammiccano per uno scherzo cui non potete partecipare. Per questi individui l'Africa non presenta nulla di oscuro e di misterioso. È una terra selvaggia e dura, che deve essere combattuta, sconfitta e spezzata prima che sconfigga loro. Risalgono nelle loro macchine e, uno dopo l'altro, i motori rombano. I trattori si mettono in fila, gli enormi anelli della catena si muovono, e le grandi sfere di acciaio scivolano attraverso la polvere. Pochi piedi al di sopra del terreno, le catene tagliano una fascia di boscaglia e di giovani alberi. A destra della linea si ode di nuovo l'acuto urlo dei motori che lottano per farsi strada. Una delle sfere si appoggia alla base di un alto alìro di ebano. La catena vibra, ma questo è l'unico segno di lotta. Lentamente, dolcemente, l'albero crolla in avanti, e la terra si frantuma in una pioggia di piccole zolle mentre emergono le radici. La sfera si lancia lungo il solco dell'albero che sta cadendo, come il proiettile di una catapulta, strappando e schiacciando i rami sul suo cammino. Subito dopo sopraggiunge una squadra di bulldozer. Avanzano come spazzini fra i relitti della foresta, spingendoli in una lunga catasta diritta, ripulendo via i ramoscelli della boscaglia che sono sfuggiti all'azione delle catene. In seguito, una fila di uomini attrezzati con asce e zappe avanza sopra il terreno ora lacerato e irto di stoppie, sradicando e tagliando via i modesti e docili superstiti dell'attacco meccanizzato. Una volta ancora la terra viene ripulita dagli scrapers, che spingono gli ultimi rimasugli della foresta verso la catasta alta come una montagna che sarà il loro rogo funebre. Nel punto dove, quando siete arrivati, sorgeva ancora la foresta densa, ora si estendono 20 acri di polvere desolata, dalla quale emerge la sagoma grottesca di un enorme baobab. Con i suoi 9 metri di circonferenza, si erge in solitaria sfida: ma non per molto. Mentre il sole comincia a prendere un livido colore rossastro, e la guida e il pilota dell'aereo già consultano gli orologi, un bulldozer si avvicina al baobab. Sulla sua parte anteriore c'è un attrezzo speciale, progettato in Rhodesia per questo lavoro e conosciuto come il «pungiglione», benché a distanza sembri una grande mascella. Avvicina la mascella al tronco del baobab come se volesse dimostrargli affetto, afferra profondamente il legno fibroso tenendolo senza pietà. Un momento di pausa, poi ancora una volta si sente stridere un motore innestato su una marcia bassa. Non conviene attendere. Ci si gira rapidamente e ci si avvia col pilota verso la Land Rover. A malapena si ode il baobab che cade, mentre erompe, trionfante il ringhio del bulldozer. Nel novembre 1958 la cresta della diga correva da una sponda all'altra. Una dopo l'altro, i sottili archi gotici alla sua base, attraverso i quali era stato concesso al docile fiume di scorrere, erano stati quasi completamente chiusi. Restavano solo delle piccole aperture, appena sopra il letto del fiume, chiuse da griglie d'acciaio. Quando fosse stato dato l'ordine, davanti a queste griglie si sarebbero fatte cadere dapprima grosse pietre e poi pietrame, in modo da chiudere le ultime aperture della diga. Infine, le aperture sarebbero state riempite di calcestruzzo dalla parte a valle, e la corsa del fiume verso l'Oceano Indiano sarebbe stata definitivamente interrotta. Finalmente, l'uomo aveva il fiume in suo potere. A Salisbury, Anderson, trionfante, dichiarò con una punta di malvagità: «Stiamo strozzando lentamente lo Zambesi» Strano a dirsi, però, le reazioni della stampa e del pubblico furono molto tiepide. In cantiere regnava la stessa indifferenza. In parte, senza dubbio, era causata dalla stanchezza che assale il vincitore dopo una battaglia lungamente combattuta, e in parte, come alcuni finivano per ammettere, magari con riluttanza, dispiaceva un poco vedere l'umiliazione dello Zambesi. «Non lho mai visto un fiume come questo,» disse Baldassarrini. «Naturalmente, sono contento di aver fatto quello che c'eravamo proposti. Tuttavia..» e scrollava le spalle non potendo o non volendo esprimere il suo pensiero. Coyne invece, più esplicito o forse più distaccato, si esprimeva con queste parole: «Siamo orgogliosi di quello che abbiamo creato, ma proviamo anche la sensazione di aver distrutto qualcosa» Il 3 dicembre, Anderson telefonò da Salisbury l'ordine tanto atteso. Il mattino seguente solo un piccolo gruppo era presente sulla sponda del fiume per osservare, mentre Vischi, l'ingegnere capo italiano, stava sulla piattaforma che sovrastava le ultime aperture alla base della diga. Vischi era circondato da ribaltabili, su ciascuno dei quali erano caricate 18 tonnellate di pietra. Dieci secondi prima delle sette l'ingegnere alzò il braccio sinistro e guardò attentamente l'orologio. Con gli occhi fissi sul quadrante, alzò la mano destra. Chi gli stava vicino potè vedere le sue labbra muoversi mentre contava a bassa voce: «Cinque... quattro... tre... due... uno» Con gesto indifferente, Vischi abbassò la desti a e rialzò lo sguardo. Seguì un fragore, mentre i blocchi di roccia precipitavano nel fiume dal ribaltabile più vicino. Per qualche secondo il fiume ribollì ed una macchia gialla galleggiò lentamente sulla superficie. Il secondo ribaltabile rovesciò il suo carico: lo scatto di una leva, il fragore dei blocchi, un tonfo sordo... era tutto lì? In dieci minuti, il gruppo degli spettatori si sciolse. Ogni due minuti e mezzo un ribaltabile raggiungeva la piattaforma, prolungando in un lento, automatico succedersi di operazioni, quello che forse avrebbe dovuto essere il momento più drammatico nella storia del progetto. Il fiume, che stava trasformandosi in lago, salì nelle prime sette ore di soli 15 centimetri, così che verso monte il cambiamento si notava appena. A valle della diga, invece, l'effetto fu molto più drammatico. Le ultime acque libere dello Zambesi passarono per l'ultima volta nel canale in fondo alla gola; esse furono seguite, per un poco, da un rigagnolo fangoso che si era aperta la strada attraverso la barriera sempre più spessa. A mezzogiorno restavano solo poche pozzanghere e l'ultimo guizzo dello Zambesi a Kariba fu dato dalle convulsioni dell'agonia dei pesci rimasti in secco. Sotto il caldo sole, il fango si asciugò rapidamente e al tramonto l'aria era infettata dal sottile lezzo della putredine stagnante. All'alba del giorno dopo il fiume, a monte della diga, era cresciuto di 6 metri e le rocce, che erano servite come punto di riferimento durante la stagione secca, erano sparite per sempre. Una linea di schiuma si stava formando sulla superficie dell'acqua al di là della rete di protezione che era stata tesa da una riva all'altra, per difendere la diga dai detriti del fiume. La gola era silenziosa e deserta. Era la festa di Santa Barbara, la patrona dei minatori e dei costruttori. Trecento metri più su, a Kariba alta, l'arcivescovo cattolico di Salisbury stava consacrando la chiesa che era stata costruita in suo onore, e alla memoria degli uomini morti a Kariba. CAPITOLO QUATTORDICESIMO UNA DIVISIONE NEI RANGHI Sebbene rimanessero da gettare nella diga centinaia di migliaia di metri cubi di calcestruzzo, prima di raggiungere l'altezza definitiva di 128 metri, verso la fine del 1958 l'attività massima di Kariba si trasferì ai lavori in sotterraneo. La sala della centrale e le installazioni massicce dei generatori erano state ricavate nella viva roccia, nel cuore delle colline della sponda meridionale. Da queste grandi cavità si dirama una rete di pozzi e gallerie, molti dei quali potrebbero contenere comodamente due piste di autostrada e, in altezza, una casa di due piani. Quando lo Zambesi penetrerà nelle prese, sulla riva meridionale a monte della diga, farà un salto di oltre, 90 metri prima di precipitarsi attraverso una grande spirale di acciaio a mettere in moto le turbine; poi passerà in enormi camere di compenso, per ridurre l'eccessiva velocità prima di tornare al letto del fiume, attraverso gli scarichi a valle. A capo delle migliaia di uomini e macchine che hanno scavato questa vasta centrale vi è un piccolissimo mite uomo, di nome Perugini, che ha il contegno di un prete dai modi pacati e pieno di buon umore. Alle sue dipendenze lavorano i più resistenti e capaci lavoratori italiani. Questi operai di sotterraneo hanno la flemmatica resistenza fisica e nervosa dei minatori. Per essi il pericolo è assai duro da sopportare, poiché è sempre vicino ma raramente si mostra. Ostentano però un'audacia spensierata, un'accettazione del rischio per la pura soddisfazione di riderne, e giungono ad alleviare il tedio del pericolo invisibile con l'escogitare sfide personali al destino. Questo atteggiamento offendeva alcuni degli operai più seri delle altre nazionalità, specialmente quelli che erano stati educati ad accettare la pesante disciplina burocratica che gli italiani disprezzavano. Era un affronto alla loro abitudine di attenta precauzione, che gli italiani credessero nel loro: «che sarà, sarà», giustificato in realtà, dalla bassa percentuale di morti a Kariba, che finora si è mantenuta molto al di sotto di quella di imprese consimili in America e in Europa. Secondo le severe norme della legislazione industriale sud-rhodesiana, l'incidente che capitò nella notte di venerdì 20 febbraio, verso le undici meno un quarto, fu dovuto a negligenza. L'inchiesta, infatti, rivelò che la piattaforma crollata era assicurata inadeguatamente.Un'imprudenza che causò la perdita di 17 uomini. Fra gli operai dell'ultimo turno di quella notte c'erano 21 uomini: 4 muratori italiani e 17 operai indigeni; essi dovevano rivestire di calcestruzzo il pozzo per il quale sarebbero precipitate in seguito le acque dello Zambesi per far girare le turbine. La loro piattaforma era sospesa a una trentina di metri dall'orlo del pozzo e a 60 metri dal fondo. Sulla piattaforma, oltre agli uomini e ai loro arnesi di lavoro, vi erano circa 20 tonnellate di calcestruzzo. Alle 10,45 ci fu, secondo le parole dell'unico italiano sopravvissuto, «uno scricchiolio che pensai provenisse dai tubi che rifornivano il calcestruzzo. Guardai attorno e vidi la piattaforma cedere, e poi cadere, trascinando con sé i corpi dei miei amici. Su di loro cadde una cascata di calcestruzzo. Non guardai più» L'italiano, e con lui tre indigeni, sopravvissero miracolosamente su un orlo della piattaforma che non aveva ceduto. Ma altri 14 indigeni e 3 italiani precipitarono per 60 metri sino alla base rocciosa del pozzo. La loro morte sarà forse stata misericordiosamente rapida, ma il ricupero dei corpi sfracellati fu orribilmente lento. Infatti erano stati sepolti dal calcestruzzo precipitato con loro, e che già aveva cominciato a solidificarsi. Trascorsero più di 12 ore prima che una squadra, lavorando con martelli pneumatici, riuscisse a estrarre gli ultimi resti umani dalla lastra di cemento che si era formata sul fondo del pozzo. Il lunedì seguente, quasi 900 operai indigeni che lavoravano in sotterraneo si rifiutarono di andare al lavoro; per il mercoledì, lo sciopero si era esteso a tutti i dipendenti indigeni dell'Impresit. La parola d'ordine degli scioperanti sonava inequivocabile: «Non moriremo per 4 pence all'ora» I rapporti con la mano d'opera a Kariba erano stati sempre ottimi e l'amministrazione dell'Impresit fu colta alla sprovvista dallo sciopero. In mancanza di esperienza diretta nel trattare il personale indigeno, aveva avuto cura di attenersi alle consuetudini locali in materia. L'ultima cosa che la Società poteva desiderare era di trovarsi coinvolta in controversie sociali o politiche. Il governo della Rhodesia del Sud aveva redatto un «Regolamento per Kariba» per codificare questioni come il minimo di paga e la scala delle razioni. L'Impresit, attenendosi ad esso e nominando un esperto sud-rhodesiano come addetto alla mano d'opera, riteneva di comportarsi correttamente. Rientrava inoltre tra le responsabilità dell'Impresit l'amministrazione della comunità indigena di Kariba, Mahombekombe, dove, durante il 1958, la popolazione raggiunse un massimo di 12.000 fra uomini, donne e bambini. Sovrintendente del villaggio era il maggiore Pearson, un rhodesiano di origine scandinava, scelto dall'Impresit perché era stato funzionario per la mano d'opera in un ufficio governativo e aveva passato tutta la vita a contatto con gli indigeni. L'Impresit gli aveva dato carta bianca, e l'incarico di cooperare direttamente con i funzionari del Dipartimento per gli indigeni della Rhodesia del Sud e con la polizia. Anche in questo, l'Impresit si era attenuta alle consuetudini, dalle quali ben pochi datori di lavoro si scostano nella Rhodesia del Sud. Anche i capi famiglia si interessano ben poco alla servitù indigena: si limitano a pagarla, nutrirla e a darle delle stanze per vivere. Fra la vita privata dei bianchi e dei neri c'è un abisso che solo persone eccezionali tentano di colmare. Si incontrano come datori di lavoro e dipendenti, come padroni e domestici, ma poi conducono vita separata. Gli indigeni di Mahombekombe erano stati lasciati a se stessi proprio come i domestici di una famiglia rhodesiana vengono lasciati a se stessi nella loro kia (così viene chiamata la dipendenza riservata alla servitù, situata il più lontano possibile dalla casa stessa). Né la polizia né i funzionari governativi si interessarono molto a ciò che stava succedendo. La popolazione di Kariba era di passaggio, e sino a quando non fossero sorti guai, non c'era ragione di intervenire. Gli abitami di Mahombekombe, tuttavia, si lamentavano. Le case e le baracche erano semplici, ma indubbiamente migliori delle capanne di fango ed erba in cui avevano sempre abitato gli operai più primitivi, che costituivano in fondo la maggioranza. Erano però tutte dello stesso tipo, così che gli indigeni più educati e più abbienti, come gli impiegati e i conduttori di automezzi, non potevano godere le comodità domestiche e l'isolamento ai quali erano stati abituati e per i quali potevano pagare. Vi era inoltre gran sovraffollamento, poiché la cittadina era arrivata ad ospitare un numero di persone tre volte superiore a quello per cui era stata progettata. Questo sovraffollamento e la sfrenata libertà di cui godevano gli indigeni quasi tutti giovani e scapoli improvvisamente sciolti dalle regole strette delle loro tribù, portò ad una degradazione morale che ripugnava alla minoranza delle vecchie famiglie serie Mahombekombe, per la maggior parte dei giovani che vi vivevano - l'età media dei dipendenti africani era sotto i 26 anni - , era una grande città cosmopolita, zeppa di stranieri provenienti da parti sconosciute dell'Africa, con lingue ed abitudini diversi dai loro. Questi giovani venivano ben pagati a paragone di quanto percepivano abitualmente; le 5 o 6 sterline che anche il meno qualificato guadagnava in un mese, rappresentavano più di quanto avessero mai visto in vita loro. Ricevevano alloggio e cibo gratuiti, quindi non sapevano come spendere il loro denaro. Solo in seguito sorsero nella città i negozi e un mercato; ma per lungo tempo quasi nulla fu fatto per incoraggiare divertimenti ricreativi. In queste circostanze, non sorprende se la fornicazione, il bere, il gioco e la lotta assorbissero tutte le energie che migliaia di uomini giovani avevano ancora in serbo dopo le lunghe ore di sforzo fisico in cantiere. La fama del posto si diffuse fra le prostitute delle città africane, perfino in zone lontane come il Congo e l'Unione del Sud Africa. L'attività di queste donne faceva inorridire padre Peter, il prete cattolico indigeno, parroco di Mahombekombe, ma era tollerata benevolmente dalle autorità e dalla polizia. Non furono mai fatti tentativi seri per controllare il loro ingresso a Kariba, e l'atteggiamento ufficiale, anche se non è mai stato espresso esplicitamente, ammette che, dove vivono migliaia di giovani dal sangue caldo, sarebbe impossibile tener lontane le donne senza che la città venisse trasformata in una prigione, e che in fondo è meglio averle attorno che non averle. Dato che gli stimoli sessuali del negro sono ben lontani dall'essere una leggenda, e poiché mvi è ben poco da fare nelle ore libere, dove non ci sono donne fioriscono la sodomia e la bestialità, anche se nell'ambiente naturale indigeno la perversione è molto rara. Ventine di prostitute arrivarono al cantiere come «mogli» degli operai. Documenti di nascita, matrimonio e morte sono ancora un'eccezione fra gli indigeni e sono del tutto sconosciuti nella zona agricola, così che se un uomo e una donna dichiarano di essere sposati non c'è mezzo, lontano dalle loro case, di dimostrare che non lo sono. Inoltre, nelle zone urbane, le autorità riconoscono anche i matrimoni provvisori secondo la legge non scritta. Queste «mogli» degli indigeni di Kariba svolgono il loro mestiere sotto il rispettabile tetto domestico di un cottage, nei quartieri degli sposati, ed i loro «mariti» si accontentano di una percentuale sui loro proventi o di un pagamento in natura. Altre vivono nei quartieri degli scapoli travestite da uomini. Alcune hanno guadagnato una tale reputazione ed un tale prestigio che godono della loro privilegiata ed illegale sistemazione con la connivenza dei funzionari più giovani del villaggio africano. I profitti di cortigiane quali Maria Whisky e Kariba Kate, due delle più famose, solleverebbero l'invidia di non poche delle loro colleghe nelle più ricche capitali del mondo benché, naturalmente, lavorino molto più duramente per guadagnarsi da vivere. Esse non esitano un istante a noleggiare un aereo privato sino a Salisbury, solo per fare delle spese. Si dice che, secondo la miglior tradizione del loro mestiere, le prostitute di maggior successo sono molto generose con le loro famiglie, sistemano i fratelli negli affari, spendono per l'educazione delle sorelle, ed in genere aiutano fin dove possono. Non molto tempo fa una di loro ritirò con disinvoltura un migliaio di sterline dalla Post Office Savings Bank per acquistare al marito un autocarro così che potesse iniziare un lavoro di trasporti nella sua riserva indigena. Il codice sessuale dell'uomo indigeno che vive con la tribù è quasi sempre puritanamente rigido, e il promiscuo, turpe rilassamento di Mahombekombe demoralizza i giovani cresciuti secondo le severe abitudini dei loro villaggi. Inoltre ne deriva un intollerabile sforzo per quei pochi indigeni che tentano di condurre una vita familiare normale. Le tentazioni e le sollecitazioni alle quali vengono esposte le loro mogli sono quasi irresistibili, e la presenza di centinaia di giovani italiani non ha fatto nulla per diminuirle. I rhodesiani discorrono molto degli italiani di Kariba e ascoltandoli si potrebbe pensare che le migliaia di meticci nel paese non esistano. Ma è un fatto che i rapporti sessuali fra razze diverse sono oggi praticati solo di rado e di nascosto, soprattutto fra i giovani; che, al contrario dei loro padri, non vivono lontani dalla compagnia femminile della loro razza ma, al contrario, vivono in una società dove la continenza, sia femminile, sia maschile, è considerata più come una disgrazia o una malattia nervosa che come una virtù. Ma molti giovani italiani, costretti a vivere per mesi e mesi nelle baracche, si dimostrarono tanto schietti e disinvolti nei loro rapporti con le donne indigene, quanto lo erano verso gli operai indigeni; le loro azioni causavano grande scandalo e, senza dubbio, abbassarono il loro prestigio agli occhi degli indigeni. È fuori discussione che l'italiano medio è popolare fra gli indigeni per la sua cordialità, la sua tenacia nel lavoro, e le sue maniere semplici. Alcuni aspetti del suo comportamento, però, colpirono profondamente i pregiudizi dei negri. Nelle loro conversazioni, essi distinguono gli «italiani» dagli «europei»: differenza, questa, che pur non essendo necessariamente spregiativa, racchiude tuttavia un profondo significato psicologico. Entro i confini dell'affollato villaggio di Mahombekombe venne a crearsi un'atmosfera di indisciplina. L'indigeno, specialmente se si tratta di un primitivo, è abituato ad essere controllato e se lo aspetta. Ogni azione nel suo villaggio è soggetta alle sanzioni di una tradizione severa che richiede da lui il più profondo rispetto verso gli anziani e verso l'autorità. La maggior parte delle migliaia di indigeni che lavorano a Kariba aveva visto ben di rado un uomo bianco prima di giungere al cantiere, e non aveva mai lavorato con lui. Essi si trovarono a lavorare in un ambiente dove si commettevano pochi delitti gravi, ma dove prevaleva lo spirito di illegalità. Potevano facilmente procurarsi i liquori dell'uomo bianco, bastava pagarli bene; vincevano e perdevano centinaia di sterline al gioco; potevano comperarsi una donna con la stessa facilità con cui si compera un pacchetto di sigarette. Regnava l'eccitazione dei giochi sfrenati e della lotta con i giovani delle altre tribù; gli uomini bianchi con cui venivano in contatto erano faciloni, completamente dissimili dai lontani e misteriosi europei di cui avevano sentito parlare al villaggio; ed era evidente che gli italiani, come avevano imparato a chiamarli, non esercitavano alcuna autorità nella cittadina. In una simile atmosfera chiunque avrebbe potuto assumere il comando. Alcuni uomini presero delle iniziative, e tra essi padre Peter, che organizzava le attività dei boy-scouts per i ragazzi, scuole serali per gli adulti, e semplici corsi di economia domestica per le donne; ma la sua influenza andava poco oltre i membri del suo gregge. E, sebbene a Mahombekombe vi fossero a volte persino dodici religiosi o pastori negri, comprendendo nel numero anche quelli indicati dalle più esotiche. denominazioni esclusivamente indigene, i praticanti o anche soltanto i cristiani nominali non furono mai più di un'esigua minoranza. I possibili capi erano lì, in attesa della loro ora. Benché le ostilità aperte contro Kariba fossero cessate, fra gli operai del cantiere c'era un nucleo di agitatori politici. Essi alimentavano il malcontento che inevitabilmente si produce fra una mano d'opera numerosa, appigliandosi alla scarsità d'acqua nel villaggio, al sovraffollamento, alla mancanza di negozi. Docili operai si lamentavano per i lunghi turni di 12 ore, che d'altronde anche gli italiani stessi facevano, perché erano ben contenti di ricevere l'importo degli straordinari. Non era diffìcile, però, quando gli uomini erano stanchi e scoraggiati, seminare nelle loro menti un vago malcontento. Si lamentavano, e giustamente, del vitto e dei servizi sanitari del cantiere; e del fatto che gli italiani, contro le consuetudini, pagavano eguali retribuzioni in galleria e in superficie. In seguito l'Impresit dichiarò di aver deciso da tempo un aumento delle paghe per gli operai dei lavori sotterranei. Ma prima che la decisione fosse resa nota, quattordici indigeni persero la vita nel pozzo. Le circostanze in cui morirono furono orribili; ma il ricupero dalla tomba di calcestruzzo indurito e di acciaio contorto dei loro corpi ridotti in pezzi, scosse i nervi di quelli che erano stati incaricati del lavoro, e atterrì l'immaginazione di coloro che ne furono informati con ampi particolari. Era giunto il momento, per chi l'attendeva, di suscitare dei disordini. Le autorità negarono così insistentemente che lo sciopero avesse uno sfondo politico da lasciar supporre che esse stesse lo sospettassero fortemente. La loro mossa di inviare sul posto una compagnia di bianchi del Royal Rhodesia Regiment, è difficilmente conciliabile con le dichiarazioni che i disordini a Kariba erano una semplice disputa contrattuale fra gli appaltatori italiani ed i loro dipendenti indigeni. Il 24 febbraio 1959, 900 operai indigeni addetti alle gallerie si rifiutarono di presentarsi al lavoro, e nelle seguenti 24 ore lo sciopero si diffuse all'intera mano d'opera indigena dell'Impresit. Gli operai italiani che continuavano a lavorare venivano beffeggiati e nella cittadina regnava una confusione spaventosa, ma gli uomini, nonostante tutto, si dimostravano di buona indole. Lodigiani, il capo dell'Impresit, giunto in volo da Salisbury, era sconcertato. «Non ho mai visto uno sciopero come questo,» dichiarò. «Tutti cordiali e ben disposti». Le questioni della mano d'opera indigena erano state affidate agli esperti locali, e questi non avevano segnalato alcun indizio di guai imminenti. Gli italiani erano perciò stupefatti ed irritati. Nessuno sapeva con certezza quali fossero i motivi dello sciopero. Un fantomatico comitato di nove niassa si diceva avesse assunto la guida ma in nessun momento venne presentato qualcosa che assomigliasse ad un elenco di richieste degli scioperanti. A molti osservatori sembrava che gli indigeni non fossero mossi che da un bisogno di sfogarsi in una vaga ed incoerente protesta contro innumerevoli motivi di irritazione. Sono una razza estremamente suscettibile alle suggestioni collettive. Ciò che accadde alla riunione che Lodigiani indisse il 26 febbraio, confermò che le cose dovevano stare proprio in questi termini. Egli annunciò che era già stato deciso di pagare agli operai in sotterraneo due pence in più all'ora. Il lavoro doveva ricominciare il giorno dopo a queste condizioni, ma se qualcuno era insoddisfatto, poteva rompere il contratto senza penalità ed era libero di andarsene. Chiunque lo desiderava poteva porre il suo tesserino nel cesto lì davanti e passando all'ufficio paga il mattino dopo sarebbe stato liquidato e avrebbe goduto del trasporto gratuito sino a Salisbury. Dopo una breve esitazione, uno o due uomini si fecero avanti e spavaldamente gettarono i loro tesserini entro il cesto. Essi si pavoneggiarono in mezzo alla polvere, risero e chiamarono la folla. Immediatamente, come se si trattasse di un gioco, un gruppo avanzò danzando e gettò anch'esso le tessere. Poi vennero avanti a centinaia e salutando allegramente gli ingegneri italiani attorno a Lodigiani, gettarono le loro tessere di cartone entro il cesto. Al termine di quella gazzarra quasi 1600 uomini, più di un terzo della mano d'opera dell'Impresit, avevano dato le dimissioni. L'indomani, moltissimi di loro rimasero sorpresi e offesi nel sentirsi dire che la decisione era irrevocabile. Implorarono che fosse concesso loro di mutare opinione, ma l'Impresit era stanca di sopportare assurdità. Non fu concesso di tornare sulla decisione presa, e il primo autobus carico di 50 uomini partì nel giro di un'ora per Salisbury. Essendosi regolati in base alla comoda considerazione rhodesiana che ogni operaio ha bisogno di cinque aiuti, gli italiani avevano reclutato molta più gente di quanta ne potessero impiegare, cosicché, nonostante le dimissioni, il lavoro di Kariba continuò a mantenersi in anticipo sul programma. Ma, per quanto le autorità si ostinino tuttoggi a negarlo recisamente, dietro lo sciopero di Kariba vi furono senza dubbio pressioni politiche. Stavano per essere realizzati i piani del governo federale e territoriale di arrivare ad una spiegazione col Congresso Nazionale Africano. Nel giorno in cui capitò l'incidente al pozzo, nelle due Rhodesie era stata mobilitata la milizia bianca. Il 26 febbraio la Rhodesia del Sud, senza evidente motivo, dichiarò lo stato di emergenza; il 3 marzo, il Niassa, dove in vaste zone l'autorità era sfuggita dalle mani del governo, seguì l'esempio. Certamente i capi del Congresso Nazionale Africano conoscevano le intenzioni delle autorità, ed è altrettanto certo che essi stavano tentando a loro volta di coordinare azioni di resistenza nei tre territori. Immobilizzare Kariba, piano accarezzato dalla Federazione e la prova più tangibile delle sue ambizioni, era senza dubbio un obiettivo da raggiungere. Un serio e prolungato arresto a Kariba avrebbe attirato l'attenzione della stampa internazionale sulle rivendicazioni del Congresso come nient'altro poteva farlo, e inoltre avrebbe indebolito la reputazione della Federazione tra i finanzieri ed i governi del mondo. L'incidente nel pozzo, anche se può essere apparso agli agitatori come una fortunata coincidenza, sembra in realtà averli costretti ad affrettare i loro piani, col risultato che lo sciopero di Kariba fu definito e abbandonato prima che le agitazioni scoppiassero altrove: pare infatti dimostrato che, prima dell'incidente, essi stessero preparando uno sciopero probabilmente predisposto per il marzo. Ma, anche se vi erano motivi di lagnanza fra gli operai indigeni, questi motivi erano ben lontani dall'essere sufficienti a spingerli ad azioni preordinate, e i capi dell'agitazione dovevano afferrare l'occasione fornita dall'incidente, nella speranza che, una volta arrestati i lavori, si sarebbe giunti ad agitazioni e amarezze tali che avrebbero fatto apparire irrilevanti le lagnanze d'origine. Che lo sciopero avesse fatto fiasco in un modo che sconcertò tutti, e soprattutto i 1600 operai che si trovarono sciolti dai loro contratti e liberi di cercarsi altrove lavori meno remunerativi, non significa che Kariba non avesse corso un serio pericolo. È piuttosto fortuito, infatti, che il dilettantismo dei datori di lavoro e degli operai portasse maldestramente l'intera faccenda ad una conclusione innocua, mentre i veri contendenti, le autorità ed il Congresso, si preparavano per una battaglia che non ebbe mai luogo. Come risultato, però, l'ultimo attacco che avrebbe potuto danneggiare il progetto di Kariba, era fallito. CAPITOLO QUINDICESIMO OPERAZIONE NOE' Dopo la chiusura della diga, il fiume a monte crebbe rapidamente. Lungo le sponde, detriti, ricoperti da rami intrecciati, formavano isole galleggianti che venivano spinte alla deriva dal vento, e sulle quali vivevano folte colonie di ratti, di topolini e di topiragno che avrebbero fatto una fine lenta. Ogni anno le piene avevano ucciso migliaia di questi minuscoli mammiferi, e le loro sofferenze non avevano mai agitato l'immaginazione o destato la commiserazione del grande pubblico. Non capitò nulla di insolito sino a quando il fiume raggiunse l'orlo delle sponde e cominciò a straripare. Allora apparvero improvvisamente miliardi di grossi grilli che coprirono ogni centimetro di terra, e riempirono l'aria del loro incessante ed acuto stridio. Vivono nelle crepe del terreno e di solito escono per rifornirsi di cibo solo di notte; l'acqua che si infiltrava attraverso il fango secco li aveva scacciati dalle loro colonie sotterranee. Per la prima ed ultima volta si trascinarono alla luce del sole, ed i cieli lungo le rive dello Zambesi furono oscurati da sciami di uccelli che si saziarono di questa messe. Mentre le acque si espandevano, lo stridio lentamente s'acquietò e allora arrivò il turno dei pesci che si saziarono con gli insetti affogati. Poi, lungo la vallata del fiume regnò il silenzio, e le acque inesorabili dilagarono dolcemente verso la boscaglia, attraverso le sottili strisce di foresta rivierasca. Quel silenzio non sarebbe stato interrotto nemmeno dall'opinione pubblica se un cronista del Sunday Mail rhodesiano non avesse letto per caso un breve articolo in un giornale locale. Dick Isemonger, proprietario di un parco di serpenti fuori Salisbury, riferiva in un'intervista di essere ritornato da Kariba con quarantasette serpenti presi nel nuovo lago, e che i guardacaccia «facevano sforzi meravigliosi» per salvare gli animali dall'annegamento. Malcolm Dunbar, un tarchiato e gioviale giornalista dai capelli rossicci, di Edimburgo, che attualmente lavora in Rhodesia, andò a Kariba per vedere di persona. La sua cronaca, apparsa nel Sunday Mail del 15 febbraio 1959, colpì l'immaginazione della gente, e fu ripresa dalla stampa di ogni paese. Dunbar racconta che