kariba - the struggle with the river god

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kariba - the struggle with the river god
FRANK CLEMENTS
KARIBA - LA LOTTA COL DIO FIUME
INTRODUZIONE
INTRODUZIONE
7
I PRECURSORI
9 I.
I PRIMI PASSI
La storia della costruzione della diga di Kariba è
LA GRANDE DISPUTA
qualcosa di più del semplice racconto di una
grande realizzazione tecnica. La lotta, descritta
GARZANTI
PRIME SCARAMUCCE
nelle pagine che seguono, fra un dio primitivo e
PREPARATIVI PER LA
l'uomo contemporaneo non è, come un lettore
BASE LOGISTICA
esigente potrebbe pensare, un pretesto letterario.
Nell'immaginazione di milioni di africani, questa
ARRIVANO GLI ITALIANI
lotta fu non meno reale del conflitto fra
LO SPOSTAMENTO
Sant'Antonio e il demonio per milioni di cristiani.
DELLE TRIBÙ
La maggior parte degli indigeni crede nei vecchi
LO SPIEGAMENTO
dèi della tribù, ma è anche consapevole del potere
DELLE FORZE
e dell'autorità degli uomini bianchi che si sono
stabiliti in Africa. Gli aspetti superficiali della
IL PRIMO ASSALTO
cosiddetta civiltà non libereranno l'africano dalle
DIETRO LE LINEE
sue paure ataviche e dalla brutalità né lo
IL DIO ADIRATO
compenseranno della perdita dei suoi rigorosi
codici morali. Per lui è facile assimilare il peggio
ESSI MORIRONO A
dei due mondi, quanto diffìcile decidere che cosa
GWEMBE
valga la pena di conservare del vecchio e accettare
NYAMINYAMI DOMATO
del nuovo. Per molte generazioni, l'africano più
semplice giudicherà solo dai risultati, e tutti gli
UNA DIVISIONE NEI
africani, tranne qualche eccezione, sono dei
RANGHI
semplici nel significato migliore e più tradizionale
OPERAZIONE NOÈ
della parola. Nyaminyami, il dio fiume dello
LE CAMPANE DI SANTA
Zambesi, per loro non è una pittoresca leggenda.
BARBARA
Come Jehova, egli personifica le forze
soprannaturali.
IL FIUME IN PACE
Gli indigeni credevano e credono tuttora che egli
fosse contrario alla costruzione della diga, e che
avrebbe sfogato la sua ira su coloro che lo
sfidavano. Per gli ingegneri francesi, italiani e
inglesi che costruirono la diga, la piena del 1958
fu un evento sfortunato, ma per i Batonka e per
cento altre tribù fu la chiara manifestazione della
collera divina. Si potrebbe meditare sul fatto che
la piena del 1957, che danneggiò i lavori
preparatori della diga, fu la più alta registrata sino
allora e che quella del 1958, sopravvenuta nel
23 II.
33 III.
43 IV.
55 V.
65 VI.
77 VII.
93 VIII.
103 IX.
117 X.
129 XI.
143 XII.
155 XIII.
171
XIV.
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201
XVI.
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XVII.
Indice delle 30 illustrazioni,
a fondo di questa pagina. E 2 223
cartine
Indice
([...1] e [...2])
PRIMA EDIZIONE: MAGGIO 1960
Traduzione dall'inglese di Helen Dennis
Guglielmini
Titolo originale dell'opera: KARIBA THE STRUGGLE WITH THE RIVER
momento più critico dei lavori, fu così eccezionale GOD
quale si può verificare soltanto una volta ogni
(Methuen & Co. Ltd., London, 1959)
diecimila anni. Tuttavia - e su questo non c'è
Proprietà letteraria riservata
dubbio - l'una e l'altra erano state profetizzate dai Printed in Italy, 1960
sacerdoti delle vecchie divinità africane. La
grande piena non fu un incidente isolato. La storia
della diga è la storia di una serie di brillanti
FINITO DI STAMPARE IL 10
successi contro difficoltà imprevedibili. Molti
MAGGIO 1960 NELLE OFFICINE
degli stessi ingegneri erano ossessionali dall'idea
GRAFICHE ALDO GARZANTI
di combattere una strana lotta che veniva ad
EDITORE IN MILANO
aggiungersi al lavoro da essi considerato normale,
all'inizio. Anche ora che la diga è finita, la loro
soddisfazione è adombrata da un senso di
rammarico. Questi uomini positivi, venuti da
"A ELIZABETH, che
Londra, Parigi, Milano, Siena e Grenoble, sanno
partecipò all'ingrato
di aver creato ma di avere anche distrutto. Hanno
lavoro e ne sostenne lo
l'impressione di aver tenuto testa a una forza cieca
sforzo"
e barbara, e pur meravigliosa, che hanno imparato
ad ammirare. Il fiume è stato sbarrato e il grande
bastione a Kariba si erge come un monumento al
genio dell'uomo bianco, ma sono pochi in Africa ad asserire che Nyaminyami sia stato
sconfitto, e molti credono che si vendicherà ancora. Questo strano conflitto nell'animo degli
uomini accompagna, su un altro piano, la lotta materiale per il dominio di un continente, gran
parte del quale è ancora una sopravvivenza del mondo della preistoria.
Dobbiamo tener presente tutto questo per capire ciò che è successo a Kariba.
CAPITOLO PRIMO
I PRECURSORI
Il capitano portoghese Manuel Baretto, in un dispaccio dell'11 dicembre 1667 al suo viceré,
scrive che lo Zambesi a metà del suo corso attraversa un paese «dove possono soltanto volare
uccelli e strisciare serpenti». Nel centro di questo paese sta la gola di Kariba, e pur tenendo
conto del gusto latino per la bella frase, le parole di Baretto fino a dieci anni fa potevano
essere ancora appropriate. In quel luogo è stato costruito uno sbarramento alto 126 metri, con
uno sviluppo in cresta di 580 metri, largo 24 metri alla base, con un volume di un milione di
metri cubi di calcestruzzo: la diga ad arco di Kariba, che crea un lago lungo 282 chilometri con
una superficie di oltre 5.700 chilometri quadrati. La costruzione, che sarebbe già di notevole
mole se situata in qualsiasi centro industriale, è stata eretta in una delle più selvagge e meno
accessibili regioni dell'Africa centrale, priva di strade, di energia elettrica, di qualsiasi
comodità, perfino delle semplici capanne di fango ed erba dei villaggi Batonka.
Kariba non è soltanto un luogo isolato dal mondo; per le tribù che abitano la vallata dello
Zambesi quella zona è sempre stata associata all'idea del pericolo e della paura. Molte sono le
leggende che su di essa vengono raccontate dai vecchi, la sera, attorno ai fuochi dei villaggi.
La stessa parola «Kariba» significa minaccia, qualunque interpretazione ne diano gli esperti
dei dialetti bantu. La nomenclatura, nelle due Rhodesie, così come in tutta l'Africa, permette
molta libertà di scelta e ci sono tante varianti del nome della gola quante a suo tempo ce
n'erano del nome di Shakespeare. Kariuwa e Kariwa sono le più comuni, e l'ultima, benché
forse la meno usata, è probabilmente la più vicina alla pronuncia africana.
Tutte le leggende sul nome si riferiscono a una roccia che emerge dai gorghi all'ingresso della
gola, in prossimità della diga, e che ora è sepolta oltre trenta metri sotto la superficie del lago
nascente. In molte leggende questa roccia era considerata il quartier generale del grande dio
fiume Nyaminyami, il quale faceva inabissare nella profondità delle acque le canoe e gli
uomini che si avventuravano nelle vicinanze. Talora la roccia era considerata tutt'uno col dio,
e associata, nell'immaginazione degli indigeni, con la fatalità, il disastro e il terrore. Per i
vecchi, questa roccia era una delle tre che formavano una specie di ponte attraverso la gola e
che somigliavano alle trappole usate per catturare gli uccelli e i piccoli animali. «Riwa» è
quella parte della trappola che, quando scatta, cade addosso alla vittima e la schiaccia. Molto
probabilmente, quindi, Kariba ebbe in un primo tempo il significato di trappola fatale per
l'uomo.
Pochi indigeni, per non dire nessuno, osavano avventurarsi con le loro rozze canoe oltre la
barriera rocciosa, e quegli intrepidi che sfidavano la superstizione venivano quasi sempre
ghermiti dai gorghi del fiume, terribili per i Batonka quanto Scilla e Cariddi per gli antichi
greci. Gli enormi coccodrilli che infestavano la gola facevano scomparire ogni traccia degli
sventurati. Quanto fosse appropriato quel nome mi fu spiegato, con la sua viva
immaginazione, da Andre' Coyne, il grande ingegnere civile francese, principale autore del
progetto della diga.
Nel descrivere le sue impressioni di quando, nel 1954, si trovò per la prima volta sulle alture
sovrastanti la gola, egli disse: «Guardando in giù mi sembrava di vedere una trappola
rabbiosa» Egli non conosceva ancora le leggende riguardanti la gola, che certamente è una
«trappola», tanto insidiosa che l'intera potenza della tecnica moderna fu quasi sopraffatta dalle
forze primordiali e selvagge dell'Africa. La ricchezza di leggende orali che riguardano Kariba,
contrasta con la povertà dei documenti scritti. Un bambino rhodesiano che abbia frequentato le
scuole durante l'ultima guerra con tutta probabilità non ne ha mai sentito parlare e al massimo
ne conoscerà solo il nome.
Ma la storia dello Zambesi è lunga. Nel 1498 Vasco de Gama giunse sulle coste di quello che
oggi è il Mozambico; nei vent'anni successivi i portoghesi penetrarono nel regno di
Monomotapa, il quale colpì a tal punto la fantasia dei primi geografi che essi inventarono per
lui un impero di tipo europeo: Monomotapa è infatti una creazione dei portoghesi, che
adattarono alla loro lingua il nome di qualche capo e lo usarono poi per designare il sovrano
della tribù più potente del favoloso territorio. Il suo impero fu identificato col biblico Ophir da
dove proveniva l'oro col quale la regina di Saba fece tanta impressione su Salomone. Molte
miniere d'oro della Rhodesia del Sud sono antichissime ed è probabile che quelle del rè
Salomone, se avevano una precisa ubicazione, si trovassero appunto in Rhodesia.
Nel 1531, i soldati e i mercanti portoghesi si ciano inoltrati lungo lo Zambesi sino a Tete e
Sena; nel 1540 venne fondata la Compagnia di Gesù, che fu strettamente legata
all'esplorazione di questa parte dell'Africa; nel 1560 Padre Sylveira battezzò, e fu strangolato
un anno dopo, il Monomotapa regnante, i cui successori furono cristiani solo di nome e alleati
poco fidati dei portoghesi. Nel 1832 si trova ancora un cenno all'ultimo debole rappresentante
di questo nome, un tempo tanto orgoglioso. Per trecento anni le rive dello Zambesi e la regione
circostante furono bagnate dal sangue di martiri e soldati portoghesi, unito a quello di indigeni
e schiavi africani. Il sangue delle due razze si mescolò anche nei numerosi sangue-misti che
sfruttavano il paese in nome di una fedeltà puramente nominale al Portogallo. A quei tempi in
Africa non esistevano frontiere, ma Kariba, se avesse dovuto appartenere a qualcuno, fino a
poco più di cento anni fa sarebbe stata considerata parte dell'impero portoghese. Il primo
indizio di ciò che sarebbe accaduto nel futuro e della provenienza dei nuovi coloni europei, fu
dato, nel 1661, dall'arrivo di una spedizione boera nell'attuale Rhodesia. Quella, però, fu una
semplice incursione.
Promotore della penetrazione inglese nell'Africa centrale fu David Livingstone. Egli affermò
nei suoi scritti che i portoghesi non esercitavano un controllo effettivo, e richiamò l'attenzione
dei nomadi avidi di terra e degli avventurieri del Sud, sia afrikaner che inglesi, sulle ricchezze
potenziali di quelle regioni la cui povertà spirituale era stata la sua più grande preoccupazione.
È improbabile che Livingstone sia mai entrato nella gola di Kariba, pur essendovi passato
vicino, e il nome di Kariuwa che egli menziona, potrebbe benissimo riferirsi a un'altra gola più
a valle. La topografia dello Zambesi è tuttora incerta; ma nel 1898, Kariba era sconosciuta a tal
punto che un certo maggiore Gibbons, nel corso di una spedizione lungo il fiume, scoprì che la
gola era a oltre venti chilometri dalla posizione comunemente accettata.
Circa venti anni dopo il viaggio di Livingstone, fu Selous, il grande cacciatore, che penetrò
infine nella gola, il 24 novembre del 1877. Lo stato selvaggio delle regioni lungo lo Zambesi
al tempo degli ottuagenari tuttora viventi è rivelato dal seguente passo preso a caso nel libro di
Selous «Peregrinazioni di un cacciatore nell'Africa». Poco dopo una razzia di schiavi
effettuata per conto dei portoghesi, egli visitò la terra dei Batonka, la tribù che negli anni 19571958 ha dovuto spostarsi in nuovi villaggi, lungi dalle acque crescenti del lago creato
dall'uomo.
«22 novembre. Nel pomeriggio passammo per molti villaggi bruciati e
trovammo sul sentiero i resti di due Batonka. Le belve avevano trascinato tutti i
corpi nella boscaglia» Poi aggiunge schifiltosamente: «...il fetore era spesso
insopportabile»
Più avanti egli descrive un gruppo di schiave:
«Ogni donna aveva un anello di ferro attorno al collo, e tra l'una e l'altra c'era
circa un metro e mezzo di catene. Per tutto il tempo che trascorremmo sul
luogo non le sciolsero mai; la mattina le mandavano a zappare in un campo di
grano sulla sponda meridionale, ed esse lavoravano tutta la giornata, in fila. La
sera le chiudevano a chiave, sempre incatenate, in una specie di granaio grande
e quadrato. Dalla veranda pendevano tre grosse fruste di ippopotamo, annerite
dal sangue»
Tale era la sorte delle più deboli tribù dell'Africa centrale sino a quando, nel 1890, una
colonna di pionieri mandata dal Sud da Cecil Rhodes, alla quale era aggregato come guida lo
stesso Selous, entrò nel Mashonaland e iniziò la creazione delle moderne Rhodesie. L'ultima
carovana di schiavi sparì dal territorio portoghese circostante non prima del 1912. È
incredibile quanto l'Africa sia vicina a quello stato di barbarie che gli europei generalmente
attribuiscono a un remoto passato e quanto sia labile la memoria di coloro che condannano
tutto ciò die hanno compiuto i rhodesiani di pelle bianca.
«Va' al nord, giovanotto!» Così si diceva in Africa nel periodo in cui i colonizzatori degli Stati
Uniti spingevano le loro frontiere verso occidente. Quando il potere inglese si fu stabilito
saldamente a Fort Salisbury - che oggi, perduto il prefisso militaresco, è diventata la capitale
della Federazione delle Rhodesie e del Niassa - i riferimenti a Kariba divennero più frequenti
man mano che gli avventurieri penetravano nel nord. La prima ricognizione ufficiale alla gola
fu eseguita da William Keppel Steer che nel 1891 esaminò la possibilità di costruire una strada
ferrata che attraversasse lo Zambesi a Kariba. Benché la zona non gli piacesse, l'idea di
attraversare lo Zambesi con un ponte ferroviario in quel punto attirò verso la gola numerose
spedizioni di periti. La relazione del viaggio compiuto dal maggiore A. Gibbons nel 1898 e
1899, che ebbe tra l'altro l'obiettivo di «scegliere un tracciato per il progetto preliminare dello
Zambesi», ci dà la prima testimonianza scritta sul dio Nyaminyami, che ha un'importanza così
grande nella storia della diga di Kariba.
Egli scrive:
«...una barriera rocciosa si erge d'un tratto dalle torbide e cupe acque del fiume;
alla sua base, entro pochi metri, la corrente forma un vortice. Qui, dicevano i
boys, è il quartier generale del grande dio del fiume, e di tutte le imbarcazioni
che sono scese entro questi sacri recinti, né scafi, né carichi, né corpi umani si
sono mai ricuperati. I portoghesi - nome col quale suppongo che si volesse
indicare la specie negra - vi gettavano sempre vino e tessuti per propiziare i
morti. Avrei anch'io fatto altrettanto?
Alla mia risposta negativa il loro volto esprimeva la convinzione che prima o
poi ci avrebbe colti qualche disgrazia»
Un altro legame fra quella prima spedizione e il progetto contemporaneo è dato da una vecchia
caldaia a vapore.
La spedizione del maggiore Gibbons tentò di forzare il primo passaggio a monte della gola con
una imbarcazione di undici metri formata di due lance unite. Il tentativo fallì, benché, per
alleggerire l'imbarcazione che si chiamava Constance, fosse stata buttata in acqua a Kariba la
caldaia di ricambio. Una cinquantina di anni dopo, un ingegnere incaricato degli studi
preliminari per rimpianto idroelettrico della gola di Kariba trovò la caldaia intatta, sulla riva
sinistra, circa sei metri sopra il livello di magra. La fece togliere e portare al campo, e di lì a
Salisbury, perché fosse consegnata al museo. Disgraziatamente fu lasciata in qualche cortile
della città, e poco dopo sparì, forse rubata perché di rame.
Chi conosce il vecchio e cadente museo di Salisbury, che in un solo edificio accoglie - in un
comune stato di decrepitezza - quasi tutti gli stili architettonici conosciuti, potrebbe non a torto
supporre che il direttore non battè ciglio alla notizia della sparizione del cimelio, per la
semplice ragione che se avesse dovuto sistemarlo dove era stato destinato, avrebbe corso il
rischio di vedersi rovinare sulla testa le sovraffollate sale del museo. Nello stesso periodo della
spedizione del maggiore Gibbons, Sir Charles Metcalf eseguì un altro sopraluogo alla gola,
dopo di che non si sentì quasi più parlare di Kariba fino al 1914. Ma la polizia e i funzionari
del Dipartimento per gl'indigeni cominciavano a interessarsi di quella località. Per
l'abbondanza della cacciagione, essa divenne méta di cacciatori di frodo in cerca di avorio e
dei taciturni e solitari «bundu-bashers» - come li chiamano in Rhodesia - che venivano a
cacciare, esplorare e occuparsi dei loro non sempre legittimi affari, facendosi vedere a lunghi
intervalli di tempo nella città a ubriacarsi, acquistare provviste e munizioni, per poi sparire di
nuovo nella boscaglia, fino all'ultimo viaggio dal quale non sarebbero più tornati.
Probabilmente la maggior parte perivano di febbri tropicali, o in fatali contese con i
concorrenti, o vittime di elefanti, bufali o rinoceronti; o, rovesciandosi la canoa, venivano
ghermiti dal fiume o da un coccodrillo; o sorpresi da qualche serpente velenoso. Breve o lunga
che fosse l'agonia, facevano sempre una morte solitaria. Qualche volta gli indigeni li
seppellivano - di solito ai piedi di un baobab - e ne segnavano le tombe. Parecchie di queste
patetiche sepolture senza nome sono state messe in luce dai diboscamenti nei tratti del nuovo
lago destinati alla pesca commerciale, e decine di esse rimarranno sconosciute per sempre,
venti o trenta tese sotto le acque del lago.
Molti di quegli uomini conoscevano Kariba, ma non ne svelarono il segreto.
La prima vera minaccia alla gola inviolata venne da un rapporto scritto nel 1912 da H. S.
Keigwin, il commissario per gl'indigeni a Sinoia, un piccolo paese a 130 chilometri a nord di
Salisbury. Kariba si trovava nel suo distretto ed egli ne fece un attento studio.
«Questo paese offre interessanti prospettive agli esperti di irrigazione» egli scrisse. «Lo
sbarramento dello Zambesi alla gola di Kariba, dove il fiume s'infila in uno stretto canale di
circa trenta metri, chiuso fra le rocce, può essere la base di un progetto di irrigazione della
vallata che infiammerebbe la loro immaginazione»
Nessuna immaginazione si accese di fiamma creativa, però il direttore dell'Ufficio
colonizzazione della Compagnia britannica del Sud Africa, che allora governava la Rhodesia
del Sud, iniziò una nuova pratica. Egli vedeva grandi possibilità di produzione di zucchero nel
terreno alluvionale della vallata dello Zambesi. (Oggi a Chirundu, circa 65 chilometri a valle
di Kariba, le verdi piantagioni di canna da zucchero rompono il grigio paesaggio della foresta
di mopani). Fece una inchiesta, e stese un rapporto. Nel 1913 organizzò una spedizione a
Kariba, composta dagli ingegneri Randall e Howell, entrambi esperti di irrigazione, e dal
signor McGregor, proprietario di piantagioni di canna da zucchero nell'Africa Orientale
Portoghese. Nel giugno 1914, sir Charles Metcalf telegrafò da Londra che, insieme col
colonnello on. Everard Baring, desiderava dare un'altra occhiata a Kariba in relazione al
progettato prolungamento della ferrovia attraverso lo Zambesi, prolungamento che, al
contrario della produzione dello zucchero, non è stato ancora realizzato. Probabilmente il
colonnello fu distratto dagli eventi europei, ma sir Charles venne in Rhodesia, e trovò che
Howell si era già dato da fare per l'organizzazione dei trasporti. Il commissario per gl'indigeni,
Keigwin, fornì cento portatori. Vennero noleggiati cinque muli da sella, ed altri da traino: otto
per un'«ambulanza», sei per un carro a due ruote, e altri otto per un carro a quattro ruote.
Howell si permise di domandare in un appunto se sir Charles avrebbe cavalcato un mulo
oppure avrebbe richiesto una «machila», specie di lettiga preferita da quegli esploratori
vittoriani che non ritenevano incompatibile per l'uomo bianco essere trasportalo come una
soma. Sir Charles, che già si considerava un vecchio esperto di Kariba, disprezzò la «machila».
La spedizione arrivò a Kariba il 22 settembre, pressappoco con la stessa velocità delle armate
germaniche, che avanzavano attraverso le pianure dell'Europa settentrionale. Affari più urgenti
sviarono l'attenzione degli organi ufficiali dal loro rapporto, ma non dal rendiconto delle
provviste.
Il povero Howell fu tormentato dalla necessità di giustificare la perdita di tre zanzariere, e alla
fine, tristemente, avanzò la «supposizione» che i signori Randall, McGregor e sir Charles si
fossero tenute le loro! D'altra parte non si può negare che la spedizione era ben fornita, se egli
annota che "diciassette bottiglie di whisky avanzate erano state vendute vantaggiosamente,
dieci a 6 scellini e 3 pence la bottiglia, e sette a 6 scellini e 6 pence": un rapido aumento nel
prezzo di una necessità rhodesiana, che denota come la guerra già cominciasse a infliggere le
sue privazioni. L'ingrata amministrazione continuò a discutere sino al luglio del 1915 in merito
a una spesa di Lire st. 6, 10 scellini e 3 pences per i portatori usati da sir Charles. Alla fine la
somma venne addebitata con riluttanza all'Ufficio Colonizzazione, e fu forse la prima spesa a
carico di fondi pubblici cui diede luogo il progetto di Kariba.
La spedizione del 1914 non diede alcun risultato, ma l'impressione lasciata dal rapporto di
Keigwin non si cancellò negli uffici dell'amministrazione rhodesiana. Le risorse non sfruttate
del paese costituivano un patrimonio che un giorno sarebbe stato sicuramente utilizzato. Si
dovette però attendere fino al 1927 perché venisse fatto un altro tentativo di studiare le
possibilità offerte dalla gola, questa volta come fonte di energia idroelettrica. Sembra che
l'idea fosse stata espressa per la prima volta dal Sindacato dei Metalli della Rhodesia, allora
proprietario delle miniere di rame della Regina oltre Sinuia. Invitate a cooperare a un
sopraluogo esplorativo organizzato dal sindacato, le autorità misero a disposizione l'opera di
un giovane ingegnere del Dipartimento Irrigazione, arrivato nel paese quattro anni prima. Si
chiamava P. H. Haviland e proveniva da Johannesburg. Più tardi, egli lasciò il servizio attivo
per divenire capo del dipartimento nel 1944.
Quando si ritirò nel 1952, Kariba non era più un sogno o un programma di là da venire, ma un
progetto realizzabile. Con i suoi occhi vivi, le maniere brusche e un asciutto sorriso pieno di
humour, egli è ancora attivo in Salisbury, dove oggi esercita la professione come consulente.
Ricorda bene il suo viaggio a Kariba col rappresentante del sindacato W. R. Grigor Taylor.
In quel tempo vi erano solo quattro o cinque persone che conoscevano veramente il luogo, e il
viaggio fu, soprattutto dal punto di vista professionale, un viaggio verso l'ignoto. Fino alla
miniera di Katkin, dove tre europei tenevano il più avanzato posto della civiltà, gli ingegneri
poterono viaggiare con un camion, ma dopo, il loro modo di procedere non differì molto da
quello usato da Livingstone. Quaranta portatori reggevano sulla testa provviste ed
equipaggiamento. Il grave problema logistico dei lunghi viaggi attraverso le foreste africane
era che un portatore, caricato di viveri sufficienti al suo consumo, poteva aggiungere ben poco
o nulla al loro peso. Così era invalso l'uso di portare merci che potessero essere scambiate con
farina, l'alimento base degli africani, in quantità superiore al rapporto di peso, e di affidarsi,
per la carne, alla capacità venatoria del capo della spedizione.
I portatori di Haviland si portavano dietro stoffe economiche, asce e sale, molto ricercato nella
vallata, mentre lui aveva una riserva di ninnoli e coltelli da regalare ai capi e ai notabili che
incontrava lungo il cammino. Al visitatore di un villaggio africano veniva sempre offerto un
dono, e ragioni di prestigio, oltre che di buona educazione, richiedevano che il gesto fosse
contraccambiato. Sarebbe difficile per l'autista che oggi corre lungo le nuove strade asfaltate
della Rhodesia, immaginare come fossero complicati, appena una generazione addietro, i
preparativi per un viaggio di centosessanta chilometri verso le rive scoscese dello Zambesi.
Oggi i due uomini potrebbero con un'ora di volo da Salisbury raggiungere la vallata, ed essere
di ritorno in pochi giorni, dopo aver compiuto la loro missione.
Nel 1927, essi dovevano procedere faticosamente attraverso la fitta foresta di mopani lungo i
tortuosi sentieri che correvano da un villaggio all'altro. Erano ben fortunati se trovavano in
qualche tribù un indigeno disposto a guidarli per un'intera giornata: i più si limitavano a due o
tre ore di cammino sino ai confini del territorio da essi conosciuto. Si mettevano in movimento
alle prime luci, con gli abiti intrisi di rugiada, e al sorgere del sole erano già in un bagno di
sudore. Non superavano mai i ventiquattro chilometri al giorno; a volte ne facevano appena
una diecina. La marcia era ritardata non soltanto dall'asprezza del terreno, ma anche dalle
lunghe operazioni per porre e levare l'accampamento, dallo scambio di cortesie con i notabili,
cerimonia sempre lenta e complicata, e dalle deviazioni nella boscaglia in cerca di selvaggina.
Quando all'imbrunire i fuochi diventavano più luminosi e i tratti di cielo fra l'intrico dei rami
della foresta diventavano morbidi cuscini per le splendide stelle africane, echeggiavano fra gli
alberi le voci acute dei portatori che raccontavano le avventure della giornata, ripetevano
all'infinito le vecchie leggende, o emettevano strani suoni, spesso simili alle canzoni che
accompagnano i giuochi dei bambini. Appena i portatori tacevano, e nel campo l'unico rumore
era quello dell'uomo che alimentava i fuochi gettandovi altra legna, o il mormorio sonnolento
dei due ingegneri, la boscaglia si animava della vita rumorosa dei suoi invisibili abitatori. Sul
ronzio degli insetti notturni e dei grilli, risuonava da qualche palude vicina il gracidare rauco
delle rane tropicali, mentre schianti e barriti lontani annunciavano ravvicinarsi di una mandria
di elefanti o le esplorazioni dii lina famiglia di ippopotami che durante la notte lasciavano il
fiume per pascolare. Lo scalpitio veloce di zebre o antilopi che fuggivano invase dal panico
indicava la presenza di un leone o un leopardo in cerca di preda. Poi, improvviso, tra i
persistenti e furtivi rumori della foresta, giungeva un urlo lacerante di terrore, seguito da un
terrificante ruggito di trionfo e di orgoglio: la nuova vittima era sacrificata. Il grido più
snervante era quello del babbuino quando cadeva tra le grinfie di un leopardo, perché molto
simile al grido di dolore di un essere umano. Il grande felino, come il suo parente più piccolo,
ha l'abitudine di trastullarsi con la propria vittima, cosicché possono passare anche dieci
minuti prima che l'urlio e il disperato piagnucolio svaniscano nel silenzio, lasciando
l'ascokatore con un senso di strana colpevolezza per essere stato li senza scomporsi.
Haviland racconta due episodi, che fra non molto non faranno più pane della viva esperienza
ma diverranno un ricordo del passato.
Il primo riguarda il «telegrafo della foresta», espressione con la quale si usa designare il
sistema e la velocità, ancora inspiegati, con cui gl'indigeni trasmettono messaggi da un luogo
all'altro attraverso il paese.
Arrivato in un villaggio lungo le sabbie dell'asciutto fiume Naodza, Haviland chiese al capo
una guida sino alla prossima tappa, e senza perdere tempo ripartì. Dopo un'ora di cammino, la
comitiva giunse a una piccola radura, dove l'aspettava un gruppo di donne con zucche piene di
acqua fresca. Quando Haviland chiese come avevano saputo del suo arrivo, risposero di avere
ricevuto l'annuncio circa un'ora prima, cioè quando egli si era accomiatato dal capo tribù. Era
impossibile che qualcuno li avesse sorpassati, lungo il sentiero stretto e solitario, e
inconcepibile che, con la boscaglia infestata di leoni e di altri animali selvaggi, uno di quei
paurosi uomini primitivi avesse potuto prendere una scorciatoia, supposto che ce ne fosse una,
attraverso il terreno impervio. Eppure la notizia che visitatori di riguardo erano per la strada
doveva essere stata inviata in qualche modo al piccolo villaggio, con l'ordine di preparare un
rinfresco.
L'altro episodio accadde all'arrivo nell'isola che sta in mezzo alla confluenza dei fiumi Sanyati
e Zambesi, vicino alla diga. Qui fu loro mostrata la tomba di un uomo bianco che era stato
sepolto pochi giorni prima. Il capo locale consegnò loro tutti gli averi del morto, comprese
molte pelli di animali ch'egli aveva uccisi. Tale è la naturale onestà degli africani primitivi, o
la loro paura dei morti. L'uomo, sembra un certo Keats Brown, lasciò un diario che nelle
ultime pagine sgualcite parlava del fatale attacco di febbre tropicale, e del suo ardente
desiderio di avere il conforto di una tazza di tè mentre la morte si avvicinava. Egli aveva
continuato a scrivere sino all'ultimo istante. Era uno dei «bundu-bashers», che sino all'ultima
guerra s'incontravano frequentemente, e ora sono quasi del tutto scomparsi. Correva voce che
avesse avuto qualche infelice esperienza sentimentale, e che si era ritirato nell'isola del Sanyati
dopo aver bruciato la barca, giurando di rimanervi per sempre.
La sua volontà è stata rispettata. Dorme ancora là sotto sessanta metri di acqua, dato che l'isola
è ora il fondo del lago.
Due anni dopo il viaggio, Haviland stese il suo rapporto che conteneva una grande quantità di
dati scientifici sul regime del fiume, la geografia e la geologia della gola, registrazioni della
temperatura e letture barometriche. Haviland non è uomo da sottrarsi a un franco giudizio, e
anche se oggi potrebbe sorridere con un senso di rammarico, non è necessario che si scusi
della conclusione del suo rapporto:
«Tenendo conto dell'energia che può fornire lo Zambesi alle cascate Victoria,
la produzione di energia alla gola di Kariba non è da prendere in
considerazione»
Punto e basta? No, si apre invece un nuovo paragrafo.
Trent'anni fa nessuno poteva prevedere l'enorme sviluppo delle miniere di rame della Rhodesia
del Nord o il flusso di immigrazione che, in dieci anni, avrebbe più che raddoppiato la
popolazione bianca della Rhodesia, trasformando la stagnante vita politica ed economica del
paese in una forza turbolenta quanto lo stesso Zambesi, con un potenziale di bene o di male
per l'Africa, che è tuttora impossibile pronosticare. Haviland doveva non soltanto essere
spettatore, ma anche dare un importante contributo ai primi passi del gigantesco progetto
giunto oggi a compimento.
CAPITOLO SECONDO
I PRIMI PASSI
Nei dieci anni successivi allo scoraggiante rapporto di Haviland, la Commissione per
l'elettricità nella Rhodesia del Sud cominciò a rivolgere l'attenzione alle risorse idriche del
paese in vista delle future richieste di energia elettrica. Non considerando una minuscola
centrale sotto le cascate Victoria, le due Rhodesie dipendevano dalle centrali termiche azionate
dal carbone estratto a Wankie nell'angolo nord-occidentale della Rhodesia del Sud. Il carbone
era discretamente economico e di buona qualità, ma già sorgeva il dubbio che le ferrovie non
fossero in grado di trasportarne abbastanza fino ai lontani centri di attività economica in
crescente sviluppo.
Grazie all'iniziativa di A. B. Cowen, allora presidente della commissione, le vecchie pratiche
vennero rispolverate, e nel 1941 furono stanziati fondi per ulteriori studi di possibili impianti
idroelettrici. Dato che tutti i giovani ingegneri dipendenti dallo stato servivano nelle forze
armate, il governo sa. rivolse a un vecchio sudafricano di origine irlandese, J. L. S. Jeffares,
per un ennesimo sopraluogo a Kariba. Egli conosceva già la gola, essendoci stato dieci anni
prima, per i rilievi della Sinoia-Kafue, una ferrovia spesso progettata e mai realizzata. Negli
anni seguenti Jeffares fece i suoi rapporti regolarmente. Date le circostanze, non potevano
essere del tutto esatti; bisogna però riconoscere che fornirono molte essenziali informazioni
preliminari, senza le quali la costruzione della diga di Kariba avrebbe dovuto essere differita di
molti anni. Compito specifico di Jeffares era di esaminare e indicare i punti in cui poteva
essere costruita la diga, ed eseguire un dettagliato controllo del territorio - del quale erano state
fatte sommarie rilevazioni - per poter calcolare quali aree sarebbero state inondate in seguito
all'erezione della diga. L'importanza del suo operato dev'essere valutata in rapporto alle
difficoltà incontrate.
L'unico accesso alla zona nei primi anni del '40 era un tortuoso sentiero primitivo proveniente
da Miami, che scendendo nella gola per novecento metri, era battuto più da elefanti,
rinoceronti e bufali che da esseri umani. Jeffares dovette aprirsi la strada per terreni impervi,
spesso scoscesi a precipizio, dove la foschia del calore e della polvere oscurava ogni orizzonte
e dove, nelle vallate, egli veniva imprigionato dalle macchie spinose. I fianchi delle alture
erano coperti di pietre insidiose, nascoste dal folto dell'erba, l'acqua era scarsa, la temperatura
nell'ombra afosa oscillava fra i 38 e i 49 gradi, e la notte non scendeva mai sotto i 27, cosicché
non vi era neppure il sollievo di un po' di fresco dopo il tramonto. Il caldo era reso più
esasperante dai continui attacchi dell'ape del mopani, piccolo insetto che si trova nelle foreste
basse durante la stagione arsa, quando non piove, e si posa sul naso, gli occhi e le labbra degli
uomini, attratto dall'umidità del loro sudore. In questo paese infestato da serpenti, mosche
tzetze e zanzare, Jeffares svolse il suo lavoro monotono e poco appariscente, facendo rilievi
topografici e stendendo rapporti. Il suo contratto era a cottimo, cosicché la rimunerazione
risultò alla fine inferiore a quella di un qualsiasi impiegato seduto in un confortevole ufficio di
Salisbury, e il Tesoro cavillò anche su quello. L'unico premio all'ingrato compito è
l'ammirazione di quei pochi che conobbero la zona. Uno di coloro che lo videro al lavoro fu un
giovane rhodesiano chiamato Newby Tatham che, durante la stagione secca, lavorava nella sua
concessione di mica presso Kariba.
Un giorno egli stava cacciando un bufalo per fornire di carne i suoi operai, quando si trovò in
una radura. Il pericoloso bestione attraversò Io spiazzo erboso per sprofondarsi nella boscaglia,
ma Tatham perse l'occasione di sparare perché gli apparve all'improvviso un vecchio signore
imperturbabile, chino sul suo teodolite sotto un ombrello colorato. Portava gli occhiali; il largo
cappello spostato lasciava scoperto il cranio mezzo pelato e coperto da vesciche. Erano con lui
un indigeno, che agitava una foglia per tener lontane le mosche, e una donna. Questa era la sua
unica collega, una certa signora Goode, quasi certamente la prima donna bianca apparsa a
Kariba, che annotava su un libretto i commenti mormorati da Jeffares.
Quella visione nella contrada selvaggia, allora piena di animali pericolosi, fu uno spettacolo
che Tatham non dimenticò mai.
Meno di dieci anni dopo il silenzio della gola sarebbe stato turbato dal crescente rumore delle
macchine. Si era iniziato coi singhiozzanti motori dei fuoribordo, quando fragili imbarcazioni
portavano gli ingegneri al loro compito di misurare la portata del fiume, per arrivare poi
all'incessante fragore dei compressori, delle betoniere e dei frantoi quando, ad ogni ora del
giorno e della notte, veniva preparato e gettato il calcestruzzo nella gigantesca muraglia.
Dal '45, il Dipartimento dell'Irrigazione della Rhodesia del Sud, i cui rapporti con la gola
risalivano alla visita di Randall nel 1914, mantenne sempre la convinzione che un giorno il
fiume sarebbe stato imbrigliato a Kariba. J. H. R. Savory, ora direttore del dipartimento, passò
qualche tempo con Jeffares nelle sue ultime escursioni; fu organizzata una stazione di
misurazione a Chirundu, e nel 1946 venne posto il primo campo a un'estremità della gola,
circa venticinque chilometri a valle della posizione della diga. Fu scelto questo punto perché
allora non vi erano disponibili imbarcazioni che fossero in grado di superare i gorghi e le
correnti della gola, dove il fiume raggiunge la velocità di quindici nodi l'ora. L'accesso con
strade era appena possibile nella stagione secca. All'inizio il lavoro dovette essere abbandonato
durante le piogge, quando tutti, caricate provviste e attrezzature, si ritiravano dalla gola. Le
squadre per le misurazioni operarono in vari punti lungo lo Zambesi fra la gola e le cascate
Victoria dato che, al momento di fare i calcoli per il progetto della diga, gli ingegneri
avrebbero avuto bisogno del maggior numero possibile di dati sul comportamento del fiume.
L'importanza di questo lavoro divenne in particolar modo evidente quando scoppiò la
controversia, che per poco non smembrò la federazione appena formata, fra i sostenitori dei
due progetti idroelettrici rivali, di Kafue e di Kariba. Quando venne il momento della
decisione, si sapeva molto sullo Zambesi e ben poco sul Kafue, e questa circostanza deve aver
fortemente influenzato gli esperti francesi che furono chiamati dal governo per dirimere la
controversia.
Un fatto tipico dello sviluppo delle Rhodesie, negli anni che seguirono la guerra, è che un
progetto nel quale sarebbero stati profusi miliardi per l'acquisto delle più moderne attrezzature,
sia cominciato con strumenti improvvisati fatti di vecchie casse di bombe della RAF, bottiglie
di birra e corde da pianoforte. È proprio con questi materiali che H. W. H. Wallis, l'ingegnere
del Dipartimento Irrigazione, incaricato del lavoro, costruì i suoi primi idrometri.
In quei giorni di carestia fu così fortunato da trovare una corda da pianoforte a Salisbury, città
che non è mai stata particolarmente musicofila: l'unico campione disponibile nella capitale
della Rhodesia del Sud si trovava in una fabbrichetta di sapone diretta dai fratelli Pichanick
nella strada appropriatamente chiamata «dei Pionieri», dove veniva usato per tagliare il sapone
in tavolette. Insieme col controllo delle acque, vennero iniziate in vari punti della gola
perforazioni di prova del letto del fiume, per saggiare le fondazioni della futura diga. Il lavoro,
che sarebbe stato privo d'importanza nei placidi fiumi d'Europa, poteva essere assai pericoloso
nell'impetuosa corrente dello Zambesi. Molte volte, infatti, le imbarcazioni si capovolsero o
naufragarono sui banchi di sabbia o sulle rocce del fiume non ancora rilevato. Dopo parecchi
salvataggi miracolosi, le schermaglie iniziali della battaglia contro il fiume ebbero la prima
fatale disgrazia.
Nel 1948, l'imbarcazione sulla quale Wallis stava lavorando venne rovesciata dal!'improvviso
vortice di una piena. Un indigeno che si trovava a bordo si mise a nuotare verso la riva lontana
non più di una cinquantina di metri, ma dieci secondi dopo fu afferrato da un coccodrillo.
Wallis e i suoi colleghi raggiunsero salvi la riva dopo esser rimasti quattro ore nell'acqua.
Nyaminyami aveva ricevuto il primo tributo di vite umane che avrebbe preteso da coloro che
lo avevano sfidato. Ma la prima volta che le forze con le quali l'uomo stava lottando rivelarono
tutta la loro terribile potenza, fu la notte di sabato 18 febbraio 1950. Uno di quei cicloni,
provenienti dall'Oceano Indiano, che talvolta si aprono un solco di distruzione attraverso
l'Africa centrale, investì la gola di Kariba. Nelle tenebre un vento d'una violenza indescrivibile
scagliò a terra trentotto centimetri di pioggia. Il fiume a Chirundu crebbe di 7 metri e mezzo,
mentre il Sanyati e lo Zambesi erano invasi dai torrenti precipitanti dalle alture. Non si saprà
mai quante vite umane andarono perdute. Al villaggio di Nyamonga, sulle rive del Sanyati
vicino a Kariba, quindici persone annegarono e le loro capanne vennero sommerse. La densa
vegetazione rivierasca fu asportata come erba sotto la falce: molti giorni dopo, si vedevano
corpi di daini in putrefazione ancora appesi con le corna agli alti rami degli alberi dove
l'inondazione li aveva deposti, e non erano che la rimanenza delle vittime scaricate nello
Zambesi in un tratto di oltre centocinquanta chilometri del suo corso.
In una sola notte avvennero venti grandi frane nella zona di Kariba, e una di esse coprì il
campo che era stato posto all'uscita della gola.
In una capanna di fango sotto il fragile tetto di paglia c'erano quattro giovani addormentati: un
ingegnere e un meccanico del Dipartimento Irrigazione, l'aiuto segretario della Commissione
per l'energia idroelettrica, e un loro amico dell'Ufficio del revisore dei conti che aveva cercato
evasione dall'angusto mondo dei libri mastri e delle fatture per godersi una breve vacanza nella
boscaglia.
La comitiva aveva attraversato il fiume la sera prima per chiedere al signor P. L. Ross,
incaricato delle operazioni di perforazione in uno dei punti scelti per la diga, se poteva portare
il giorno dopo a Chirundu uno di loro che aveva la febbre. Alle otto essi tornarono alla riva
sud. La mattina dopo, Ross fu chiamato al fiume, e alcuni indigeni dalla riva opposta gli
gridarono che i quattro europei erano rimasti uccisi. Poiché una delle sue imbarcazioni era
stata spazzata via e l'altra si era riempita di acqua, passò parecchio tempo prima che egli
potesse raggiungere l'altra sponda.
La coraggiosa e febbrile attività che seguì può essere considerata inutile, dato che i quattro
giovani erano morti nel sonno. Ma il ricordarla può aiutare chi non conosce l'Africa a farsi
un'idea delle condizioni in cui nacque Kariba.
Due indigeni impiegati come domestici nel campo distrutto saltarono in una canoa nel
disperato tentativo di portare la notizia del disastro a Chirundu. Essendo originari dell'altoveldt (Veldt, territorio del Sud-Africa privo, o quasi, di boschi), avevano un terrore innato
dell'acqua e non possedevano la perizia necessaria per manovrare la massiccia imbarcazione,
poco maneggevole, come un canotto esquimese.
Riuscirono tuttavia a scampare alle correnti e ai detriti del fiume, e raggiunsero il malsicuro
porto della stazione di polizia a Chirundu. Poiché la linea telefonica era stata distrutta, la
notizia dovette essere portata da corrieri per una parte del percorso, e raggiunse Salisbury la
domenica sera. Venne organizzata in tutta fretta una spedizione di salvataggio. A circa trenta
chilometri da Chirundu i soccorritori dovettero abbandonare i mezzi di trasporto poiché
l'accesso al ponte sulla strada principale era stato distrutto dalla piena.
Attraversarono i fiumi che li separavano da Chirundu servendosi di funi e giunsero al posto di
polizia la sera del lunedì. Solo nel pomeriggio di martedì, tre giorni dopo la frana, furono in
grado di raggiungere il campo.
Ross e i suoi operai avevano ricuperato una salma sul bordo del fiume, ma non prima di
mercoledì a mezzogiorno vennero tratte alla luce altre due salme in pigiama, dopo una
disperata lotta con pale e picconi contro i detriti di roccia sotto i quali era stato sepolto il bel
campo in riva al fiume. L'ultima non fu mai ritrovata.
Era stata trascinata nelle sconosciute profondità del regno di Nyaminyami.
Il lavoro lungo il fiume proseguì e venne intensificato entro la gola. Furono esaminate quattro
possibili posizioni per la diga, ma tutte risultarono difettose o perché l'acqua era troppo
profonda o perché i depositi alluvionali sabbiosi le rendevano inadatte per le fondazioni della
diga. Allora la ricerca venne spostata a un nuovo punto quasi all'ingresso della gola,
esattamente sotto la confluenza del Sanyati e dello Zambesi. Benché poche persone allora se
ne rendessero conto, la lunga ricerca era terminata. Quasi all'ombra della roccia che aveva dato
il nome a Kariba, ai piedi dell'altare del dio fiume, sarebbe stata lanciata la sfida alla sua
potenza. Già sembrava che egli fosse in ritirata. Gli uomini che lavoravano alle sonde erano
duri avventurieri, la maggior parte provenienti dal Sud-Africa e un piccolo numero dal Regno
Unito e dalla Rhodesia. Agli operai specializzati, si unì a poco alla volta una folla di forti
bevitori, di individui rudi e temerari, relitti trascinati verso questo genere di lavori ovunque se
ne trovi lungo le frontiere del mondo civile. Nessuno si chiese da dove venissero, e nessuno sa
o si cura di sapere dove siano poi andati. Comparvero quando ce ne fu bisogno; lottarono fra
loro coi pugni e coi coltelli; portarono con sé i fucili nella boscaglia e uccisero centinaia di
capi di selvaggina per il semplice gusto di fare strage; minacciarono l'autorità, rubarono quel
poco che c'era da rubare, ma fecero il loro lavoro. Quello che guadagnarono se lo bevvero, se
lo giocarono e lo buttarono in grembo alle donne indigene che, per amore o per forza,
concedevano loro fuggevoli piaceri. Di essi sono rimaste poche tracce a Kariba, che solo per
un breve periodo e in zone isolale assunse l'aspetto d'un campo di miniere dell'Ottocento. Altre
influenze che in quella terra selvaggia avrebbero dato vita a una cittadina erano già operanti.
Nel maggio del 1952 il signor Martens aveva portato la moglie, la madre e tre figlie al locale
campo del Dipartimento Irrigazione. Egli era un provetto cacciatore e manteneva il gruppo
originario di una diecina di europei e cinquanta indigeni con la carne degli animali abbattuti e
con le verdure che faceva crescere in proporzioni gigantesche nel fertile suolo. Si diceva che
uno dei suoi pomodori poteva produrre mezzo litro di succo. Egli fu il solo uomo impegnato
nel progetto di Kariba che si crede abbia contratto la malattia del sonno. Benché gli elefanti si
aggirassero ogni notte, a breve distanza dal campo, e animali d'ogni specie affluissero a bere
nel fiume sottostante, le capanne che Martens aveva costruito si trasformarono a poco a poco
in case. Vennero creati giardini, fu installato un primitivo ma efficiente impianto di acqua
calda e fredda, e alla luce abbagliante delle lampade a petrolio le conversazioni durante i loro
cocktails riecheggiavano quelle che vengono scambiate in migliaia di verande in Rhodesia,
quando il giorno precipita nella notte.
Importanti visitatori cominciarono a giungere in quello che stava diventando, più che un
avamposto, il nucleo di una colonia. Tra essi, sir John Kennedy, il governatore della Rhodesia
del Sud. In suo onore venne costruita una dipendenza, quella piccolissima stanza che ha una
così importante funzione nel mondo anglo-sassone, chiamata in Rhodesia "il p. k.", o piccanin
kia.
E vi venne orgogliosamente installata la più bella realizzazione dell'arte idraulica. Il primo
water closet ad acqua corrente era arrivato a Kariba.
CAPITOLO TERZO
LA GRANDE DISPUTA
Mentre gli uomini combattevano nella gola per rendere possibile la realizzazione di Kariba,
poco mancò che non andasse a monte l'intero progetto a causa della lotta tra le fazioni rivali di
Salisbury e di Lusaka.
A meno di cento chilometri da Kariba, circa a metà strada fra questa località e Lusaka, la
capitale della Rhodesia del Nord, c'è una gola sul fiume Kafue, anch'essa con evidenti
possibilità di sviluppo idroelettrico. Lo straordinario sviluppo delle miniere di rame della
Rhodesia del Nord aveva aumentato la richiesta di energia in tale misura che la ferrovia a
binario unico delle miniere di carbone di Wankie si trovò nell'impossibilità di fornire la
quantità di carbone necessaria. Il governo della Rhodesia del Nord incoraggiava il progetto di
Kafue per la vicinanza con Lusaka, e anche le grandi compagnie del rame, che sono tutte
controllate dal trust rhodesiano e dalla Corporazione anglo-americana, lo sostenevano. La
Federazione della Rhodesia e del Niassa fu creata nel 1953. Prima d'allora la Rhodesia del Sud
era una colonia con governo autonomo, mentre la Rhodesia del Nord e il Niassa erano due
protettorati sottoposti al Ministero delle Colonie britannico. In realtà erano retti dai loro
governatori, benché alcuni membri dell'Assemble.ì legislativa della Rhodesia del Nord fossero
eletti prevalentemente dagli abitanti europei. Ciò nondimeno i tre elettori avevano già
collaborato nella formazione del Consiglio centrale africano, organo con funzioni consultive,
al quale però i tre governi interessati potevano delegare taluni poteri. Nel 1946 questo
Consiglio centrale africano fu autorizzato a creare una Commissione per l'energia idroelettrica
col compito di esaminare possibili progetti nelle due Rhodesie.
La commissione risultò infine composta di tre membri della Rhodesia del Sud: A. B. Cowen,
C. L. Robertson e P. H. Haviland, l'autore del rapporto del 1927, e due della Rhodesia del
Nord: W. D. Wheeler e F. G. Radcliffe.
Uno dei primi problemi della commissione fu di decidere fra le due richieste in conflitto, il
progetto di Kariba sostenuto dalla Rhodesia del Sud, e quello di Kafue sostenuto dalla
Rhodesia del Nord. In quell'epoca non si avevano ancora dati esatti sui costì, ma era certo che i
territori non potevano finanziare ambedue i progetti e che la produzione di energia elettrica
dell'uno e dell'altro insieme sarebbe stata molto superiore ai bisogni prevedibili in quel
millennio. Pertanto nel 1948 la commissione nominò un consiglio di esperti, che fu chiamato
la «giuria», costituito di due ingegneri civili, sir W. Halcrow e H. J. F. Gourley, e due
ingegneri elettrotecnici, C. H. Pickworth e G. E. Kennedy, tutti appartenenti a grandi società
del Regno Unito. La «giuria» ebbe tra l'altro l'incarico di esaminare i meriti relativi dei
progetti di Kariba e di Kafue.
Nel suo rapporto, che venne consegnato nel mese di luglio 1951, la giuria raccomandò senza
esitazioni Kariba. Tale decisione era sostenuta principalmente da due argomenti: che le
informazioni su Kafue erano troppo scarse, e che la sua produzione potenziale era poco
superiore agli immediati nuovi bisogni delle due Rhodesie, così che se fosse stata costruita la
diga di Kafue, sarebbe stata necessaria anche quella di Kariba. La produzione di Kariba
avrebbe invece coperto i bisogni di energia previsti per molti anni. Appena il rapporto fu
pubblicato, si levarono clamori nella Rhodesia del Nord. A Lusaka tu tenuta una pubblica
riunione di protesta, la prima di una lunga serie che avrebbe assordato le orecchie degli uomini
politici nei quattro anni seguenti. I commercianti di Lusaka avevano interesse alla diga di
Kafue, la cui spesa, allora calcolata trenta milioni di sterline, avrebbe recato prosperità alla
loro città; le compagnie del rame si erano pure dichiarate favorevoli a Kafue; le autorità del
Nord, con un bilancio attivo dovuto in gran parte al rame, sostenevano naturalmente le
miniere, e non è improbabile, anche se allora non ne parlavano esplicitamente, una certa loro
riluttanza a devolvere le proprie rendite in un progetto che era stato ideato nella Rhodesia del
Sud e che si sarebbe dovuto realizzare al confine e non interamente sul loro territorio. Il
governo della Rhodesia del Nord invitò la giuria a preparare un nuovo rapporto, che venne
subito steso. Questo secondo rapporto ammetteva che all'inizio Kafue avrebbe potuto produrre
energia elettrica più a buon mercato di Kariba, benché in quantità minore, ma aggiungeva
scrupolosamente che a lungo andare Kariba sarebbe stata molto più conveniente. Fu tenuta
un'altra riunione pubblica a Lusaka, nella quale ebbe una parte di primo piano il signor John
Gaunt, membro dell'Assemblea della Rhodesia del Nord. Egli non ebbe difficoltà a suscitare
una certa eccitazione politica, ma intanto, sotto l'astuta guida di sir Godfrey Huggins (ora lord
Malvern), la Rhodesia del Sud si manteneva quieta e il lavoro nella gola proseguiva senza dare
nell'occhio. Essendo imminente la creazione della Federazione, il Segretario per l'economia
della Rhodesia del Nord fece uno sforzo per saltare l'ostacolo. Il 7 settembre 1953 annunciò
che la Rhodesia del Nord avrebbe proceduto per proprio conto nell'elaborazione del progetto
di Kafue e lo avrebbe passato al governo federale non appena questo fosse entrato in funzione
e fosse stato in grado di assumerlo. Egli riferì che sir Godfrey Huggins era d'accordo per conto
della Rhodesia del Sud e promise che più tardi la Rhodesia del Nord avrebbe sostenuto anche
Kariba. Nello stesso tempo creò la Kafue River Hydro-Electric Authority, nella quale erano
fortemente rappresentati gli interessi dei produttori di rame. Kariba sembrava condannata,
almeno per il momento.
È doveroso un breve cenno su lord Malvern, che, in veste di Primo ministro della Federazione,
contribuì in modo decisivo all'attuazione del progetto di Kariba. Il molto onorevole visconte
Malvern ebbe il titolo nobiliare quando battè il primato di sir Robert Walpole che era stato il
Primo ministro rimasto ininterrottamente in carica più di ogni altro in tutto il Commonwealth.
Nato a Bexley nel Kent nel 1883, venne in Rhodesia nel 1911 come medico locus tenens per
sei mesi, ma decise di restarvi. Dopo il servizio di guerra, nel 1921 divenne consulente
chirurgo e due anni dopo entrò in parlamento. Nel 1932 fondò un proprio partito e fu nominato
Primo ministro nel 1933. Benché si sia ritirato dalla politica attiva - non si presentò alle
elezioni generali della Federazione del 1958 -, la sua autorità non è mai diminuita. È tenuto
nella massima considerazione dai molti rhodesiani di vecchio stampo, che egli ha guidato per
un sentiero politico progressivo, lungo il quale essi non avrebbero seguito nessuno all'intuori
di lui. Tutto ciò che andava bene per «Huggie» andava bene per loro, anche se era contrario ai
pareri che essi esprimevano energicamente mentre bevevano la birra fresca.
Egli impiegò tutta la sua furbizia e risolutezza politica al servizio delle sue larghe vedute. In
questo, come nel timbro acuto della voce, assomigliava a Cecil John Rhodes, del quale
consolidò l'operato nell'Africa Centrale. Kariba, per giungere a buon porto, aveva bisogno di
tutta la prudente sicurezza di Malvern, di tutta la sua coraggiosa preveggenza, di tutto il suo
prestigio. Senza di lui non sarebbe oggi un fatto compiuto.
Nella prima seduta del nuovo parlamento federale, nel marzo 1954, sir Malcolm Barrow,
allora ministro dell'Industria e del Commercio, presentò il progetto di legge sull'energia
idroelettrica. Durante il dibattito, sir Malcolm annunciò che il progetto di Kafue sarebbe stato
messo in opera per primo. Ciò significava che il governo federale ratificava e si assumeva la
responsabilità di realizzare l'accordo che dava la precedenza a Kafue. Così era stato deciso, e
così - molti pensavano - sarebbe stato. Kariba sarebbe tornata agli ippopotami, agli elefanti ed
ai coccodrilli, benché questi ultimi fossero stati decimati dai cacciatori bianchi che ne avevano
fatto strage per le loro pelli. Nyaminyami non sarebbe stato spodestato.
Gli ascoltatori non diedero molta importanza alle parole di lord Malvern quando precisò,
durante il dibattito, che la promessa della Rhodesia del Nord di finanziare Kafue non poteva
più essere mantenuta. Per un progetto di tale portata le autorità internazionali avrebbero
naturalmente prestato il denaro solo al governo federale. Questo era ovvio. Nell'eccitazione del
momento nessuno ricordò che anche quando lord Malvern commetteva apparentemente una
gaffe, poneva una pietra di fondamenta.
Le «autorità internazionali», nelle persone dei rappresentanti della Banca Mondiale, si
trovavano per caso non molto lontane, nell'Africa orientale, e nel maggio 1954, interruppero il
viaggio di ritomo in America per fare una visita a Salisbury. Per lungo tempo si negò
energicamente che la loro visita avesse un qualsiasi legame col finanziamento di un progetto
della Commissione federale per l'energia elettrica. Un anno dopo il dottor Andrew Kamarck,
uno dei consiglieri economici della Banca Mondiale, dovette ammettere che la missione del
1954 aveva discusso sui rispettivi pregi di Kafue e Kariba. Nel maggio, il signor Garfield
Todd, allora Primo ministro delia Rhodesia del Sud, annunciò che potenti interessi premevano
in favore di Kafue a danno di Kariba e che dalle ultime informazioni, non ancora rese note, il
progetto della seconda risultava più efficiente e più economico. Le parole del signor Todd
furono confermate dai fatti una settimana dopo, quando il signor Hany Oppenheimer
dell'Anglo-American promise che la propria organizzazione avrebbe aiutato il finanziamento
di Kafue. I sostenitori del progetto del Nord trassero un sospiro di sollievo. Il signor Todd
aveva le informazioni, ma sir Harry aveva i soldi.
Il 28 giugno, lord Malvern annunciò al parlamento federale che la Banca Mondiale era
disposta a prendere in considerazione un prestito per lo sviluppo idroelettrico nelle Rhodesie e
si riprometteva d'inviare una delegazione ufficiale; nel frattempo era stato accertato che Kafue
sarebbe costata molto più di quanto era stato calcolato in un primo tempo, mentre Kariba, non
solo sarebbe costata meno, ma poteva essere condotta a termine assai prima di quanto era stato
preventivato.
Egli spiegò che era necessario il parere di esperti. Era importante però che questi fossero scelti
tra i più competenti su scala internazionale e che fossero assolutamente indipendenti nel loro
giudizio. I francesi erano rinomati per i loro lavori nel campo idroelettrico, e pertanto egli
aveva invitato l'Électricité de France, l'ente nazionale francese di elettricità, a nominare un
gruppo di studio.
Il presidente della banca, aggiunse lord Malvern, aveva detto, nell'approvare l'idea, che ciò
«poteva ben facilitare i lavori della commissione della Banca Mondiale».
In altre parole la banca, il cui finanziamento era condizione essenziale per la realizzazione del
progetto, non era entusiasta di Kafue. Quando gli esperti francesi, Duffaut, Tisne e Misson,
vennero in Rhodesia e fecero i loro studi, fu colta l'occasione per sostituire la vecchia
Commissione per l'energia idroelettrica con un nuovo organismo. Nel Consiglio federale per
l'energia idroelettrica, come venne chiamato, Cowen e Haviland continuarono a rappresentare
la Rhodesia del Sud e due nuovi uomini, J. H. Lascelles e L. G. Hunt, che non sarebbero
sopravvissuti alla tempesta che si stava preparando, vennero nominati dalla Rhodesia del
Nord. Questo organismo avrebbe avuto la responsabilità dell'esecuzione di qualsiasi progetto
fosse stato approvato dal governo.
Ricordando che il precedente gruppo di esperti aveva deciso all'unanimità in favore di Kariba,
poteva essere considerato nient'altro che una congettura intelligente il cenno fatto da un
giornalista di Salisbury nel suo articolo politico verso la fine di agosto, che la missione
francese aveva deciso di non raccomandare Kafue. I francesi stesero due rapporti, uno su
Kafue e uno su Kariba; e certamente lord Malvern ne conosceva il contenuto quando, nel corso
di un'intervista ufficiosa con il rhodesiano Sunday Mail, pubblicata il 14 novembre 1954, egli
fece allusione a «importanti cambiamenti».
Il 5 gennaio 1955 fu chiaro anche all'osservatore meno attento che Kariba aveva di nuovo
buone probabilità, perché quello stesso giorno lord Malvern annunciò che non si sarebbero
potute prendere decisioni prima dell'arrivo della missione della Banca Mondiale, aggiungendo
che egli aveva chiamato un altro francese, il signor Andre' Coyne, per una relazione sui
rapporti.
Andre' Coyne, con i bianchi capelli a spazzola e il viso abbronzato, è un anziano signore dagli
occhi giovanili. Noto come uno dei più grandi ingegneri civili francesi, è stato invitato più
volte a dare il suo esperto consiglio su progetti di costruzioni in Canada, Australia, Stati Uniti,
Portogallo, India, Nord e Sud-Africa. Egli è peraltro una rara combinazione di ingegnere di
valore e di diplomatico il cui pensiero è così incisivo quanto i suoi modi sono gentili.
Senza dubbio era al corrente dei contrasti latenti e attenuò quanto più possibile il colpo nel
rapporto steso a Parigi il 9 gennaio, che completò senza aver visitato la Rhodesia. Entrambi i
progetti erano buoni, egli disse, entrambi necessari, ed era veramente compito di un
economista decidere tra l'uno e l'altro.
Però - e questo era il punto decisivo - le informazioni su Kafue erano piuttosto vaghe, e gli
sembrava che la sua funzione dovesse essere quella di fonte ausiliaria di energia al progetto
principale di Kariba.
Lord Malvern stava tendendo una fitta rete attorno ai protagonisti di Kafue, e la serrò ancora
un poco quando chiamò un nuovo gruppo di esperti, questa volta contabili britannici, i fratelli
Cooper, per esaminare le valutazioni finanziarie dei due progetti. Quindi, il 1° marzo 1955
fece una lunga dichiarazione al parlamento federale. Il Gabinetto aveva deciso di lasciar
cadere Kafue e di dar corso a Kariba.
Per due giorni Lusaka era stata inquieta per le voci che correvano, dato che qualche
indiscrezione delle novità era trapelata nella capitale del Nord, pare attraverso una teletonata di
un ministro. Fatto veramente strano, la Rhodesia del Nord non si aspettava ciò che stava per
capitare. Seguì un'esplosione di aspro risentimento che per qualche tempo minacciò
seriamente resistenza della giovane Federazione, e produsse una frattura tra il governo
territoriale del Nord e quello federale che forse non è ancora del tutto sanata.
Si parlò di secessione. A una riunione pubblica tenuta al cinema Carlton di Lusaka, novecento
persone affollavano la sala mentre quattrocento ascoltavano fuori la trasmissione dei discorsi:
fatto senza precedenti in una città dove una riunione si considera ben riuscita se vi partecipano
un ventina di persone. Una proposta per una petizione alla regina perché revocasse la
Federazione fu respinta di stretta misura. Allusioni alla «frode» e alla «sporca politica»
eccitavano la folla. Le frasi fatte si susseguivano accavallandosi confusamente quasi come la
folla stessa, finché una di esse prese nuovo vigore per la circostanza, quando tutti si misero a
gridare: «Siamo stati venduti!».
In mezzo alle bolle e alla schiuma, c'erano correnti pericolose. Il Nord era invidioso e
sospettoso del Sud, più progredito politicamente, e pensava che esso avesse favorito la
Federazione soltanto per impadronirsi di una parte delle ricche rendite del rame.
L'Amministrazione coloniale di Lusaka, prima abituata ad avere rapporti solo con Londra, era
seccata di doversi rivolgere a Salisbury.
Harry Nkumbula, leader del Congresso nazionale africano, colse subito l'occasione per
infiammare gli animi dei suoi seguaci africani, proclamando soddisfatto: «Ora anche gli
europei si rendono conto di non potersi fidare della Federazione» I cittadini più in vista di
Lusaka parlarono di formare un partito separatista. Fu infine mandata una petizione alla regina
e formato un comitato permanente di protesta sotto la presidenza del sindaco. L'Assemblea
legislativa della Rhodesia del Nord approvò all'unanimità un ordine del giorno che esprimeva
«disappunto e inquietudine per la decisione», e il segretario capo di Lusaka,
comprensibilmente irritato di aver appreso il primo annuncio degli avvenimenti dal giornale
del mattino, fece capire che egli riteneva il governo federale vincolato dall'accordo in cui la
Rhodesia del Nord aveva posto tanta fiducia. Uno dei due rappresentanti della Rhodesia del
Nord presso il Consiglio federale per l'energia elettrica, attaccò aspramente il progetto di
Kariba, e l'altro, J. H. Lascelles, rassegnò le dimissioni, dichiarando che il governo aveva
ignorato il Consiglio e basato la sua decisione «su informazioni inadeguate e cattivi
suggerimenti».
Ci volle molto tempo perché si spegnessero i clamori, persino dopo che André Coyne ebbe
dichiarato in una conferenza stampa che Kariba avrebbe prodotto l'energia più a buon mercato
del mondo. Poco dopo questa conferenza egli visitò per la prima volta la gola che in seguito
avrebbe visto molto spesso. Mentre tornava al campo dalle alture dalle quali aveva osservato il
fiume in basso, mormorò, quasi stupito dei compiti futuri: «Eppure Kariba non è un sogno»
CAPITOLO QUARTO
PRIME SCARAMUCCE
Si calcola che quando l'intero progetto idroelettrico di Kariba sarà terminato, probabilmente
nel 1971, il suo costo ammonterà a 113 milioni di sterline, e il suo potenziale sarà superiore a
1500 megawatt. Il primo stadio - in corso di esecuzione - avrà una capacità produttiva di 600
megawatt e verrà a costare poco meno di 80 milioni di sterline. La grandiosità dell'opera, a
paragone dello sviluppo del paese, risalta forse meglio tenendo presente che il bilancio
federale del tempo si aggirava sui 40 milioni di sterline e che la capacità totale di energia
installata era di poco superiore a 800 megawatt. Queste cifre dovrebbero anche indicare quanto
sia vasto il potenziale dell'Africa centrale. Le sue riserve incalcolabili di ricchezze minerarie
sono state appena intaccate e decine di milioni di acri di suolo fertile sono disponibili per la
produzione di alimenti e fibre. Ci vorranno molte chiavi per schiudere questa camera dei
tesoro alle popolazioni denutrite e malvestite del mondo, ma se ce n'è una senza la quale non si
può aprire la serratura, essa è l'energia elettrica.
Fu senza dubbio la consapevolezza di queste possibilità a orientare lord Malvern per la via che
egli seguì nel 1955. E quali che fossero i rispettivi pregi dei progetti di Kafue e di Kariba,
quest'ultimo aveva un evidente vantaggio politico sull'altro. Lo Zambesi segna il confine tra le
due Rhodesie, e il progetto di Kariba, egli può aver pensato, avrebbe contribuito a legare più
strettamente i territori in quella che è ancora una federazione molto malsicura. Probabilmente
l'instabilità politica che esisteva e che tuttora perdura nella Rhodesia del Nord, indusse i
finanziatori internazionali a preferire un progetto che potesse, in caso di emergenza, essere
trasferito interamente nell'orbita della più stabile colonia della Rhodesia del Sud. È da notare
che la prima centrale di Kariba verrà installata sulla riva della Rhodesia del Sud, benché la
maggior parte della sua produzione iniziale sia destinata alle miniere di rame del Nord.
Se la controversia fra i progetti di Kariba e Kafue fosse continuata, sarebbe stata messa in
pericolo la stessa esistenza della Federazione, che rappresentava un successo personale di lord
Malvern. La sua audace decisione di dar corso speditamente al progetto di Kariba pose gli
oppositori di fronte al fatto compiuto del paese ormai impegnato a tal punto che non era più
possibile fare marcia indietro. Il rischio calcolato che egli affrontò stabilì un precedente che è
stato seguito da tutti quelli che ebbero a che tare con Kariba. La sua prima azione
sembrerebbe, a un esame retrospettivo, molto azzardata. Infatti se fosse finita in un fallimento
invece che in un brillante successo, egli sarebbe passato alla storia come un giocatore
temerario e irresponsabile.
Lord Malvern autorizzò la spesa di milioni di sterline per i lavori preliminari, pur sapendo che
la Federazione non avrebbe potuto finanziare il progetto e prima che una sola lira degli ingenti
prestiti necessari fosse stata formalmente promessa. Forse gli erano state fatte assicurazioni
private e non ufficiali, ma non prima del luglio 1955 la Banca Mondiale annunciò di essere in
linea di massima disposta a finanziare e non prima del gennaio 1956 il suo presidente, Eugene
Black, impegnò formalmente la Banca ma per una somma ancora non precisata. Il prestito
della Banca Mondiale era l'asse senza il quale la ruota della finanza internazionale non
avrebbe mai girato. In circostanze normali la più elementare prudenza avrebbe richiesto di
differire Kariba fino a quando i fondi della Banca fossero stati assicurati.
Sembra che le audaci vedute di lord Malvern abbiano ispirato gli altri. L'ultima delle numerose
relazioni, opera comune di Tisne e Coyne, scritta in seguito agli accertamenti da essi compiuti
sul luogo nell'aprile del 1955, non solo confermava il progetto di Kariba, ma diceva che si
doveva dare immediato inizio ai lavori. Se alcune opere essenziali venivano eseguite prima
delle piogge, che a Kariba cominciano normalmente a dicembre, si poteva guadagnare un
intero anno.
Bisognava preparare le strade di accesso, costruire una galleria di deviazione, la tura e gli
alloggi per gli operai che sarebbero arrivati sul posto quando fosse stato aggiudicato l'appalto
principale. Purché tutto andasse liscio in modo che il principale appaltatore iniziasse i lavori
appena accettata l'offerta, sarebbe stato possibile intrappolare il fiume durante il 1957.
«II resto,» dichiarava il rapporto in un momento di mancata preveggenza dei suoi autori, «non
sia che semplice routine»
Dimissioni e malcontento resero il Consiglio per l'energia idroelettrica uno strumento inadatto
a un'impresa che richiedeva una direzione unitaria. Il Consiglio fu ricostituito sotto la
presidenza di Duncan Law Anderson. In questo ingegnere civile, divenuto amministratore,
uomo di poche parole che dietro una calma imperturbabile nascondeva un sorprendente vigore,
lord Malvern aveva l'elemento in cui poteva riporre la massima fiducia per la riuscita del
progetto.
Anderson aveva esercitato la professione d'ingegnere civile dal 1922 al 1939; fu poi
richiamato alle armi col grado di maggiore e più tardi prestò servizio come brigadiere nello
stato maggiore del generale Eisenhower e del generale Alexander. Dopo la guerra ebbe una
serie di incarichi amministrativi di primo piano, da presidente della Commissione unita angloamericana-jugoslava a ispettore della regione dei Caraibi per conto dell'Ente per lo sviluppo
delle colonie. Il servizio svolto nell'Africa centrale per conto di quest'ultimo e nel Tanganica
per l'Ente approvvigionamenti oltremare gli avevano fruttato un'ottima esperienza delle
condizioni locali. Uomo dotato di un'incrollabile sicurezza intcriore che non diventa mai
presunzione, egli è tanto sprezzante dell'opinione pubblica quanto, una volta presa una
decisione, indifferente alle critiche.
Entrò in azione con velocità vertiginosa. Nominò ingegneri consulenti della società Sir
Alexander Gibb e soci, la Coyne e Bellier e la Société Generale d'Exploitations Industrielles.
L'ingegnere capo del corpo di consulenza, un brillante sud-africano, il dottor Olivier, arrivò a
Salisbury il 26 giugno.
Il 23 giugno, appena un mese dopo la pubblicazione del rapporto finale Coyne-Tisne, fu
stipulato un contratto per i lavori preliminari.
Anderson fece la sua prima esperienza delle critiche pubbliche quando gli fu contestato d'aver
aggiudicato il contratto per 1.600.000 sterline senza indire una gara. Si limitò a rispondere
semplicemente che la normale procedura d'una gara d'appalto avrebbe causato un ritardo di
ventidue settimane. Fin dall'inizio, non si sottrasse mai a una decisione che soltanto un uomo
di integrità inattaccabile poteva permettersi nelle due Rhodesie dove l'affarismo politico e il
profitto privato non sono mai stati inseparabili. Cominciarono i preparativi per il grande
assalto. In prima linea, come si poteva prevedere, c'era il versatile Dipartimento
dell'Irrigazione della Rhodesia del Sud. La idea originale era di prolungare la linea ferroviaria
da Sinoia a Kariba - il tracciato, come abbiamo visto, era stato sufficientemente esaminato -,
ma non c'era tempo per eseguire questa costosa opera. Da Lion's Den, la stazione terminale
subito a nord di Sinoia, la strada principale per lo Zambesi a Chirundu era in grado di
sopportare il traffico pesante, secondo il tollerante standard rhodesiano di allora. A circa
cinquantasei chilometri a sud di Chirundu c'è una stazione per la lotta contro le mosche, dato
che si entra nella regione della tzé-tzé. Qui tutti i veicoli vengono esaminati e spruzzati di
insetticidi perche la mosca tzé-tzé, benché in tutta la sua vita si sposti con le proprie forze solo
per un centinaio di metri, può essere trasportata da veicoli o animali in zone non contaminate.
Subito dopo il posto di controllo di Makuti, un sentiero, staccandosi dalla strada principale, si
dirigeva verso Kariba, distante più di ottanta chilometri.
Quando A. Coyne fece la sua prima visita alla zona, fu accompagnato da Sir Malcolm Barrow,
ora ministro federale per l'Energia elettrica, e da J. H. R. Savory dell'onnipresente
Dipartimento dell'Irrigazione, che guidava i dieci uomini della spedizione. I due camion
contenenti l'equipaggiamento e le provviste si trascinarono penosamente per otto chilometri
sul sentiero, finché rimasero immobilizzati dal pantano e dovettero aspettare una settimana
perché i bulldozer venissero a liberarli. La comitiva trasferì tutto il materiale possibile dai
camion alle Land Rovers e, viaggiando su quattro ruote, arrivò finalmente alla gola. In questo
territorio sarebbe stata costruita la strada di accesso a Kariba dal sud, sulla quale sarebbero
passate macchine gigantesche e migliaia di tonnellate di materiale per la. costruzione della
diga.
La spesa per la costruzione di una strada inghiaiata lunga ottanta chilometri era stata calcolata
un milione di sterline, ma il tempo era il fattore più importante. La strada doveva essere
completata, per reggere il traffico, con qualsiasi tempo prima del mese di dicembre, altrimenti
Kariba sarebbe rimasta isolata per cinque mesi come sempre accadeva durante la stagione
delle piogge. Gli esperti dissero che il lavoro non poteva essere eseguito in così breve tempo.
Savory, come molti rhodesiani della sua generazione, aveva una profonda conoscenza del
veldt, e sapeva che il piu esperto costruttore di strade in Africa è l'elefante: basta che l'uomo
segua il sentiero battuto dagli elefanti.
Se a Savory fosse stato permesso di ignorare i tracciati ufficiali e costruire lungo il cammino
che gli elefanti avevano percorso per centinaia di anni, egli avrebbe dato al Consiglio per
l'energia elettrica la strada di cui aveva bisogno e per di più l'avrebbe consegnata in tempo. Un
progetto per la produzione di arachidi nell'Africa orientale era naufragato in un costoso
fallimento poiché i piani per addomesticare la regione erano stati decisi sulle scrivanie di
Londra.
Può darsi che Anderson ricordasse questo precedente, avendo prestato la sua opera
professionale nella liquidazione del disastro provocato dai burocrati; e la proposta, che sarebbe
stata certamente respinta con un sorriso da un esperto che vedesse l'Africa soltanto come una
estensione sottosviluppata del Kingston-by-pass, fu accettata. La politica di lord Malvern, di
arrischiare tutto su una posta intelligente, faceva scuola.
Questa era la regione nella quale Jeffares aveva camminato col suo ombrello: un terreno di
burroni franosi e di fitte macchie spinose, dove il cielo è appesantito dalla foschia del calore e
dal fumo di migliaia di fuochi che sempre ardono in Africa. Durante il loro lavoro i costruttori
della strada trovarono un bulldozer abbandonato, costretto all'immobilità nel corso di qualche
impresa ormai dimenticata. Ecco con quale celerità l'Africa cancella le tracce di chi soccombe
nella lotta contro di essa. I giovani ingegneri del Dipartimento Irrigazione si misero all'opera
con un'allegria quasi impudente. Con il sistema di quando erano nell'esercito, che molti di essi
ricordavano ancora, «conquistarono» una ruspa che ritenevano inadeguatamente impiegata al
nuovo aeroporto di Kentucky, allora in corso di costruzione fuori di Salisbury. Partirono alla
volta della lontana Nairobi e di Lourenço Marques, alla ricerca di macchinari. Un 'Euclid'
venne trasportato da Mbeya per 1330 chilometri in due giorni, celerità eccezionale anche per
una macchina veloce, e fu messo all'opera il terzo giorno. È quasi vergognoso che il rapporto
ufficiale liquidasse quegli sforzi con le parole: «e fu noleggiato altro macchinario»
In luglio il lavoro cominciò, e in quello che era ancora un soggiorno preferito di elefanti e di
rinoceronti, venne raccolto un insieme di mostri egualmente maldestri ma ancora più potenti.
Le loro grandi mascelle d'acciaio e i loro corpi giganteschi avrebbero masticato e aperto la
strada attraverso la boscaglia. Alle macchine vennero applicate delle lampade in modo che il
loro lavoro potesse continuare la notte. Ogni distinzione scomparve fra gli uomini che
guidavano o facevano funzionare i ringhianti motori. Ognuno si prestava a qualsiasi lavoro,
lieto di mettere a profitto la propria forza o la propria abilità per far progredire la strada. Di
fronte a difhcoltà che di solito s'incontrano soltanto in tempo di guerra, le restrizioni d'uso e i
privilegi duramente conquistati nel loro lavoro erano dimenticati. I fogli paga degli operai
contenevano fino a centocincpanta ore di lavoro straordinario al mese, ore guadagnate in
condizioni di estremo disagio e non senza pericoli. Una citazione della rivista rhodesiana Thè
Outpost rinette bene lo spirito di questi uomini, pionieri di Kariba: La strada progrediva come
se fosse un'impresa di famiglia; ogni metro in più era un successo personale per gli uomini e
per il loro dipartimento. Man mano che procedevano, essi davano nomi commemorativi ai
tratti più difficili che venivano superando. Oggi, chi viaggia verso Kariba legge questi nomi
romantici sui cartelli indicatori. Sono riportati anche sulle carte topografiche federali e
giustamente non saranno mai dimenticati: Collina dell'accampamento, Cresta del rasoio,
Collina dei reni, Cresta della naja, Collo del bufalo, Collo del rinoceronte, Il bacino; e più
avanti: 'Pazzia di Savory', nome che avrebbe potuto essere un epitaffio per l'intera strada,
abbandonata e divorata dalla boscaglia famelica, se non fosse riuscita così stupendamente.
Infatti, il nome si riferisce a un tratto di tre chilometri che sgomenterebbe qualsiasi ingegnere
stradale: non c'era proprio alcun modo di attraversarlo.
Ma la strada doveva passare di lì a tutti i costi, e cosi fu. Il 2 dicembre caddero le prime piogge
torrenziali. Con un anticipo di meno di quarantott'ore il sentiero degli elefanti, come infine
venne chiamato, fu pronto a portare il peso di enormi autocarri con carichi pesantissimi,
rombanti sulla loro via verso la gola, un tempo silenziosa e solitaria. La breccia nelle difese
esterne di Kariba era finalmente aperta. Verso la fine del 1955, un visitatore sarebbe arrivato a
Kariba probabilmente per via aerea, atterrando su una breve pista che al principio poteva
soltanto accogliere i piccoli e vigorosi 'Rapides'. Se egli avesse prestato servizio durante la
guerra, quella pista gli avrebbe subito richiamato alla mente una testa di sbarco. Le retrovie
erano ancora disseminate dei resti di un esercito avanzante; un esercito, però, armato di arnesi
da costruzione. Cartelli di legno grezzo e insegne con figure simboliche indicavano i sentieri
sabbiosi verso i depositi di materiali, i quartieri generali delle unità, le mense, le latrine, il
posto di assistenza medica. Macchine fuori uso, mezzi cingolati e veicoli giacevano sparsi in
giro. Piccoli gruppi di uomini erano in continuo movimento sulle colline sovrastanti la gola,
quasi tutti in cachi, alcuni nudi sino alla cintola, altri in camicia da boscaglia, sciarpa,
pantaloni di fustagno e stivali da sabbia: la divisa non ufficiale delle armate del deserto. Ad
aumentare l'illusione, si aggiungeva il lontano fragore delle esplosioni dalle quali si levavano
nubi di fumo bianco e giallastro a vagare con la polvere nel cielo infocato. Quando la Land
Rover si arrampicava ballonzolando su per la collina, un rumore sordo e sussultante colpiva le
orécchie del visitatore, quel rumore che non è mai cessato per cinque anni: il rombo
'persistente dei giganteschi compressori e lo strepito dei diesel che ancora animano lo sfondo
della battaglia. Attraverso la gola egli poteva vedere le minuscole figure degli uomini al lavoro
attorno agli ingressi delle gallerie di esplorazione, scavate sui dirupi della riva nord. I neri e
bassi ingressi di queste gallerie spie* cavano sui toni grigi e bruni delle rocce; di quando in
quando lunghi sbuffi di fumo uscivano dalle loro fauci ogni volta che le mine squarciavano il
fianco della collina. Un lieve odore di esplosivo impregnava l'aria.
Molto più sotto, le acque nella gola apparivano calme, perché il fiume era al suo livello più
basso. Come tutti gli altri corsi d'acqua del Sud-Africa, lo Zambesi si ritira in un canale molto
stretto nei mesi asciutti, lasciando sco' perti, come rive sabbiose e rocciose, i fianchi del suo
letto. Il comportamento del fiume decise i tempi del progetto. In ottobre, lo Zambesi è al suo
più basso livello; comincia a salire sterline verso la fine di novembre, e continua cosi fino a
marzo, quando raggiunge improvvisamente il suo massimo livello. Questo si mantiene
normalmente per una o due settimane, quindi scende rapidamente e uniformemente sino alla
fine di agosto; dopo di che, cala con lentezza sino all'inizio del nuovo ciclo. Tra la minima e la
massima portata d'acqua registrata nella gola vi è uno sbalzo di oltre tredicimila metri cubi al
secondo. La piena arriva con una violenza travolgente; il fiume sale di trenta metri in una
quindicina di giorni. Sulla riva asciutta della sponda nord, le squadre della Cementation
stavano ponendo le fondazioni di una tura, una sottile struttura semicircolare in calcestruzzo
che serviva per tener lontana la corrente del fiume dal tratto di letto dove sarebbero stati
eseguiti i primi scavi per le fondazioni della diga. Anch'essi, come gli uomini che stavano
costruendo la strada di accesso, sapevano di dover vincere la gara con le piogge. Il lavoro
proseguiva giorno e notte, con turni di dodici ore, che stavano per diventare abituali a Kariba.
All'inizio, l'unico legame tra la sponda nord e la base sulla riva sud, era costituito da un
pontone a verricelli. Poi, in sette giorni, venne gettato attraverso il fiume un ponte di legno su
chiatte. Lungo il suo corso di circa tremila chilometri, lo Zambesi prima di allora era stato
attraversato solo in tre punti: a Livingstone e a Chirundu in Rhodesia ed a Sena nel
Mozambico. La tensione crebbe quando arrivò il mese di dicembre. Il termometro salì
rapidamente e gli operai lavoravano alla tura in uno spazio ristretto, assordati dal fracasso
delle macelline, con temperature che raggiungevano i 49 gradi. I montatori dovevano tenere
gli strumenti in secchi d'acqua invece che nei porta-attrezzi, altrimenti sarebbero diventati
tanto caldi da non potersi tenere in mano. Il medico del cantiere riferì dir la traspirazione degli
uomini era di quattro litri e mezzo al giorno. È straordinario il fatto che pochi di essi
diventarono irritabili per la tensione, benché fossero per lo più del Sud-Africa e della Rhodesia
dove gli operai specializzati hanno una tradizione di lavoro comodo e dove si crede
erroneamente nel luogo comune che l'uomo bianco non possa sopportare un prolungato sforzo
fisico nei paesi sub-tropicali. Alcuni operai, scoraggiati, se ne andarono, perché mai si cercava
di trattenere gli uomini che non potevano sopportare la fatica o il cui spirito non assorbiva
l'atmosfera prevalente di orgoglioso cameratismo. La grandiosità dell'impresa, resa peraltro
più ardua dalle improvvise sfide del fiume, dava a quasi tutti coloro che vi erano interessati la
sensazione di partecipare a eventi trascendenti le normali esperienze.
Brontolavano, si lagnavano come fanno i soldati, e si vantavano come vecchie reclute.
«Pensate,» dicevano ai visitatori che li ascoltavano stupiti alla mensa, «giù al cantiere la
settimana scorsa bisognava bere il tè alla svelta perché altrimenti diventava troppo caldo» Il 16
dicembre l'ingegnere direttore addetto alla tura annunciò: «Se ci saranno concessi ancora dieci
giorni saremo soddisfatti» Da quel momento, ogni minuto, un autocarro si trascinava giù nel
letto del fiume, rovesciava il suo carico e risaliva faticosamente la ripida sponda verso i
depositi di pietrisco e di sabbia. Ma alla vigilia del Natale del 1955, il fiume infierì con una
piena che portò via il ponte galleggiante e allagò le fondazioni della tura completate solo in
parte. Nyaminyami, si cominciò a mormorare, aveva manifestato l'intenzione di accettare la
sfida. Per tutto il resto della stagione delle piogge egli avrebbe risposto alle prime scaramucce
con una serie di contrattacchi, alcuni dei quali del tutto inaspettati. Nella storia dello Zambesi
non si era mai registrata una piena in cui il fiume avesse raggiunto due volte i livelli massimi,
in cui, cioè, dopo essersi ritirato, fosse poi risalito con nuovo vigore. È questo che doveva
succedere più tardi in quella prima stagione, dopo che era stato deciso di fermare il fiume.
Fu senza dubbio un caso, ma di simili casi dovevano capitarne ancora molti.
CAPITOLO QUINTO
PREPARATIVI PER LA BASE LOGISTICA
In questo primo scontro col fiume, l'uomo subì una piccola sconfitta tattica. La gara per il
completamento delle fondazioni della tura fu persa per pochi giorni, ma senza serie
conseguenze. Per sei mesi, nel letto dello Zambesi scomparve ogni traccia del lavoro umano,
eccetto i solidi piloni costruiti per reggere il futuro ponte stradale.
I lavori iniziali della tura furono coperti dalle acque, che nella notte di Natale si alzarono di
cinque metri. Le travi del ponte galleggiante, che sia nell'aspetto sia nei principi tecnici non
presentavano molta differenza dal primo ponte che Cesare costruì sul Reno, vennero spazzate
verso il mare. Solo una teleferica, con un carrello per il trasporto dei passeggeri e delle merci,
univa le due sponde. A Kariba rimasero delusi, ma restava da fare ancora tanto lavoro sulle
colline e al disopra del livello più alto della furia del fiume che non ci fu tempo per i rimpianti.
Il pericolo maggiore per il progetto stava ancora nelle liti fra le città della Federazione.
Cenerentola fu in quel Natale la pantomima preterita dai dilettanti di teatro. Le cattive sorelle,
chiamate Kafue e Kariba, si contendevano aspramente i lavori del principe. Nel pubblico c'era
chi aveva conservato il senso dell'umorismo, e chi no. Un lettore indignato scrisse al direttore
di un giornale locale che, poiché la parte del bacino dello Zambesi compresa nella Rhodesia
del Nord conteneva il 75 % dell'acqua contro il 10% contenuto nella parte della Rhodesia del
Sud, il fiume e tutti i suoi lavori dovevano appartenere al Nord. Un altro protestava che i sudrhodesiani avessero deliberatamente costruito la diramazione della strada per Kariba con un
angolo così stretto che un automobilista proveniente dal Nord, per poterla imboccare, era
obbligato a fare marcia indietro. Questo, egli dichiarava, era un losco stratagemma per tenere
lontani dal cantiere gli uomini d'affari di Lusaka.
Assieme ai risentimenti assurdi, ce n'erano anche di pericolosi. Quella che veniva descritta
dall'Economist di Londra come una disputa condotta «con un misto di alta tecnica e di
affarismo politico» cominuav a ancora. Fra i membri del parlamento federale fu lanciata una
campagna per ottenere l'annullamento della decisione. Il movimento guadagnò forza, e
raggiunse il culmine quando alla Camera fu presentata una mozione perché i lavori di Kariba
venissero interrotti. Sei dei nove parlamentari di secondo piano della Rhodesia del Nord si
astennero o votarono contro il governo dopo un aspro dibattito, al quale assistettero,
impassibili, un gruppo di rappresentanti della Banca Mondiale in visita.
Fu questo l'ultimo serio tentativo di rovesciare per vie costituzionali il progetto di Kariba. Ma
la campagna diffamatoria diventava sempre più astiosa. Si parlava di gravi errori nei calcoli
finanziari; si sparse la voce che le condizioni del luogo erano così insalubri che gli operai
africani «morivano come mosche» a causa dell'umidità e della malaria; e si mormorava, nei
bar e nei club, die si era scoperto che il letto del fiume era formato di roccia porosa per cui la
diga, se mai fosse stata costruita, sarebbe crollata. Benché la maggior parte di queste voci
fosse facilmente confutabile - i decessi per malaria, sino al luglio 1959, erano stati solo cinque
sui 20.000 e più indigeni che avevano lavorato a Kariba - , esse pregiudicavano lo sviluppo del
progetto. Una campagna contro il reclutamento di lavoratori africani nel Niassa ebbe un certo
successo, e il sospetto generale che i nativi nutrivano per Kariba crebbe a tal punto da creare
un serio intralcio nello sloggiamento delle tribù dalla zona destinata a essere allagata dalle
acque. Il progetto era uno degli argomenti usati per suscitare e poi infiammare quella
diffidenza verso la Federazione che alimenta il malcontento politico corrente. È una ironia
tipica del mondo africano che da una delle sue più grandi realizzazioni si prendesse motivo per
incoraggiare pericolose divisioni politiche. I consulenti erano occupati alla stesura della
relazione tecnica che i finanziatori avrebbero richiesto prima di prendere le loro decisioni.
Nella lontana Grenoble gli ingegneri cominciarono a costruire un modello della futura diga per
svolgere su di esso esperimenti allo scopo di stabilire sterline le dimensioni e la forma
definitiva. Vennero firmati diversi contratti per dar corso ai lavori preparatori nel cantiere, per
le forniture dei materiali, per un ponte stradale e una passerella pedonale, per il prolungamento
della strada di accesso dal sud e per una strada da Lusaka alla riva nord.
Prima dell'assalto principale al fiume, si doveva rafforzare la base logistica. Guardando una
carta delle Rhodesie, si può notare che il territorio a nord e a sud dello Zambesi porta
pochissimi nomi che non siano di fiumi. Le località indicate, anche se hanno un nome,
consistono, con tutta probabilità, in un pugno di abitazioni che in Europa o in America
sarebbero considerate a malapena un piccolo villaggio. È facile essere tratti in inganno da una
carta geografica, ma a chi si metta a studiare l'Africa sulle carte ciò accade quasi sempre. La
località di Karoi, ammesso che vi sia indicata, può essere scritta a caratteri grandi quanto
quelli di Baltimora o Bergen, ma il numero dei suoi abitanti, tra bianchi e negri, supera appena
il centinaio; Miami, che ne! passato era l'ultima tappa verso Kariba provenendo dal sud, ne
raccoglie a stento una ventina.
Nel cuore di questo territorio, dove il numero dei capi di selvaggina è infinitamente superiore a
quello degli esseri umani, e dove fino a poco tempo fa non esistevano costruzioni di maggior
mole della tenda o della capanna di fango ed erba, venne fondata una cittadina che, in due
anni, sarebbe diventata la sesta, in ordine di grandezza, della Federazione, molto più popolosa
della capitale del Niassa. La maggior parte delle costruzioni e degli impianti urbani - case,
negozi, banche, scuole, ospedali, luoghi di riunione, strade, servizi elettrici, impianti idrici e
fognature - fu affidata alla ditta Richard Costain. Il contratto fu firmato nel febbraio 1956; il
termine stabilito era di due anni, ma i lavori vennero compiuti in diciannove mesi. Il costo fu
più di tre milioni e mezzo di sterline. Tutto l'occorrente, dai bulldozer alle maniglie delle
porte, dai cucchiaini alle betoniere, dovette essere trasportato, nell'ultima parte del viaggio, per
oltre trecento chilometri di strade ancora allo stato primitivo. Oltre a duemila indigeni, furono
impiegati uomini provenienti da quasi tutti i paesi dell'Europa e del Sud-Africa.
Qualunque cosa stesse per accadere lungo il fiume, le alture di Kariba avrebbero portato per
sempre l'impronta dell'uomo.
Quando, nelle quarantotto ore che seguirono la firma del contratto, il gruppo avanzato di
Costain arrivò al cantiere, a Kariba già lavoravano trecento europei e un migliaio di indigeni.
La maggior parte di essi viveva sotto teloni di canapa o iuta spruzzati di cemento; da questo
brutto e disordinato accampamento s'irradiavano delle strade rudimentali. La futura cittadina
sarebbe sorta fra le cime delle alture, trecento metri più sopra. Le strade di accesso ai punti più
importanti della città non erano state ancora completate. Imperterrito di fronte a tale
spettacolo, il primo piccolo convoglio, prima di muoversi lentamente e faticosamente verso il
teatro delle future operazioni, si fermò solo per scambiare grossolani saluti con gli abbronzati
e barbuti rappresentanti della vecchia brigata di Kariba, che si erano riuniti per attenderne
l'arrivo. In testa venivano i bulldozer che aprivano il passaggio attraverso la fitta boscaglia.
Sulla loro scia avanzavano i giganteschi trattori con le quattordici carovane, dipinte coi colori
blu e grigio dell'impresa, che avrebbero costituito il quarder generale. Il viaggio fino alla
sommità della collina richiese quasi tutta la giornata, ma prima che gli uomini potessero
riposare, fu necessario scavare sul ripido pendio un ripiano per ogni carovana. All'alba del
giorno seguente ebbero inizio i lavori. Da Salisbury arrivavano rinforzi giornalmente. In un
mese le opere essenziali preliminari Furono compiute. La cava era in attività, era stata
costruita una fabbrica di mattoni e di blocchi di cemento, installati i serbatoi e le pompe per
rimpianto di distribuzione dell'acqua; la centrale elettrica provvisoria era già in funzione, erano
state montate le linee di trasmissione e il lavoro di spianamento era iniziato. A voler descrivere
dettagliatamente tutto quello che fu fatto a Kariba, da un resoconto di audacia e d'ingegnosità
umana si finirebbe in una monotona elencazione. In venti mesi fu costruita una cittadina che
sarebbe stata abitata in gran parte da italiani, e che, come la loro capitale, giaceva su sette
colli: Pan di zucchero. Colle del campo, Picco, Colle delt'ospedale. Colle aereo, Kariba alta e
Giogo del trovante. Il villaggio africano era distante circa cinque chilometri e situato
quattrocentocinquanta metri più in basso. Chiamato dapprima l'«arrangiamento», poi
l'«alloggio»» oggi, dato che la nomenclatura segue di pari passo le vicende politiche, è
classificato come città a sé, chiamata Mahombekombe, che significa «Riva del lago».
Benché il lavoro dominasse la vita di ciascuno, si era ancora in un periodo di giorni
spensierati. I problemi da affrontare erano immensi, ma gli ostacoli venivano superati in
un'atmosfera di gaia avventura. Era una compagnia di giovani - l'età media degli ingegneri e
degli ispettori non superava i 35 anni - e ad ascoltarli si aveva l'impressione che l'intero
progetto fosse un grandioso divertimento. In tutto ciò che essi facevano c'era una specie di
spavalderia. Raccontavano, per esempio, la storia di un balletto: uno dei pochi gruppi di artisti
di varietà che andò a Kariba. Erano un uomo, una ragazza e un pianista. Arrivati la mattina
presto, i tre rimasero sconcertati nel vedere il luogo ove avrebbero dovuto esibirsi: quattro
pareti nude e nient'altro. Ebbene, la sera stessa era stato costruito il palcoscenico, installato un
completo impianto di illuminazione, sistemata la platea con panche, seche e persino un tappeto
rosso. Praticamente in un giorno era stato costruito un teatro.
Allo spettacolo non mancarono interruzioni. Il pianista si era esercitato nel pomeriggio,
probabilmente per familiarizzarsi con le bizzarrie e le stonature dell'unico pianoforte di Kariba
che, nella birreria in cui era tenuto, era stato protetto dal caldo con frequenti libagioni. Mentre
egli suonava, gli uomini costruivano il tetto. Alla premurosa domanda se il rumore lo
disturbasse, si alzò e rispose con grave formalismo tedesco: «Niente affatto» Ma quando, la
sera, iniziò il programma con un a solo di pianoforte, e un ritardatario salutò i suoi amici con
un sussurro furtivo, il pianista chiuse rabbiosamente il piano e si allontanò a lunghi passi dal
palcoscenico. Fu necessario che una delegazione gli assicurasse che da allora in poi sarebbe
regnato un silenzio assoluto, e allora egli riprese lo spettacolo. Venne quindi il momento dell'a
solo del ballerino, un'interpretazione del Cavalier à la mode. Fra le quinte, con gli occhi
spalancati, un elettricista negro, che non aveva mai visto il teatro, era così affascinato dalle
movenze dell'artista che dimenticò di azionare le luci. Il ballerino avanzò ritmicamente verso
l'orlo del palcoscenico, con la spada sguainata, e sibilando: «Verde, idiota!» fece un affondo
verso le quinte. Il corpulento negro fuggì con urla di terrore cercando scampo fra gli spettatori.
Ma gli uomini di Kariba non si compiacevano d'impressionare soltanto gli artisti in visita. Per
vincere una scommessa con un architetto che arrivò un lunedì sera. Con le piante di una casa,
essi la costruirono prima che il suo aereo decollasse per Salisbury il giovedì seguente. Eressero
una banca in nove giorni. Quando mancava solo una notte per completare la palazzina
dell'aeroporto nel tempo di record che si erano imposti, le dattilografe, che erano al lavoro
dalle 6,30 del mattino, si unirono ai guidatori dei bulldozer per dipingere il fabbricato alla luce
dei fari dei camion e delle Land Rover disposti in cerchio.
L'estremità della pista di volo era ostruita da una piccola elevazione: con una serie di potenti
esplosioni, la protuberanza incriminata venne soffiata via dalla faccia della terra. L'ospedale
era situato sulla cresta rocciosa di una ripida altura; per creare il piano su cui ora si eleva
l'edificio con settanta letti, l'intera sommità fu tagliata di netto come un'arancia col coltello.
Lavorando per lunghe ore, rimanevano loro poche energie per divertirsi, ma bevevano
enormemente. Quando arrivarono, l'unica acqua disponibile era quella portata in botti dallo
Zambesi, che naturalmente non era potabile; al solo vederla dava il disgusto tanto che parecchi
tipi schifiltosi si radevano con il seltz. Molti preferivano la birra al tè bollito con acqua dello
Zambesi, e la usavano anche per inumidire i corn flakes della colazione. Nel corso di sei mesi
trecento uomini fecero fuori quasi duecentocinquantamila bottiglie di birra e ventimila di
liquori. Queste cifre pantagrueliche sono da considerare in rapporto alle condizioni nelle quali
essi vivevano. Per esempio, quando furono costruite le prime case, non vennero mai accesi i
boiler elettrici, perché venivano usati per conservare l'acqua potabile che scorreva più fresca
dal rubinetto dell'acqua calda che da quello dell'acqua fredda.
La birra, quando la decenza lo permetteva, veniva conservata nell'obitorio, costruzione che,
nella sua struttura, rifletteva mirabilmente lo stato di confusione attraverso il quale la Rhodesia
odierna sta passando nell'evolversi dalla rigida segregazione verso la collaborazione razziale.
L'obitorio aveva due ingressi separati alle estremità, uno per i morti europei e l'altro per quelli
africani; entrambi però conducevano alla medesima lastra per tutte le razze. «Nella morte,»
dicevano i giovani ridendo, «non siamo divisi» Anche le donne bianche, benché nel 1956
nell'esiguo rapporto di uno a trenta, cominciarono ad avere la loro parte a Kariba. La prima a
giungere nel cantiere come impiegata fu la signora Grace Everett, che faceva da segretaria a un
rappresentante dei consulenti: una giramondo che aveva lavorato in luoghi lontani come la
Cina, il Pakistan, la Svizzera e il Kenya. Questa piccola donna spiritosa, la cui esuberanza si
alterna a momenti in cui ella si ritrae bruscamente dalla conversazione racchiudendosi in un
ironico silenzio, è sempre rimasta a Kariba con l'intenzione di rimanervi sino a quando il
progetto non fosse terminato. Al suo arrivo non era sola, perché, pur essendo partita la signora
Martens, due altre donne avevano raggiunto nel cantiere i loro mariti. La maggior parte delle
mogli che arrivarono nei mesi seguenti provenivano dalle fattorie della Rhodesia o del SudAfrica ed erano abituate a dividere le privazioni dei loro consorti nella boscaglia, secondo la
dura tradizione dei pionieri. Sapevano usare il fucile, come cambiare i pannolini a un bimbo, e
per lo più erano molto pratiche in tutt'e due i campi. Ma non molto dopo troviamo madame
Lucienne Pares, moglie di un ingegnere francese, che cerca di creare, con il suo buon caffè, la
sua mordace e incisiva conversazione e l'indomabile eleganza, un'atmosfera da salotto nella
piccola stanza con tappeti della casa prefabbricata, un salotto a pochi chilometri dalle
pozzanghere dove gli ippopotami e gli elefanti sfidavano ancora il rumore degli uomini sulle
alture, per venire di notte ad abbeverarsi. Cominciavano a sorgere i primi problemi domestici.
Una fotograna dei primi tempi mostra la signora Mavis Annibald che, accoccolata fuori della
sua casetta di alluminio, accende il fuoco con pezzetti di legno per scaldare il latte del suo
piccolo Colin.
Il 4 giugno nacque a Kariba una bambina europea, la prima di oltre un centinaio. Era la figlia
della signora De Witt, moglie di un meccanico assegnato a uno dei campi più isolati, molto
lontano dalle altre abitazioni. Un'amica, ostetrica, che era venuta per stare con i De Witt, aiutò
la bimba a venire alla luce. L'atmosfera da campo militare si stava a poco a poco trasformando
in quella di una colonia. Il gruppetto originario dei lavoratori era stato rinforzato da centinaia
di uomini di una dozzina di nazionalità diverse. Tuttavia il visitatore "non poteva ancora avere
l'impressione che fossero avvenuti grandi cambiamenti nella gola. Lord Llewellin, primo
governatore generale della Federazione, il 10 maggio, tagliando un nastro con un paio di
forbici d'oro, inaugurò il più lungo ponte pedonale sospeso del mondo. Sopra il tavolato di
duecentodieci metri che beccheggiava e rollava dolcemente come il ponte di una nave in un
porto tranquillo, era di nuovo possibile passare a piedi da una riva all'altra. L'unica cosa che si
poteva vedere del lavoro fatto dall'uomo nel fiume erano i piloni del futuro ponte stradale,
attorno ai quali la corrente vorticosa aveva una velocità da diciotto a trentasette chilometri
l'ora. Le fondazioni della tura erano ancora molto sotto la superficie del fiume e sarebbero
rimaste nascoste fin dopo la metà dell'anno. Un ciclone, chiamato nei bollettini meteorologici
«Edith», aveva colpito le sorgenti dello Zambesi, causando una seconda piena con un ritardo
senza precedenti, che aveva ridotto ulteriprmente il poco tempo disponibile per i lavori nel
letto del fiume.
C'era tuttavia da assolvere un compito urgente, col quale le forze primordiali dell'Africa non
potevano interferire. Si trattava dello scavo della galleria di deviazione sulla riva sud,
attraverso la quale avrebbe dovuto scorrere una parte dell'acqua dello Zambesi, mentre veniva
costruita la diga principale. Questa galleria, in pianta, era a forma di mezzaluna, con le due
estremità a monte e a valle della diga; lunga 395 metri, larga 10 e alta 12. Era la più lunga
dell'Africa, estendendosi per 1056 metri, comprese le gallerie di accesso. Per mesi e mesi si
sentivano nell'aria ventate di gelignite ogni volta che le esplosioni ali'avanzamento della
galleria frantumavano duecento tonnellate di roccia. Macchine dalle fauci ruggenti e dalle
membra rigide, simili ai mostri del Mondo perduto di Conan Doyle, o agli invasori del pianeta
Krong, secondo il gusto del lettore, si aprivano la strada divorando i detriti alla velocità di
centocinquanta tonnellate all'ora. Erano servite da tozzi dumptors su ruote, i quali andavano
all'indietro sino all'ingresso e versavano i loro carichi entro autocarri perché portassero la
roccia alla luce di quel sole che non aveva conosciuto per milioni di anni. Alle due estremità
della galleria furono lasciati sottili diaframmi di roccia, in attesa del giorno in cui sarebbero
stati fatti saltare per permettere alla calda acqua del fiume di irrompere attraverso lo scavo.
La parte preliminare era terminata; tutti i milioni spesi e tutto il lavoro compiuto avevano solo
reso possibile l'inizio del compito principale.
CAPITOLO SESTO
ARRIVANO GLI ITALIANI
Fin dall'agosto 1955, il governo federale annunciò il proposito di indire una gara per i
principali lavori di ingegneria civile a Kariba. Un annuncio che invitava le imprese interessate
a entrare in corrispondenza col governo, fu pubblicato in Africa, in Inghilterra, negli Stati
Uniti, in Francia, nella Germania occidentale, in Danimarca, in Svezia, in Olanda e in
Svizzera; ma, come si nota, non in Italia. Si sapeva che l'appalto sarebbe stato di almeno trenta
milioni di sterline, il più alto offerto alle imprese di costruzione dalla guerra in poi. L'Europa
aveva superato il periodo di disperata deficienza materiale e riparato il peggio delle sue
devastazioni; cosicché i paesi che poco prima non avrebbero potuto prendere in considerazione
il lavoro, ora disponevano delle necessarie risorse. La concorrenza era quindi accanita. Fu
presto evidente, però, che nessuna impresa da sola avrebbe potuto assumere il finanziamento e
l'esecuzione di un'opera così gigantesca. Seguì un periodo di nascosta attività durante il quale
vecchi rivali negoziavano segretamente tra loro per consorziarsi e presentare offerte congiunte.
Tutti questi gruppi, tranne uno poco conosciuto, erano di carattere internazionale. Fu dato
tempo fino all'aprile del 1956 per preparare le offerte.
Il 18 aprile, settanta buste vennero aperte a Salisbury dinanzi a numerosi giornalisti e fotografi.
La maggior parte delle offerte riguardavano la fornitura e l'installazione delle attrezzature
elettriche per un valore complessivo che eguagliava pressappoco quello dei lavori di
ingegneria civile, ma l'interesse pubblico era concentrato sul lavoro più spettacolare, la
costruzione della diga e le grandi centrali sotterranee. A. B. Cowen, a nome del presidente del
Consiglio federale per l'energia elettrica, aprì, impassibile, i sei grossi plichi che contenevano
le offerte per le opere di ingegneria civile, posò per i fotografi mentre esaminava un
voluminoso incartamento, e si ritirò sorridendo.
Sarebbe passato qualche tempo, egli disse, prima di poter annunciare una decisione. Il
pubblico, eccitato dalla competizione e convinto che egli avrebbe proclamato il vincitore dopo
un semplice sguardo alle cifre, si rassegnò ad attendere frenando l'impazienza. Offerte di tale
importanza erano determinate da tante condizioni che solo dopo un attento studio sarebbe stato
possibile metterle a confronto. Un'ulteriore complicazione era costituita dal fatto che il
consiglio, dopo gli esperimenti e le ricerche di Andre' Coyne, aveva deciso di aumentare
l'altezza della diga e pertanto le offerte dovevano venir modificate in conformità. Ciò
nondimeno, i bene informati, pensavano che la decisione sarebbe stata annunciata nel mese di
maggio in modo da permettere l'inizio dei lavori al più presto possibile durante la stagione di
magra. A metà giugno 1956 nessuna dichiarazione era stata fatta. Nacquero allora voci che
qualcosa di insolito bolliva in pentola. I più erano convinti che l'appalto sarebbe stato
aggiudicato a un consorzio con forti interessi britannici.
Non era stata data la parte del leone per i lavori preliminari alle due filiali africane delle due
imprese britanniche, Cementation e Richard Costain?
E la loro conoscenza dei problemi e il fatto che già si trovavano sul luogo non avrebbe dato
loro un grande vantaggio all'atto dell'offerta?
Verso la fine di giugno cominciarono a circolare delle voci, e i giornali riportarono la notizia
che l'offerta più bassa era stata presentata da un consorzio di cui non facevano parte imprese
britanniche. Nella prima settimana di luglio si seppe da Roma che gli italiani erano sicuri di
essersi aggiudicati il contratto, e a Salisbury fu confermato ufficialmente che l'offerta più
bassa era stata proprio quella italiana. A Londra, si stavano già adducendo delle scuse. Era
difficile per le imprese britanniche trovare dei capi cantiere e sorveglianti pronti a lavorare per
un lungo periodo nell'Africa equatoriale. La ricostruzione della City e delle altre città
bombardate aveva determinalo la piena occupazione nel campo edile e le compagnie
britanniche erano già sovraccariche di commissioni. Gli italiani erano aiutati da una
sovvenzione governativa e avrebbero dato paghe molto basse ai loro operai. Fra parentesi,
bisogna notare che la prima accusa fu smentita, e che i fatti hanno provato la falsità della
seconda. Ormai quasi tutti avevano indovinato che cosa stava in realtà succedendo. Dopo aver
mandato degli ingegneri ad assicurarsi della capacità degli italiani di eseguire il lavoro, i
consulenti avevano raccomandato di accettare l'offerta più bassa, come del resto desiderava lo
stesso consiglio. Dietro le quinte, il governo federale ricevette forti pressioni da parte di
interessi britannici perché non accettasse l'offerta più bassa, e la stessa opinione pubblica era
favorevole a tale punto di vista. La Rhodesia del Sud, in particolare, fino agli avvenimenti
politici più recenti, aveva aggressivamente mantenuto la sua lealtà al legame britannico. La
decisione fu ardua e dolorosa; ma, dopo esitazioni comprensibili, fu adottata quella giusta.
Il 16 luglio, un annuncio sui giornali rese nota l'assegnazione di contratti per un ammontare
complessivo di oltre 50 milioni di sterline. L'offerta di un consorzio italiano, denominato
Impresit, era stata accettata per i principali lavori di ingegneria civile: la sua offerta, di poco
più di 25 milioni e un quarto, era di circa un milione e mezzo di sterline più bassa di quella del
concorrente più vicino. Fu anche assegnato all'Italia il secondo dei maggiori contratti
particolari, dell'importo di circa 10 milioni di sterline, riguardante la costruzione della rete di
trasmissione lunga 1475 km. da Kariba attraverso alcune delle più selvagge regioni della
Rhodesia.
Le reazioni rhodesiane alla notizia furono contrastanti.
Oltre al naturale disappunto per il fatto che gli inglesi non avrebbero costruito la diga, si
temeva che un largo afflusso di operai italiani su una base di basse paghe potesse infrangere il
comodo schema della vita sociale e commerciale rhodesiana. Ma verso gli italiani c'era poca
ostilità e un rispetto e una simpatia considerevoli. Molti di loro, durante la guerra, erano stati
nei campi di prigionia che le autorità imperiali avevano stabilito in Rhodesia. Era stato
concesso loro un insolito grado di libertà dato che le condizioni geografìche della Rhodesia
costituivano una barriera più efficace del filo spinato; avevano familiarizzato con la
popolazione locale e fatto grande impressione per la loro perizia e industriosità. La campagna
è punteggiata di fattorie e altri fabbricati costruiti dai prigionieri italiani. La stampa locale
appoggiò cautamente la decisione. A Londra invece la decisione venne attaccata; ma «i
contratti», come scrisse l'Economist, «si fanno coi prezzi, non con le scuse». Nello stesso
periodo vennero concluse le complicate trattative finanziarie, così che i molteplici accordi per i
prestiti e i contratti furono firmati quasi con la stessa penna. La Banca Mondiale aveva
accordato un prestito di 80 milioni di dollari (pari a 28,6 milioni di sterline di allora); le
compagnie del rame che avevano miniere nella Rhodesia del Nord promisero 20 milioni, e la
Colonial Development Corporation 15 milioni, ma a un tasso di interesse così alto che questo
prestito verrà utilizzato il meno possibile. La differenza fu coperta con un contributo di 5,4
milioni del governo federale, 4 milioni della British South Africa Company, 3 milioni della
Commerciai Development Financial Corporation e 4 milioni delle banche Barclays e Standard.
Si noterà che il 40% del denaro venne da organizzazioni le cui rendite erano in gran parte o
esclusivamente guadagnate nella Federazione. Uno degli aspetti più sorprendenti dell'accordo
è che Kariba non è costata e non costerà un soldo ai contribuenti rhodesiani. Dato che i costi di
esercizio di un impianto idroelettrico sono trascurabili, i prestiti verranno rimborsati coi
proventi della vendita di energia elettrica, e gli interessi, prima che si abbiano utili di esercizio,
vengono pagati dal capitale. Altri dati finanziari: nelle gare per la fornitura di apparecchiature
elettriche, il 98 % è aggiudicato a fabbricanti inglesi; tenendo conto del denaro che gli italiani
avrebbero speso in Rhodesia e in Inghilterra, si calcolò che la componente straniera dei prestiti
a Kariba ammontasse al 22,5 % del totale, e che l'importo complessivo delle spese, meno il 23
%, sarebbe stato erogato nel Commonwealth.
Benché sia stato destino di Kariba di far nascere controversie in ogni suo aspetto, l'opera è
stata mandata avanti con una velocità che nessun altro lavoro di tale mole ha mai eguagliato in
tempo di pace. Andre' Coyne, che ha idee ben precise in proposito, disse:
«Ogni volta che si è trovato di fronte a una difficoltà, Lord Malvern è stato
audace nelle decisioni. A parte il profitto tratto dalla sua iniziativa, siamo stati
fortunati perché la Rhodesia è un paese sottosviluppato. Vi sono pochissimi
uomini politici e pochissimi tecnici, così che non abbiamo avuto intralci nello
svolgimento dei nostri compiti. Sir Malcolm Barrow ci ha protetto in
parlamento e, dopo che fummo nominati consulenti, non ha mai permesso
interferenze. Di solito invece gli uomini politici intromettono nuovi consulenti
a consigliare quelli in carica e bloccano ogni cosa in modo che non è mai
possibile prendere una rapida decisione. Nel 1955 fui interpellato per le dighe
di Assuan e di Kariba. Mentre abbiamo costruito Kariba, su Assuan si sta
ancora discutendo»
Un rilievo da lui taciuto per eccesso di modestia è che la celerità dell'esecuzione è dovuta in
gran parte alla precisa programmazione dei piani da parte dei consulenti. A Parigi, Grenoble,
Londra, Newcastle e Harlow, quattrocento scienziati e tecnici inglesi e francesi hanno
elaborato i centomila dettagli del progetto per poi coordinarli in un solo programma
concatenato. Sono stati preparati migliaia di disegni esecutivi. In seno al gruppo dei tre
consulenti, si è applicato il metodo che i piani formulati da uno di essi, cui era stata affidata la
progettazione di ogni particolare del lavoro, venivano controllati dagli altri due: pnx -edimcnto
insolito, che peraltro avrebbe potuto causare dissensi dato che due delle società consulenti
erano francesi e una inglese. Il capo di questo consorzio internazionale di consulenti è T. A. L.
Paton, un uomo dai capelli bianchi, dal viso fresco e porta gli occhiali; ha un aspetto benevolo,
gioviale; sembra un direttore di scuola che ancora si diletta a giocare al cricket. I suoi colleghi
francesi parlano di lui con calorosa affettuosità che ben di rado viene dimostrata a un inglese
dai vicini d'oltre Manica. Pur avendo avuto una parte determinante nel successo di Kariba,
egli, come tutti i maggiori interessati nel progetto, cerca sempre di attribuire il merito ad altri.
In particolar modo, ne fa lode agli appaltatori.
Prima che il lavoro di Kariba sia finito, più di cento società vi avranno preso parte
direttamente. Abbiamo già accennato al contributo delle organizzazioni Cementation, John
Laing e Richard Costain. Fra le imprese che per prime eseguirono i lavori preliminari, quella
del Kenya di A. G. Burton rappresenta l'apporto dell'Africa Orientale a un'iniziativa alla quale
ha partecipato quasi ogni paese del mondo libero. Burton costruì la strada di ottantaquattro
chilometri che collega Kariba con l'autostrada di Lusaka, sulla quale sono già passate
quattrocentomila tonnellate di rifornimenti e apparecchiature. La maggior parte del personaie e
delle attrezzature della Burton arrivò in convoglio per via di terra da ogni parte dell'Africa
Orientale percorrendo in sette settimane e mezzo i tremiladuecento chilometri di distanza dalle
montagne del Ruwenzori in Uganda.
A. G. Burton, uomo di taglia massiccia come un agricoltore, con un grosso naso, partecipò di
persona al lavoro fin dall'inizio controllando paternamente ed energicamente il suo gruppo di
90 europei e 900 africani. La loro zona era la più calda di Kariba, e quando essi smuovevano la
terra si levava una polvere gialla, fine come cipria, ma molto più irritante. La loro impresa, in
quel territorio selvaggio e senza acqua, in circostanze normali, avrebbe attirato l'ammirazione
che si meritava, ma, come molte altre, è stata oscurata dall'ombra della gigantesca diga nella
gola di Kariba. «Appaltatori» è un termine pedestre per definire uomini la cui perizia ed il cui
coraggio lascerà per sempre un'impronta sulla faccia dell'Africa, come non o mai svanito
dall'Europa il segno di coloro che costruirono le strade romane. Sulla carta, l'Impresit è un
consorzio di quattro Società e cioè: l'impresa Umberto (rirola, l'impresa Ing. Lodigiani SpA,
l'impresa Dott. Ing. Giuseppe Tomo & C. SpA, tutte e tre specializzate nell'esecuzione di
grandi lavori idroelettrici, e la Imprese Italiane all'Estero SpA, soi^tà tecnico-finanziaria
specializzata nell'esecuzione di lavori all'estero, consociata della FIAT. In sostanza, TImpresit
era un corpo di un migliaio di europei o poco più, i quali, insieme con circa seimila manovali
africani, combatterono una battaglia triennale contro il più violento se non il più potente fiume
africano.
Nella quindicina successiva all'aggiudicazione dell'appalto principale, l'Impresit stabilì il suo
quartier generale a Salisbury. Il suo direttore generale in Rhodesia è il dottor A. Bergamasco:
uomo dotato di un temperamento calmo e affabile e di una pazienza sempre serena, è il tipo
ideale del capo di stato maggiore, al quale si può paragonare anche per il grado di
responsabilità. È alle dirette dipendenze del consigliere delegato dell'Impresit, dottor G.
Lodigiani, che risiede in Italia ma visita frequentemente il teatro delle operazioni, ed è
coadiuvato da un biondo toscano, l'ingegnere Mario Baldassarrini, il cui nome sarà forse
ricordato più di ogni altro da tutti coloro che hanno lavorato a Kariba.
Baldassarrini è l'ingegnere dell'Impresit direttore del cantiere. Uomo sotto la quarantina,
unisce lo slancio impulsivo di un giovane alla mentalità calcolatrice dei veterani. È
infaticabile, energico, impavido e al tempo stesso pieno di risorse, accorto e scaltro. Dotato di
ingegno vivacissimo e di corporatura straordinariamente vigorosa, la sua figura ricorda i
giganteschi e spietati condottieri del Rinascimento italiano. Egli dirige sia con i pugni sia col
cervello.
Venne in Rhodesia nel giugno 1956. Appena fu firmato il contratto, nel mese seguente, si
stabilì a Kariba. Si trovò subito di fronte a un arduo problema da risolvere. La Cementation
aveva ancora bisogno di parecchi mesi per terminare tutti i lavori del suo contratto, tra cui la
costruzione della prima tura. Pertanto i due appaltatori principali si sarebbero trovati a
svolgere in quel periodo il medesimo lavoro, situazione ovviamente irta di difficoltà. Venne
raggiunto un accordo, in base al quale l'Impresit sarebbe subentrata alla Cementation per la
rimanente parte del suo contratto, assumendo l'intera responsabililà del cantiere dal 31 agosto.
Il trapasso poteva dar luogo a gravi attriti fra gli impiegati della uscente Cementation, in
massima parte sudafricani e rhodesiani, e gli italiani della subentrante Impresit. Ma, grazie
soprattutto al tatto ed alla personalità di W. S. Garrett, rappresentante della Cementation a
Kariba, il comprensibile malumore dei suoi operai fu dominato e tutto si svolse senza incidenti.
Avvenne, anzi, che circa metà degli impiegati della Cementation rimase per eseguire lavori
speciali che l'Impresit subappaltò alla ditta inglese. Per dare un'idea dell'armonia che regnava a
Kariba, vale la pena di riferire le generose parole con le quali si espresse, in occasione delle
consegne, «Bill» Lodder, l'uomo che aveva diretto i lavori della galleria di deviazione. A chi,
con intenzione provocatoria, gli domandava che cosa ne pensasse, rispose: «Gli italiani sono
bravi ragazzi e faranno un lavoro di prim'ordine» Il 6 agosto arrivò a Kariba un'avanguardia di
cinquantasei fra ingegneri e operai dell'Impresit, e da allora affluirono rinforzi, direttamente
dall'Italia per via aerea, alla media di cento uomini al mese. La mano d'opera impiegata per
costruire la diga è straordinariamente specializzata e possiede un alto senso di disciplina. Tre
quarti sono regolari dipendenti dell'una o dell'altra delle imprese associate; hanno spesso
lavorato assieme nel passato, e nelle ore libere si dividono in piccoli gruppi omogenei.
Provengono quasi tutti dalle provincie settentrionali dell'Italia. Era stato possibile attirare
l'élite degli operai italiani poiché in Europa la maggior parte, degli impianti idroelettrici sono
costruiti in località montuose dove non è possibile lavorare durante il periodo delle nevi e delle
bufere invernali. Di solito, perciò, gli uomini si trovano disoccupati per tre o quattro mesi
all'anno e la prospettiva di un lavoro continuativo a Kariba fu di forte incitamento. Il loro
contratto è di due anni e mezzo. Le paghe per gli specializzati variano da 5 scellini e 1 pence a
6 scellini e mezzo l'ora per un mese di 26 giorni equivalenti a 208 ore; gli straordinari sono
pagati con la maggiorazione del 25%. In media, ogni mese, vengono fatte 120 ore di lavoro
straordinario.
In più gli uomini ricevono un premio di fedeltà di 15 sterline al mese per i primi cinque mesi.
L'intero premio è versato su un conto speciale aperto per ciascuno di loro; dopo quel periodo,
5 sterline vengono accreditate e 10 pagate in contanti. Pertanto, alla fine del contratto, ogni
operaio ha un capitale di 200 sterline da parte. Vengono inoltre pagati premi di rendimento in
ragione di 5-10 sterline al mese.
Un carpentiere a Kariba percepisce in media 130 sterline al mese, con oscillazioni mensili da
un minimo di 110 a un massimo di 155 sterline. Inoltre, tutti gli impiegati hanno alloggi
gratuiti in appartamenti o in casette e possono usufruire della mensa che costa mensilmente
circa 15 sterline. Agli sposati è anche dato l'alloggio per la famiglia. Poiché Kariba offriva
poche occasioni di spendere, gli operai accumulavano in banca la maggior parte dei loro
guadagni o li spedivano regolarmente in Italia. Nonostante il duro lavoro, le paghe sono tali
che basta il pericolo del licenziamento a imporre un sufficiente controllo disciplinare. Ciò per
il fatto che gli uomini sono ammessi nella Federazione solo con un permesso di soggiorno
temporaneo corrispondente al periodo del servizio con l'Impresit, e quando, per qualsiasi
ragione, il loro impiego venisse a cessare, devono ritornare in Italia. Gli sposati vengono
incoraggiati a portare la famiglia, che in Italia normalmente significa diverse persone a carico
oltre alla moglie e i figli. L'avere con sé la propria famiglia è un altro lusso insolito. Quando
essi lavorano alla costruzione di dighe in Europa, vivono quasi sempre accampati malamente,
lontano da casa.
Queste sono le condizioni di lavoro degli uomini che sostituirono la Cementation nell'agosto
del 1956. A settembre essi erano già occupati agli scavi per il primo blocco della muraglia
principale. Bisognò prima di tutto asportare gli strati superficiali di roccia alterata fino a
raggiungere la roccia sana a una profondità da sette a otto metri. Dopo di che vennero praticate
iniezioni di cemento nel letto roccioso del fiume sino alla profondità di altri quindici metri per
riempire ogni fessura sotterranea e saldare nel terreno le fondazioni della diga.
Il 6 novembre, lord Malvern fu invitato a Kariba. Non ci fu una grande cerimonia quando egli
tirò la leva di una benna per liberare il flusso di due tonnellate di calcestruzzo. Il rumore
metallico della bocchetta che si apriva e il tonfo del calcestruzzo a stento potevano essere uditi
tra il rumore dei martelli pneumatici, delle pale meccaniche e degli autocarri pesanti che
circondavano il piccolo gruppo. Fu anche diffìcile afferrare le sue parole quando, tiratosi
lestamente indietro, disse con la sua voce sottile ed acuta: «Che Dio benedica tutte le persone
impegnate in questa grande impresa»
La pietra di fondazione della grande diga era stata posta; la lotta decisiva stava per iniziare.
CAPITOLO SETTIMO
LO SPOSTAMENTO DELLE TRIBÙ
Se tutto si fosse svolto secondo il programma, si calcolava che lo sbarramento dello Zambesi
sarebbe stato compiuto verso la fine del 1958. Benché si dovessero attendere tre o quattro anni
prima che il nuovo lago raggiungesse la sua estensione massima di oltre cinquemila chilometri
quadrati, l'acqua avrebbe cominciato a salire sterline rapidamente durante la stagione delle
piogge successiva alla chiusura della diga. Il territorio a monte della diga era stato esaminato
con cura e la futura riva del lago era stata contrassegnata con quattromila picchetti di pietra.
Quest'area era abitata da circa cinquantamila persone e da un numero incalcolabile di animali.
La popolazione che viveva a ridosso della gola, tranne un piccolo gruppo di Makorikori,
apparteneva alla tribù dei Batonka, la più primitiva delle tribù delle Rhodesie e la meno
influenzata da quella che, per ora, si considera come l'avanzata della civiltà.
Gli affari degli indigeni sono ancora di competenza del governo territoriale e non di quello
federale, così che due distinte autorità erano interessate alla sorte dei Batonka della vallata, le
cui terre avìte erano condannate. Essi vivevano su entrambe le rive dello Zambesi, così divisi:
circa tre quinti dipendevano dal governo della Rhodesia del Nord, a sua volta controllato dal
Ministero delle Colonie britannico; gli altri sotto il governo della Rhodesia del Sud, che di
fatto, anche se non ancora completamente di diritto, non è soggetto al controllo di Westminster.
Benché entrambi i governi della Rhodesia del Nord e del Sud si ispirassero agli stessi principi
- fare tutto quello che era umanamente possibile per le sventurate vittime del progresso - i loro
metodi differivano considerevolmente. Lo spostamento dei nativi sotto il controllo britannico,
ossia, di quelli che vivevano sulla sponda nord, fu accompagnato da resistenza armata e da
violenze, in conseguenza delle quali otto di essi vennero uccisi e più di trenta feriti. Fra i
Batonka che vivevano sotto la giurisdizione della Rhodesia del Sud non vi furono vittime.
L'esodo dei Batonka delle due rive si svolse in circostanze così diverse che è necessario
raccontarne la storia separatamente. Lo sfondo però è il medesimo.
Soltanto negli ultimi tre o quattrocento anni gli africani di lingua bantu cominciarono ad
attraversare lo Zambesi e a muovere verso sud, circa nello stesso periodo in cui gli afrikaner,
di lingua olandese, iniziavano il loro spostamento verso nord. Gli aborigeni del Sudafrica ottentotti e boscimani - vennero sopraffatti e, tranne un pugno di questi ultimi, sterminati dalle
due ondate di invasori, che a malapena li consideravano esseri umani. Fra le primissime tribù
di bantu che arrivarono allo Zambesi vi erano i progenitori degli attuali Batonka.
Questi «uomini della vallata» erano protetti dalle infiltrazioni, sia dal carattere inospitale del
loro territorio, sia dalla loro reputazione. Un secolo fa, avevano fama di falsità e scaltrezza.
Nessuno straniero era al sicuro fra loro, poiché il sistema tradizionale per guadagnarsi i favori
del capo era di portargli la testa di chiunque fosse stato scoperto ad attraversare il suo distretto.
I crani venivano esposti nel recinto del capo, e il numero e la varietà di essi erano la misura
della sua distinzione. Un'altra teoria sul loro passato è che i Batonka, come i cinesi, non
opposero mai resistenza agli invasori, finendo in tal modo con l'assorbirli nel proprio sistema
di vita. È noto, per esempio, che essi sfuggirono alle terribili scorrerie dei Matabele,
cooperando con loro. Finché non vennero sconfitti dai fucili Gatling delle colonne di Rhodes, i
Matabele riscuotevano tributi di uomini e di bestiame da tutti i vicini, e i loro giovani non
conseguivano la virilità sino a quando le loro lance non erano state bagnate di sangue in una
scorreria. Per penetrare negli allevamenti di bestiame delle tribù della Rhodesia del Nord essi
dovevano attraversare lo Zambesi, cosa che, per la loro paura ed ignoranza dell'acqua, non
sarebbe stata possibile se i Batonka non avessero fatto loro da traghettatori.
Per una ragione o per l'altra i Batonka furono lasciati stare e la loro cultura a stento superò l'età
della pietra. Erano grandi cacciatori e praticavano un'agricoltura primitiva, seminando due
raccolti di miglio all'anno, uno dopo le piogge e l'altro nel terreno alluvionale lasciato sulle
rive del fiume in seguito al reflusso delle piene annuali. Non conoscevano la moneta, e tra le
cose che la loro economia non procurava, i loro desideri erano limitati a collane, conchiglie di
ciprea e sale, che acquistavano barattando avorio e pelli. Erano organizzati con un sistema più
familiare che tribale, essendo il «capo» poco più che un capo di villaggio, e, come in tutte le
culture primitive, la successione seguiva la linea matriarcale. Le costruzioni più importanti e
caratteristiche dei loro villaggi erano i magazzini costruiti su pali, nei quali le messi venivano
conservate su alte piattaforme per proteggerle dalle formiche bianche. I polli tenevano a bada
queste terribili devastatrici quando tentavano di arrampicarsi sui pali verso le messi
immagazzinate.
Per quanto non siano mai stati uniti da alcuna forma di associazione politica, i villaggi erano
legati da un linguaggio comune, un dialetto bantu più d'ogni altro libero da infiltrazioni
straniere, e da varie consuetudini. Fra queste la più nota è l'estirpazione dei quattro incisivi e
dei due canini superiori. La credenza popolare che lo scopo fosse di rendersi poco attraenti agli
occhi dei razziatori di schiavi confonde la causa con l'effetto. I denti venivano tolti come
segno di identificazione, simile nello scopo, se non nelle conseguenze, all'operazione ancora
praticata dalle tribù di Shem. L'estrazione, che consisteva propriamente nel far saltare i denti,
veniva praticata ai ragazzi e alle ragazze, non appena raggiungevano la pubertà, da vecchi
specializzati in questa operazione. Gli adolescenti si assoggettavano volontariamente al dolore
di sentirsi martellare i denti con un'ascia o uno scalpello, essendo la loro immaginazione
esaltata dal significato religioso. Quando se ne chiedeva loro la ragione puntavano il dito verso
il cielo.
Il grande invisibile dio richiedeva il sacrificio come tributo per il privilegio di essere uomo o
donna. Con l'inizio del secolo, i ragazzi cominciarono ad abbandonare tale pratica, ma fra le
donne, più conservatrici, è sopravvissuta sino ad oggi anche se ormai viene eseguita raramente
e non più con il pronto consenso delle ragazze.
Entrambi i sessi inoltre si trafiggevano durante la fanciullezza la parte inferiore del naso per
infilarvi una spina. Questa non veniva tolta fino a quando non si poteva girare facilmente e
mettere al suo posto un bastoncino. Lo scopo era puramente decorativo, dato che il bastoncino
infilato nel naso era spesso adorno di perline di vetro. Il suo uso serviva evidentemente ad
attirare l'altro sesso, tant'è vero che veniva abbandonato dalle persone di mezza età e ripreso da
vedovi o vedove per indicare che erano di nuovo in cerca di compagno. Per lo stesso scopo le
orecchie dei bambini e delle bambine venivano forate in tenera età ed entrambi i sessi
amavano sfoggiare orecchini e gemme.
Le donne inoltre si dipingevano il viso e i capelli con ocra rossa, che, oltre ad aumentare le
loro attrattive, aveva un effetto profilattico in quanto creava un terreno sfavorevole alla
proliferazione dei parassiti nella capigliatura. Questo cosmetico, misto a grasso di capra,
scoraggiava gli approcci degli stranieri, ma non rappresentava un ostacolo per i Batonka, che
avevano una stretta familiarità con le capre. Al tempo in cui le coperte erano un lusso raro, le
vecchie avevano l'abitudine di spartire il giaciglio con la loro capra preferita per farsi
riscaldare. Gli uomini e le donne portavano gonnelle (non molto tempo prima gli uomini
andavano nudi). Quelle delle donne si distinguevano per lo spacco sui fianchi e perché di
solito erano di pelle; quelle degli uomini erano invece di stoffa, che preannuncia l'introduzione
del vestito maschile. È importante ricordare che queste notizie sui Batonka non riguardano un
lontano passato, ma la vita che essi conducevano quando vennero tracciati i primi rozzi
sentieri nella gola di Kariba. Alcuni Batonka andavano per brevi periodi a Ikilawayo, dove si
specializzavano nel compito di vuotare secchi in quelle parti della città dove la fognatura non è
ancora servita dall'acqua. Il solo altro contatto con la civiltà era la visita annuale del
commissario per gl'indigeni. I Batonka conoscono bene il commissario, I. G. Cockcroft, gli
sono affezionati e ne hanno fiducia. Fino a poco tempo fa egli rappresentava il favoloso e
lontano governo che, in cambio di una tassa di due sterline all'anno per ogni adulto, assicurava
loro la possibilità di farsi i propri affari senza essere disturbati dai nemici. Non desideravano
altro da qualsiasi governo, e d'altra parte il tributo richiesto, benché implicasse la necessità di
guadagnare denaro e pertanto di fare i viaggi a Bulawayo, era un fastidio minimo anche se
incomprensibile. I Matabele avevano preteso l'uso delle canoe, e i varungu, come è chiamata
la tribù dei bianchi, volevano due fogli di una speciale carta stampata che ogni uomo, andando
in città, poteva guadagnarsi in un mese portando semplicemente un secchio sulla testa. Fia un
prezzo modesto in cambio dell'indisturbato godimento delle terre che avevano dato loro la vita
e nelle quali riposavano gli spiriti dei loro morti. La notizia portata dal commissario che
l'acqua avrebbe allagato le loro terre e che essi dovevano spostarsi verso un territorio lontano,
arrivò come un fulmine a ciel sereno. Il ministro del Dipartimento per gli indigeni, P. B. (ora
Sir Patrick) Fletcher, nei mesi di agosto e settembre del 1955 accompagnò Cockcroft in un
giro nei villaggi interessati. Una generazione prima, Sir Patrick e Cockcroft erano entrati in
servizio insieme, poi uno aveva dato le dimissioni per fare l'agricoltore e l'uomo politico, e
l'altro aveva dedicato la propria vita al servizio degli africani. Ora si trovavano di nuovo uniti
in un compito per il quale le loro qualità si completavano. Sir Patrick nascondeva, sotto un'aria
di cane smarrito, un'astuta mente politica, e, qualunque cosa si possa dire di lui, è innegabile
che durante il suo incarico egli abbia dimostrato una determinata volontà, spesso impopolare,
di migliorare la sorte degli africani. Né all'uno né all'altro piaceva quello che dovevano fare.
«È una cosa terribile,» disse una volta Sir Patrick in una dichiarazione pubblica, «spostare
questa gente dalle loro terre natali, e noi lo facciamo con commiserazione e comprensione».
In ogni villaggio si ripeteva la stessa scena.
All'ombra di grandi alberi il ministro e il commissario stavano seduti sulle loro sedie di canapa
da safari, attorniati da un gruppo di funzionari minori e da vigorose ordinanze africane. Di
fronte, accoccolati sui loro sgabelli da cerimonia o seduti per terra, c'erano i capi e gli anziani.
Dopo un lungo e grave scambio di saluti, cominciava il lavoro degli indaba (Conferenza fra, o
con, indigeni sudafricani).
Pazientemente veniva spiegato ciò che stava per accadere e perché essi dovevano lasciare il
luogo. Nelle nuove terre, riservate per loro, potevano scegliere dove preferivano vivere. Gli
anziani non avevano fretta di rispondere. Scrutavano con i loro occhi vecchi e tristi il viso
dolente di Sir Patrick e l'espressione riservata, appena sorridente di Cockcroft, finché si
convincevano che, pur essendo incredibile quanto diceva loro l'uomo bianco, era purtroppo
vero che il fiume si sarebbe esteso sulle loro case.
Insistevano nella domanda: «Possiamo vedere le nuove terre dove dobbiamo andare?» «Com'è
oltre le colline?» «Possono andare prima i nostri giovani a cercare il posto per noi?»
Da novembre ad aprile, col cadere delle piogge che spazzarono i sentieri e mandarono i fiumi
in piena, le terre dei Batonka della vallata rimasero isolate dal resto della Rhodesia del Sud.
Soddisfatto che gli uomini delle tribù avessero accettato l'inevitabile, Cockcroft si mise
all'opera per preparare le loro future residenze. Si costruirono centinaia di chilometri di strade,
si arginarono i torrenti, si crearono pozzi d'acqua mediante perforazioni, vennero scelti fertili
appezzamenti di terreno e segnate le posizioni dei nuovi villaggi. Secondo i piani stabiliti, la
trasmigrazione doveva cominciare nel 1956, il trasferimento del grosso della popolazione nel
1957 e l'evacuazione dei pochi villaggi che sarebbero stati allagati per ultimi, nel 1958.
Quando il lago avrebbe cominciato a formarsi, tutti i Batonka si sarebbero trovati da quaranta
a duecentocinquania chilometri lontano dal pericolo e ben sistemati nelle nuove dimore.
Rispetto a questo, il programma per la sponda settentrionale era, come si vedrà, ritardato.
Ma quando Cockcroft e i funzionari che dovevano sorvegliare la trasmigrazione ritornarono
nella vallata alla fine delle piogge del 1956, trovarono quasi completamente distrutto il lavoro
svolto precedentemente. Benché fosse stata tagliata fuori dalla Rhodesia del Sud, la vallata era
rimasta aperta ai visitatori provenienti dalla riva settentrionale. Il Congresso Nazionale
Africano aveva deciso di opporsi a Kariba, e alcuni suoi emissari, inviati ad attizzare il
malcontento fra i Batonka della Rhodesia del Nord, erano anche passati sulla riva meridionale.
La loro propaganda assunse forme curiose, ma è difficile stabilire fino a che punto i
nazionalisti semi-istruiti si prendessero gioco, senza scrupolo, della credulità dei Batonka e
fino a che punto la condividessero. «È noto,» diceva la più importante delle loro
argomentazioni, «che Nyaminyami è il dio onnipotente del fiume. Egli non permetterà mai
agli uomini bianchi di assoggettarlo. Con un colpetto della coda distruggerà tutti i lavori fatti
nella gola»
Nyaminyami non è un mostro mitico come il dragone delle leggende popolari. Benché qualche
volta venga personificato come un grande animale-fiume, il concetto, in senso lato, della sua
esistenza è molto più profondo. La religione degli africani è tutt'altro che semplice. Essi
credono in uno spirito supremo, invisibile e immortale, che regola l'universo, la vita e la morte.
Non c'è diretta comunicazione fra lui e l'uomo, in quanto l'uomo non è che l'oggetto di una
delle sue tante cure. L'uomo è congiunto al dio supremo attraverso gli spiriti della tribù e della
famiglia, che sono pure immortali, ma si mantengono a contatto con i loro discendenti in vita
per mezzo delle diverse categorie di stregoni. E non solo l'uomo, ma ogni cosa al mondo sembra che venga oscuramente intuito - ha il suo legame con l'essere supremo attraverso i
propri spiriti.
Nyaminyami può essere definito in parte una semplice personificazione delle forze elementari
del fiume, come Thor personifica il tuono, ma non è questo il suo solo attributo.
Bisogna anche tener presente che i Batonka della vallata, almeno quelli della sponda
meridionale, non sono stati convertiti alla fede cristiana. Del resto in nessun luogo il
missionario ha avuto molto effetto sugli africani. Nella sua opera si ravvisa un mezzo di
educazione secolare più che spirituale. I benefìci della sua scuola sono apprezzati dal punto di
vista istruttivo e le bardature della sua fede sono rispettate per usufruire dell'istruzione. Un
africano si convertirà a una qualsiasi forma di cristianesimo con la stessa naturalezza con cui si
cambierà le scarpe, se vi troverà un vantaggio. Solo quei rari e umili maestri che comprendono
come la concezione africana di Dio sia degna di rispetto, anche se vaga come la loro,
guadagnano convinti proseliti. Ma per quanto siano profonde le radici della religione africana,
i suoi frutti sono spesso vuoti come quelli di qualsiasi altra fede. La credulità degli uomini
delle tribù africane non è molto diversa da quella dei contadini siciliani o degli evangelisti del
Galles. Non era difficile convincere quei semplicioni che Nyaminyami avrebbe scatenato la
sua collera sulla nuova città senza dio, Kariba, così come Jehova - paragone che probabilmente
non è stato fatto - punì Sodoma. Ma questo argomento suscitò in essi la sensazione di essere
traditi da Nyaminyami. E allora si cominciò a dire che gli spiriti delle famiglie e delle tribù
erano adirati al pensiero che la gente stesse per lasciare le rive del fiume.
Quei messaggeri del Nord esortarono la gente ad avere fiducia nel proprio dio. Se il popolo
non lo abbandonava, Nyaminyami lo avrebbe protetto. Avrebbe fatto in modo che l'acqua
ribollisse, e distruggesse il fragile «ponte» costruito dagli uomini bianchi a Kariba; o
altrimenti, avrebbe dato ai fedeli la capacità di vivere sott'acqua al sopraggiungere
dell'inondazione. Avevano portato delle carte con potere magico e le vendevano per conto del
dio. Il loro prezzo era di 150 lire sterline per un ragazzo, 218 per una donna, 305 per un uomo,
870 per un capo famiglia, 5.250 per un capo. Ben pochi non le comperarono. Si scoprì che i
documenti rilasciati ai capi erano copie di una petizione che Harry Nkumbula, il leader del
Congresso nella Rhodesia del Nord, aveva inviato alla regina chiedendo che il progetto di
Kariba fosse abbandonato, e non, come quelli dichiaravano, le copie di un messaggio che uno
spirituale «Ari» aveva avuto dal dio; i sottoscrittori meno importanti avevano ricevuto invece
una semplice tessera di iscrizione al Congresso. Due erano le strade che potevano essere
seguite da Cockcroft e Sir Patrick quando, trovatisi di fronte alla nuova situazione, videro che
fra molti Batonka si era sviluppata una forte resistenza al trasferimento. O discutere la
questione, come decisero di fare i loro colleghi della sponda settentrionale, col risultato che le
piene senza precedenti del 1957 e 1958 - quando Nyaminyami con un colpetto di coda spazzò
via i ponti degli uomini bianchi - confermarono in pieno gli argomenti degli agitatori; oppure
agire rapidamente mentre alcuni capi influenti dei Batonka erano ancora disposti a cooperare.
Sir Patrick si recò di persona nella vallata per discutere con gli uomini delle tribù. Egli chiarì
di nuovo le ragioni del trasferimento, spiegò che cosa era stato fatto e che cosa sarebbe stato
ancora fatto per aiutarli nelle nuove terre.
Il 15 agosto un convoglio di quindici autocarri si presentò in un villaggio in cui si trovavano
alcuni dei più rumorosi oppositori. L'evacuazione cominciò la mattina presto, senza alcuna
resistenza. Quando i Batonka videro che non arrivava nessuna delle minacciate diaboliche
conseguenze, accettarono l'inevitabile e l'operazione si svolse normalmente. Alla fine del mese
più di 1500 persone erano state trasferite nelle nuove dimore, una cifra che doveva essere più
che triplicata prima della stagione delle piogge.
In ogni villaggio, prima dell'evacuazione bisognava placare gli spiriti della tribù.
Essi sono generalmente associati ad alcune speciali figurazioni, di solito un albero liscio come
il baobab, talvolta uno stagno o una collinetta. Il rito variava; qualche volta consisteva nel
gettare nell'acqua una piccola effigie d'uomo fatta di erba: residuo, indubbiamente, dei tempi
in cui si sacrificavano esseri umani. Più spesso, alla vigilia della partenza, si svolgeva una
cerimonia durante la quale si beveva birra e veniva spiegato agli spiriti perche i Batonka se ne
andavano. Gli uomini del villaggio li rassicuravano come vecchi amici, dicendo che non era
per inimicizia e che gli spiriti sarebbero rimasti ancora e sempre nel pensiero di ciascuno.
Quindi avanzavano il suggerimento che gli spiriti prendessero in considerazione l'idea di
venirsene via anche loro, e da ultimo, con distratta cortesia, lasciavano cadere l'avvertimento
che se pensavano di combinare guai, vi erano attorno degli spiriti ancora più potenti che
avrebbero procurato loro dei dispiaceri.
All'alba del giorno dopo, i piccoli mucchi dei loro averi venivano riuniti nel centro del
villaggio. Roba da poco: ceste di grano, qualche pentola, talvolta un tamburo decorato o uno
strumento a corda ricavato da una zucca, lance, qualche pelle e un'ascia. Quando tutto era
pronto e mentre veniva fatto un controllo esatto di ogni oggetto e di ogni persona, le donne e
gli uomini stavano accoccolati in gruppi separati, parlando poco, e dando boccate alle loro
pipe hubble-bubble dalle quali il fumo di tabacco e di semi di miglio viene aspirato attraverso
l'acqua. Quando arrivava il momento di andarsene, erano i bambini che di solito rompevano la
tensione. Ridendo e schiamazzando, si arrampicavano sui camion come se si trattasse di un
gioco. Alla fine un po' di eccitazione si comunicava agli adulti, pochi dei quali avevano visto
prima di allora un veicolo a motore, e cominciavano anch'essi a sorridere e chiacchierare
mentre si sistemavano sui bagagli accatastati, pronti per la nuova avventura. L'ultimo a salire
sterline era il capo del villaggio o qualche anziano, custode del reliquiario. Col lento, dignitoso
passo dei Batonka, simile a un passo di danza, egli andava verso il reliquiario e ancora una
volta spiegava agli spiriti ciò che stava accadendo perché non rimanessero tutt'a un tratto
offesi o irritati nello scoprire che la gente se n'era andata.
Con gli occhi abbuiati dai pensieri che si agitavano nella sua mente, tornava senza fretta agli
autocarri, dove una decina di mani si sporgevano per aiutarlo a salire sterline al posto d'onore
che gli era stato riservato.
Una coltre di polvere stagnava sulla vallata mentre i convogli uscivano uno dopo l'altro per
iniziare il lento viaggio su per le ripide scarpate in una terra di fitta boscaglia, diretti verso il
sud. Cockcroft e i suoi assistenti stettero fino a diciotto ore al giorno sulle loro Land Rovers
guidando la gente e gli armenti. In sette settimane coprirono 230.000 chilometri per trovarsi
dovunque vi fosse qualche guaio in vista: un autocarro che si fermava in una zona dove
abbondavano bestie pericolose, un litigio sulla sistemazione di un nuovo villaggio, una
lagnanza sui luoghi di rifornimento d'acqua, una voce che le capre o il bestiame erano smarriti.
Se era necessario interrompere il viaggio di notte, la comitiva si sistemava in un
accampamento protetto da un recinto di rovi, uno «schermo», come veniva chiamato, dove
tutti potevano riposare e dormire senza essere disturbati dalle belve in cerca di preda. Quando
giungevano a destinazione, li attendeva un altro accampamento simile, e lì si fermavano per
cercare il luogo dove costruire le capanne.
Questo non era un compito insolito e mortificante, come potrebbe sembrare. Il villaggio
africano è un poco solido insieme di capanne fatte di canna, erba e fango, e anche in tempi
normali accade spesso che venga abbandonato per essere ricostruito altrove. Il vecchio posto
può essere stato infestato da qualche flagello; il suolo può essere stato coltivato sino ad
esaurimento, per cui si rende necessario lo spostamento verso una zona vergine, o può essere
accaduto che gli spiriti familiari abbiano espresso il loro malcontento per il vecchio posto.
D'altra parte, a impedire la nostalgia, c'era abbastanza da fare per sgombrare la nuova sede e le
terre da coltivare. Talvolta un vecchio che stava abbattendo un albero, credendo di non essere
osservato, interrompeva il lavoro, e si chinava a prendere una manciata di terra polverosa. La
esaminava tristemente, confrontandola col ricco fango alluvionale che aveva conosciuto, e
guardava fisso il cielo infuocato, così diverso dall'atmosfera della sua umida vallata. Scuoteva
la testa, lasciava scorrere la polvere tra le dita, e con rassegnazione riprendeva a vibrare l'ascia.
È «una cosa terribile», per un vecchio, essere separato dal suo lungo passato, come, per chi
muore, essere condannato a non congiungersi alla schiera accogliente dei suoi antenati, e a
dover errare solo, in una terra priva di morti. Un'antica e felice cultura era stata cancellata
dalla faccia della terra, e un'altra isola di individualità era svanita da quello che sta diventando,
sempre più rapidamente, un mondo uniforme.
Che la cultura fosse condannata in ogni caso, è una magra consolazione per chi lia adempiuto
il compito di affrettarne la fine. Cockcroft non è un sentimentale che si compiace di mantenere
allo stato primitivo plaghe di «pittoresco», dove esseri umani vengono conservati come
selvaggina, o come vecchi edifici per il piacere e l'istruzione delle masse standardizzate.
Nessuno meglio di lui conosce gli aspetti peggiori delle condizioni di vita dei vecchi Batonka,
quando la lebbra, la febbre nera, la bilarziosi, la dissenteria, la malaria, la framboesia e la
malattia del sonno, mutilavano, indebolivano e uccidevano. Egli ricorda le brutte stagioni
quando i bambini dalle gambe sottili e dalla pancia gonfia morivano di rame e quando vecchi e
vecchie inutili venivano abbandonati sui loro giacigli e volgevano tremando il viso contro la
parete senza un lamento. Egli ha avuto esperienza dell'atrofia di menti agili e vivaci, e sa
quanto siano vulnerabili, senza salvezza, coloro che non hanno una qualifica o un'istruzione in
una civiltà dominata dalla competizione e dal materialismo.
Cockcroft ed altri simili a lui sono decisi a far sì che i Batonka traggano benefici materiali dal
trasferimento. Ottomila chilometri quadrati di terra sono riservati a loro. Sono state costruite
scuole e i Batonka mandano con entusiasmo i loro figli a imparare quei simboli curiosi che
sembrano racchiudere il segreto della sapienza dell'uomo bianco. Una clinica di cento letti è
stata costruita per loro a Binga, dove può essere facilmente raggiunta dalle nuove dimore.
Specialisti dello «Sviluppo del paese», fra i quali lo stesso figlio di Cockcroft, stanno
insegnando loro nuovi sistemi di agricoltura: come si usano i trattori, come si cura la terra,
come si conserva l'acqua, come si fanno crescere i raccolti per guadagnare e non solo
sopravvivere. Vengono date loro regolarmente delle razioni e si continuerà a fornirle fino a
quando essi si saranno impadroniti delle nuove tecniche agricole e potranno di nuovo nutrirsi
da sé. I Batonka già cominciano ad acquistare stoffe occidentali, ad ambire biciclette e scarpe,
radio portatili e occhiali da sole; alcuni di essi hanno imparato a fare i negozianti e hanno
aperto botteghe per servire una popolazione che pochi anni fa sapeva soltanto barattare.
Benché siano stati sempre isolati e abbiano condotto una vita primitiva, hanno dimostrato di
possedere un alto grado d'intelligenza e, cosa più di tutte inattesa, una particolare disposizione
a lavorare con le macchine e a capirle.
I giovani e le giovani Batonka, dagli occhi chiari, lo spirito vivace e ben nutriti, affollano oggi
le austere aule scolastiche studiando attentamente le lettere ed i numeri. Fra una generazione,
forniranno la loro schiera di dottori, avvocati e impiegati, di sognatori e agitatori, di capi e di
malcontenti, da aggiungere al fermento dell'Africa.
Il gentile e cinico Cockcroft si lasciò un giorno sfuggire l'osservazione che l'errore della
maggior parte dei missionari e idealisti sta nel fatto che, invece di prendere la natura umana
così come è, costruiscono nella loro mente una personalità utopistica e vorrebbero convertire
ognuno in questo tipo. «Naturalmente, ciò conduce ad amare delusioni e alla disperazione. Il
massimo che si può sperare è di rendere la vita un po' migliore a chi venga a trovarsi sotto la
nostra influenza. Quello che poi gli uomini faranno di ciò che noi possiamo dare, è affare loro»
I Batonka sono stati fortunati ad avere avuto un tale uomo a governarli durante i loro anni di
prova. Egli è diventato un po' stanco al loro servizio, e l'unica ambizione ora è di possedere un
piccolo pezzo di terra a Binga lungo la sponda; stare a vedere che cosa accade sul nuovo lago e
che cosa faranno i suoi amici Batonka del loro strano futuro. Più di ventimila persone sono
state reinsediate sulle alture. Il trasferimento e costato una sola vittima. Il giovane pilota di un
aereo, che volava a bassa quota sul nuovo territorio per disinfestarlo contro la mosca tzé-tzé
prima dell'arrivo dei Batonka, perse il controllo dell'aereo e si sfracellò contro un albero.
In quel periodo egli era in licenza, ma volle ugualmente pilotare l'apparecchio perché il lavoro
fosse finito in tempo.
La sua morte fu istantanea.
CAPITOLO OTTAVO
LO SPIEGAMENTO DELLE FORZE
Non appena le decisioni definitive posero fine alle discussioni sul proseguimento o meno del
progetto e su chi dovesse costruire la diga, Kariba venne affrontata con una nuova linea di
attacco. Alcuni gruppi politici iniziarono una campagna per creare lo scontento fra gli operai
indigeni del cantiere e per scoraggiare il reclutamento nel Niassa. Il piano originale della
Commissione per l'energia elettrica stabiliva di impiegare a Kariba il maggior numero
possibile di uomini del Niassa. I niassa, infatti, sono ottimi e volenterosi lavoratori, purché si
dia loro cibo a sufficienza, ciò che di solito non hanno al loro paese, dove tutta la popolazione,
salvo un tre per cento, riesce malamente a sopravvivere con il imito dei magri raccolti. La
costruzione avrebbe potuto fornire lavoro a 8.000 uomini del poverissimo Niassa, con una
paga tre volte più alta di quella che potevano sperare di guadagnare a casa.
Ma essendo la diga di Kariba un progetto federale, incontrava forte opposizione da parte degli
uomini politici negri del Niassa che mal tolleravano la Federazione alla quale il governo
britannico li aveva costretti ad unirsi. I più intelligenti capi niassa non avevano mai negato i
benefici che sarebbero derivati da Kariba, ma non è la prima volta che un popolo si ostina in
una ripicca politica a spese del proprio interesse economico. Già nel marzo del 1956,
Wellington Chirwa, che prima dell'arrivo del dottor Banda era considerato un estremista,
descriveva il progetto di Kariba al parlamento federale come un piano tendente a spopolare il
Niassa, poiché ne costringeva la popolazione maschile a lavorare in condizioni di schiavitù fra
l'umidità malarica. Il Niassa in realtà è molto più piovoso e alberga molte più zanzare di
Kariba, e chiunque avesse voluto spopolare la regione, non avrebbe potuto trovare soluzione
migliore che abbandonare il Protettorato alla sua miseria.
Tuttavia, Wellington Chirwa, che solo per il suo senso del ridicolo non è diventato un fanatico,
sebbene sia sempre pronto a parlare come tale, non si rivolgeva alle schiere indignate e
scontente del partito federale, ma ai diecimila capi dei villaggi niassa. E questi lo ascoltarono
ancor più attentamente quand'egli lasciò cadere il motivo dell'umidità e della malaria che, dal
momento che i niassa non avevano mai conosciuto altro, non poteva costituire una seria
ragione di protesta.
Lagnanze ve n'erano tra gli indigeni di Kariba proprio come ve n'erano fra tutti coloro che
lavoravano in quella località isolata e primitiva. Chirwa diceva, e nessuno poteva negarlo, che
la carne veniva distribuita una sola volta alla settimana. Questo argomento avrebbe perso non
poca efficacia se egli avesse aggiunto che la razione settimanale era di 1.300 grammi, superore
cioè a quella che il niassa medio consuma in un mese. Vi erano lamentele per gli alloggi. Alla
fine di luglio, infatti, la maggior parte dei 4.000 indigeni di Kariba viveva sotto tettoie di erba,
di canapa o di tela da sacco, il che può sembrare, ed è, abbastanza primitivo; ma assolutamente
identiche erano le condizioni in cui viveva la maggior parte dei 600 europei finché non
vennero costruiti i villaggi per entrambe le razze.
In luglio non è poi tanto scomodo vivere sotto la tenda nell'Africa centrale; e vero che, durante
le notti fresche, gli operai europei, che dormivano in 30 sotto una tenda, avevano un piccolo
vantaggio sugli indigeni il cui numero, sotto un tetto di eguale grandezza, era attentamente
controllato da una squadra di ispezione perché «non superasse la ventina». Esisteva, in ogni
caso, una deficienza di servizi igienici, e la zona del campo brulicava di topi. Chirwa diede
meno rilievo a questo inconveniente di quanto ne desse al fatto che gli operai «erano costretti a
prendere medicine, anche quando non erano ammalati», esatto riferimento alla distribuzione di
tavolette contro la malaria e contro la spossatezza causata dal caldo. Le condizioni di vita
erano indubbiamente dure, come lo sono in qualunque accampamento di una certa grandezza;
e poiché si sapeva che era in costruzione un villaggio indigeno per alloggiare 6.000 operai in
case e baracche, poco veniva fatto per migliorarle. A nulla servì la pubblicazione, fatta in
risposta dalla stampa locale, di fotografie di una donna europea che abbraccia il suo bambino e
«guarda con invidia» le casette che vengono costruite per le mogli indigene. Ne' ebbe grande
effetto l'invito a visitare il cantiere fatto a gruppi scelti di giornalisti africani e di capi niassa. È
possibile intuire un vago senso di riserva nei loro commenti, tuttavia essi riferirono
doverosamente che non vi era di che lamentarsi. Nessuno, comunque, nei remoti villaggi del
Niassa, lesse mai queste cronache; molta gente, invece, prestò orecchio alle voci che venivano
sparse dagli agenti nazionalisti indigeni.
Di conseguenza, in agosto, proprio quando gli italiani si preparavano a subentrare e doveva
avere inizio il lavoro principale, il reclutamento nel Niassa risultò del tutto negativo. Non vi
furono difficoltà, salvo qualche piccolo ritardo, nel reclutare operai da altre parti, dal
Mozambico, dall'Angola, dalle due Rhodesie, dalla Beciuania e dal Congo. La mano d'opera
indigena divenne eterogenea quanto quella europea, e gli unici a soffrirne furono le migliaia di
niassa che preferirono la realtà della loro misera condizione, agli immaginar! orrori di Kariba.
Dopo un mese o poco più, tuttavia, qualcuno decise di correre il rischio. Quanto coraggiosi, o
disperati, essi fossero è rivelato dalla storia di un gruppo che, subito dopo l'arrivo, venne
messo in fila per prendere visione del posto di lavoro. Dalla fila di iacee costernate si fece
avanti un portavoce.
«Capo,» chiese, «quando ci distribuiranno le cannucce?». Una breve inchiesta rivelò come nel
Niassa fosse stato detto loro che gli uomini bianchi stavano costruendo un ponte attraverso il
fiume e che i lavori subacquei erano riservati agli indigeni. Essi si attendevano di dover
lavorare con una mano, mentre con l'altra avrebbero dovuto tenere stretta la cannuccia forata
attraverso la quale speravano di respirare. Erano pronti a lavorare sott'acqua per cinque ore alla
volta, alla sola condizione che venissero distribuite loro le cannucce. Questo è il coraggio che
un giorno porterà lontano il Niassa.
Questo è anche il legato di favole e dicerie che l'Impresit, il gruppo datore di lavoro, ereditò
dal canto suo. Quando, a un nucleo di pazienti agitatori, il momento fosse parso maturo,
sarebbe stato facile incitare allo sciopero uomini così creduloni. Dovevano ancora passare più
di due anni prima che il momento maturasse, l'intera Federazione venisse a trovarsi sull'orlo di
una agitazione politica e il progetto di Kariba divenisse più vulnerabile che mai per l'ostilità
dell'uomo.
Sin dall'inizio, gli indigeni e gli italiani andarono d'accordo. La maggior parte degli operai
dell'Impresit è di origine contadina. La loro vita dura nelle pianure del settentrione e ai piedi
delle Alpi non li ha incoraggiati ad aver troppe pretese; verso gli indigeni non hanno quella
prevenzione razziale che spesso assume manifestazioni morbose fra la maggior parte degli
europei della stessa classe. Il loro atteggiamento è privo di inibizioni e amichevole. Per gli
italiani, è naturale far visita alla casa di un indigeno del proprio gruppo se è ammalato,
portargli regali, chiacchierare con lui e giocare con i suoi figli.
Non era tanto la gentilezza che impressionava gli indigeni, perché anche i rhodesiani, come del
resto gran parte dell'umanità, sono gentili di natura. Essi erano grati per l'assenza di quegli
umori imprevedibili ed arroganti che spesso impediscono ogni senso di cameratismo fra operai
neri e bianchi. «Tutti noi dipendenti, sia europei, sia indigeni, facciamo lo stesso lavoro di
sollevare e spingere, e lo facciamo insieme, allegramente» Così un veterano «boss-boy»
descriveva quella che per la maggior parte degli indigeni era una nuova esperienza.
Inoltre, il fatto di dividere i comuni pericoli, univa, come è naturale, tutti quelli che lavoravano
alla diga, lungo il fiume, o nelle grandi gallerie che venivano scavate nelle colline. Come in
tutte le cose, per ogni atto di coraggio registrato, almeno altri venti passano inosservati, tranne
agli occhi di coloro che li vedono da vicino. La storia del «piccolo» Madira, diminutivo
africano che pròviene dal Mozambico, è un esempio del laconico coraggio di coloro che
lavorano sempre faccia a faccia col pericolo.
Il 15 novembre 1956, il motore di una piccola imbarcazione si guastò mentre un gruppo di
ingegneri dell'irrigazione stava viaggiando sul fiume. La velocità della corrente era di 18 km.
all'ora e il fiume era turbolento per le recenti piogge. L'imbarcazione fu trascinata giù per la
gola, rimase impigliata in un cavo teso basso attraverso il fiume e si capovolse. W. G. Wannel,
l'ingegnere dell'irrigazione che dirigeva il gruppo, udì uno dei giovani chiedere con voce
calma: «Qualcuno mi aiuti, non so nuotare» Wannel lasciò l'imbarcazione capovolta, che gli
forniva una certa sicurezza, per sorreggere il compagno che stava annegando. Entrambi
vennero ripetutamente risucchiati sott'acqua, sino a quando Wannel, sentendosi mancare le
forze, lasciò la presa. Egli non ricorda altro, però era stato visto da Vittorio Soprani, un capo
meccanico di Bologna, che si tuffò subito nel fiume. Questi riuscì appena a mantenere a galla
Wannel, tanto violenta era la corrente. Dalla riva erano quasi invisibili a causa delle onde che
si frangevano contro i loro corpi. Se Madira non li avesse scorti sarebbero entrambi
sicuramente affogati o sarebbero stati sbattuti contro la riva rocciosa dai pesanti detriti che la
corrente trascinava con sé. Madira proveniva dalla costa ed era abituato sin dall'infanzia a
lottare contro le onde dell'Oceano Indiano. Era un forte nuotatore. Per prima cosa condusse in
salvo Wannel, quindi tornò indietro per aiutare Soprani a raggiungere la riva nord. Si rituffò
poi, per la terza volta, nello Zambesi infuriato per ritornare alle sue occupazioni sulla riva
opposta; raccolse i suoi attrezzi e continuò il lavoro come se niente fosse accaduto.
La Royal Humane Society consegnò a Wannel e Soprani degli attestati di benemerenza su
pergamena e, tramite il governo della Rhodesia del Sud, conferì una medaglia di bronzo a un
sorpreso e intimidito Madira.
Tutto ciò che fu mai rivisto dell'altro giovane finito in acqua, fu un braccio, il giorno dopo,
puntato per un momento verso il cielo, in una pozza d'acqua che brulicava di coccodrilli.
Durante gli anni seguenti, raramente passò una settimana senza che morissero uomini per la
realizzazione di Kariba.
Lo stillicidio di perdite umane, che si mantenne entro le fredde previsioni statistiche, se si
eccettua un incidente del 1959 in cui rimasero uccisi 17 uomini, non influì sui lavori in corso.
Ma altri due avvenimenti sgradevoli che seguirono, in breve spazio di tempo, pur non costando
vite umane avvertirono gli italiani che l'impresa da loro iniziata era assediata da difficoltà che i
contabili e i tecnici, nel calcolare il costo di Kariba, non avevano potuto prevedere.
Il giorno prima che Madira salvasse in un'ora due vite umane, il fiume segnò un altro successo.
Come per la prematura inondazione delle fondazioni della tura, avvenuta l'anno precedente, la
sua fu più che altro una vittoria tattica, che disturbò il nemico ma non lo minacciò mai
seriamente. Il 14 novembre gli italiani stavano lavorando per ridurre lo spessore dei diaframmi
di roccia che la Cementation aveva lasciato ad ogni estremità della galleria di diversione,
perché si stava avvicinando il momento in cui dovevano essere eliminati per deviare dal letto
dello Zambesi una parte delle acque. Il piano era di portar via a poco a poco la roccia con
esplosioni controllate sino a che la barriera, a ciascuna estremità, fosse tanto sottile da poter
essere abbattuta al momento di aprire la galleria al fiume. La roccia che chiudeva l'estremità di
valle della galleria era attraversata da una fenditura ignorata dagli ingegneri. Un'esplosione,
che aveva il solo scopo di ridurre lo spessore a poco più di un metro, si fece strada attraverso
tale fenditura verso lo Zambesi. L'esplosione fu così violenta che grandi blocchi di roccia
vennero scaraventati a più di 18 metri d'altezza. Questi maldestri missili non fecero altro
danno che fratturare alcune ringhiere del ponte sospeso, ma la galleria venne rapidamente
inondata da 46.000 metri cubi d'acqua. Benché speciali attrezzature fossero fatte accorrere da
Bulawayo, lontana 800 chilometri, gli sforzi per prosciugare la galleria fallirono, e il livello
dell'acqua entro di essa non fu ridotto al disotto di tre metri. In conseguenza di ciò, quando un
mese più tardi venne aperta l'estremità a monte, si dovette eseguire una difficile esplosione
subacquea usando 1350 kg. di dinamite. Lo sfortunato incidente si risolse in una seccatura che
venne però a costare 35 milioni. Ciò che allarmò gli ingegneri fu la scoperta della incerta
solidità della roccia che formava la riva meridionale perché, all'interno di quella roccia, 170
metri sotto la superficie delle alture, doveva essere scavato un villaggio sotterraneo, disposto
attorno alla centrale che da sola sarebbe stata lunga 140 metri, larga 20 e alta 30. Che la prima
faglia non fosse un difetto isolato, risultò chiaro il 4 gennaio 1957. Una parte della galleria di
accesso, che si stava inoltrando verso la futura centrale, franò, intrappolando tre operai italiani.
Con i cavi elettrici e le tubazioni dell'aria compressa tagliati, essi rimasero in uno spiacevole
buio e in un silenzio rotto soltanto dal rumore smorzato delle frane che continuavano. Appena
gli uomini si tolsero dalla polvere soffocante, riuscirono a vedersi e la compagnia reciproca
calmò il panico che nei primi terribili secondi li aveva sopraffatti. Non erano in pericolo
immediato essendosi allontanati dalla zona della frana, ma erano preoccupati poiché
ignoravano l'effettiva lunghezza della ostruzione che ora si ammucchiava fra loro e l'ingresso
della galleria, 60 metri più indietro. Il più giovane dei ire ritornò presso la frana e cominciò
furiosamente a spostare i blocchi liberi. L'uomo che subito divenne il capo del terzetto,
permise al giovane compagno di sfogare per un po' la sua eccitazione, poi lo chiamò: «Sta'
calmo, amico. Conserva le tue forze. Potresti averne bisogno. Non può accadere! nulla di
grave, ma può darsi che si debba aspettare a lungo»
Un po' vergognato, il giovanotto tornò indietro, e i suoi passi lenti risonarono nella galleria.
«Quanto tempo passerà prima che ci trovino?» chiese con una voce che non era così disinvolta
quanto egli si sforzava di renderla. «Non lo so, ma non avere paura: verranno» Prima che fosse
trascorsa un'ora, udirono i primi rumori dei salvatori, uno strisciare e uno smuovere di terra
entro il cumulo di terreno franato. Poi una voce cavernosa, che li fece trasalire sterline tanto
era vicina, chiamò: «C'è nessuno qua? Non c'è nessuno?»
Una tubazione era stata introdotta lungo la sommità dei detriti; fu seguita da altre attraverso le
quali vennero spinti viveri, acqua e candele. Dopo di che, non rimase altro da fare che
attendere, giocare a carte e sonnecchiare, mentre i compagni sgombravano le 1500 tonnellate
di pietrame. Passarono circa due giorni e due notti prima che i tre uomini venissero liberati.
Ridendo, posarono davanti ai fotografi che erano venuti in volo da Salisbury, e il più giovane
fece finta di cercare qualcosa nella barba da pirata del capo. Strappò via un pelo con le dita e
lo alzò per mostrarlo alla folla: «Guardate,» disse, «gli è cresciuto un pelo grigio. Come vedete
si è preoccupato solo per un istante» La preoccupazione degli ingegneri invece durò più a
lungo. Ci volle fino a maggio per riparare tutte le conseguenze della frana e per riprendere i
lavori nella galleria.
Quarantacinquemila chiodi di ancoraggio vennero usati per imbullonare la roccia nella sezione
debole che era stata scoperta.
Ma prima che la galleria fosse rafforzata, gli uomini dell'Impresit furono costretti ad affrontare
un pericolo infinitamente più furioso e potente.
Il primo disperato assalto di Nyaminyami era iniziato.
CAPITOLO NONO
IL PRIMO ASSALTO
Gli italiani si rendevano ben conto sin dall'inizio che per essi Kariba costituiva una prova
determinante.
Si trovavano in un paese straniero e sapevano che ogni loro azione sarebbe stata osservata
gelosamente. A qualcuno non sarebbe affatto dispiaciuto vedere il fallimento del progetto, ed
altri sarebbero stati felicissimi se gli italiani non fossero riusciti. Professionalmente, gli italiani
avevano fiducia nella propria abilità tecnica. Erano membri dello stesso gruppo; per la
maggior parte avevano già lavorato insieme e conoscevano a vicenda le proprie forze. Inoltre
la sensazione di essere sotto attento esame li univa ancora più saldamente.
C'era un'altra ragione per cui il loro morale era eccezionalmente alto.
Veniva loro offerta l'occasione di riabilitare la reputazione dell'Italia in Africa, dove le
sfortune della guerra l'avevano quasi distrutta. Resi sensibili da questo insieme di cose, erano
convinti che sotto le maniere formali e spesso cordiali dei loro colleglli inglesi, rhodesiani e
sudafricani, si celasse una certa condiscendenza. Nelle riunioni tecniche, la loro competenza
era fuori discussione; tutti ammettevano che i loro operai specializzati fossero insuperabili per
industriosità e capacità; ma c'era ancora qualcosa che doveva essere provato: la loro tenacia, o,
come i colleghi lo definivano in privato, il loro spirito combattivo. Essi avrebbero avuto presto
l'occasione di dimostrarlo. Mai un fiume si battè così selvaggiamente e tenacemente come lo
Zambesi stava per fare; mai un progetto è stato intralciato da tante avversità; tuttavia gli
italiani non solo le superarono, ma furono sempre in anticipo sui programmi.
Non passò molto tempo che essi sentirono parlare di Nyaminyami e della credenza condivisa
da molti indigeni primitivi, che sarebbe stato impossibile domare lo Zambesi. Scherzosamente,
i loro predecessori li misero al corrente della sua incursione sul finire dell'anno precedente,
quando aveva distrutto il ponte di barche ed invaso la tura. Gli italiani risero tra loro; avevano
già avuto modo di conoscere quasi tutti i più grandi fiumi del mondo. Ma questa leggenda si
accordava con le loro romantiche idee sull'Africa nera.
Ne scrivevano a casa con una punta di spavalderia, proprio come raccontavano degli
ippopotami dell'isola del Sanyati, dei coccodrilli che prendevano il sole sulle rocce del fiume,
dei babbuini abbaianti sulle alture, e dei tamburi che si sentivano dopo il calar del sole nei
villaggi indigeni. Erano quasi contenti quando, in novembre, il comportamento dello Zambesi
fu definito insolito dagli esperti rhodesiani.
Forti piogge cominciarono a cadere un mese prima del previsto, e improvvise piene-lampo
ostacolarono il lavoro nel fiume. Lo Zambesi, gonfio per le piogge torrenziali cadute sui vicini
bacini imbriferi, cresceva di parecchi piedi in una notte e poi, altrettanto rapidamente, tornava
a decrescere.
La storia di Nyaminyami era tanto suggestiva che essi erano lieti di poter spiegare, con un po'
di fantasia, quei trascurabili capricci climatici come una conferma della leggenda. Ma se tutto
ciò che il grande dio fiume poteva fare si limitava a quelle piccole manifestazioni, allora
Nyaminyami era non molto più temibile del vecchio, venerabile, padre Tevere e ancora meno
pericoloso del loro fiume Po in Lombardia.
Gli italiani si imposero uno strenuo orario lavorando in due turni di dodici ore.
Protetti dalla tura innalzarono i primi conci della diga, lasciandovi in mezzo delle aperture
attraverso le quali potesse passare il fiume quando fosse stato deviato dal letto principale. I
pilastri dovevano essere sufficientemente alti, così da permettere la continuazione del lavoro
quando il livello del fiume fosse salito; il primo fu completato per la fine di dicembre 1956, e
alla fine di febbraio il lavoro era molto in anticipo sul programma.
Benché l'immaginazione del pubblico fosse attratta principalmente dallo scavo delle gallerie e
dalla costruzione della diga, lo sforzo principale durante questi mesi fu concentrato in quello
che gli ufficiali di stato maggiore durante l'ultima guerra chiamavano «le basi logistiche». Nel
mese di dicembre vennero gettati nella diga 1.750 metri cubi di calcestruzzo; ma sarebbe
venuto il tempo in cui la produzione sarebbe salita a 2.750 metri cubi al giorno. Per rendere
possibile una simile impresa fu necessario costruire ogni genere di impianti, assurdi d'aspetto e
di dimensioni. Impianti per lavare la sabbia, per rompere la roccia e per mescolare il cemento,
si innalzarono sulle loro sottili gambe di acciaio, alte trenta metri e più; con le incastellature
protese come tentacoli di mostri della fantascienza, eseguivano lavori così complicati che non
era difficile credere che entro i loro tralicci di ferro si nascondesse un cervello indipendente e
spietato.
Furono innalzate montagne di materie prime. Sulle rive dell'isola del Sanyati un milione di
tonnellate di sabbia vennero scavate da macchine che ne inghiottivano dieci tonnellate alla
volta e le gettavano negli autocarri. Questi ultimi, percorrevano, in catena ininterrotta, il
tragitto di cinque chilometri e mezzo dalla sponda al cantiere e vi depositavano il loro carico
creando colline alte decine di metri.
Vennero anche accumulate grandi scogliere di granito, ciascuna formata da pietre di differente
grandezza; e, posti su file ascendenti intagliate nella roccia della riva settentrionale così da
sembrare la tastiera di una gigantesca macchina da scrivere, vennero costruiti dei silos capaci
di immagazzinare 24.000 tonnellate di cemento.
I vari depositi furono collegati da un sistema di nastri trasportatori e di cavi, progettati in modo
da alimentare le benne da 16 tonnellate e mezzo che, scorrendo su alte funi controllate dai
blondins, scaricavano il calcestruzzo proprio nel punto desiderato. Questi «blondins», che
prendono il nome da un famoso funambolo, sono torri mobili che corrono lungo rotaie su una
piattaforma parallela alle sponde del fiume, e reggono ciascuna una fune di 80 mm. ancorata
ad un punto fisso sull'altra riva.
Dalla cabina sulla torre, il manovratore può quindi muovere le benne in qualsiasi direzione.
Benché il compito principale dei blondins fosse di portare il calcestruzzo direttamente
dall'impianto di betonaggio alla diga, in seguito, nei casi di emergenza, furono impiegati per
eseguire ogni sorta di incarichi, come sollevare un bulldozer dal letto del fiume o trasportare
uomini e macchine da una riva all'altra.
L'aver raccolto sulle ripide pendici della gola un insieme così eterogeneo di attrezzature, di
macchine generatrici d'energia e di materie prime, fu di per se stessa un'impresa di
prim'ordine. Queste opere di ingegneria di cui fra qualche anno non rimarrà traccia, furono
semplicemente ausiliarie del progetto principale e saranno tutte demolite non appena avranno
adempiuto al loro scopo. Nessuna meraviglia se gli italiani, occupati nella costruzione di quel
grandioso cantiere all'aperto che si estende su parecchi chilometri quadrati, trattavano con
indifferenza i capricci del fiume e talvolta ne erano addirittura divertiti. Ma a 1500 chilometri
di distanza anche lo Zambesi stava mobilitando le sue forze. A monte di Kariba il fiume è
alimentato da un bacino di 500.000 chilometri quadrati e per tutto novembre, dicembre e
gennaio le sature foreste dell'Angola e della Rhodesia del Nord avevano assorbito la maggior
parte delle piogge. In febbraio arrivò alla gola il primo annuncio che vaste riserve di acqua si
stavano accumulando nell'alto corso del fiume. A Balovale, la stazione di misura al confine
dell'Angola, si profilava la minaccia di una piena che avrebbe impiegato da tre a quattro
settimane per raggiungere le cascate Victoria. Di qui in altri quindici giorni avrebbe potuto
raggiungere Kariba. Fra le cascate e la gola, la piena principale sarebbe stata rinforzata da tre
dei grandi affluenti della Rhodesia del Sud, il Gwaai, il Sengwe ed il Bumi, e da un centinaio
di affluenti minori. Quasi all'ingresso della gola, poi, in vista dei lavori della diga, stava in
agguato il Sanyati con la sua fama di violenza improvvisa. Raccogliendo, sotto una dozzina di
nomi diversi, la maggior parte delle acque del bacino meridionale, il Sanyati scorrazza
attraverso i pianori della Rhodesia del Sud prima di scendere il ripido declivio verso lo
Zambesi. Quando è in piena, la corrente del Sanyati ha l'improvvisa, travolgente irruenza di
una carica di cavalleria. Ai primi di marzo non ci fu più alcun dubbio: lo Zambesi si stava
preparando per un attacco di intensità mai registrata. Anche nelle stagioni normali il fiume,
sopra Livingstone, dilaga per una larghezza di 32 chilometri nella piana di Barotse, ma nel
1957 superò talmente il suo livello normale che in una sola notte spazzò via parecchi villaggi.
I quindici annegati che furono registrati erano, probabilmente, solo una parte dell'elenco di
morti.
Fu allora che ci si ricordò di Nyaminyami. Un anno prima, i suoi stregoni avevano predetto
che se l'uomo bianco avesse seriamente tentato di mettere un muro attraverso la gola, il dio
fiume avrebbe inviato piene senza precedenti per distruggere i suoi nemici. Per quanto la
maggior parte degli africani di Kariba confidasse nella superiorità del potere magico dell'uomo
bianco, alcuni di essi cominciarono ad avere dubbi e suggerirono di chiamare gli stregoni per
fare le tradizionali offerte a Nyaminyami. Speravano di placarne la furia riconoscendone
l'autorità.
Sebbene la proposta venisse respinta, non vi è dubbio che alcuni indigeni offrirono tributi
personali al dio fiume, come è certo che centinaia di essi si unirono agli italiani in una speciale
cerimonia religiosa che si tenne nel laboratorio dei carpentieri per invocare S. Giuseppe,
protettore degli umili operai.
A mano a mano che il fiume aumentava la sua violenza, gli avamposti delle fortificazioni
create dagli uomini nel suo letto cominciarono ad apparire miseramente deboli. I piloni del
ponte stradale tremavano sotto l'urto della corrente che raggiungeva i 47 chilometri orari. Gli
uomini che lavoravano entro la protezione della tura udivano il frastuono scrosciante dei
grandi massi di pietra che rotolavano nel letto del fiume come se fossero ciottoli. Coloro che
guardavano dalle sponde vedevano i detriti galleggiare sulla superficie dell'acqua: canoe
fracassate, enormi alberi, grovigli di rovi e cespugli; e una volta, vivida testimonianza dei
disastri a monte, il tetto quasi intatto di una capanna, che girava pigramente su se stesso
mentre scendeva precipitosamente. Le segnalazioni della piena arrivarono per telefono dalle
stazioni poste lungo il fiume dal Dipartimento dell'Irrigazione; ma, poiché valutavano i
rapporti con calma, gli ingegneri erano del parere che, anche quando fosse venuto il peggio,
nessuna delle loro installazioni sarebbe stata in pericolo. Sebbene l'altezza dell'acqua nella
gola avesse già superato il livello di massima, raggiunto durante il breve periodo di dieci anni,
dal tempo cioè delle prime misurazioni, e benché le comunicazioni da Livingstone rivelassero
che la punta della piena doveva ancora venire, essi calcolavano che i due ponti sarebbero stati
parecchio al disopra del livello pericoloso, e che la parete della tura fosse abbastanza alta per
impedire al fiume di superarla. Imperturbabili, discutevano le quantità di lavoro per i prossimi
giorni. Ma proprio come se attendesse questo momento, il Sanyati scese in piena tuonando
dalle pendici. Durante la preparazione dei programmi di lavoro, era stata prevista anche la
possibilità che le piene del Sanyati e dello Zambesi coincidessero, ma il rischio era parso così
esiguo che era stato deciso di accettarlo. Baldassarrini, direttore dell'Impresit a Kariba, quando
gli vennero riferite le notizie sorrise: «Dovremo stare attenti con questo fiume. Sembra che
conosca esattamente quello che stiamo per combinare»
Era il genere di nemico che piaceva a Baldassarrini, il quale diede subito ordine di cessare
tutto il lavoro entro la tura e di evacuare tutte le attrezzature da essa protette. Arrivò appena in
tempo. Il fiume, quando le prime ondate della cavalleria Sanyati presero d'assalto la gola,
crebbe di cinque metri e mezzo in 24 ore. La tura fu superata e solo un vortice turbolento di
schiuma segnò la sua posizione sotto l'acqua. Per poche ore, il braccio del derrick che non
c'era stato tempo di rimuovere si sporse dalla superficie, aprendo una profonda ferita nelle
acque del fiume: poi, con tanta rapidità che nessuno ricorda di essersene accorto, anche il
derrick scomparve. Per nulla turbato, Baldassarrini volse le sue forze in difesa del ponte
stradale, che era già in pericolo.
La struttura si appoggiava sui pilastri, mantenuta in posizione dal proprio peso. Le vibrazioni
prodotte dalla corrente già minacciavano di spostarla, e se l'acqua fosse cresciuta fino al livello
del ponte stesso, tutta la costruzione sarebbe stata portata via. A quel tempo i cavi dei blondins
erano ancora in corso di montaggio, e il ponte stradale costituiva l'unico passaggio da una riva
all'altra per i materiali e le attrezzature. Se fosse andato perduto, l'intero programma di Kariba
rischiava di essere rimandato di un anno.
Per tutta la notte, sotto piogge torrenziali che trasformavano la strada di accesso al ponte in un
pantano, alla luce dei riflettori, gli uomini lottarono per ancorare il ponte alle rive con quattro
pesanti cavi. Gli autocarri caricati con travi e con tutti gli spezzoni d'acciaio disponibili,
scendevano la china fangosa verso il campo di azione; 80 tonnellate di metallo vennero
trasportate a mano lungo il ponte per essere accumulate sopra i due pilastri principali allo
scopo di tenere a posto il ponte.
Il 19 marzo, il livello del fiume era a poche decine di centimetri dal ponte e la piena principale
dello Zambesi era annunciata per le prossime ventiquattro ore. Non restava altro da fare che
porre degli uomini di guardia e aspettare. Per fortuna la tattica del Sanyati rassomigliò più a
quella del principe Rupert che non a quella del maresciallo Ney. Improvvisamente, l'assalto
passò. Quando, ventiquattro ore dopo, la poderosa massa dello Zambesi in piena raggiunse la
gola, il Sanyati stava scatenando inutilmente la sua violenza trecentovemi chilometri a valle. Il
Sanyati era diventato così debole che per un momento, quando le acque dello Zambesi
raggiunsero il suo letto, rifluì verso monte. Dal 19 al 24 marzo la fiumana d'acqua si lanciò
nella gola, poche decine di centimetri al di sotto del ponte, ma la struttura stessa fu raggiunta
soltanto dagli spruzzi infuriati che schizzavano alti nell'aria, attorno ai pilastri. L'unico
pericolo era che i rami di qualcuno degli alberi che sbucavano a centinaia sulla superficie del
fiume restasse impigliato nelle travi e causasse un accumulo di detriti. Il ponte venne perciò
chiuso al traffico e una squadra di operai rimase di guardia per respingere questa possibilità.
Il 25 marzo la piena decrebbe, continuando così per il resto della stagione.
Il danno, quando venne esaminato, apparve sorprendentemente piccolo a coloro che erano stati
testimoni della terribile furia del fiume. Alcuni tratti di strada dovevano essere riallineati, e
alcune attrezzature erano andate per-. dute. Inoltre, l'allagamento della tura rendeva
impossibile lavorare ai conci della diga principale che essa aveva riparato. Per i semplici
operai, la più seria conseguenza della piena fu la scomparsa di Charlie. Charlie era un vecchio
ippopotamo che, non disturbato da tutta quella attività, si rotolava tutto il giorno nel fango a
poco più di 90 metri a valle del ponte. Ogni sera, all'imbrunire, Charlie si arrampicava sulla
riva, si incamminava pesantemente verso il cantiere, e dopo aver ispezionato l'andamento dei
lavori, si trascinava indietro di nuovo. Charlie e gli uomini del turno di notte si erano abituati
alla presenza reciproca, e questi ultimi avevano finito per considerare l'ippopotamo come una
mascotte. Quando le acque di piena decrebbero, Charlie non si vide più, e la sua scomparsa fu
considerata un segno di ulteriori sfortune.
Ma gli ingegneri non avevano tempo da perdere in tali fantasie. Fino al momento in cui era
sopraggiunta la piena, il lavoro della diga era stato in anticipo sul programma, e l'Impresit si
considerava già in possesso del premio di 260 milioni di lire sterline offerto dalla
Commissione se i lavori preparatori per la diversione del fiume fossero stati completati entro
la fine di giugno. Ma la parte essenziale del lavoro che doveva venir eseguito per ottenere il
premio dipendeva dallo svuotamento della tura. L'impresa sembrava impossibile, ma gli
ingegneri decisero di mettere alla prova la loro tempra e tentare ugualmente. Attesero con
impazienza che il fiume decrescesse, e non appena il muro della tura fu accessibile, benché
ancora sott'acqua, lo rialzarono con lamiere metalliche così da anticipare il giorno in cui si
sarebbe potuto cominciare a pompare. Nei mesi seguenti non accadde nulla di spettacolare; vi
furono, tuttavia, giorni e notti di sforzi continui.
Il costo per ricuperare le sei settimane perdute fu, probabilmente, maggiore del valore del
premio. Ma per gli italiani divenne una questione di orgoglio mostrare a tutti come essi
potessero superare le avversità. Erano decisi a non accampare alcuna scusa, per quanto
accettabile essa fosse da chi conosceva le difficoltà incontrate. A qualunque costo, dovevano
raggiungere il loro primo traguardo. E lo raggiunsero, con quattro giorni di anticipo. Da quel
momento non ci furono dubbi sulla capacità degli italiani di far fronte all'impresa. Tempo un
anno, infatti, e il pendolo dell'opinione pubblica doveva oscillare al punto di far dire alla gente:
«Solo gli italiani avrebbero potuto farcela»
Non mancarono, naturalmente, esperti che, quando le notizie sulla piena raggiunsero le città,
non ricordassero a tutti di aver detto sin dall'inizio che Kariba era stata progettata troppo in
fretta e che era destinata a terminare in un disastro. Se la Commissione per l'energia elettrica e
i suoi consiglieri non fossero stati così precipitosi, avrebbero in primo luogo ordinato di
costruire la tura più alta, e in tal modo metà dei guai sarebbero stati evitati. Si insinuava, poi,
che, affrettando il compimento dell'intero progetto, si voleva salvare la faccia di qualcuno. A
posteriori era abbastanza esatto affermare che, se lord Malvern ed i suoi colleghi avessero
aspettato, avrebbero potuto accumulare ulteriori dati per prepararsi ad affrontare una piena
come quella del 1957; ma avrebbero potuto aspettare anche vent'anni. Difficilmente si
combinerebbe qualcosa se si impiegassero nella selvaggia Africa i sistemi di lavoro di
un'Europa da lungo tempo domata. Se un commento è richiesto, questo dovrebbe essere
soltanto di elogio per il coraggio e lo spirito di iniziativa di quegli uomini, pronti ad assumersi
dei rischi che erano stati accuratamente calcolati fin dall'inizio. Duncan Anderson non è uomo
da sprecare parole per rispondere a critiche da salotto o da caffè, e se ne rimase zitto; ma si
dice che un funzionario della Commissione per l'energia elettrica, perdendo la pazienza per le
voci che circolavano, decidesse di prendersi la rivincita.
In gran confidenza, in mezzo a un gruppo di conoscenze delle quali sapeva di non potersi
fidare, lasciò cadere la notizia che si era appena scoperto come i consulenti, tratti in inganno
da un gorgo di ritorno, avessero creduto che lo Zambesi scorresse verso ovest e non verso est,
di modo che tutti i lavori e le installazioni della diga si stavano in realtà costruendo a rovescio.
L'entusiasmo con cui un buon numero di esperti creduloni diffuse questa divertente
informazione riservata, e il loro conseguente imbarazzo quando fu smentita, contribuì molto a
screditare ed a scoraggiare future voci di fatalità tecniche. Il motivo che aveva imposto un
limite di tempo al primo stadio del lavoro degli italiani fu, naturalmente, qualcosa di più del
semplice desiderio di stabilire sterline un primato. La magra del 1957 era un periodo critico
per lo sviluppo dell'intero progetto. Se la costruzione della parte centrale della diga attraverso
il letto del fiume doveva avere inizio entro l'anno, bisognava deviare il fiume, non solo
attraverso la galleria della riva sud, che non poteva in nessun modo accogliere il flusso totale,
ma anche attraverso un canale a ridosso della riva nord, dove sorgeva la tura. Questa
deviazione non poteva aver luogo fino a quando i conci della diga, all'interno della tura, non
fossero stati innalzati tanto da permettere la continuazione del lavoro quando il fiume tosse
stato avviato attraverso il canale di deviazione.
Nello stesso tempo, usando il ponte stradale come se fosse una incastellatura, 200.000
tonnellate di pietrame erano state gettate nel fiume, a valle della diga, per formare una
scogliera di sbarramento, il cui scopo era di mantenere le acque entro il canale di deviazione e
creare una zona tranquilla attorno ai conci centrali. In questa zona di acque calme sarebbe stato
possibile gettare le fondazioni di un'altra tura più larga, di forma circolare, che in seguito
sarebbe Stata prosciugata con le pompe, in modo da portare alla luce il letto del fiume e fornire
un riparo entro il quale dare inizio ai lavori della parte centrale della diga.
Pertanto, poiché la tura della riva nord aveva esaurito il suo compito, quelle parti di essa che
bloccavano il canale di deviazione dovevano venire distrutte. Un gruppo di esperti in esplosivi,
guidati da D. Maher, arrivò dall'Unione del Sud-Africa per intraprendere il lavoro. Le parti
della tura che andavano demolite furono punteggiate da più di 400 fori e riempite di gel ignite.
Le cariche vennero preparate per esplosioni successive ad intervalli di millesimi di secondo, in
modo da assicurare una completa fratturazione del calcestruzzo senza arrischiare, negli stretti
confini della gola, l'improvvisa detonazione di quattro tonnellate di esplosivo.
A mezzogiorno del 6 giugno, una folla di funzionari provenienti da Salisbury, guidati da Sir
Malcolm Barrow, ministro dell'Energia, e un gruppo di ingegneri e giornalisti si radunò in un
posto di osservazione in cima alle alture della riva sud per vedere quella che stava per essere la
più grande esplosione eseguita dall'uomo in Africa. Per la prima volta in un anno, tutti i lavori
a Kariba si fermarono e la gola rimase deserta. Entro una galleria sulla riva nord stavano
Maher e Franco Vischi, l'ingegnere italiano responsabile della costruzione della diga, con i
loro assistenti. Dopo che l'ultima sirena di allarme ebbe suonato, si contarono a rovescio i 60
secondi finali.
Agli spettatori quel minuto, mentre i numeri venivano scanditi attraverso gli altoparlanti,
sembrò eterno. La tensione venne meno quando l'anonima voce contò laconicamente «5, 4, 3,
2, 1». Deboli lampi arancione apparvero sui lati della tura. Il rumore, quando si udì, più che lo
scoppio di un'esplosione parve il rombo di un gigantesco tamburo. Le 400 cariche partirono
l'una dopo l'altra, e in un minuto l'ntera tura venne oscurata da una grigia coltre di fumo e
polvere che lentamente si aprì nella forma a fungo, a tutti nota in questi tempi di bombe
atomiche.
Quando il fumo si diradò, il fiume fu visto precipitarsi attraverso le brecce, aperte così
nettamente che sembravano tagliate da un gigantesco coltello. Macchiata dal giallo dell'acido
picrico, un centinaio di migliaia di tonnellate di acqua invase il nuovo canale con tale violenza
che, in un primo tempo, il fiume invertì effettivamente il suo corso, circa 45 metri al di sotto
della diga. Tre minuti più tardi la turbolenza e i gorghi si erano placati, e lo Zambesi scorreva
indisturbato lungo il nuovo letto che l'uomo gli aveva aperto.
Esultante, un giovane ingegnere si rivolse ai giornalisti che erano con lui: «Finalmente
abbiamo il fiume sotto il nostro controllo. Ora le piene non possono cambiare più nulla»
Uomini ben più anziani di lui dissero la stessa cosa in diversi modi. Nessuno tuttavia può
essere criticato per non aver previsto quali riserve lo Zambesi stava per buttare nella battaglia
che cominciò il febbraio seguente.
CAPITOLO DECIMO
DIETRO LE LINEE
Alle spalle, e molto spesso addirittura al fianco degli nomini che combattevano il fiume, ve
n'erano migliaia di altri la cui importanza è stata oscurata. Essi lavoravano per l'Impresit, e per
le altre organizzazioni: impiegati, magazzinieri, uomini dell'ufficio acquisti, disegnatori,
contabili, uomini che eseguivano i loro compiti faticosi e abituali in condizioni di continuo
disagio, forse più dure da sopportare dei momenti di estremo pericolo. Era tutto il gruppo degli
impiegati nei servizi ausiliari, indispensabile per tenere in vita una numerosa collettività e per
procurare le forniture necessario a un vasto progetto di ingegneria in quella che era ancora,
all'infuori della piccola oasi di attività, la più selvaggia delle contrade.
Per via aerea Kariba si trova ad un'ora da Salisbury. Al tempo in cui il viaggio lungo le strade
richiedeva dodici ore, se si era fortunati, e poteva durare anche più giorni, venne costruita una
primitiva pista di atterraggio vicino al Sanyali. Nel settembre del 1955 la pista venne aperta
agli aerei non più grandi dei Rapides, quei pesanti biplani da carico che sono stati i pionieri
delle vie aeree commerciali nell'Africa centrale. Il capitano Clive Halse, capo pilota della
Hunting-Clan Airways in Rhodesia, fu il primo ad atterrare e da allora ha compiuto lo stesso
percorso più di cinquecento volte. Halse ed i suoi nove colleghi hanno avuto molto di più che
una semplice veduta di Kariba dall'alto, All'inizio, quando tutti i voli erano fatti a noleggio, i
piloti passavano le loro giornate sonnecchiando in quel poco d'ombra che potevano trovare tra
la boscaglia vicino alla pista, oppure facevano l'autostop per raggiungere il cantiere in cerca di
compagnia e di ristoro, mentre aspettavano che i passeggeri portassero a termine i loro affari.
«I primi ricordi,» dice Halse, «comprendono la vista gradita di un grande frigorifero a
paraffina all'aperto, pieno di bottiglie, simile ad un orologio di città posto in un
accampamento. Attorno ad esso c'era una compagnia di uomini barbuti intenti a cuocere
qualcosa sul fuoco mentre mangiavano carne in scatola col cucchiaio»
La mercé portata dai Rapides andava dalle bare ai cavoli; i cibi freschi effettivamente
rappresentavano una parte importante dei loro primi carichi. I passeggeri erano eterogenei, ma
quasi sempre h-a loro si trovava un gentieman di Johannesburg. L'annuncio che quei
provinciali di rhodesiani avevano 80 milioni di sterline da spendere aveva suscitato un fremito
di interesse da una estremità all'altra di Eloff Street. A intervaili regolari, dagli ambienti
commerciali della città delì'oro saltavan fuori strani tipi di venditori che vivacchiavano alla
meglio battendo la campagna. Completi di abito nero, borsa, cappello e sorriso sicuro di se,
fioccavano a Kariba portando, come riconoscimento dei legami della Rhodesia col mondo
britannico, la più caratteristica delle cravatte dei collegi inglesi. L'unica cosa che a quell'epoca
si poteva commerciare a Kariba era la birra fredda, ma nessuno di loro voleva crederlo.
Immaginavano di trovare a Kariba una città in piena espansione, abitata quasi interamente da
agenti di compra-vendita sdraiati sulle loro poltrone, con il libretto degli assegni in mano.
«Un commesso viaggiatore di Johannesburg,» continuava Halse, «arrivò stringendosi al petto
un asse da gabinetto in plastica. Con la sua parlantina persuase un tale a dargli un passaggio
fino al cantiere sulla parte posteriore di un camioncino aperto. Fu sballottato da un angolo
all'altro mentre la faccia e il vestito cambiavano colore e per poco non rimase soffocato dalla
polvere impalpabile e rossastra. Finì per sedersi sul suo sedile di plastica, che si ruppe subito
in due pezzi. Non so che fine abbia fatto, ma me lo figuro ancora, zoppicante, nelle scarpe
sottili, vagare di tenda in tenda in cerca di qualcuno che volesse interessarsi alla sua
vantaggiosa offerta»
Questo accadeva verso la fine del 1955.
Col maggio del 1956, il traffico era molto aumentato e la pista primitiva era stata talmente
migliorata che venne iniziato un regolare servizio di DC 3. L'atterraggio di Kariba non era mai
stato popolare tra i piloti perché correva lungo un'alta collina, e il caldo ed il territorio
accidentato rendevano l'aria turbolenta. Inoltre, nei mesi delle piogge, scoppiavano violenti
temporali e i turbini di vento o «diavoli di polvere», come li chiamavano i rhodesiani,
potevano essere pericolosamente impetuosi.
Una volta il pilota di un Rapide, appena scese dalla cabina, dopo aver fatto qualche passo,
restò inorridito vedendo sopraggiungere un diavolo di polvere. Mentre lottava per respirare,
vide il suo aereo sollevarsi di pochi centimetri, girare su se stesso e ricadere senza danni nel
medesimo posto ma col muso rivolto nell'altra direzione.
Quando venne la grande piena, un pilota si avvicinava prudentemente a bassissima quota per
eseguire un breve atterraggio sullo spazio estremamente ridotto ancora disponibile. Proprio
mentre stava per toccare terra, un mastodontico ippopotamo affiorò dalla parte allagata della
pista e si rizzò per guardare l'aeroplano. Dando tutto gas all'ultimo minuto, il pilota fece
appena in tempo a far fuggire l'animale. Da allora il vecchio campo divenne noto come
ippodromo di Kariba. Ora esso giace a circa 60 metri sotto la superficie del lago, ed un piccolo
aeroporto moderno è stato costruito a 20 chilometri dalla diga. Specialmente gli uomini della
torre di controllo hanno accolto con gioia il nuovo aeroporto. Al vecchio campo, infatti, una
delle loro incombenze, prima di dare via libera per l'atterraggio degli aerei, era di vedere se
nessuno degli elefanti che frequentavano una fossa lì nei pressi si stesse dirigendo verso la
pista. Il loro sollievo per essere sfuggiti a questo noioso incarico diminuì quando una mattina,
su uno strato fresco di catrame dei loro nuovi alloggi, essi rinvennero profonde impronte di
leoni. Gli animali abbondano ancora, soprattutto quelli delle specie più piccole, e i piloti
dell'HuntingClan hanno preso a proteggere una famiglia di facoceri che regolarmente va ad
aspettare il DC 3 delle 8,15 a Kariba.
Tranne un solo mese, quando il vecchio aeroporto venne sommerso durante la piena del 1958,
il collegamento aereo stabilito fra la diga e il mondo esterno non è mai stato interrotto.
Per lungo tempo si credette che Kariba fosse una zona insalubre infestata di malattie. Vennero
espressi dei dubbi sulla possibilità che gli uomini bianchi potessero lavorarvi e, come si
ricorderà, agli indigeni venne detto che sarebbero stati falciati dalla malaria e dalla malattia del
sonno. La zona, in effetti, è infestata dalle zanzare e dalle mosche tzé-tzé, ma il clima, come è
stato confermato da tutti i meche i che vi hanno soggiornato, nonostante il caldo, è molto
salubre.
In realtà i problemi sanitari di tutte le alture africane, sorgono non dal clima ma dalle
pestilenze, dai parassiti e dalla cattiva nutrizione. Soltanto in questi ultimi anni, con
l'introduzione di abitudini civili, è sopraggiunta la complicazione della tubercolosi e delle
malattie veneree. Nella Rhodesia del Sud vive una varietà di mosche tzetze che infetta sia gli
uomini, sia il bestiame; tuttavia l'insetto è molto più terribile di nome che di fatto. Questo
flagello va espandendosi, con grande costernazione dei vecchi rhodesiani che ricordano i
giorni in cui estesi tratti di territorio erano impenetrabili a causa della presenza della mosca.
Ma i motori a combustione interna e i meccanici, più che gli stessi medici e gli entomologi,
hanno quasi distrutto il potere offensivo della mosca. Nel passato essa poteva colpire gli
animali da lavoro dai quali dipendeva l'attività dell'uomo; ma ora macchine e trattori sono
refrattari alle punture della tzé-tzé ed al parassita che essa può trasmettere. Inoltre una volta
che una zona sia stata effettivamente occupata dall'uomo, la tzé-tzé si ritira, e se l'uomo avrà
un giorno la possibilità di incivilire sterline le regioni infestate dalla tzé-tzé, essa verrà
scacciata del tutto. Col tempo potrebbe svilupparsi una tzé-tzé domestica così come si è
sviluppato un topo casalingo; quest'ipotesi rallegra senza dubbio gli intervalli per il tè ai
congressi di entomologia.
Fra l'altro, ora esistono dei medicamenti che trasformano la malattia del sonno in poco più di
una spiacevole febbre rapidamente guaribile. A Kariba, appena fosse cominciata l'attività su
larga scala, la mosca non avrebbe più presentato alcuna minaccia. Tuttavia, visto che basta
nominarla per spargere il terrore, la zona venne disinfestata prima che vi giungessero gli
appaltatori principali. Era molto più grave il rischio affrontato dai piloti dei Tiger Moths
mentre volavano fra le alture, a soli tre metri sopra gli alberi, del pericolo che correvano gli
operai di essere punti nel cantiere dalla tzé-tzé; ma, psicologicamente, la decisione di
disinfestare la zona sarà stata certamente ottima. La malaria, però, rappresentava un problema
più difficile. È vero che ai nostri giorni esistono dei profilattici che danno una completa
immunità, ma è altrettanto vero che è più difficile acquistare l'abitudine di prendere una pillola
alla settimana che quella di fumare venti sigarette al giorno. Ben presto, la Commissione per
l'energia elettrica comprese che erano indispensabili il prestigio e l'autorità di un medico per
incoraggiare la timida voce del buon senso.
Il dottor Maurice Stallmaster, uno che apparteneva al numeroso gruppo dei rhodesiani di
origine polacca, si stabili' per primo in una 'rondavel' di alluminio nell'agosto del 1955. Nel
suo angusto ambulatorio prefabbricato egli ebbe in cura, fìn dall'inizio, venti o trenta pazienti
al giorno, ma la grande maggioranza dei suoi visitatori soffriva di tagli non importanti, di
ecchimosi e leggere malattie della pelle. Il suo compito principale era poco alla moda e poco
remunerativo e consisteva nell'esercitare la medicina preventiva, attività che gode fra i medici
lo stesso prestigio che gode il cappellanato delle carceri fra le gerarchle ecclesiastiche.
La sua opera e quella di coloro che lo seguirono ebbe risultati molto soddisfacenti: la
percentuale di malattie e di incidenti si è mantenuta inferiore alla metà di quella riscontrata nel
più piccolo e meno difficile impianto delle cascate Owen in Uganda. Calcolando anche le più
piccole ferite e i disturbi minori, la percentuale ha raggiunto circa il 3,5% all'anno.
Una disinfestazione intensiva ha scacciato le zanzare dai confini della città di Kariba, e la
distribuzione settimanale di Daraprim ha dato completa immunità contro la malaria. Se
qualche caso sporadico compare ancora nei rapporti sanitari e in quelli sui decessi, esso è
dovuto interamente alla trascuratezza degli individui, o al fatto che erano già infettati prima di
giungere al cantiere.
Togliete la sporcizia e i flagelli, e vedrete che, per migliala di chilometri dell'altipiano
africano, la razza umana fiorirà come in nessuna altra parte della terra. La florida salute dei
bambini che vivono a Kariba sorprende tutti gli stranieri ed ha meravigliato moltissimo anche i
medici del luogo.
La Commissione per l'energia elettrica ebbe la fortuna di trovare, in Stallmaster e nei suoi
successori, un gruppo di medici che potevano permettersi ed erano pronti ad accettare un
incarico che dalla maggior parte dei colleghi sarebbe stato considerato poco vantaggioso. Il
dottor Mark Webster, che divenne medico capo, è il tipo d'uomo che si diletta ad affrontare un
problema, e che si annoia non appena lo ha risolto. Egli è pieno di iniziative, e il compito di
creare l'ospedale di Kariba assorbì tutte le sue energie finché non fu compiuto.
Nel maggio 1956, l'ospedale fu progettato. Nel maggio del 1957 venne completato e nello
stesso mese Webster lo consegnò al colonnello H. S. Smithwick, già del Servizio medico
indiano. Nonostante le difficoltà connesse alla posizione, si calcola che il suo costo fu di 1.000
sterline per letto, il che, per le Rhodesie, è molto al di sotto del costo medio; e in altro modo
serve anche da modello agli altri ospedali della Federazione. Ricovera pazienti di diverse
razze, benché vi siano ali separate per europei e indigeni, e ciò vuoi dire aver evitato i costosi
raddoppi dei servizi di laboratorio, chirurgia e amministrazione imposti dalle abitudini
segregazioniste di Salisbury. E poiché è diretto dalla Commissione per l'energia elettrica, è
libero dai sistemi burocratici caratteristici del servizio medico del governo federale. Non è
stato seguito, per esempio, il criterio di dipingere le sale nei soliti scialbi colori che danno a
tanti ospedali l'atmosfera di prigione, suggerita anche dalla stessa parola «corsia» (In inglese la
parola ward significa corsia di ospedale e cella di prigione).
Seche rosso vivo, porte blu, pareti pastello, piccole macchie di colore sui letti, tutto ciò rende
gaie le stanze ove le madri indigene hanno imparato a recarsi per dare alla luce i loro bambini.
Soffermarsi accanto al grande, sorridente colonnello a guardare i negretti e le donne che lo
salutano in queste stanze accoglienti, luminose e veramente civili, ricordarsi che alcuni anni
prima in questo posto c'era la boscaglia rocciosa infestata di babbuini; rendersi conto che
quelle donne pulite, ben nutrite e riposate, precedentemente avevano partorito rannicchiate
vicino al fuoco in una sporca capanna; comprendere tutto questo vuoi dire sentire un poco
dell'orgoglio o della speranza che sono l'unico premio alle lotte per il progresso dell'Africa,
troppo spesso così amare. Ogni impresa, grande o piccola, resta legata ad altre conquiste
completamente diverse dallo scopo principale. E Kariba non è una eccezione.
Non si può fare una digressione dalla storia principale di Kariba senza venire a parlare della
scuola europea. È sorprendente che il governo federale abbia deciso di costruire una scuola
elementare a Kariba. Nei territori scarsamente popolati della Rhodesia molti bambini ricevono
ancora la loro prima istruzione a casa. La Scuola per corrispondenza, uno speciale reparto del
Ministero, prepara programmi e lezioni dettagliate che vengono inviate alle madri. I ragazzi
fanno i compiti a casa, ma il lavoro è corretto ed i loro progressi sono sorvegliati dai maestri
per corrispondenza. Le lezioni per radio completano il materiale scritto. Dato che i ragazzi di
Kariba figli di genitori rhodesiani sono inferiori al 5 %, e poiché alla grande maggioranza
degli altri non sarà concesso, per la restrittiva legge sulla immigrazione, di restare nel paese,
una scuola non era statisticamente giustificata.
Probabilmente il Ministero sentiva l'obbligo morale di fare qualcosa per i figli degli uomini
che stavano costruendo la diga. Sovvenzionare una scuola italiana sarebbe stato
costituzionalmente impossibile. Dal momento che uno stato bilingue può originare molte
recriminazioni, come ha mostrato la vicina Unione Sudafricana, la Federazione ha stabilito che
l'inglese fosse l'unica lingua ufficiale. Se poi ai forestieri fossero state offerte facilitazioni non
disponibili normalmente per i rhodesiani, vi sarebbero state senza dubbio delle proteste.
La scuola, una volta costruita, avrebbe potuto facilmente ridursi ad una semplice
dimostrazione di buona volontà. Il problema di istruire 200 bambini di una dozzina di
nazionalità secondo un programma rhodesiano, quando i quattro quinti di essi non
conoscevano affatto l'inglese, avrebbe scoraggiato la maggior parte degli insegnanti. Ma
ancora una volta Kariba, che aveva polarizzato intorno a sé tutto il meglio della Rhodesia,
attirò l'uomo adatto a quel compito.
Bill Ames, nato a Bedford, Inghilterra, e stabilitosi in Rhodesia nel 1953, è un giovane fuori
del comune. Egli rappresenta una conferma della teoria che i migliori pastori e migliori
insegnanti sono quelli che hanno preso parte ai tumulti del mondo prima di seguire la loro
vocazione.
Si arruolò nell'esercito come «ragazzo» nel 1957; trasferito in aviazione, divenne aviere
durante la guerra e solo dopo la smobilitazione studiò per l'insegnamento. Nel pigro, scettico
mondo rhodesiano, le sue salde convinzioni religiose e la sua vocazione senza compromessi lo
rendono persona molto incomoda. È facile capire che può essere considerato un intollerabile
noioso da quelli che non condividono il suo entusiasmo. Ma poiché, nella nostra epoca incerta,
questo entusiasta sa ciò che vuole, è riuscito a raggiungere il suo scopo, con l'aiuto della sua
bella moglie dai capelli scuri, e non si è fatto scrupolo di crearsi dei nemici.
«Voi pensate alla vostra diga in termini di calcestruzzo, non di sforzo umano,» dichiarò una
volta allo sconcertato Duncan Anderson, che non è certo abituato a sentirsi apostrofare con
simili termini, e si allontanò furibondo per cercare di ottenere dall'Impresit ciò che la
Commissione per l'energia elettrica gli rifiutava.
La sua scuola in verità era piccolissima e miseramente costruita. Consisteva di una parte
amministrativa, tre aule, e un piazzale di ricreazione spianato con quarzite, che ha tutte le
qualità del vetro frantumato. Ames si fece prestare dall'Impresit due nuove aule prefabbricate e
ottenne da John Laing, dopo che tutti gli appaltatori avevano rifiutato, 500 tonnellate di terreno
vegetale. Con lo stesso spirito, Ames esortò e indusse la gente a costruire una piccola chiesa
non conformista, dove le panche e l'altare furono ricavati da vecchie porte di gabinetto, l'unico
legno che riuscì ad ottenere da chiunque. Il 13 gennaio 1957 la scuola fu inaugurata.
Gli alunni erano per il 75 % italiani; per il 15 % erano di lingua inglese e provenivano
dall'Inghilterra, Rhodesia, Sud-Africa, Kenya, Tanganika e altrove; il rimanente 10 % era
costituito da portoghesi, danesi, francesi, greci, afrikaner di lingua inglese e da una mezza
dozzina di altre nazionalità. Non avevano nulla in comune all'infuori, nella maggioranza, del
profondo desiderio di vivere altrove.
Molte madri italiane inoltre temevano il peggio. Si abbandonavano a scene di disperazione
ogni volta che dovevano dividersi dai loro terrorizzati ragazzi. Per i primi tre giorni
l'operazione di dividere i ragazzi nelle varie classi fu intralciata da un gruppo di donne che in
tutta la mattina non si allontanò mai dalle finestre delle aule perché i «bambini» sapessero che
le mamme erano ancora lì per proteggerli. Attorno al recinto della scuola sostava una sottile
linea di ansiosi ma silenziosi padri italiani, che venivano a prendere posizione non appena
smontavano dal turno di lavoro, per essere a disposizione in caso di disastro.
Il disastro quasi arrivò quando Ames scoprì che l'antagonismo fra le province italiane era più
forte delle rivalità nazionali. Quando due grandi e bellicosi piemontesi vennero sorpresi a dare
una lezione ad un piccolo corso, saltando a turno su di lui, egli li condusse nel suo ufficio e li
picchiò col bastone. La notizia si sparse immediatamente, e la scuola fu presa d'assalto. Gli
italiani puniscono raramente i loro figli, e quando si sparse la voce che il maestro inglese li
stava picchiando «come animali», i peggiori presagi dei genitori contadini furono confermati.
Ma i ragazzi apprezzarono la lezione anche se i loro genitori ne furono inorriditi, e tra loro non
si verificarono altri atti di violenza. Ames, da allora, non ha mai più usato il bastone.
Dopo circa dieci giorni le cose si sistemarono. Ames abbandonò l'intenzione originaria di
tenere classi separate per gli italiani e per gli altri, e decise di tenere tutte le lezioni nell'inglese
elementare. Con l'aiuto di cinque assistenti, tre delle quali bilingui, la scuola ora fiorisce. Per
gli italiani ci sono lezioni supplementari nel pomeriggio, durante le quali vengono svolti i
programmi italiani. Alla fine dei corsi fanno gli esami di Stato italiani e conseguono diplomi
accettati dal Ministero dell'Istruzione del loro paese.
Bill Ames non ha nessuna pretesa che la sua scuola raggiunga un alto livello di profitto
scolastico. Infatti al loro ritorno in patria, quasi tutti i ragazzi si troveranno indietro di un anno
rispetto ai loro coetanei. Tutti, però, avranno acquistato qualche conoscenza di una lingua che
non è la loro, e avranno goduto l'esperienza di conoscere ragazzi stranieri. Alla loro età i
pregiudizi razziali sono meno forti della curiosità infantile e del bisogno di compagnia. Le
poclie centinaia di bambini che frequentano la scuola di Kariba non sono che una goccia
nell'oceano della gioventù africana ed europea, ma tra loro non vi saranno sicuramente degli
sciovinisti.
Ancora una volta, in margine al suo compito principale, Kariba ha creato qualcosa
d'importante: un piccolo lievito che, nel fermento dell'Europa, affretterà il giorno in cui questo,
più ricco di tutti i continenti, ritroverà la sua unità essenziale.
CAPITOLO UNDICESIMO
IL DIO ADIRATO
Con il progredire della stagione asciutta del 1957, gli italiani cominciarono a sentirsi padroni
della situazione. Le piene li avevano sconcertati e preferivano non pensare ai giorni in cui il
pome stradale era minacciato e tutto il programma di lavoro sembrava sul punto di venir
distrutto. Essi avevano provato a se stessi ed al mondo intero di essere riusciti ad anticipare i
tempi del rigido programma nonostante la piena dello Zambesi avesse superato di due volte il
livello massimo normale. Incoraggiati dal successo, accelerarono persino il ritmo di lavoro.
Ogni mese qualche migliaio di metri cubi di roccia in più veniva scavato nell'interno delle
colline ridotte ad un vero e proprio labirinto di pozzi e di gallerie che conducevano alla grande
centrale sotterranea ed alla sala macchine. Ogni mese migliaia di metri cubi di calcestruzzo
venivano aggiunti ai conci della parte settentrionale della diga, che cominciava ad assumere
quel curioso aspetto turrito caratteristico della costruzione ai suoi primi stadi.
Il lavoro alla tura centrale che, con i suoi 116 mt. di diametro, avrebbe racchiuso 10.000 mq. di
letto del fiume, progrediva rapidamente. La tura veniva costruita in acque calme e il
procedimento era di conficcare nel terreno delle palancole d'acciaio per formare delle strette
scatole di metallo. Pezzi lunghi fino a 26 mt. erano infissi nel letto del fiume da battipali che
lavoravano su pontoni. Le scatole metalliche venivano legate da paratie di acciaio, e quindi
riempite di pietrame. Quest'ultimo veniva poi unito in una massa solida dalla boiacca di
cemento iniettata sotto pressione. Il letto del fiume entro il quale venivano forzate queste
scatole era coperto da uno strato traditore di roccia e sabbia sciolta. Per ottenere fondazioni
solide, la sabbia veniva succhiata fuori e la boiacca era pompata in sua vece sott'acqua, così
che il letto e le palancole si confondessero in un'unica struttura. Appena era stata formata una
solida fila di palancole, la parte di tura sopra l'acqua veniva costruita con i soliti sistemi.
Quando entrarono in funzione i blondins, il compito di gettare il calcestruzzo venne facilitato:
il materiale già mescolato veniva portato lungo i cavi dei blondins, nelle benne, per essere
scaricato al punto esatto. Il trasporto dall'impianto di betonaggio sulla riva nord, alla zona di
lavoro in mezzo al fiume, richiedeva solo qualche minuto. L'abbassamento delle benne veniva
diretto a mezzo di radiotelefono da un uomo sulla diga che passava istruzioni al manovratore
del blondin, che si trovava a 800 metri di distanza e 240 metri più in alto, nella cabina della
gigantesca macchina.
Il fiume deviato nel canale a ridosso della sponda nord e, per buona parte del suo volume di
magra, nella galleria della sponda meridionale, si era ridotto a poco più di un torrente
turbinoso reso insignificante dall'imponenza dei conci della diga e a volte quasi nascosto dalla
piatta ombra della tura in costruzione. I mesi di mezzo dell'annata erano freschi e calmi a
paragone della calda e burrascosa stagione delle piogge. Verso la metà di novembre 1957, la
tura era quasi pronta: nell'acqua sudicia in essa contenuta vennero calate delle pompe montate
su zattere. Il pompaggio cominciò il 19 novembre e due giorni più tardi venivano asportati gli
ultimi sedimenti. Per la prima volta nelle centinaia di millenni in cui il fiume aveva fluito
attraverso la gola, il letto principale dello Zambesi vedeva la luce.
Sul fondo giacevano trovanti alti due o tre volte l'altezza di un uomo, consumati dall'acqua
così da sembrare crani di mostri preistorici. Quando la prima zattera toccò il fondo, tre uomini
trionfanti poterono osservare i contorti segreti del letto del fiume. Si chiamavano Errera, uno
degli ingegneri francesi che rappresentava i consulenti. Bergamasco, il direttore dell'Impresit
in Rhodesia, e Baldassarrini. Su di loro torreggiava il muro di 57 metri della tura, sul quale gli
operai coininuavano a lavorare per portarlo ad una quota superiore a quella raggiunta dalla
piena di marzo. Sebbene le probabilità che una simile piena si verificasse per due anni
consecutivi fossero minime, non si voleva lasciare nulla al caso.
Ogni stadio di esecuzione del progetto riceveva un nome convenzionale, secondo le abitudini
del tempo di guerra, e questo intrappolamento dello Zambesi era indicato con la
denominazione sclierzosa di «Operazione trappola per topi». Anche se restava ancora da
compiere la parte più spettacolare del lavoro, il momento in cui i tre uomini scesero dalla
zattera per camminare sul letto del fiume fu decisivo per tutto il programma. Innalzare la diga,
ora che il fiume era stato asciugato, era un problema puramente meccanico, una questione di
preparazione, di trasporto e di rapido rifornimento dei materiali grezzi necessari alla
costruzione. Ed ecco infatti come si espresse Baldassarrini quando, con le scarpe ancora umide
per il fango dello Zambesi, i tre ingegneri salutarono i colleghi che li aspettavano sulla riva:
«Da questo momento in poi, è soltanto questione di calcestruzzo... calcestruzzo...
calcestruzzo..».
Tutti in verità erano molto fiduciosi.
Dicembre passò senza incidenti e il Natale fu celebrato per la prima volta a Kariba come una
festa familiare. Vennero organizzate delle festicciole per bambini; cipressi decorati, usati come
alberi di Natale, luccicavano nella notte alle finestre delle case dei rhodesiani. Furono fatti i
soliti sforzi per celebrare la festività secondo le tradizioni nordiche e per banchettare con
pesanti puddings e torte in una temperatura che non scese mai sotto i 38°. Degli entusiasti, coi
visi paonazzi, respirando affannosamente, oppressi da rossi mantelli imbottiti e soffocati da
baffi di ovatta, apparvero nelle vesti di Babbo Natale alle festicciole dei bambini. Per gli
italiani, il Natale non presenta (Ilici significato commerciale e paganeggiante che i rhodesiani,
alla maniera degli inglesi, gli attribuiscono; perciò essi parteciparono ai festeggiamenti
soprattutto per dovere di cortesia. Per ricambiare la gentilezza, quasi tutti, a Kariba,
assistettero alla messa di mezzanotte, che venne celebrata all'aperto. Gli italiani cortesi
decisero di introdurre nella cerimonia un tipico canto inglese. Durante il Credo, da tutti gli
altoparlanti si udì la dolciastra voce di Bing Crosby che cantava «l'm dreaming of a white
Christmas» (noto in Italia come Bianco Natale) con l'accompagnamento di un'orchestra
completa di organo e di sonagli da slitta.
La devozione dei rhodesiani mentre, tremanti di emozione, si chinavano commossi in avanti
con le mani sugli occhi, sconcertò gli italiani, i quali non avrebbero mai immaginato che gli
eretici fossero capaci di un simile profondo sentimento religioso. Natale passò con i suoi plum
puddings e i suoi «panettoni» seguito da una notte di Capo d'Anno celebrata più o meno nello
stesso stile sebbene sotto una dozzina di nomi diversi.
E si ritornò al lavoro.
Gli scavi sotterranei stavano dando preoccupazioni, perché ogni metro di roccia doveva venir
trattato con precauzione; anche gli scavi per la diga entro la tura erano faticosi, poiché
bisognava rimuovere migliaia di tonnellate di sabbia molto bagnata, che doveva essere
trasportata via lungo i cavi dei blondins. Ma, alla fine di gennaio, fu possibile iniziare le
fondazioni della parte centrale della diga. Gli escavatori avevano appena iniziato il loro lavoro
quando arrivò la notizia che, sopra le cascate Victoria, lo Zambesi aveva già superato di 5"
metri il livello massimo della piena dell'anno precedente. Tale notizia era addirittura
incredibile perché la probabilità che si verificasse una piena come quella del 1957 erano state
calcolate 1 contro 1.000, e di conseguenza la possibilità che una simile piena si ripetesse nel
1958 sembrava assolutamente assurda. Poi arrivò la notizia che piogge fenomenali stavano
cadendo su tutto il bacino, e che si potevano aspettare piene pericolose in febbraio. Il ritmo di
getto fu annientato per innalzare il più possibile i conci della diga, e durante quel mese i
bastioni sulle due rive presero l'aspetto di una fortezza incombente sul cerchio della tura
centrale.
Nel 1957, la piena era stata preavvisata con largo anticipo, ma nel 1958 lo Zambesi si abbattè
sulla gola con violenza improvvisa e travolgente. Il 7 di febbraio il ponte stradale, che era stato
a stento salvato l'anno prima, ricevette un colpo mortale. Uno dei piloni di sostegno cedette e
venne portato via in pochi secondi. Il ponte condannato venne chiuso, ma rimase la passerella
sospesa per il traffico pedonale e i blondins per il trasporto delle attrezzature. Anche il Sanyati
crebbe di 2 metri e mezzo in 24 ore e prese d'assalto la gola. Il livello dell'acqua salì oltre 3
metri sopra il limite delle piene del '57; e agli uomini sgomenti giunse la notizia che l'attacco
principale stava ancora preparandosi e avrebbe colpito Kariba non prima di due settimane.
Sembrava che nulla potesse salvare la tura, nonostante la sua altezza eccezionale. Vennero
mobilitate squadre di emergenza per erigere impalcature di legno sulla parete di monte, mentre
i ronzanti blondins tiravano fuori tutte le attrezzature pesanti, come i bulldozer e gli escavatori.
L'acqua cresceva ancora; il Sanyati allagò l'aeroporto e tutto il traffico aereo venne sospeso.
Tranne che per le pericolose strade di accesso spazzate dalle tempeste, che non potevano più
portare traffico pesante, Kariba era isolata. Il 9 febbraio, attraverso il radiotelefono, si udì la
calma voce di un addetto ad una stazione di misurazione dell'alto fiume: «La piena principale
ha raggiunto la piana di Barotse. Siate pronti a riceverla fra dieci giorni; temo che sia
eccezionale».
Un giovane ingegnere italiano, che era arrivato in volo da Milano meno di dieci giorni prima,
si accarezzò l'ispida barba di quarantotto ore e rise sui visi sconcertati dei colleghi che
circondavano l'apparecchio ricevente. «Mi avete detto che si doveva affrontare l'incredibile.
Cosa succederà quando ci troveremo di fronte all'eccezionale?»
«Quando sarà il momento,» disse un veterano di Udine, «capirai per la prima volta quanto
siano grandi gli inglesi nell'attenuare le cose. Sai che cosa sta per capitarci?» La vecchia volpe
fece una pausa nel gioco di impressionare il nuovo venuto. «La pioggia che cade su mezza
Europa in un mese, si rovescerà attraverso quel canale laggiù. Stai attento a non bagnarti i
piedi»
Ma prima che la notte fosse trascorsa, si ritrovarono tutti inzuppati fino alle ossa, poiché un
violento temporale si abbattè su Kariba. Sotto la pioggia torrenziale, delle frane cominciarono
a muoversi lungo le pendici delle alture, e slittando attraverso le strade di accesso, andarono a
riversarsi nel fiume. Dalle rive, investite da ondate vorticose di quattro o cinque metri
d'altezza, vennero strappate intere strisce di terra. Sotto le lampade ad arco, piccoli gruppi di
uomini combattevano per salvare i piloni principali del ponte stradale, mentre autocarri
ribaltabili si trascinavano attraverso il fango con carichi di pietrame per rimpiazzare il terreno
che veniva portato via dal fiume.
Poiché, nelle 48 ore seguenti, il fiume non accennò a salire sterline ulteriormente,
l'instancabile Baldassarrini ordinò che il lavoro entro la tura venisse ripreso. Benché l'acqua
tuonasse attorno ai conci della riva nord, lanciando spruzzi alti come una casa, e le onde
fossero a due metri e mezzo dal bordo della parete di monte, gli uomini continuarono a
lavorare imperturbabili. Nudi sino alla cintola, i torsi abbronzati gocciolanti mentre lavoravano
all'unisono, le teste e i volti resi impersonali dagli elmetti rotondi, quegli operai sono stati
paragonati centinaia di volte ai legionari romani; ma se mai meritarono tale paragone, fu
proprio durante quei giorni, quando lavorarono con silenziosa disciplina nella piccola isola
molto al di sotto dell'acqua, sprezzando lo Zambesi che in qualsiasi momento avrebbe potuto
sopraffarli. Questo pezzo di terra entro la tura era l'impero che essi avevano conquistato al
fiume, protetti da un semplice muro contro il barbarico infierire del nemico.
Erano le 22 del 16 febbraio, e Baldassarrini, dopo la lunga giornata trascorsa in cantiere, era
appena uscito dalla doccia e si stava vestendo per il pranzo, quando suonò il telefono. Gli
giunse una concitata comunicazione dai guardiani della gola: «Ingegnere, si è aperta una falla
nella tura»
Senza attendere oltre, Baldassarrini buttò giù il ricevitore e gridò una spiegazione che sua
moglie non potè sentire. Un attimo dopo era fuori di casa, sulla sua Land Rover e cinque
minuti più tardi era già nella gola, proprio in tempo per vedere gli ultimi uomini arrampicarsi
fuori e un grande escavatore sparire sott'acqua. Sotto le colossali pressioni, un piccolo angolo
delle fondazioni di monte aveva ceduto, e l'acqua vi penetrava attraverso a tutta forza. In meno
di 4 ore l'area entro la tura venne allagata. Il fiume aveva riconquistato il suo letto. Sui giornali
rhodesiani apparve la fotografia di una conferenza stampa tenuta a Salisbury il giorno
seguente. Attorno ad un tavolo siedono Olivier, rappresentante dei consulenti di Salisbury, con
un mesto e pallido sorriso; Giuseppe Lodigiani, capo dell'Impresit, che si trovava in Rhodesia
per una delle sue frequenti visite, stanco e con la pelle tirata sul magro viso; Bergamasco gli
siede vicino, fumando una sigaretta, con una espressione tetra e il pensiero ovviamente
lontano. Questo gruppo, circondato da seri assistenti, fa pensare alle fotografie di generali
sconfitti, colti dall'obiettivo nel momento in cui sono costretti ad ammettere la loro disfatta. Fu
una fotografia che testimoniò, più di ogni altra cosa, la violenza della battaglia che si stava
combattendo nella solitaria Kariba. Ma era anche ingannevole. Questi uomini erano stanchi e,
per il momento, scoraggiati ma non sconfitti. Inoltre sapevano quello che il pubblico non
poteva indovinare e cioè che le forze principali del fiume non avevano ancora attaccato la
gola. I loro pensieri, mentre facevano il triste resoconto dei fatti ai giornalisti, erano con i
colleghi lasciati a combattere la battaglia più di 320 km. lontano. Nulla poteva essere fatto per
aiutarli. Come spesso succede, gli uomini più vicini al pericolo erano meno preoccupati di
quelli che potevano dividere i pericoli solo con l'immaginazione. Avevano troppo da fare per
perdere tempo in meditazioni. Ma nessuno rideva più delle storie di Nyaminyami. Alle menti
già affaticate da lunghe ore di sforzo fisico, sembrava per davvero che il fiume fosse guidato
da una specie di intelligenza, alla ricerca dei punti deboli nella difesa dell'uomo e secondo un
piano prestabilito. Prima era stato danneggiato il ponte stradale, la principale via dei
rifornimenti, ed ora veniva lanciato l'assalto decisivo contro la tura già indebolita da una
breccia.
«Oggi, il fiume è diventato vivo,» disse Olindo Pierobon, sovrintendente agli scavi nel letto
del fiume, quando, il 20 di febbraio, il livello dell'acqua salì oltre la parete della tura ed era
arginato solo dalla sopraelevazione improvvisata. Senza dubbio, la tura sarebbe stata presto
superata anche dall'esterno, mentre veniva allagata dall'interno. Bisognava correre ai ripari per
salvarla. Ciò sarebbe stato possibile se si fosse abbassato il muro di valle.
Cedendo questo diritto di passaggio al fiume, le pareti della tura potevano venire salvate.
Guidati da Baldassarrini, alcuni uomini si fecero trasportare sulla parete di valle della tura in
una benna del blondin. Quando smontarono, l'acqua lambiva i loro piedi; erano accecati dagli
spruzzi e assordati dal ruggito del fiume mentre, pericolosamente in equilibrio, pochi
centimetri sopra la piena, tentavano di porre alcune cariche di esplosivo. L'unico legame col
mondo esterno era la benna oscillante sulle funi sopra le loro teste. Una grossa ondata, causata
da qualche ostruzione a valle, spazzò il muro, e due indigeni vennero trascinati nel fiume.
Subito Marchi, un italiano di 24 anni, si tuffò dietro di loro. Nuotatore d'eccezione, riuscì ad
afferrare uno di essi ed a tenerlo stretto mentre la benna veniva abbassata sino a loro. Entrambi
l'afferrarono e vennero sollevati per aria pericolosamente abbracciati ad essa. L'altro indigeno
non fu più trovato.
La stessa ondata d'acqua strappò gli inneschi così che il tentativo di far saltare via la parte
superiore della parete di valle riuscì solo in parte. Allora le benne del blondin vennero caricate
di sabbia e lanciate contro la parete. Questo primitivo ariete ebbe successo dove avevano tatto
fiasco le moderne tecniche, e la parete della tura fu abbassata di oltre un metro.
In quella ciré letteralmente poteva essere considerata una «operazione ramazza», lo Zambesi
di nuovo spostò la sua attenzione sul ponte stradale danneggiato. Onde alte come montagne lo
attaccarono alle due estremità, aprendo brecce di 6 metri nelle rive. Inzuppate di pioggia e di
spruzzi, le squadre assegnate alla sua protezione guardavano senza poter intervenire. Poco
dopo con uno spaventoso fragore che più tardi venne paragonato al tuonare di un cannone, il
ponte se ne andò. La grande costruzione svanì nell'istante in cui un uomo volse la testa per
parlare al compagno. Quando tornò a voltarsi per guardare il fiume, del ponte non restava
nemmeno la più piccola traccia.
Questa terrificante prova della forza del loro avversario, condusse gli uomini della gola all'orlo
della disperazione. Anche Baldassarrini sentì che il fiume aveva vinto, benché allora non lo
volesse ammettere. «Sentii,» dichiarò in seguito, «che eravamo contrastati da una forza molto
più potente della nostra. Ci era concesso soltanto di salvare quello che si poteva, e attendere
che la piena scendesse. Il padrone era il fiume. Potevamo solo attendere per vedere quanto del
nostro lavoro fosse stato risparmiato, e quanto avremmo dovuto rifarne».
Da Salisbury vennero organizzati voli turistici..»Per 9.000 lire sterline i passeggeri prendevano
posto sopra un aereo che volava sulla gola a bassa quota, e ciascuno a turno stava per un
minuto nella cabina di pilotaggio per osservare le devastazioni sottostanti. Nella zona della
diga il fiume sembrava quasi placido; color cioccolato, si estendeva molto al di là delle sue
rive. La sua superficie era segnata solo da chiazze bianche che la corrente formava in
corrispondenza delle cime degli alberi del territorio sommerso. «Sembrava che si muovesse
senza uno scopo preciso,» commentò in seguito un passeggero, «quasi simile ad una grande
folla potenzialmente pericolosa, ma, in quel momento, innocua. Poi, entrato nella gola,
sembrava impazzire di rabbia per quello che vi trovava. Si gonfiava allora in una grande massa
bianca, che si scagliava con una velocità enorme contro i conci della diga e gli altri lavori che
potevamo appena scorgere. A volte, sembrava che l'acqua si ritirasse per prendere d'assalto la
diga con nuovo slancio».
Quel passeggero non stava fantasticando. Infatti quando un fiume, largo diversi chilometri, si
infila alla velocità di 20 nodi in uno stretto canale, si verificano gorghi tumultuosi e
controcorrenti, così che le costruzioni, poste all'ingresso di una gola, vengono assalite
contemporaneamente da tutte le direzioni. Non solo il fiume cresceva in altezza nel passare
attraverso la strettoia, ma la sua velocità, in superficie, veniva quasi raddoppiata. Alla velocità
di un treno rapido, centinaia di migliaia di tonnellate di acqua si scagliavano contro ogni
ostacolo. I conci della diga non furono mai in pericolo; erano solidamente ancorati per 24
metri entro le rocce del letto del fiume, e tutta l'acqua dell'Africa non sarebbe stata capace di
scuoterli. Il resto della costruzione, invece, era seriamente minacciato.
«Sembrava un formicaio sfasciato da un calcio,» continuò l'osservatore dell'aereo, descrivendo
il cantiere. «Piccoli gruppi di uomini stavano affrettandosi con ordine attorno alle grandi ferite
che il fiume aveva aperto entro le rive. Ma nell'attimo stesso in cui si guardava, un altro
strappo si apriva nella sagoma della gola.
«Quasi mi vergognavo d'aver partecipato alla gita. Sapevo però che quei ragazzi lì sotto non
sarebbero mai stati sconfitti. Mi venne di nuovo in mente il formicaio: lo si distrugge con un
calcio e le formiche corrono in tutte le direzioni portando i loro patetici, piccoli fardelli. La
loro attività sembra inutile. Ma alla fine ci si stanca di tirar calci; non si può restare lì per
sempre! Se si torna sul luogo una settimana dopo, si trova che le formiche hanno ricostruito
pezzo per pezzo tutto ciò che era stato distrutto».
Questa similitudine era forse più aderente di quanto il passeggero potesse immaginare. Il
livello dell'acqua stava salendo di 30 cm. ogni 3 ore e la piena principale era ancora ben
lontana. Sembrava che non ci fossero limiti a ciò che il fiume poteva fare. Si dovettero
prendere precauzioni tali che nessuno aveva immaginato nemmeno lontanamente. Il lavoro
sotterraneo venne sospeso, e gli ingressi alle gallerie che conducevano entro la montagna, 30
metri al di sopra del livello massimo previsto, vennero sigillati. Si fecero perfino preparativi
per spostare i blondins dalla loro piattaforma. Come le formiche, gli uomini in cantiere
sapevano che era inutile resistere alla immensa brutalità dell'attacco. L'unica cosa che si
poteva tentare era di conservare le deboli basi sommerse che avrebbero permesso l'inizio della
ricostruzione quando la primordiale furia si fosse placata.
Già alcune costruzioni stavano per essere strappate via dalle posizioni che erano state ricavatesui fianchi delle alture. Sulla riva nord, restava soltanto un casottino solitario, un gabinetto
che, per uno strano capriccio del caso, era rimasto in piedi. Poi, la tura già allagata venne
sommersa. Dopo poche ore l'unico segno della sua esistenza fu una cascata, larga 90 metri e
alta 12, formata dai fiume che si precipitava dalla parete di monte verso quella di valle.
I.a cascata trascinava giù nell'acqua enormi bolle di aria che, nel risalire sterline in superficie,
scoppiavano con assordanti esplosioni udibili al di sopra del ruggito del fiume, e mandavano
grandi spruzzi d'acqua su verso il cielo. Tutto questo dava l'impressione che la diga si trovasse
sotto il fuoco di qualche lontana artiglieria. Durante la notte la cittadina era spesso disturbata
dalla selvaggina costretta dalla piena a cercare scampo fra le alture. I babbuini facevano
incursioni nelle case in cerca di cibo; gli animali domestici venivano sbranati nei giardini delle
ville dalle iene affamate; il barrito degli elefanti ed il ruggito dei predatori si udivano sempre
più vicini mentre gli animali venivano spinti dalle acque montanti verso le colline, in cima alle
quali sorgeva la nuova cittadina.
È sorprendente che, per tutto questo disperato periodo, gli operai indigeni non abbiano mai
abbandonato il lavoro. Forse in un momento in cui anche i più evoluti europei erano
ossessionati dall'idea di combattere qualcosa di più di un fiume, molti degli indigeni dovevano
essere convinti che Nyaminyami li avesse condannati tutti. Forse la più grande speranza di
questo continente sta nella fiducia che il credulo africano medio ripone negli europei: fiducia
che né l'insolente egoismo di una minoranza di coloni, né l'ignorante benevolenza della
maggioranza degli uomini politici stranieri, hanno mai potuto distruggere. La lealtà che
l'africano ha così spesso mostrato, genera a sua volta un sentimento che sta al di sopra dei
pregiudizi importati in Africa proprio dall'Europa e che l'Europa stessa oggi condanna.
In tutta la Rhodesia i fiumi erano in piena con una violenza senza precedenti. Le piogge
implacabili cadevano senza tregua; nella zona di Wankie, le precipitazioni di mezzo mese
superarono la caduta media di un anno. Si prevedeva che la punta della piena dovesse
raggiungere Kariba il 25 febbraio. Perciò, il giorno prima, il governatore generale, lord
Dalhousie, salì sul suo aereo e volò sopra il cantiere. Un messaggio venne trasmesso agli
uomini che si fermarono per pochi minuti, a guardare il visitatore venuto dal remoto mondo
esterno: «Pensiamo a voi, venga o non venga il peggio. Auguri e buona fortuna» Questo era
tutto ciò che i 7 milioni di abitanti della Federazione potevano fare.
Lo stesso giorno, Baldassarrini condusse un gruppo di 25 uomini, tra europei e indigeni, sul
ponte sospeso, nel tentativo inutile, ma coraggioso di salvarlo. Il fiume stava già tentando di
afferrare con ingordigia la fragile costruzione. Disorientati dalla pioggia e dagli spruzzi, gli
uomini si tennero in equilibrio sulle travi oscillanti per sollevare il ponte di circa un metro.
Ma, come essi dovevano già sapere mentre arrischiavano la vita, quel lavoro era inutile: il
fiume, infatti, continuò a salire sterline a lungo dopo aver raggiunto il livello massimo
previsto. Il 3 marzo, il Sanyati fece un'altra delle sue incursioni. Il ponte lottò disperatamente,
contorcendosi e dibattendosi fuori dall'acqua; le sue oscillazioni divennero così violente che
talvolta un fianco superava l'altro di 6 metri, e tuttavia restò intatto anche quando l'acqua lo
raggiunse. Ma la torre settentrionale crollò, perché le sue fondazioni erano state colpite alla
base. In un ultimo gesto di sfida, il ponte si sollevò al di sopra dell'acqua e quindi ricadde
spezzato in tre tronchi.
Trionfalmente, lo Zambesi trascinò con sé i frammenti del naufragio mentre si rovesciava
ormai libero verso il mare. I conci della diga, che erano ancora al di sopra dell'acqua, non
opponevano ostacolo al suo avanzare. Nyaminyami aveva mantenuto la sua minaccia: aveva
riconquistato la gola. L'acqua, con impeto trionfante, passava sui resti dell'opera dei suoi
nemici a più di 16.000 metri cubi al secondo; una piena che, secondo i calcoli, poteva
verificarsi solo una volta ogni 10.000 anni.
CAPITOLO DODICESIMO
ESSI MORIRONO A GWEMBE
La notizia del trionfo dello Zambesi rafforzò la determinazione di un gruppo di Batonka che
viveva nel distretto di Gwembe, sulla riva nord. Erano 6.000, poco più di un quinto, cioè, di
tutti i Batonka che, per lasciar posto alle acque del futuro lago, dovevano venire spostati verso
le nuove dimore della Rhodesia del Nord. Per capire perché mai questo gruppo abbia sfidato le
autorità e, sotto la guida del capo Chipepo, abbia preso le armi primitive per difendere le
proprie dimore ancestrali, è necessario conoscere come e perché il governo della Rhodesia del
Nord abbia affrontato il problema di spostare le tribù con metodi diversi da quelli usati nella
Rhodesia del Sud.
In questa zona vi è la Commissione indigena di Gwembe che esercita alcuni poteri riconosciuti
dal governo territoriale. La Commissione è composta da sette capi del distretto, cinque
consiglieri nominati dai capi stessi, e sette consiglieri scelti dal popolo. Non appena la
decisione di costruire la diga venne comunicata alla Commissione indigena di Gwembe,
questa tenne una riunione e sottopose al governatore una serie di domande, conosciute come «i
24 punti», che richiedevano un certo numero di assicurazioni in merito allo spostamento dei
Batonka. La maggior parte di queste domande erano ragionevoli. Sottolineavano la
preoccupazione dei Batonka, i quali non volevano essere spostati in un ambiente
completamente estraneo, non volevano che i loro gruppi familiari e di tribù venissero
smembrati, e desideravano inoltre assicurazioni che le loro credenze religiose ed i loro costumi
fossero rispettati. Per l'80% dei 29.000 uomini delle tribù da spostare, queste condizioni
poterono essere accolte: 23.000 Batonka vennero infatti sistemati in zone nuove, sempre
nell'ambito della vallata di Gwembe e non lontano dalle loro dimore di origine.
Rimanevano, tuttavia, 6.000 persone per le quali non era disponibile alcun terreno adatto in
vicinanza dei vecchi distretti. Si potè soltanto promettere loro che l'ambiente non sarebbe stato
cambiato e che i gruppi familiari non sarebbero stati smembrati. Venne assegnata loro mìa
zona estremamente fertile vicino al fiume Lusito, presso Chirundo, con una superfìcie di
terreno arabile tre volte superiore a quello che avevano prima. Unico svantaggio, la zona si
trovava a più di 160 km. dalle vecchie residenze, così che la tribù di Chipepo restava divisa in
due parti, assai distanti.
La Commissione indigena di Gwembe, di cui faceva parte lo stesso Chipepo, riconobbe che
non v'era altra alternativa. Vennero perciò fatti tutti i preparativi necessari date le circostanze.
Si costruirono strade, si fecero perforazioni nella zona di Lusito per alleggerire il compito dei
nuovi colonizzatori, e i capi tribù vennero esortati a visitare Lusito per scegliere le posizioni
dei nuovi villaggi.
Fino a questo punto, non v'erano differenze sostanziali tra i metodi adottati nella Rhodesia del
Nord e quelli della Rhodesia del Sud. Una variante stava nel fatto che, nella Rhodesia del
Nord, agli uomini delle tribù fu promesso un indennizzo in contanti per lo spostamento,
mentre, nella Rhodesia del Sud, si stabilì di distribuire razioni gratuite sino al momento in cui
gli indigeni si fossero completamente risistemati. Quest'ultima, in seguito, si è dimostrata la
disposizione migliore, perché più elastica. La Rhodesia del Sud accettò la responsabilità di
nutrire le tribù spostate sino a quando si fossero sistemate completamente, cosa che le protesse
dai capricci del clima durante i primi anni di residenza nelle nuove dimore.
Il Nord diede loro un'unica somma in contanti, provvedimento che, senza dubbio, venne
accolto in un primo tempo con maggiore entusiasmo, ma che, erroneamente, presupponeva la
possibilità di prevedere la durata del periodo necessario alle tribù per ottenere i primi raccolti e
provvedere al proprio mantenimento. Molto più grave fu la politica dilatoria seguita dal
governo della Rhodesia del Nord. Per minimizzare le conseguenze dello spostamento, era
indispensabile che venisse trasferito il maggior numero di persone possibile fra il raccolto di
una messe e la semina dell'altra. Senza dubbio le autorità della Rhodesia del Nord se ne
rendevano conto, ma sciuparono mesi preziosi per spiegare quello che stavano facendo, e per
assicurarsi che tutti fossero contenti. Ne conseguì che, quando ebbe luogo la maggior parte
degli spostamenti, le tribù avevano lavorato senza scopo le vecchie terre per preparare le
semine ed era ormai troppo tardi per dissodare le terre nuove e preparare i prossimi raccolti.
Facciamo un confronto tra la situazione del Nord e quella del Sud. All'inizio della stagione
delle semine nel 1957, lo spostamento delle tribù, nella Rhodesia del Sud, era virtualmente
compiuto e molti indigeni stavano iniziando la seconda semina nelle nuove terre. Nella
Rhodesia del Nord, invece, un anno dopo, dovevano ancora venire trasferite 11.000 persone, e
fu proposto di spostarne 8.000 nell'ottobre 1958, così tardi che non avrebbero avuto alcuna
possibilità di far crescere un ragionevole raccolto nella stagione 1958-1959.
Più le autorità della Rhodesia del Nord parlavano, più i Batonka diventavano sospettosi.
Quando in un primo tempo venne spiegato loro che a Kariba la diga avrebbe creato un lago
che avrebbe sommerso le loro case, essi si fidarono dell'uomo bianco senza riserve. Per loro
questa affermazione era tanto difficile da accettare, quanto per una popolazione europea
accettare le realtà dell'età nucleare. Ma l'uomo bianco aveva fatto molte cose incredibili, ed
essi si erano abituati all'impossibile. Però l'uomo bianco parlava troppo. Perché continuava a
ripetere la stessa cosa? Forse egli stesso non credeva a quanto andava dicendo?
Questo era il momento di incertezza tanto atteso dal Congresso Nazionale Africano. Sappiamo
che, sin dal 1955, uomini che pretendevano di parlare per conto di «Ari» avevano venduto
carte magiche che avrebbero impedito la costruzione della diga a Kariba. Gli stessi uomini
potevano ora citare le piene del 1957 e del 1958 come prove della potenza di Nyaminyami.
Egli aveva distrutto tutti i ponti sul fiume, come aveva minacciato di fare, e per due anni di
seguito aveva allagato le ture. Era evidente, quindi, che gli stessi uomini bianchi sapevano
ormai di non poterlo vincere. Fin qui, per i Batonka della tribù Chipepo era facile seguire
l'argomentazione. Ma allora, perché l'uomo bianco stava cercando di spostarli?
«Aaah!» Questa lunga esclamazione indigena va udita durante una discussione perdio si possa
apprezzarne la forza oratoria. L'uomo bianco stava abbattendo tutti gli alberi della loro terra?
(era stato iniziato il diboscamento per preparare zone ove le barche da pesca potessero operare
sul fondo del nuovo lago). Ovviamente l'uomo bianco stava preparando il terreno per costruire
fattorie per suo uso e consumo. La storia della diga non era altro che un inganno per cacciare i
Batonka dalle loro case.
Inganno? (Molti indigeni primitivi si sarebbero rifiutati di crederlo. Nonostante tutti i suoi
difetti, l'amministrazione coloniale britannica si è guadagnata una reputazione di sincerità.) Ma
guarda! C'erano le prove. Potevano vedere le case in costruzione, e la strada fatta per gli
aeroplani.
(Effettivamente erano state costruite case prefabbricate provvisorie ed una pista per aerei da
parte degli appaltatori del diboscamento.)
«Aaah!»... È facile immaginare gli anziani chinati, scuotere le loro barbette l'uno verso l'altro,
mentre i dolci occhi si fanno scuri e pensierosi. I giovani fremono e guardano con aria cupa.
Con pazienza, di continuo, gli argomenti venivano ripetuti. Se l'uomo bianco credeva
veramente che l'acqua stesse per arrivare, avrebbe trasferito tutti quanti, invece di parlare, di
parlare sempre. Certamente stava bluffando. Se il popolo di Chipepo avesse dimostrato di
essere deciso a rimanere, l'uomo bianco alla fine avrebbe ceduto, ed essi sarebbero stati
lasciati in pace.
Il capo Chipepo, intelligente, ma non molto energico, lento con la forza del proprio esempio di
superare i sospetti della sua tribù, e trasferì la sua famiglia nella nuova zona. Il prestigio del
suo rango ebbe poco effetto; ma nel maggio 19.58, sek-entocinqiianta persone acconsentirono
di spostarsi dai cinque villaggi e vennero sistemate a Lusito.
A questo punto ci fu un momento in cui avrebbe potuto senz'altro essere tentata un'azione
decisiva e rapida. Il muro della resistenza era stato incrinato. Ma non vennero fatti altri
spostamenti. Si sperava che, quando fossero giunte notizie favorevoli dalle persone colà
stabilite, le altre sarebbero state più disposte a seguirle. Ci furono ulteriori discussioni e
spiegazioni. Il 4 giugno, i Batonka fecero la loro prima dimostrazione di forza. Un capo,
Sianzembwe, si oppose all'ordine del Commissario distrettuale, che era accompagnato da un
gruppo di quasi 30 uomini, e non volle intervenire ad una discussione. Quando fu dato l'ordine
di arrestarlo, quelli del villaggio lo difesero e cacciarono il Commissario distrettuale con i suoi
compagni. In quel momento nel villaggio di Sianzembwe si trovavano 150 guerrieri Batonka,
il triplo cioè della popolazione adulta normale, il che dimostra coinè vari villaggi si fossero già
alleati tra loro.
Da quel giorno in poi, gli eventi cominciarono a sfiorare il patetico. È vero che il capo
compromesso nel primo atto di sfida finì per perdere il coraggio e si consegnò, ma tutta la
zona uscì dal controllo effettivo delle autorità.
Ogni tentativo di spostare altra gente venne sospeso, dando così maggior credito alle
affermazioni degli agitatori, e cioè che la resistenza avrebbe portato al risultato che i Batonka
sarebbero stati lasciati in pace. Lungi dal convincere i recalcitranti a seguirli, i 650 abitanti che
si erano spostati a Lusito tornarono alle vecchie case. Bande di uomini armati con lance e
mazze marciavano, si esercitavano e facevano le loro primitive manovre sotto gli occhi della
polizia, e in molte occasioni eseguivano finti attacchi.
Tutti gli abitanti dei villaggi parlavano apertamente della guerra. I funzionari erano
completamente ostacolati nei loro doveri, ma non furono oggetto di alcuna ostilità personale.
A. J. Smith, ufficiale distrettuale della zona, mentre passava nei pressi di un villaggio vide un
vecchio, che egli conosceva bene, trascinarsi lungo la strada con un pugno di lance in mano.
Fermò la sua Land Rover e gli si accostò. «Cosa fai?» gli domandò.
«Vado alla guerra»
«Ma non sei piuttosto vecchio per queste sciocchezze?»
«Devo mostrare ai giovani che sono con loro»
«Ma contro chi vai a combattere?»
Il vecchio alzò lo sguardo verso l'alto giovane funzionario e gli sorrise: «Ma contro voi,
naturalmente!»
Si salutarono e si separarono.
L'episodio potrebbe essere definito farsesco. Entro due mesi il vecchio era morto di quello che
i medici definirono un «emotorace fatale», male causato da piombo penetrato nella cassa
toracica.
Mancavano meno di tre mesi alla data in cui la diga di Kariba doveva essere chiusa perché il
lago potesse cominciare a formarsi. Il tempo disponibile era anche più scarso se si voleva che
la gente di Chipepo si trasferisse nella nuova zona in tempo per preparare le semine per il
raccolto della prossima stagione.
Il 16 agosto, il Commissario distrettuale sostituì il funzionario locale che aveva riferito come
non fosse più possibile controllare la situazione. Dopo consultazioni e riunioni, il
Commissario provinciale venne a Gwembe per avere conferma delle relazioni del
Commissario distrettuale e il 29 agosto incontrò dappertutto folle di guerrieri in atteggiamento
minaccioso, ma non violento.
Venne letto il «Riot Act» e anche il Commissario provinciale riferì a Lusaka che la situazione
era incontrollabile. Il 3 settembre arrivò anche il Segretario per gli Affari Indigeni. I soli che
parlarono con lui furono una dozzina di indigeni die si erano concessi qualche ora lontano
dalle manovre per bere un po' di birra. Dopo le discussioni, riferì al governatore sulla
situazione sfuggita al controllo.
Allora sua eccellenza Sir Arthur Benson, governatore della Rhodesia del Nord, venne lui
stesso sul luogo dei disordini. Fra accompagnato dalla banda del reggimento della Rhodesia
del Nord.
Normalmente, l'arrivo del governatore in pompa magna è una cerimonia considerata come un
onore e richiede una degna celebrazione da parte degli indigeni. In questa occasione, però, la
gente di Chipepo se ne preoccupò così poco da rifiutare di preparare un posto per l'«indaba» o
conferenza ufficiale. Il 7 settembre, alle 9 del mattino, sua eccellenza arrivò in alta uniforme,
fu ricevuto con gli onori dovuti al suo rango, ispezionò la guardia d'onore e sedette sotto un
albero. Per due ore arringò una folla apertamente beffarda o indifferente che rimase almeno a
70 metri da lui così che la sua voce poteva a malapena raggiungerla. Col vento che gli agitava
le piume del casco, circondato dai suoi funzionari in divisa bianca, con la banda allineata in
uniforme di gala, e con gli African Messengers disposti impassibili nelle loro file, il
governatore, con perseveranza e con metodo, parlò all'aria. Questo era il premio per un anno di
pazienti spiegazioni: lo scherno ed il malcelato divertimento di parecchie centinaia di guerrieri
che si tenevano insolentemente fuori dalla portata di voce, con le lance in mano e aculei di
istrice attraverso il naso.
L'indomani mattina il governatore tentò di nuovo, questa volta senza cerimonie. A questo
secondo indaba assistettero circa 15 uomini della tribù. Dopo 20 minuti egli dichiarò, e c'è da
pensare che neanche una mezza dozzina di Batonka abbiano sentito: «Le parole della regina
devono venir obbedite. In caso contrario, sarà necessario imporle» Le centinaia di guerrieri
erano altrove. Tutto quello che succedeva confermò quello che era stato detto loro. L'uomo
bianco stava tentando un inganno. Essi si erano rifiutati di muoversi e non era accaduto nulla.
È difficile scoprire che cosa avvenne esattamente nelle vicinanze di quel villaggio indigeno il
10 settembre, quando 34 Batonka rimasero feriti e 8 vennero uccisi da fucilate o da colpi di
randello. L'assicurazione ufficiale che il numero dei caduti non fu maggiore è fornita da una
relazione che dichiara come, dopo la battaglia, nessun avvoltoio fosse visto volare sulla zona;
ciò dimostrerebbe che tutti i morti e i feriti furono rimossi dal campo di battaglia. Ma le
rassicuranti conclusioni della commissione, incaricata di fare un'inchiesta sulle circostanze che
avevano causato l'incidente, non vanno del tutto d'accordo con i resoconti giornalistici
pubblicati subito dopo l'incidente.
Questi sono i fatti noti. Più di 100 poliziotti equipaggiati con armi da fuoco cercarono di
circondare il villaggio di Chisamu per poterne evacuare gli abitanti. Essi furono attaccati da
gruppi di guerrieri il cui numero complessivo fu dagli stessi poliziotti giudicato fra i 250 e i
350. Quando i Batonka caricarono, vennero lanciati i gas lacrimogeni da una distanza di circa
45 mt. ma mostrarono di essere inefficienti. Da parte degli indigeni vennero scagliate lance,
pietre, asce e mazze. Una lancia passò tra le gambe di un poliziotto ed un altro fu ferito al
polso da una pallottola sparata da un compagno. Su questi gruppi di guerrieri dell'età della
pietra - molte delle loro lance erano fatte semplicemente di legno indurito ed affilato - vennero
lanciati 194 candelotti lacrimogeni, 232 scariche di cartucce calibro 12 n. 4, 54 scariche di
proiettili da 303 e 53 scariche di proiettili da 9 mm., benché molti senza dubbio sparati al
suolo o sopra le teste dei guerrieri.
L'ufficiale anziano di polizia nella sua testimonianza raccontò alla Commissione di inchiesta
che un gruppo era sul punto di arrendersi, ma improvvisamente cambiò parere e caricò con
«grande decisione». L'attacco, egli aggiunse, fu così improvviso «che i Batonka riuscirono a
passare attraverso lo sbarramento delle forze di polizia». Questa descrizione potrebbe adattarsi
a un gruppo di uomini sgomentati dai gas lacrimogeni e dal fuoco di piccole armi, che tenti
disperatamente di fuggire attraverso un cordone d'assedio. È raro, invece, che un assalto a
fondo irrompa attraverso i ranghi nemici senza causare neanche un morto.
È improbabile che l'incidente di Chisamu venga ricordato con orgoglio da coloro che vi
parteciparono. Ma la colpa non sta dalla parte della polizia, che per molte settimane era stata
sottoposta a umiliazioni esasperanti, ed era stata poi messa di fronte alla snervante vista di una
turba di selvaggi. Ne può stare dalla parte dei Batonka, i quali, secondo un missionario
americano che viveva fra loro, mai, neanche nel momento in cui venne aperto il fuoco,
credettero che le loro terre sarebbero state sommerse, né si convinsero che sarebbero stati
costretti a trasferirsi. Le decisioni erano state cambiate così spesso che i loro dubbi possono
essere ben capiti.
Una parte di responsabilità - non tutta, però - è indubbiamente degli agitatori che ingannarono
e incitarono i loro creduli compaesani. Ma anche loro si limitarono a sfruttare una situazione
che avrebbe dovuto essere a tutti i costi evitata. Si sviluppò, invece, soprattutto perché, a
Londra, l'azione di un qualsiasi impiegato dell'ufficio coloniale può diventare un fatto politico,
di modo che la responsabilità di azioni decisive resta troppo grande per gli amministratori
locali.
Le tribolazioni della gente di Chipepo non erano finite.
Come per ironia, una delle parole d'ordine del Congresso Nazionale Africano, sventolata dagli
uomini delle tribù che si erano opposti al trasferimento, era: «Desideriamo case migliori». Il
loro unico scopo era invece quello di difendere le loro tradizionali, luride catapecchie.
A Lusito, li stavano realmente aspettando case migliori. La zona era stata ben sistemata con
strade, erano state costruite le scuole, era stata impiantata una clinica, la boscaglia era stata
disinfestata contro la tzé-tzé e liberata dagli animali pericolosi, mentre erano state eseguite
perforazioni o sbarramenti per l'acqua. Per alcuni giorni, dopo la sparatoria, i disorganizzati
Batonka gironzolarono per il territorio in gruppi atterriti, sorvegliati da un aereo da
ricognizione. Poi, vergognosamente e senza alcun evidente rancore, si trascinarono indietro
verso i loro villaggi. «Sembrava fossero quasi contenti che non ci fosse più ragione di
discussione,» disse il loro ufficiale distrettuale A. J. Smith, «e si sentivano sollevati perché era
stata presa una decisione».
Quello che non disse, ma che molti tra i più giovani del servizio coloniale, come lui, si
presume abbiano pensato, era che, purtroppo, una decisione ferma non era stata presa a tempo
opportuno, quando avrebbe potuto essere messa in pratica senza l'aiuto delle truppe. A Lusito,
venne adottato per il nuovo villaggio lo stesso schema di quello che era stato abbandonato, e
furono mantenuti i vecchi nomi. Al posto dell'insanguinato Chisamu che ora giace a trenta e
più metri sott'acqua, sorge adesso un Chisamu nuovo, raggruppato attorno al suo moderno
impianto per l'acqua dove i bambini e le capre si accalcano insieme sul suolo polveroso. Ma
poiché lo spostamento era stato dilazionato, non ci fu tempo sufficiente per preparare la terra
per la semina, e la prima stagione dei Batonka nelle nuove dimore fu tutt'altro che facile.
Alla fine di dicembre, vennero mosse delle accuse da parte dei capi del Congresso Nazionale
Africano perché a Lusito era scoppiata un'epidemia e molti erano morti per dissenteria e
diarrea. Inesplicabilmente, il goveno pubblicò una dichiarazione negando che si fosse
verificato qualcosa di insolito, e aggiungendo che «dei quattro decessi avvenuti nell'ultima
quindicina, nessuno era attribuibile a diarrea». Ma subito dopo, il 12 gennaio, fu ammesso che
dal 20 dicembre vi era stata una epidemia con non meno di 32 morti. C'è da credere che il
segretariato di Lusaka stesse attraversando un momento di grande confusione.
Un ufficiale sanitario che lavorava sul luogo si lasciò sfuggire in un momento di
esasperazione: «Nessuno saprà mai quanti ne sono morti» Aveva ragione di essere
scoraggiato. Il solo gabinetto di tutta la zona era quello da lui montato per dimostrazione. Il
terreno era dovunque insudiciato dagli escrementi di 6.000 persone e delle loro capre, e i
bambini vi si rotolavano dentro. Miriadi di mosche pascolavano su quelle ricche messi.
L'atteggiamento nei confronti degli ufficiali sanitari era apatico e talvolta risentito. Ci
volevano tre quarti d'ora di accanita discussione per indurre i genitori di un bambino ammalato
a cederlo per le cure. «Il bambino morirà. Lascialo in pace» Uomini con i gozzi grossi come
un pallone rifiutavano le cure. Gli ammalati, accucciati nelle loro capanne, fissavano gli intrusi
con occhi inespressivi.
Senza dubbio per un momento lo spirito della gente di Chipepo fu gravemente ferito. Troppo a
lungo nelle loro orecchie erano risonate voci contrastanti; a tutto quel parlare era seguita tutto
ad un tratto una ferocia sconnessa: si trovavano in un paese straniero, a 160 km. dalle loro
dimore; avevano abbandonato gli spiriti delle loro tribù, e poteva derivarne solo male. Le
piogge delle semine erano arrivate ma la terra non era pronta; il loro mondo era stato mandato
in pezzi ed essi non ne comprendevano ancora la ragione.
Grazie però all'imperturbabile tenacia del loro ufficiale distrettuale, oggi i Batonka hanno
ormai superato la crisi. Rumorosi ed eccitati, i ragazzi affollano le 8 scuole che A. J. Smith ha
costruito. È stato aperto uno spaccio, ed è stato creato un embrione di cooperativa agricola. Al
dispensario, un giovane medico africano dagli occhi vivaci considera i Batonka con affettuosa,
quasi paterna severità; riceve più di trenta ammalati al giorno, e riporta con rapida precisione
le sue diagnosi e le sue cure nel registro. Fuori, al sole, siedono i pazienti, vecchie che
succhiano le pipe e vecchi raggrinziti che rimuginano le loro fantasticherie. Hanno imparato ad
accettare, talvolta con una punta di canzonatura, questo giovanotto e le sue medicine da uomo
bianco. Le messi stanno nuovamente crescendo sulle sponde di uno sconosciuto e mansueto
Zambesi, 95 km. a valle della diga.
Il passato poggia ancora pesantemente sulle loro spalle. Parlate con uno dei loro capi religiosi,
e la sua faccia diverrà triste e pensierosa nel ricordare i vecchi tabernacoli e gli spiriti ora
sprofondati sott'acqua. Fermatevi presso un abbeveratoio, nel nuovo villaggio Chisamu, e
l'uomo che passerà di li con una zappa sulle spalle vi lancerà uno sguardo curioso; troppo bene
egli ricorda il tempo in cui attraversava il vecchio villaggio con le lance appoggiate dove ora
porta la zappa.
Ma tanto lui che il suo Custode degli Spiriti, hanno di recente acquistato il primo giovane
manzo con il denaro ricevuto come indennizzo, il primo animale che i Batonka abbiano mai
posseduto oltre alle capre.
E a scuola, due piccoli Batonka sono stati già destinati a una vita che sarebbe stata sconosciuta
e irraggiungibile nelle loro vecchie dimore. Uno di essi siede ai piedi del giovane medico e
senz'altro seguirà le sue orme. L'altro, di soli 9 anni, ha una straordinaria competenza in fatto
di motori a scoppio. Nella sua testolina ha già costruito la sua futura autorimessa.
CAPITOLO TREDICESIMO
NYAMINYAMI DOMATO
Dopo avere spazzato via il ponte sospeso, lo Zambesi continuò a crescere sino a giungere 83
metri sopra il livello di magra. In quella situazione da incubo, agli stanchi uomini di Kariba
pareva che l'acqua non dovesse più smettere di crescere. Un terzo della mano d'opera restò
inoperoso, ma dovunque era possibile lavorare si tentava ancora di resistere al fiume.
Frastornati dal suo rumore incessante e inzuppati dagli spruzzi, piccoli gruppi lavoravano sulla
sommità dei conci della diga che emergevano ancora dall'acqua.
Con le comunicazioni interrotte, le attrezzature, le provviste e le materie prime inzuppate
d'acqua, vi era ben poco da fare, in fondo. Ma ogni tonnellata di calcestruzzo gettata, ogni
centimetro guadagnato in altezza, dimostravano che quegli uomini non erano vinti.
In quelle giornate particolari, gli impiegati degli uffici e gli ingegneri si unirono ai muratori
che costruivano la diga, per infondere coraggio con la loro presenza e la loro amicizia, mentre
il fiume scuro e pieno di relitti scorreva tonando con arroganza poche decine di centimetri al di
sotto. Guazzavano sui conci più vicini alla riva sulle cui ruvide superfici spruzzi e pioggia
avevano formato delle pozzanghere, e stavano lì ridendo per far vedere che nemmeno loro
avevano paura.
CARTINA lago Kariba 0
Ognuno si era scelto un proprio punto di riferimento in base al
quale misurare il livello del fiume: un masso sui fianchi dell'altura, il tremolante ramo di un
albero sommerso, una striscia sul calcestruzzo. Il 7 marzo, quando controllarono per
l'ennesima volta il fiume in piena, gli uomini rimasero increduli e silenziosi: ma dopo
mezzogiorno non vi fu più alcun dubbio; e verso sera la voce si era sparsa per tutto il cantiere:
il fiume non era più cresciuto. La mattina dopo, sia pure impercettibilmente, la piena cominciò
a diminuire. Altre volte vi erano state soste nell'attacco, sempre seguite da nuove e ancora più
forti ondate di violenza; ma questa volta lo Zambesi aveva esaurito le sue riserve. La piena era
ancora travolgente per la sua furia, ma gradualmente s'indebolì.
La crisi era passata. Migliala di tonnellate di roccia, di strade, di pietrame dovevano ancora
venire asportate dalle sponde, l'ufficio dell'ingegnere capo doveva ancora scivolare nel fiume,
ma tali distruzioni non sarebbero state che i colpi di una disperata retroguardia, e non potevano
modificare l'esito di una battaglia già perduta e vinta. Una nuova strada di otto metri venne
scavata all'ingresso delle gallerie che conducevano ai lavori sotterranei, e gli scavi sotto le
colline furono ripresi. Una settimana dopo aver raggiunto il livello massimo, l'acqua era calata
di nuovo fino a scoprire l'orlo della parete di monte della tura, ed il 21 marzo affiorò la parete
di valle.
Il primo lavoro elettrico nella centrale sotterranea ebbe inizio con alcuni giorni di anticipo sul
programma; venne costruito un nuovo ponte stradale sospeso, che fu aperto al traffico verso la
metà di aprile; venne accelerato anche il getto del calcestruzzo in diga. Benché il danno, come
dichiarò significativamente Anderson, fosse «al di sotto del milione di sterline», erano stati
solo i lavori ausiliari a soffrirne. La struttura principale non aveva sofferto minimamente.
A maggio, l'enorme Zambesi scorreva così mansueto che le torri della diga si riflettevano sulla
superficie. Con la più grande perizia e pazienza. La falla nella tura venne tappata, la tura venne
prosciugata, e ai primi di giugno il centro del letto del fiume venne nuovamente portato alla
luce.
Furono necessari mesi di lavoro per asportare i detriti che ostruivano le sponde lungo la gola,
per costruire nuove strade ed erigere nuove costruzioni al posto di quelle scomparse; ma
guardando il cantiere devastato, che assomigliava ad un campo di battaglia dopo un
bombardamento, si poteva vedere che malgrado tutta la sua furia e le devastazioni fatte, lo
Zambesi non aveva compiuto altro che una barbarica incursione, lasciando intatta la cittadella
dei suoi conquistatori.
Quando non vi fu più dubbio che i conci di calcestruzzo che erano a cavalcioni del fiume
sarebbero stati riuniti in un unico sbarramento prima della caduta delle prossime piogge,
l'immaginazione del pubblico rhodesiano fu eccitata dal pensiero del lago che si sarebbe
formato nella gola, dietro la diga. Dapprima, il lago era considerato poco più di un'appendice
secondaria dell'impianto idroelettrico. Solo lentamente la gente cominciò ad afferrare
l'importanza intrinseca di un grande lago interno.
Per gli italiani, invece, che vivono in un paese densamente popolato ed angusto, il lago fu
sempre l'aspetto più meraviglioso dell'intero progetto. Che più di 5.000 chilometri quadrati di
territorio potessero essere sacrificati per formare un serbatoio, era un'idea tanto al di là della
loro esperienza da riuscire quasi incomprensibile, come lo sarebbe per la maggior parte degli
europei. Se si sovrapponesse la pianta del lago di Kariba a una carta dell'Inghilterra, ci si
renderebbe conto che esso ha un'estensione tale da coprire tutto il territorio compreso tra
Londra ed Exeter.
Mai prima di allora l'uomo aveva modificato su così vasta scala la geografia del mondo. Il
lago, lungo 290 chilometri ed in alcuni punti largo 65, raggiungerà una profondità massima di
circa 122 metri. È la prima volta che l'uomo accumula un simile peso sulla terra, ed il
comportamento della crosta terrestre nella zona, sotto il nuovo peso di 155 miliardi di
tonnellate di acqua, verrà attentamente studiato dai geologi.
Se gli scienziati erano affascinati da questa e da molte altre conseguenze del lago, i funzionari
statali invece, nei loro uffici di Salisbury e Lusaka, mostravano grande interesse per le sue
possibilità economiche.
In primo piano furono considerati i possibili sviluppi dell'industria della pesca, soprattutto
perchè la deficienza principale nell'alimentazione dell'indigeno è data dalla mancanza di
proteine animali. D'altra parte non è possibile ottenere carne in quantità sufficiente fino a che
la tzé-tzé non sarà stata cacciata dai milioni di acri di ottima terra da pascolo, e sino a quando
la capacità di guadagnare dell'africano non verrà aumentata in modo consistente: la
realizzazione di entrambi questi fattori dipende soprattutto dai capitali che verranno impegnati
per attuarla. Nel frattempo, gli esperti avevano calcolato che il lago di Kariba potrebbe
produrre da 10.000 a parecchie centinaia di migliaia di tonnellate di pesce all'anno.
Mentre gli scienziati discutevano fra loro quanti zeri si potevano aggiungere a queste cifre,
Tony D'Avray, un impiegato della segreteria di Lusaka, fece presente che, indipendentemente
da quanti pesci sarebbero stati più o meno prodotti, il problema importante era quello di
pescarli. E come si sarebbe potuta sviluppare una pesca commerciale quando, sotto le acque
poco profonde del lago, sarebbe rimasta una foresta di alberi pietrificati che avrebbe lacerato
le reti? L'esperienza del lago di McIlwaine, un serbatoio nelle vicinanze di Salisbury, aveva
mostrato che, sott'acqua, gli alberi e la macchia della boscaglia africana non marcivano, ma si
pietrificavano. Vi era, però, ben poca gente disposta a credere che la regione dello Zambesi
potesse venire ripulita prima del riempimento del lago, e ad un costo possibile. Nel 1956, un
esperimento condotto dal dipartimento forestale della Rhodesia del Nord, quando era stato
ripulito un miglio quadrato del territorio di Chipepo, aveva indicato che il procedimento
sarebbe stato lento e assai costoso. Ma D'Avray insistette con le sue argomentazioni e venne
perciò interpellata una società di consulenti. R. A. Mullins, uno dei soci, era del parere che il
lavoro potesse venire eseguito a circa 9 sterline per acro, una cifra che, pur implicando una
spesa di oltre 2 milioni di sterline nel caso ili cui si fossero portati a termine i piani di
D'Avray, era economicamente possibile. Nell'aprile 1957, vennero date disposizioni a Mullins
di eseguire prove su larga scala nella zona di Sinazongwe. In meno di tre mesi, con l'aiuto di
un certo numero di appaltatori, Mullins confermò la sua tesi.
In questa impresa il governo della Rhodesia del Nord non potè venir accusato di esitazioni. Fu
soprattutto grazie al suo esempio ed alla sua iniziativa se, nel seguente mese di novembre, si
dette inizio ad una serie di lavori che avevano lo scopo di ripulire 900 chilometri quadrati di
terreno da ogni cosa vivente.
Anche questa volta si tratta di un'operazione secondaria rispetto a quella principale di Kariba e
che pertanto rimane in secondo piano. Resta il fatto, però, che è un'impresa di proporzioni più
grandi di qualsiasi altra dello stesso genere nel mondo. Le aree da ripulire erano sparse in
vicinanza delle future sponde del lago, lontane dalle strade e anche dai più piccoli centri
abitati. Era un genere di lavoro per il quale non esistevano specialisti. Qualcosa si era appreso
dai vari esperimenti eseguiti in Africa occidentale e dallo sfortunato tentativo di creare
piantagioni di arachidi in Africa orientale. Si scoprì ben presto, però, che quelle esperienze
non erano applicabili alle condizioni locali.
Per eseguire il lavoro vennero interpellate parecchie imprese specializzate in movimenti di
terra. Ma, poiché nessuna sapeva che cosa esso comportasse, le offerte assunsero una forma
insolita. Si garantiva che il costo non avrebbe superato una certa somma per acro, ma l'importo
preciso da pagare sarebbe stato calcolato col procedere del lavoro di disboscamento. La
vegetazione della zona da disboscare variava nel tipo, ma si poteva grosso modo dividere in tre
gruppi. Per la maggior parte, la zona è coperta di mopani. Dalla macchia di mopani, composta
di alberi giovani e sottili, poco più alti di 4 metri e mezzo, che crescono molto fitti, si passa
alle boscaglie aperte, con poco sottobosco, formate da vecchi grandi alberi il cui diametro
raggiunge a volte i 75 centimetri. Il più difficile da ripulire è il territorio della macchia dove
non si può penetrare a piedi. È composto per lo più di arbusti dai quali si dirama una massa di
ramicelli sottili e pieghevoli che si intrecciano sino a una altezza di 6 metri. Mescolati a questa
specie di barriera vi sono alberi spinosi e, qua e là, grandi alberi dal legno duro della famiglia
del mogano e dell'ebano.
Infine c'è la foresta rivierasca, una folta massa di acacie emergenti da una giungla di arboscelli
e liane rampicanti. E tutt'attorno si trovano enormi alberi, come i baobab, con circonferenze
perfino di 15 metri.
Affinchè il letto del lago fosse definitivamente adatto per la pesca, le condizioni contrattuali
imponevano non solo di ripulire le superfici fino al livello del terreno, ma che ogni cosa,
esclusi i baobab, venisse bruciata. Questi mostri fibrosi resistono al fuoco, ma fortunatamente,
al contrario degli altri alberi, marciscono rapidamente sott'acqua. Non esiste un procedimento
unico per abbattere ed eliminare i tipi di vegetazione elencati. In teoria, la zona avrebbe potuto
venir ripulita a mano, ma si era calcolato che, per condurre a termine l'impresa, si sarebbero
dovuti impiegare 1500 uomini per 4 anni. L'ascia resta indispensabile nei burroni e sulle ripide
alture dove le macchine non possono lavorare. Quanto ai mopani, il sistema più rapido per
distruggere quelli più grandi è di bruciarli. Infatti, poiché i tronchi hanno l'anima vuota con
aperture a livello del suolo e lungo l'alto fusto, se si accende un piccolo fuoco di ramoscelli
alla base del tronco, il vuoto interno agisce come una canna fumaria e l'albero brucia
completamente, radici comprese. Per quanto utili fossero questi semplici sistemi, tuttavia, il
grosso dei 900 chilometri quadrati di boscaglia e foresta non si sarebbe potuto mai ripulire in
tempo, se non fosse stato per l'ingegnoso e drastico impiego di un'armata di macchine di
immensa potenza.
Esistono due modi per arrivare alle sparse zone del disboscamento. Uno è di viaggiare su una
grande imbarcazione formata da due pontoni, nota perciò come «i gemelli», che porta
provviste ed attrezzature ai vari campi base. Il singolare aspetto di questa barca, è accresciuto
da piccole strutture, costruite su ciascuna delle poppe gemelle, che forniscono uu servizio non ancora normalmente disponibile - per i passeggeri del nuovo lago. La vastità del lavoro,
tuttavia, può essere meglio apprezzata dall'aereo. Per un centinaio di miglia si vola sul tappeto
uniforme e piatto della foresta, rotto soltanto dalle strette fenditure dei letti dei fiumi. A un
tratto, sul terreno, compare un'enorme e pallida macchia con i confini rigorosamente
geometrici e la superficie segnata da una serie di linee parallele. Per chi abbia esperienze
transatlantiche, è un po' come affacciarsi su un vasto campo di football che emerge dall'ombra
delle innumerevoli e affollate gradinate.
Non appena si scende dall'aereo, le narici sono assalite dal pungente, salato odore di bruciato.
Nell'area disboscata, i piedi affondano in circa 12 centimetri di polvere e si scopre che le linee
viste dall'alto sono lunghi monticelli di ceneri ancora fumanti. Il calore che emanano supera
quello del sole sub-tropicale. La guida informa che migliaia di tonnellate di legname e di
arbusti, dopo essere stati sradicati, vengono raccolti in file, disposte in direzione parallela ai
venti dominanti, e quindi incendiate. Soffocati dalla polvere e dal tremendo caldo, mentre la
Land Rover si avvicina ai bordi della foresta, si nota come quel che ci era parso una cosa
vivente sia solo un groviglio di alberi e arbusti tagliati e accatastati verso il cielo.
Avvicinandosi si odono schiocchi e schianti, esplosioni, e crepitii simili a quelli di una foresta
in fiamme, ma sotto si sente il sordo rumore delle macchine che può crescere terribilmente
sino a divenire, in pochi secondi, un acuto stridore.
«Attenzione, eccoli che cadono,» grida la guida. Seguendo il suo indice puntato si vedrà la
cresta di una fila di alti alberi che vacilla e quindi lentamente si schianta contro il suolo.
Mentre gli alberi ed i cespugli più piccoli si sbriciolano si scorge una fila di macchine con
enormi cingoli che avanza ondeggiando. Le macchine si arrestano; scivolano, ringhiano e
mentre afferrano il pietrame del sottobosco ormai frantumato, i loro motori urlano di nuovo.
Dietro di esse, centinaia di uccelli vocianti si levano riluttanti verso il cielo, volteggiando il più
vicino possibile ai loro nidi, mentre, uno dopo l'altro, gli alti alberi ancora in piedi tremano
violentemente e crollano. I trattori balzano in avanti.
Quando questi mostri emergono dalla boscaglia si può vedere che sono legati a due a due da
pezzi di catene d'ancora di navi da guerra, alle quali sono attaccate sfere d'acciaio del diametro
di 2 metri e 40. Si perdono poi nelle nuvole di polvere che sollevano appena escono dalla
foresta. Uno dopo l'altro, si odono i ruggiti dei grandi motori che vanno via via spegnendosi.
Seguendo la guida, ci si inoltra nel polverone.
Prima che questo si depositi, e permetta di scorgere qualcosa, si odono le voci gutturali dei
sudafricani che si chiamano l'un l'altro ridendo. Finalmente si raggiunge un trattore, la cui
sagoma è nascosta dalle spoglie degli alberi che gli son caduti sopra. Dentro l'alta gabbia
d'acciaio siede un uomo che sembra un bandito dalla faccia affilata, con la bocca coperta da
una sciarpa e gli occhi nascosti da occhiali di protezione. La porta della cabina del trattore si
apre e l'uomo salta giù. Si strappa la sciarpa e, sollevando gli occhiali protettivi, sorride alla
guida. «Goeindag, Colin! Hoe staan che lewe?» La guida fa le presentazioni in inglese, e
subito lui risponde in quella lingua, con accento trascurato e leggermente strascicato. «No,
amico,» dice, mentre ci si dirige verso l'autocarro da 8 quintali, dove son già pronte le bibite.
«Non sono dell'Unione. I miei genitori sono agricoltori vicino a Odzi» E' un rhodesiano della
terza generazione proveniente dal distretto orientale della colonia, figlio minore di un agiato
piantatore di tabacco. Si scopre che la maggior parte dei suoi colleghi parlano l'afrikaans, sia
che provengano dall'Unione, dall'Africa orientale o dalla Rhodesia. Rudi, forti e senza pretese,
sono ospiti cortesi e alla mano.
Mentre placano la grande arsura con tè freddo, birra o cognac, rispondono alle vostre domande.
Con le catene d'ancora e le sfere d'acciaio, possono disboscare 50 acri di boscaglia al giorno.
Vi sono, sì, alberi che li sconfiggono, specialmente i giganteschi baobab, ma c'è un bulldozer
al seguito della cosiddetta «squadra delle catene» che, munito di una lama speciale, si spinge
anche contro gli alberi più grandi «come un dentista, tranne che spinge invece di tirare, fino a
che uno dei due cede, e non è certo il bulldozer. Prima o poi l'albero viene via, con radici e
tutto».
Poi cominciano a fare domande, tutte retoriche: «Sapete che noi abbiamo qui il più grande
trattore del mondo?... pesa 42 tonnellate e sviluppa 436 cavalli... Ci hanno detto che abbiamo
la più grande batteria di mezzi meccanizzati per movimenti di terra che sia mai stata
concentrata in uno stesso luogo. Persino gli americani continuano a venir qui a vedere come
abbiamo migliorato le loro macchine»
Se si è saggi, li si lascia parlare. I loro racconti tratteranno soprattutto della grande quantità di
animali selvaggi che hanno conosciuto e cacciato da quando erano bambini, specialmente
elefanti. Vi racconteranno che molto tempo fa, l'elefante maschio imparò che stava più al
sicuro sulla sponda Sud dello Zambesi, dove la caccia è più severamente controllata di quanto
lo sia nella Rhodesia del Nord. La maggior parte di essi, perciò, ha lasciato la mandria sulla
sponda Nord per stabilirsi su quella meridionale. Si sono anche abituati all'idea di attraversare
il fiume a nuoto, tutte le volte che le loro elefantesse sono pronte a riceverli. Ma ora che il lago
ha cominciato a formarsi, una quantità di elefanti maschi arrabbiati e sgomenti si aggira lungo
le rive meridionali; sono divisi dalle loro amate da uno strano specchio d'acqua così vasto che
esitano ad attraversarlo.
«Amico, ti si spezza il cuore a vederli e a udirli barrire attraverso il lago. Forse che ti
piacerebbe, se tornando indietro da un breve giro di affari, trovassi che tua moglie è andata
oltremare? Questo deve sembrare a loro, soltanto che loro non possono neanche lavorare per
pagarsi il passaggio» «Lo sai, amico, cosa si dovrebbe fare invece di questa operazione Noè?
Si dovrebbero costruire un paio di zattere per elefanti, così potrebbero organizzare gite regolari
portando i vecchi attraverso il lago per i loro sudici week-end. Jumbo si abituerebbe presto
all'idea, e si potrebbe sfruttare la cosa costruendo sulla zattera un nascondiglio dove i turisti
possano sedere a pagamento e prendere tutte le foto che desiderano»
Tutto questo discorso si conclude inevitabilmente con la storiella di Erasmo e dei visitatori
provenienti da Salisbury. Gli elefanti sono stati disturbati dall'apparizione del lago e da tutte le
attività dei dintorni. Gli animali giovani se ne sono andati verso zone più calme, ma i maschi
più vecchi e più conservatori, come i vecchi Batonka, sono rimasti attaccati ai luoghi che
hanno frequentato dalla nascita. Molti dei sentieri lungo i quali essi ed i loro antenati avevano
viaggiato per centinaia di anni sono scomparsi sott'acqua o sono siati cancellati dal
disboscamento. Irritati e senza capire vagano nella boscaglia, e, poiché il maschio solitario è
quasi sempre pericoloso, preoccupano le autorità.
Due alti funzionari fecero una visita ad Erasmo, magazziniere e factotum di uno dei campi più
isolati del distretto, dove si diceva che gli elefanti fossero particolarmente inquieti. Con
pazienza egli rispose a tutte le loro domande. Sì, c'era qualche maschio che si comportava in
modo strano; sì, erano ovviamente nervosi e infelici; sì, potevano essere pericolosi; un gruppo
dei suoi negri era stato caricato da un elefante poche settimane prima. No, nessuno era stato
ferito. L'interrogatorio non finiva più, sino a quando Erasmo, che aveva avuto la siesta
disturbata e che si risentiva del modo leggermente presuntuoso dei suoi tormentatori, si
imbizzarrì anche lui.
Quando, per la decima volta, uno di loro gli chiese:
«Quale effettiva prova avete avuto che il loro comportamento sia anormale?»
«Beli!» rispose, «non ho voluto raccontarlo prima ma alcuni di loro si suicidano»
Una luce brillò per un attimo negli occhi inespressivi dei funzionari.
«Ma, caro mio, è impossibile»
«Lo pensavo anch'io, ma poi lo vidi coi miei occhi»
«Li avete veramente visti a farlo?»
«Solo una volta e fu terribile» Nonostante ostentasse una grande esitazione, Erasmo fu esortato
a continuare: «Udii un vecchio maschio barrire tutto il pomeriggio. Così, appena il mio lavoro
fu terminato, andai a cercarlo. Lo trovai proprio dove il vecchio sentiero si perde nella radura
da noi creata. Ovviamente era arrivato alla fine delle sue risorse e non poteva capire cosa fosse
successo. Appena lo scorsi, si guardò attorno con uno sguardo terribilmente triste. Lanciò un
ultimo barrito e, prima che potessi fare qualcosa, si infilò la proboscide nel sedere e si fece
saltare le cervella»
Si ride con loro, ma gli uomini si scambiano sguardi, i loro occhi ammiccano per uno scherzo
cui non potete partecipare. Per questi individui l'Africa non presenta nulla di oscuro e di
misterioso. È una terra selvaggia e dura, che deve essere combattuta, sconfitta e spezzata
prima che sconfigga loro. Risalgono nelle loro macchine e, uno dopo l'altro, i motori rombano.
I trattori si mettono in fila, gli enormi anelli della catena si muovono, e le grandi sfere di
acciaio scivolano attraverso la polvere. Pochi piedi al di sopra del terreno, le catene tagliano
una fascia di boscaglia e di giovani alberi. A destra della linea si ode di nuovo l'acuto urlo dei
motori che lottano per farsi strada. Una delle sfere si appoggia alla base di un alto alìro di
ebano. La catena vibra, ma questo è l'unico segno di lotta. Lentamente, dolcemente, l'albero
crolla in avanti, e la terra si frantuma in una pioggia di piccole zolle mentre emergono le
radici. La sfera si lancia lungo il solco dell'albero che sta cadendo, come il proiettile di una
catapulta, strappando e schiacciando i rami sul suo cammino. Subito dopo sopraggiunge una
squadra di bulldozer. Avanzano come spazzini fra i relitti della foresta, spingendoli in una
lunga catasta diritta, ripulendo via i ramoscelli della boscaglia che sono sfuggiti all'azione
delle catene. In seguito, una fila di uomini attrezzati con asce e zappe avanza sopra il terreno
ora lacerato e irto di stoppie, sradicando e tagliando via i modesti e docili superstiti dell'attacco
meccanizzato. Una volta ancora la terra viene ripulita dagli scrapers, che spingono gli ultimi
rimasugli della foresta verso la catasta alta come una montagna che sarà il loro rogo funebre.
Nel punto dove, quando siete arrivati, sorgeva ancora la foresta densa, ora si estendono 20 acri
di polvere desolata, dalla quale emerge la sagoma grottesca di un enorme baobab. Con i suoi 9
metri di circonferenza, si erge in solitaria sfida: ma non per molto. Mentre il sole comincia a
prendere un livido colore rossastro, e la guida e il pilota dell'aereo già consultano gli orologi,
un bulldozer si avvicina al baobab. Sulla sua parte anteriore c'è un attrezzo speciale, progettato
in Rhodesia per questo lavoro e conosciuto come il «pungiglione», benché a distanza sembri
una grande mascella. Avvicina la mascella al tronco del baobab come se volesse dimostrargli
affetto, afferra profondamente il legno fibroso tenendolo senza pietà. Un momento di pausa,
poi ancora una volta si sente stridere un motore innestato su una marcia bassa. Non conviene
attendere. Ci si gira rapidamente e ci si avvia col pilota verso la Land Rover. A malapena si
ode il baobab che cade, mentre erompe, trionfante il ringhio del bulldozer. Nel novembre 1958
la cresta della diga correva da una sponda all'altra. Una dopo l'altro, i sottili archi gotici alla
sua base, attraverso i quali era stato concesso al docile fiume di scorrere, erano stati quasi
completamente chiusi. Restavano solo delle piccole aperture, appena sopra il letto del fiume,
chiuse da griglie d'acciaio. Quando fosse stato dato l'ordine, davanti a queste griglie si
sarebbero fatte cadere dapprima grosse pietre e poi pietrame, in modo da chiudere le ultime
aperture della diga. Infine, le aperture sarebbero state riempite di calcestruzzo dalla parte a
valle, e la corsa del fiume verso l'Oceano Indiano sarebbe stata definitivamente interrotta.
Finalmente, l'uomo aveva il fiume in suo potere. A Salisbury, Anderson, trionfante, dichiarò
con una punta di malvagità: «Stiamo strozzando lentamente lo Zambesi» Strano a dirsi, però,
le reazioni della stampa e del pubblico furono molto tiepide. In cantiere regnava la stessa
indifferenza. In parte, senza dubbio, era causata dalla stanchezza che assale il vincitore dopo
una battaglia lungamente combattuta, e in parte, come alcuni finivano per ammettere, magari
con riluttanza, dispiaceva un poco vedere l'umiliazione dello Zambesi. «Non lho mai visto un
fiume come questo,» disse Baldassarrini. «Naturalmente, sono contento di aver fatto quello
che c'eravamo proposti. Tuttavia..» e scrollava le spalle non potendo o non volendo esprimere
il suo pensiero. Coyne invece, più esplicito o forse più distaccato, si esprimeva con queste
parole: «Siamo orgogliosi di quello che abbiamo creato, ma proviamo anche la sensazione di
aver distrutto qualcosa» Il 3 dicembre, Anderson telefonò da Salisbury l'ordine tanto atteso. Il
mattino seguente solo un piccolo gruppo era presente sulla sponda del fiume per osservare,
mentre Vischi, l'ingegnere capo italiano, stava sulla piattaforma che sovrastava le ultime
aperture alla base della diga. Vischi era circondato da ribaltabili, su ciascuno dei quali erano
caricate 18 tonnellate di pietra. Dieci secondi prima delle sette l'ingegnere alzò il braccio
sinistro e guardò attentamente l'orologio. Con gli occhi fissi sul quadrante, alzò la mano destra.
Chi gli stava vicino potè vedere le sue labbra muoversi mentre contava a bassa voce:
«Cinque... quattro... tre... due... uno» Con gesto indifferente, Vischi abbassò la desti a e rialzò
lo sguardo. Seguì un fragore, mentre i blocchi di roccia precipitavano nel fiume dal ribaltabile
più vicino. Per qualche secondo il fiume ribollì ed una macchia gialla galleggiò lentamente
sulla superficie. Il secondo ribaltabile rovesciò il suo carico: lo scatto di una leva, il fragore dei
blocchi, un tonfo sordo... era tutto lì? In dieci minuti, il gruppo degli spettatori si sciolse. Ogni
due minuti e mezzo un ribaltabile raggiungeva la piattaforma, prolungando in un lento,
automatico succedersi di operazioni, quello che forse avrebbe dovuto essere il momento più
drammatico nella storia del progetto. Il fiume, che stava trasformandosi in lago, salì nelle
prime sette ore di soli 15 centimetri, così che verso monte il cambiamento si notava appena. A
valle della diga, invece, l'effetto fu molto più drammatico. Le ultime acque libere dello
Zambesi passarono per l'ultima volta nel canale in fondo alla gola; esse furono seguite, per un
poco, da un rigagnolo fangoso che si era aperta la strada attraverso la barriera sempre più
spessa. A mezzogiorno restavano solo poche pozzanghere e l'ultimo guizzo dello Zambesi a
Kariba fu dato dalle convulsioni dell'agonia dei pesci rimasti in secco. Sotto il caldo sole, il
fango si asciugò rapidamente e al tramonto l'aria era infettata dal sottile lezzo della putredine
stagnante. All'alba del giorno dopo il fiume, a monte della diga, era cresciuto di 6 metri e le
rocce, che erano servite come punto di riferimento durante la stagione secca, erano sparite per
sempre. Una linea di schiuma si stava formando sulla superficie dell'acqua al di là della rete di
protezione che era stata tesa da una riva all'altra, per difendere la diga dai detriti del fiume. La
gola era silenziosa e deserta. Era la festa di Santa Barbara, la patrona dei minatori e dei
costruttori. Trecento metri più su, a Kariba alta, l'arcivescovo cattolico di Salisbury stava
consacrando la chiesa che era stata costruita in suo onore, e alla memoria degli uomini morti a
Kariba.
CAPITOLO QUATTORDICESIMO
UNA DIVISIONE NEI RANGHI
Sebbene rimanessero da gettare nella diga centinaia di migliaia di metri cubi di calcestruzzo,
prima di raggiungere l'altezza definitiva di 128 metri, verso la fine del 1958 l'attività massima
di Kariba si trasferì ai lavori in sotterraneo. La sala della centrale e le installazioni massicce
dei generatori erano state ricavate nella viva roccia, nel cuore delle colline della sponda
meridionale. Da queste grandi cavità si dirama una rete di pozzi e gallerie, molti dei quali
potrebbero contenere comodamente due piste di autostrada e, in altezza, una casa di due piani.
Quando lo Zambesi penetrerà nelle prese, sulla riva meridionale a monte della diga, farà un
salto di oltre, 90 metri prima di precipitarsi attraverso una grande spirale di acciaio a mettere
in moto le turbine; poi passerà in enormi camere di compenso, per ridurre l'eccessiva velocità
prima di tornare al letto del fiume, attraverso gli scarichi a valle. A capo delle migliaia di
uomini e macchine che hanno scavato questa vasta centrale vi è un piccolissimo mite uomo, di
nome Perugini, che ha il contegno di un prete dai modi pacati e pieno di buon umore. Alle sue
dipendenze lavorano i più resistenti e capaci lavoratori italiani. Questi operai di sotterraneo
hanno la flemmatica resistenza fisica e nervosa dei minatori. Per essi il pericolo è assai duro da
sopportare, poiché è sempre vicino ma raramente si mostra. Ostentano però un'audacia
spensierata, un'accettazione del rischio per la pura soddisfazione di riderne, e giungono ad
alleviare il tedio del pericolo invisibile con l'escogitare sfide personali al destino.
Questo atteggiamento offendeva alcuni degli operai più seri delle altre nazionalità,
specialmente quelli che erano stati educati ad accettare la pesante disciplina burocratica che gli
italiani disprezzavano. Era un affronto alla loro abitudine di attenta precauzione, che gli
italiani credessero nel loro: «che sarà, sarà», giustificato in realtà, dalla bassa percentuale di
morti a Kariba, che finora si è mantenuta molto al di sotto di quella di imprese consimili in
America e in Europa. Secondo le severe norme della legislazione industriale sud-rhodesiana,
l'incidente che capitò nella notte di venerdì 20 febbraio, verso le undici meno un quarto, fu
dovuto a negligenza. L'inchiesta, infatti, rivelò che la piattaforma crollata era assicurata
inadeguatamente.Un'imprudenza che causò la perdita di 17 uomini.
Fra gli operai dell'ultimo turno di quella notte c'erano 21 uomini: 4 muratori italiani e 17
operai indigeni; essi dovevano rivestire di calcestruzzo il pozzo per il quale sarebbero
precipitate in seguito le acque dello Zambesi per far girare le turbine. La loro piattaforma era
sospesa a una trentina di metri dall'orlo del pozzo e a 60 metri dal fondo. Sulla piattaforma,
oltre agli uomini e ai loro arnesi di lavoro, vi erano circa 20 tonnellate di calcestruzzo. Alle
10,45 ci fu, secondo le parole dell'unico italiano sopravvissuto, «uno scricchiolio che pensai
provenisse dai tubi che rifornivano il calcestruzzo. Guardai attorno e vidi la piattaforma
cedere, e poi cadere, trascinando con sé i corpi dei miei amici. Su di loro cadde una cascata di
calcestruzzo. Non guardai più» L'italiano, e con lui tre indigeni, sopravvissero
miracolosamente su un orlo della piattaforma che non aveva ceduto. Ma altri 14 indigeni e 3
italiani precipitarono per 60 metri sino alla base rocciosa del pozzo. La loro morte sarà forse
stata misericordiosamente rapida, ma il ricupero dei corpi sfracellati fu orribilmente lento.
Infatti erano stati sepolti dal calcestruzzo precipitato con loro, e che già aveva cominciato a
solidificarsi. Trascorsero più di 12 ore prima che una squadra, lavorando con martelli
pneumatici, riuscisse a estrarre gli ultimi resti umani dalla lastra di cemento che si era formata
sul fondo del pozzo. Il lunedì seguente, quasi 900 operai indigeni che lavoravano in
sotterraneo si rifiutarono di andare al lavoro; per il mercoledì, lo sciopero si era esteso a tutti i
dipendenti indigeni dell'Impresit. La parola d'ordine degli scioperanti sonava inequivocabile:
«Non moriremo per 4 pence all'ora»
I rapporti con la mano d'opera a Kariba erano stati sempre ottimi e l'amministrazione
dell'Impresit fu colta alla sprovvista dallo sciopero. In mancanza di esperienza diretta nel
trattare il personale indigeno, aveva avuto cura di attenersi alle consuetudini locali in materia.
L'ultima cosa che la Società poteva desiderare era di trovarsi coinvolta in controversie sociali
o politiche. Il governo della Rhodesia del Sud aveva redatto un «Regolamento per Kariba» per
codificare questioni come il minimo di paga e la scala delle razioni. L'Impresit, attenendosi ad
esso e nominando un esperto sud-rhodesiano come addetto alla mano d'opera, riteneva di
comportarsi correttamente.
Rientrava inoltre tra le responsabilità dell'Impresit l'amministrazione della comunità indigena
di Kariba, Mahombekombe, dove, durante il 1958, la popolazione raggiunse un massimo di
12.000 fra uomini, donne e bambini. Sovrintendente del villaggio era il maggiore Pearson, un
rhodesiano di origine scandinava, scelto dall'Impresit perché era stato funzionario per la mano
d'opera in un ufficio governativo e aveva passato tutta la vita a contatto con gli indigeni.
L'Impresit gli aveva dato carta bianca, e l'incarico di cooperare direttamente con i funzionari
del Dipartimento per gli indigeni della Rhodesia del Sud e con la polizia.
Anche in questo, l'Impresit si era attenuta alle consuetudini, dalle quali ben pochi datori di
lavoro si scostano nella Rhodesia del Sud. Anche i capi famiglia si interessano ben poco alla
servitù indigena: si limitano a pagarla, nutrirla e a darle delle stanze per vivere. Fra la vita
privata dei bianchi e dei neri c'è un abisso che solo persone eccezionali tentano di colmare. Si
incontrano come datori di lavoro e dipendenti, come padroni e domestici, ma poi conducono
vita separata. Gli indigeni di Mahombekombe erano stati lasciati a se stessi proprio come i
domestici di una famiglia rhodesiana vengono lasciati a se stessi nella loro kia (così viene
chiamata la dipendenza riservata alla servitù, situata il più lontano possibile dalla casa stessa).
Né la polizia né i funzionari governativi si interessarono molto a ciò che stava succedendo. La
popolazione di Kariba era di passaggio, e sino a quando non fossero sorti guai, non c'era
ragione di intervenire.
Gli abitami di Mahombekombe, tuttavia, si lamentavano. Le case e le baracche erano semplici,
ma indubbiamente migliori delle capanne di fango ed erba in cui avevano sempre abitato gli
operai più primitivi, che costituivano in fondo la maggioranza. Erano però tutte dello stesso
tipo, così che gli indigeni più educati e più abbienti, come gli impiegati e i conduttori di
automezzi, non potevano godere le comodità domestiche e l'isolamento ai quali erano stati
abituati e per i quali potevano pagare. Vi era inoltre gran sovraffollamento, poiché la cittadina
era arrivata ad ospitare un numero di persone tre volte superiore a quello per cui era stata
progettata.
Questo sovraffollamento e la sfrenata libertà di cui godevano gli indigeni quasi tutti giovani e
scapoli improvvisamente sciolti dalle regole strette delle loro tribù, portò ad una degradazione
morale che ripugnava alla minoranza delle vecchie famiglie serie Mahombekombe, per la
maggior parte dei giovani che vi vivevano - l'età media dei dipendenti africani era sotto i 26
anni - , era una grande città cosmopolita, zeppa di stranieri provenienti da parti sconosciute
dell'Africa, con lingue ed abitudini diversi dai loro. Questi giovani venivano ben pagati a
paragone di quanto percepivano abitualmente; le 5 o 6 sterline che anche il meno qualificato
guadagnava in un mese, rappresentavano più di quanto avessero mai visto in vita loro.
Ricevevano alloggio e cibo gratuiti, quindi non sapevano come spendere il loro denaro. Solo in
seguito sorsero nella città i negozi e un mercato; ma per lungo tempo quasi nulla fu fatto per
incoraggiare divertimenti ricreativi.
In queste circostanze, non sorprende se la fornicazione, il bere, il gioco e la lotta assorbissero
tutte le energie che migliaia di uomini giovani avevano ancora in serbo dopo le lunghe ore di
sforzo fisico in cantiere. La fama del posto si diffuse fra le prostitute delle città africane,
perfino in zone lontane come il Congo e l'Unione del Sud Africa. L'attività di queste donne
faceva inorridire padre Peter, il prete cattolico indigeno, parroco di Mahombekombe, ma era
tollerata benevolmente dalle autorità e dalla polizia. Non furono mai fatti tentativi seri per
controllare il loro ingresso a Kariba, e l'atteggiamento ufficiale, anche se non è mai stato
espresso esplicitamente, ammette che, dove vivono migliaia di giovani dal sangue caldo,
sarebbe impossibile tener lontane le donne senza che la città venisse trasformata in una
prigione, e che in fondo è meglio averle attorno che non averle. Dato che gli stimoli sessuali
del negro sono ben lontani dall'essere una leggenda, e poiché mvi è ben poco da fare nelle ore
libere, dove non ci sono donne fioriscono la sodomia e la bestialità, anche se nell'ambiente
naturale indigeno la perversione è molto rara.
Ventine di prostitute arrivarono al cantiere come «mogli» degli operai. Documenti di nascita,
matrimonio e morte sono ancora un'eccezione fra gli indigeni e sono del tutto sconosciuti nella
zona agricola, così che se un uomo e una donna dichiarano di essere sposati non c'è mezzo,
lontano dalle loro case, di dimostrare che non lo sono. Inoltre, nelle zone urbane, le autorità
riconoscono anche i matrimoni provvisori secondo la legge non scritta. Queste «mogli» degli
indigeni di Kariba svolgono il loro mestiere sotto il rispettabile tetto domestico di un cottage,
nei quartieri degli sposati, ed i loro «mariti» si accontentano di una percentuale sui loro
proventi o di un pagamento in natura. Altre vivono nei quartieri degli scapoli travestite da
uomini. Alcune hanno guadagnato una tale reputazione ed un tale prestigio che godono della
loro privilegiata ed illegale sistemazione con la connivenza dei funzionari più giovani del
villaggio africano. I profitti di cortigiane quali Maria Whisky e Kariba Kate, due delle più
famose, solleverebbero l'invidia di non poche delle loro colleghe nelle più ricche capitali del
mondo benché, naturalmente, lavorino molto più duramente per guadagnarsi da vivere. Esse
non esitano un istante a noleggiare un aereo privato sino a Salisbury, solo per fare delle spese.
Si dice che, secondo la miglior tradizione del loro mestiere, le prostitute di maggior successo
sono molto generose con le loro famiglie, sistemano i fratelli negli affari, spendono per
l'educazione delle sorelle, ed in genere aiutano fin dove possono. Non molto tempo fa una di
loro ritirò con disinvoltura un migliaio di sterline dalla Post Office Savings Bank per
acquistare al marito un autocarro così che potesse iniziare un lavoro di trasporti nella sua
riserva indigena.
Il codice sessuale dell'uomo indigeno che vive con la tribù è quasi sempre puritanamente
rigido, e il promiscuo, turpe rilassamento di Mahombekombe demoralizza i giovani cresciuti
secondo le severe abitudini dei loro villaggi. Inoltre ne deriva un intollerabile sforzo per quei
pochi indigeni che tentano di condurre una vita familiare normale. Le tentazioni e le
sollecitazioni alle quali vengono esposte le loro mogli sono quasi irresistibili, e la presenza di
centinaia di giovani italiani non ha fatto nulla per diminuirle. I rhodesiani discorrono molto
degli italiani di Kariba e ascoltandoli si potrebbe pensare che le migliaia di meticci nel paese
non esistano. Ma è un fatto che i rapporti sessuali fra razze diverse sono oggi praticati solo di
rado e di nascosto, soprattutto fra i giovani; che, al contrario dei loro padri, non vivono lontani
dalla compagnia femminile della loro razza ma, al contrario, vivono in una società dove la
continenza, sia femminile, sia maschile, è considerata più come una disgrazia o una malattia
nervosa che come una virtù.
Ma molti giovani italiani, costretti a vivere per mesi e mesi nelle baracche, si dimostrarono
tanto schietti e disinvolti nei loro rapporti con le donne indigene, quanto lo erano verso gli
operai indigeni; le loro azioni causavano grande scandalo e, senza dubbio, abbassarono il loro
prestigio agli occhi degli indigeni. È fuori discussione che l'italiano medio è popolare fra gli
indigeni per la sua cordialità, la sua tenacia nel lavoro, e le sue maniere semplici. Alcuni
aspetti del suo comportamento, però, colpirono profondamente i pregiudizi dei negri. Nelle
loro conversazioni, essi distinguono gli «italiani» dagli «europei»: differenza, questa, che pur
non essendo necessariamente spregiativa, racchiude tuttavia un profondo significato
psicologico.
Entro i confini dell'affollato villaggio di Mahombekombe venne a crearsi un'atmosfera di
indisciplina. L'indigeno, specialmente se si tratta di un primitivo, è abituato ad essere
controllato e se lo aspetta. Ogni azione nel suo villaggio è soggetta alle sanzioni di una
tradizione severa che richiede da lui il più profondo rispetto verso gli anziani e verso l'autorità.
La maggior parte delle migliaia di indigeni che lavorano a Kariba aveva visto ben di rado un
uomo bianco prima di giungere al cantiere, e non aveva mai lavorato con lui. Essi si trovarono
a lavorare in un ambiente dove si commettevano pochi delitti gravi, ma dove prevaleva lo
spirito di illegalità. Potevano facilmente procurarsi i liquori dell'uomo bianco, bastava pagarli
bene; vincevano e perdevano centinaia di sterline al gioco; potevano comperarsi una donna
con la stessa facilità con cui si compera un pacchetto di sigarette. Regnava l'eccitazione dei
giochi sfrenati e della lotta con i giovani delle altre tribù; gli uomini bianchi con cui venivano
in contatto erano faciloni, completamente dissimili dai lontani e misteriosi europei di cui
avevano sentito parlare al villaggio; ed era evidente che gli italiani, come avevano imparato a
chiamarli, non esercitavano alcuna autorità nella cittadina.
In una simile atmosfera chiunque avrebbe potuto assumere il comando. Alcuni uomini presero
delle iniziative, e tra essi padre Peter, che organizzava le attività dei boy-scouts per i ragazzi,
scuole serali per gli adulti, e semplici corsi di economia domestica per le donne; ma la sua
influenza andava poco oltre i membri del suo gregge. E, sebbene a Mahombekombe vi fossero
a volte persino dodici religiosi o pastori negri, comprendendo nel numero anche quelli indicati
dalle più esotiche. denominazioni esclusivamente indigene, i praticanti o anche soltanto i
cristiani nominali non furono mai più di un'esigua minoranza.
I possibili capi erano lì, in attesa della loro ora. Benché le ostilità aperte contro Kariba fossero
cessate, fra gli operai del cantiere c'era un nucleo di agitatori politici. Essi alimentavano il
malcontento che inevitabilmente si produce fra una mano d'opera numerosa, appigliandosi alla
scarsità d'acqua nel villaggio, al sovraffollamento, alla mancanza di negozi. Docili operai si
lamentavano per i lunghi turni di 12 ore, che d'altronde anche gli italiani stessi facevano,
perché erano ben contenti di ricevere l'importo degli straordinari. Non era diffìcile, però,
quando gli uomini erano stanchi e scoraggiati, seminare nelle loro menti un vago malcontento.
Si lamentavano, e giustamente, del vitto e dei servizi sanitari del cantiere; e del fatto che gli
italiani, contro le consuetudini, pagavano eguali retribuzioni in galleria e in superficie. In
seguito l'Impresit dichiarò di aver deciso da tempo un aumento delle paghe per gli operai dei
lavori sotterranei. Ma prima che la decisione fosse resa nota, quattordici indigeni persero la
vita nel pozzo.
Le circostanze in cui morirono furono orribili; ma il ricupero dalla tomba di calcestruzzo
indurito e di acciaio contorto dei loro corpi ridotti in pezzi, scosse i nervi di quelli che erano
stati incaricati del lavoro, e atterrì l'immaginazione di coloro che ne furono informati con ampi
particolari. Era giunto il momento, per chi l'attendeva, di suscitare dei disordini.
Le autorità negarono così insistentemente che lo sciopero avesse uno sfondo politico da lasciar
supporre che esse stesse lo sospettassero fortemente. La loro mossa di inviare sul posto una
compagnia di bianchi del Royal Rhodesia Regiment, è difficilmente conciliabile con le
dichiarazioni che i disordini a Kariba erano una semplice disputa contrattuale fra gli
appaltatori italiani ed i loro dipendenti indigeni.
Il 24 febbraio 1959, 900 operai indigeni addetti alle gallerie si rifiutarono di presentarsi al
lavoro, e nelle seguenti 24 ore lo sciopero si diffuse all'intera mano d'opera indigena
dell'Impresit. Gli operai italiani che continuavano a lavorare venivano beffeggiati e nella
cittadina regnava una confusione spaventosa, ma gli uomini, nonostante tutto, si dimostravano
di buona indole. Lodigiani, il capo dell'Impresit, giunto in volo da Salisbury, era sconcertato.
«Non ho mai visto uno sciopero come questo,» dichiarò. «Tutti cordiali e ben disposti».
Le questioni della mano d'opera indigena erano state affidate agli esperti locali, e questi non
avevano segnalato alcun indizio di guai imminenti. Gli italiani erano perciò stupefatti ed
irritati. Nessuno sapeva con certezza quali fossero i motivi dello sciopero. Un fantomatico
comitato di nove niassa si diceva avesse assunto la guida ma in nessun momento venne
presentato qualcosa che assomigliasse ad un elenco di richieste degli scioperanti. A molti
osservatori sembrava che gli indigeni non fossero mossi che da un bisogno di sfogarsi in una
vaga ed incoerente protesta contro innumerevoli motivi di irritazione. Sono una razza
estremamente suscettibile alle suggestioni collettive.
Ciò che accadde alla riunione che Lodigiani indisse il 26 febbraio, confermò che le cose
dovevano stare proprio in questi termini. Egli annunciò che era già stato deciso di pagare agli
operai in sotterraneo due pence in più all'ora. Il lavoro doveva ricominciare il giorno dopo a
queste condizioni, ma se qualcuno era insoddisfatto, poteva rompere il contratto senza penalità
ed era libero di andarsene. Chiunque lo desiderava poteva porre il suo tesserino nel cesto lì
davanti e passando all'ufficio paga il mattino dopo sarebbe stato liquidato e avrebbe goduto del
trasporto gratuito sino a Salisbury.
Dopo una breve esitazione, uno o due uomini si fecero avanti e spavaldamente gettarono i loro
tesserini entro il cesto. Essi si pavoneggiarono in mezzo alla polvere, risero e chiamarono la
folla. Immediatamente, come se si trattasse di un gioco, un gruppo avanzò danzando e gettò
anch'esso le tessere. Poi vennero avanti a centinaia e salutando allegramente gli ingegneri
italiani attorno a Lodigiani, gettarono le loro tessere di cartone entro il cesto.
Al termine di quella gazzarra quasi 1600 uomini, più di un terzo della mano d'opera
dell'Impresit, avevano dato le dimissioni. L'indomani, moltissimi di loro rimasero sorpresi e
offesi nel sentirsi dire che la decisione era irrevocabile. Implorarono che fosse concesso loro di
mutare opinione, ma l'Impresit era stanca di sopportare assurdità. Non fu concesso di tornare
sulla decisione presa, e il primo autobus carico di 50 uomini partì nel giro di un'ora per
Salisbury. Essendosi regolati in base alla comoda considerazione rhodesiana che ogni operaio
ha bisogno di cinque aiuti, gli italiani avevano reclutato molta più gente di quanta ne potessero
impiegare, cosicché, nonostante le dimissioni, il lavoro di Kariba continuò a mantenersi in
anticipo sul programma.
Ma, per quanto le autorità si ostinino tuttoggi a negarlo recisamente, dietro lo sciopero di
Kariba vi furono senza dubbio pressioni politiche. Stavano per essere realizzati i piani del
governo federale e territoriale di arrivare ad una spiegazione col Congresso Nazionale
Africano. Nel giorno in cui capitò l'incidente al pozzo, nelle due Rhodesie era stata mobilitata
la milizia bianca. Il 26 febbraio la Rhodesia del Sud, senza evidente motivo, dichiarò lo stato
di emergenza; il 3 marzo, il Niassa, dove in vaste zone l'autorità era sfuggita dalle mani del
governo, seguì l'esempio. Certamente i capi del Congresso Nazionale Africano conoscevano le
intenzioni delle autorità, ed è altrettanto certo che essi stavano tentando a loro volta di
coordinare azioni di resistenza nei tre territori.
Immobilizzare Kariba, piano accarezzato dalla Federazione e la prova più tangibile delle sue
ambizioni, era senza dubbio un obiettivo da raggiungere. Un serio e prolungato arresto a
Kariba avrebbe attirato l'attenzione della stampa internazionale sulle rivendicazioni del
Congresso come nient'altro poteva farlo, e inoltre avrebbe indebolito la reputazione della
Federazione tra i finanzieri ed i governi del mondo.
L'incidente nel pozzo, anche se può essere apparso agli agitatori come una fortunata
coincidenza, sembra in realtà averli costretti ad affrettare i loro piani, col risultato che lo
sciopero di Kariba fu definito e abbandonato prima che le agitazioni scoppiassero altrove: pare
infatti dimostrato che, prima dell'incidente, essi stessero preparando uno sciopero
probabilmente predisposto per il marzo.
Ma, anche se vi erano motivi di lagnanza fra gli operai indigeni, questi motivi erano ben
lontani dall'essere sufficienti a spingerli ad azioni preordinate, e i capi dell'agitazione
dovevano afferrare l'occasione fornita dall'incidente, nella speranza che, una volta arrestati i
lavori, si sarebbe giunti ad agitazioni e amarezze tali che avrebbero fatto apparire irrilevanti le
lagnanze d'origine.
Che lo sciopero avesse fatto fiasco in un modo che sconcertò tutti, e soprattutto i 1600 operai
che si trovarono sciolti dai loro contratti e liberi di cercarsi altrove lavori meno remunerativi,
non significa che Kariba non avesse corso un serio pericolo.
È piuttosto fortuito, infatti, che il dilettantismo dei datori di lavoro e degli operai portasse
maldestramente l'intera faccenda ad una conclusione innocua, mentre i veri contendenti, le
autorità ed il Congresso, si preparavano per una battaglia che non ebbe mai luogo.
Come risultato, però, l'ultimo attacco che avrebbe potuto danneggiare il progetto di Kariba, era
fallito.
CAPITOLO QUINDICESIMO
OPERAZIONE NOE'
Dopo la chiusura della diga, il fiume a monte crebbe rapidamente.
Lungo le sponde, detriti, ricoperti da rami intrecciati, formavano isole galleggianti che
venivano spinte alla deriva dal vento, e sulle quali vivevano folte colonie di ratti, di topolini e
di topiragno che avrebbero fatto una fine lenta. Ogni anno le piene avevano ucciso migliaia di
questi minuscoli mammiferi, e le loro sofferenze non avevano mai agitato l'immaginazione o
destato la commiserazione del grande pubblico.
Non capitò nulla di insolito sino a quando il fiume raggiunse l'orlo delle sponde e cominciò a
straripare. Allora apparvero improvvisamente miliardi di grossi grilli che coprirono ogni
centimetro di terra, e riempirono l'aria del loro incessante ed acuto stridio. Vivono nelle crepe
del terreno e di solito escono per rifornirsi di cibo solo di notte; l'acqua che si infiltrava
attraverso il fango secco li aveva scacciati dalle loro colonie sotterranee. Per la prima ed
ultima volta si trascinarono alla luce del sole, ed i cieli lungo le rive dello Zambesi furono
oscurati da sciami di uccelli che si saziarono di questa messe.
Mentre le acque si espandevano, lo stridio lentamente s'acquietò e allora arrivò il turno dei
pesci che si saziarono con gli insetti affogati. Poi, lungo la vallata del fiume regnò il silenzio, e
le acque inesorabili dilagarono dolcemente verso la boscaglia, attraverso le sottili strisce di
foresta rivierasca.
Quel silenzio non sarebbe stato interrotto nemmeno dall'opinione pubblica se un cronista del
Sunday Mail rhodesiano non avesse letto per caso un breve articolo in un giornale locale. Dick
Isemonger, proprietario di un parco di serpenti fuori Salisbury, riferiva in un'intervista di
essere ritornato da Kariba con quarantasette serpenti presi nel nuovo lago, e che i guardacaccia
«facevano sforzi meravigliosi» per salvare gli animali dall'annegamento. Malcolm Dunbar, un
tarchiato e gioviale giornalista dai capelli rossicci, di Edimburgo, che attualmente lavora in
Rhodesia, andò a Kariba per vedere di persona. La sua cronaca, apparsa nel Sunday Mail del
15 febbraio 1959, colpì l'immaginazione della gente, e fu ripresa dalla stampa di ogni paese.
Dunbar racconta che