lettera del parroco

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lettera del parroco
LETTERA DEL PARROCO
Cari fratelli e care sorelle nel Signore, domenica 1 giugno mi sono accorto che l’estate è arrivata, non
dico quella meteorologica (con tutta l’acqua che è caduta in queste ultime settimane!), ma quella
umana sì: domenica la chiesa era mezza vuota, nonostante la Festa degli Anniversari di matrimonio, e,
miracolo a Milano!, era possibile parcheggiare agevolmente proprio davanti alla chiesa. Due segni
inequivocabili dell’arrivo dell’estate a Milano. Due segni che meritano la nostra attenzione.
Il primo dato oggettivo, percepibile da tutti come effetto diretto della ritualità estiva degli esseri umani
e che accomuna lo spazio libero (liberato?) per strada e in chiesa, è il vuoto e il vuoto fa paura: horror
vacui, così almeno dicevano gli Antichi. Mi accorgo che la breve frase precedente contiene già
pensieri e considerazioni, concentrate e implicite, che mi sono uscite di getto: le approfondisco.
Ritualità (estiva). La nostra vita è piena di riti ovvero di azioni che ripetiamo perché sensate e
significative, perché affermano e custodiscono ciò in cui crediamo, perché ci danno sicurezza e forza
per andare avanti in un mondo che procede a velocità superaccelerata, consumando tutto e tutti.
Niente di male, anzi, tutto di bene nella ritualità, sennonché corriamo sempre il rischio di cadere
nell’agguato del ritualismo, del formalismo… del vuoto, insomma. Quante volte celebriamo riti umani
(e divini) che non dicono più niente! Sono maschere del nulla ovvero del vuoto, appunto. Eppure ci
ostiniamo a ripeterli: perché? Forse perché non sopportiamo che cada la maschera e si sveli il vuoto?
Forse perché attendiamo che qualcosa (o qualcuno) si riveli? Forse perché siamo squassati dalla
nostalgia? Forse perché… ciascuno cerchi la sua risposta. Con coraggio. Ricordando che il nulla, per
definizione, non esiste e che i frammenti di una vita contengono sempre una speranza, e la speranza è
l’ultima a morire.
Sempre che non si voglia arrendersi prima del tempo.
Spazio libero/liberato. Libertà, libertà… libertà va cercando, così disse il Poeta (mi pare che fosse
Dante). E chi non vuol essere libero o più libero oggi e da sempre? Ma libero da che? Libero perché?
Libero per chi e per cosa? Sono grandi domande e non voglio fare la predica, ma non posso tacere,
non posso non ricordare Fra Marco di Assisi, Suor Cristiana di Gubbio, San Francesco e Santa
Chiara, Marcello Candia e miriadi di persone comuni, credenti e non, che hanno scelto, rinunciando a
tanto, se non a tutto, e sono persone libere. Che santa invidia provo per loro! Vorrei ricordare qui due
persone. La prima è una mia ex-alunna di vent’anni fa che non andava in chiesa, come si suol dire, ma
scelse di non abortire e ora vive con suo figlio, felice né più né meno di tanti altri, e capisce che cos’è
la libertà. La seconda è un ergastolano, fondatore della famigerata Banda della Magliana, di cui un
paio di sere fa, per caso e a tarda ora, ho seguito in TV un pezzo di intervista fatta da Ruspoli, con
tatto e misura, dato il personaggio. Ebbene, quest’uomo (e non nascondo che faccio fatica a dire
uomo, dopo tutti i crimini e i delitti che ha commesso) diceva che solo ora vive veramente, solo ora che
accompagna e segue uomini portatori di handicap ha capito che cos’è la vita vera: donarsi agli altri.
Così si concludeva l’intervista. Le mie perplessità sul personaggio rimangono, ma pareva sincero nel
suo dire. E mi domando: perché vivo in un mondo incapace di far capire a tutti e fin dalla più tenera
infanzia qual è il senso della libertà?
Horror vacui. Orrore del vuoto è la traduzione esatta di quest’antica espressione latina che rimanda al
verbo vacare, ma ha un’assonanza fortissima (e curiosa) col termine vagus e il verbo vagare che
significa andare di qua e di là senza una mèta, una direzione, un senso preciso. Allora mi sembra che
l’augurio per la prossima estate debba suonare così: abbandoniamoci pure ai riti estivi della vacanze,
liberiamo pure posti auto e in chiesa, ma teniamoci lontano dal vagare che nasconde il vacare.
Don Guido
JAMES HERRIOT E LO YORKSHIRE: IRONIE DI UN VETERINARIO
James Alfred Wight visse tra il 1916 e il 1995 nelle lande dello Yorkshire, storica regione inglese,
operando come veterinario a tutte le ore del giorno e della notte, risalendo per le chine della brughiera
sferzate dal vento e dalle copiose nevicate nordiche e trovando il proprio divertimento nel portare alla
luce recalcitranti vitelli, dolci caprette, o salvando dalle epidemie greggi e armenti che permettevano a
silenziosi contadini di vivere ancora legati alla propria terra. Tutto nella sua vita procedeva con il
consueto ritmo delle stagioni e del lavoro. Oltre ad aver partecipato alla Seconda Guerra Mondiale
come aviatore, si sposa, cresce con soddisfazione due figli, frequenta il pub e le sale da concerto. Sino a
scoprire, sul finire degli anni Sessanta, di avere una gradevole facilità nello scrivere. Data al 1972 il
primo successo letterario, sotto lo pseudonimo di James Herriot, con Creature grandi e piccole. Poi a
seguire, tra gli altri titoli, Cose sagge e meravigliose (1977), Beato fra le bestie (1974), E il Signore le
creò (1981). Romanzi scorrevoli, dalla scrittura accattivante. Tema principale: le vicende personali
dell’autore e l’ambiente naturale dello Yorkshire dipinto a colori così sereni da apparire familiare anche
per quanti, fin lassù, non son mai stati. Escono vive dalle pagine le numerose figure di contadini e
allevatori, quasi personaggi teatrali ben caratterizzati. Ed esce l’ironia che accompagna tutta la scrittura
di Herriot: un sorriso pacato che penetra anche nelle pagine in cui il vento violento e gelido scuote i
vestiti del povero veterinario costretto a svegliarsi nel cuore della notte per soccorrere una mucca
gravida dispersa non si sa bene dove per le colline.
Accanto alle problematiche legate alla vita agricola, si aprono ampi spazi nel descrivere quella Storia a
cavallo degli anni Quaranta e secondo dopoguerra che tanto ha influito e pesato su tanti cittadini
europei. Si salvaguarda così il ricordo di un mondo man mano in trasformazione e di cui oggi, come
logico, probabilmente poco sopravvive. Infine si ha il piacere della lettura: descrizioni, vicende buffe e
drammatiche, riflessioni sono condotte sul filo della chiarezza cristallina e condite di humour. Così che
al termine del primo romanzo non si ha voglia di distaccarsi da quel mondo e se ne cerca subito la
continuazione.
In Italia vennero tradotti e pubblicati da Rizzoli e attualmente sono disponibili nella collana BUR
(Biblioteca Universale Rizzoli)
HERRIOT, JAMES
E il Signore le creò - BUR NARRATIVA 1997
HERRIOT, JAMES
Cose sagge e meravigliose - BUR NARRATIVA 1995
HERRIOT, JAMES
Beato fra le bestie - BUR NARRATIVA 1996
HERRIOT, JAMES
Creature grandi e piccole - BUR NARRATIVA 1993
Emanuele Amoroso
“SONO UN PRETE E NON ME LO SCORDO MAI”
Così dichiara padre Alex Zanotelli, uno dei protagonisti di questo volume: Pretacci, Rizzoli 2008,
pagine, 310, 18 €. Dopo essere stato per anni direttori di Nigrizia, una delle più prestigiose riviste
missionarie mondiali, e dopo una lunga permanenza nelle periferie del Kenya, ora padre Zanotelli
opera in uno dei quartieri più degradati di Napoli, il rione Sanità, vivendo insieme ai più poveri, per
sostenere la legalità, offrire lavoro ai giovani e dignità a tutti. Leggiamolo pure d’estate, con il tempo
disteso e la mente libera, ma certo questo Pretacci, non rientra fra quelle letture leggere e disimpegnate
che usiamo definire estive, come se d’estate, in vacanza, fosse proibito pensare ad altro che
all’organizzare serate con gli amici. Opera di Candido Cannavò, quasi ottantenne ex direttore della
Gazzetta dello Sport, Pretacci si legge con facilità: è infatti articolato in venti unità ciascuna conclusa e
leggibile in un tempo breve con un linguaggio da intervista o descrittivo comprensibile per chiunque,
arricchito da vivaci aneddoti e scene di vita, con riferimenti a fatti e situazioni di cui si parla.
Il titolo, Pretacci, mi pare il dettaglio meno felice, scelto a effetto per attirare l’attenzione dei possibili
lettori credenti e no: i venti capitoli, come dice il sottotitolo, raccontano storie di uomini che portano il
Vangelo sul marciapiede, sacerdoti italiani, vivi –con la sola eccezione di don Oreste Benzi, scomparso
mentre il libro era in elaborazione-, conosciuti personalmente dall’autore in un lungo viaggio attraverso
le diverse regioni e le diverse realtà sociali del nostro paese. Tutti hanno in comune la passione per il
Vangelo e la determinazione a viverlo ogni giorno anche, forse soprattutto, fuori dai muri della chiesa:
preti che vivono il Vangelo ancor prima di portarne la proposta impegnativa e liberante in mezzo alla
gente, senza aspettare che la gente li cerchi in chiesa.
Parliamo di don Rigoldi che si occupa dei ragazzi in carcere a Milano; di don Gallo che passa le notti
fra le prostitute di Genova; di don Colmegna che ospita nella Casa della carità di Milano chi è messo
sulla strada magari dalle stesse istituzioni; di don Ciotti che, con il gruppo Abele e l’associazione
Libera, organizza in tutta Italia l’educazione alla legalità, con denunce delle infiltrazioni e delle
complicità mafiose; di don Di Noto impegnato nell’individuare e denunciare i pedofili che operano
anche attraverso Internet; di padre Golesano che è succeduto nella parrocchia palermitana del
Brancaccio a don Pino Puglisi ucciso dalla mafia; di padre Bossi, missionario nelle Filippine dove è
stato sequestrato per molte settimane; e ancora del vescovo Giancarlo Bregantini, recentemente
trasferito alla guida della chiesa di Campobasso da Locri in Calabria dove aveva operato in modo
deciso contro la ndrangheta impegnando forze di diversa origine politica e religiosa per creare attività
legali che dessero speranza ai giovani. E molti altri.
Il volume di Cannavò è interessante nel renderci familiari figure significative del nostro tempo, ma
anche per due altre ragioni: descrive efficacemente situazioni presenti nella nostra Italia spesso
argomento di cronaca solo per creare insicurezza, mentre si tratta di realtà in cui tante persone soffrono,
spesso per precise responsabilità economiche e politiche o per tollerate illegalità. In secondo luogo,
dalle pagine di Pretacci viene una testimonianza di chiesa, di una chiesa ancora sorprendente, non solo
impegnata in questioni politiche, in cerimoniali solenni, in manifestazioni folcloristiche che sfiorano la
superstizione, ma presente, anche se con risorse economiche modeste, fra la gente, tutta la gente, senza
selezioni ideologiche, tra quegli ultimi che hanno diritto di cercare nel Vangelo solidarietà e speranza,
quei poveri che hanno fame e sete di giustizia.
Il titolo, capace di attirare l’attenzione, non vuole quindi essere sprezzante: proprio al contrario,
Cannavò esprime per tutti i sacerdoti conosciuti in questo suo viaggio stima e ammirata simpatia.
Semmai si coglie qualche perplessità sul sostegno troppo timido da parte della chiesa, o addirittura per
qualche richiamo mosso da atteggiamenti di qualcuno non del tutto allineati alla disciplina
ecclesiastica.Peraltro, credo che chiunque legga questo volume apprezzando il coraggio e l’impegno, la
fedeltà alla preghiera e la passione spirituale dei suoi protagonisti possa trovare fra le proprie
conoscenze sacerdoti almeno per qualche aspetto vicini all’azione di questi preti.
Un’occasione quindi per guardarci attorno più consapevoli di quanto accade non troppo lontano da noi,
per apprezzare e ringraziare chi ci fa sentire la presenza di Cristo in mezzo alla gente del nostro tempo,
magari per ripensare a qualche atteggiamento anche della nostra vita.
Ugo Basso
Da MAGNIFICAT
di Alda Merini
Io sono la vera Gerusalemme,
sono una città così alta e segreta
che nessuno mi potrà mai raggiungere.
Le mie radici non sono di questa terra
e invano il demonio
cerca di prendere il mio principio.
Io sono la città più alta
da cui si vedrà l’universo,
e mio Figlio sarà la conquista
di tutto ciò che l’uomo non vede.
Io sono colei
che sconfiggerà la superbia, l’ingiustizia,
e che con le sue deboli mani
aprirà il cuore di Dio
alla misericordia per gli uomini.
Io sono la bandiera della fede,
io sono l’umile ancella
che servirà i più umili.
Io che obbedisco alle forze della natura
e che dalla natura sono stata creata
vanto un diadema di perle
che sarà più dolce e flessibile
di ogni acqua.
Io sono l’acqua del battesimo,
sono la mano pura,
il cantico di ogni creatura.
Io verrò liberata dagli inganni
e a mia volta libererò gli altri.
Io libererò i demoni,
li farò trasalire di paura,
li annienterò col mio sguardo dolce.
Essendo stata accolta benevolmente da Dio
sentirò la forza di mille corpi
nel corpo,
perché Dio ha mandato me
come un agnello,
come manderà mio Figlio,
come unici apostoli della fede.
UN’OTTIMA OCCASIONE
Quale migliore occasione nei mesi di luglio e agosto, quando la città si svuota per le vacanze estive,
che andare alla scoperta di luoghi che hanno fatto la storia della nostra città? Milano è ricca, oltre che
di opere d’arte, di storia spesso sconosciuta da molti. Per conoscere la storia, l’arte e la cultura della
città, in buona parte, bisogna visitare le chiese non solo belle architettonicamente, ma autentici musei,
dove poter ammirare e scoprire quanto è stato realizzato nel corso dei secoli. Tralasciando i luoghi più
noti, posso suggerire la visita di alcuni luoghi meno conosciuti, ma ricchi di storia e d’arte,
raggiungibili molto facilmente con i mezzi pubblici. Un consiglio: portatevi queste segnalazioni, che
saranno un’utile guida per le visite.
S. Gottardo in Corte
Il raro gioiello dell’arte gotico-lombardo, cioè il suo campanile, è opera firmata da Francesco Pecorari
da Cremona, eseguita agli inizi del XIV secolo.
La conferma di tale firma sta nell’iscrizione ai piedi del campanile: +Magister Franciscus de
Pegorariis de Cremone fecit hoc opus (il maestro Fancisco Pecorari da Cremona ha fatto
quest’opera). Da quasi sette secoli questo raro gioiello svetta superbo sui tetti circostanti: il suo
rosseggiante laterizio si stempera nel candido ricamo delle colonnine che precedono il cono cestile
terminale, sulla cui vetta posa la statua, in rame dorato, oggi alquanto annerita, dell’Arcangelo Michele
che regge il vessillo visconteo.
La chiesa di S. Gottardo sorse per volere di Azzone Visconti sui resti di un precedente oratorio dedicato
a S. Giovanni; inizialmente fu consacrata alla Beata Vergine poi a S. Gottardo, per l’influente appoggio
di Azzone, Promossa al rango di cappella ducale (da qui il nome di Corte) il sacro edificio fu tenuto in
grande considerazione sia dai Visconti che dagli Sforza.
Nel 1770 il Piermarini, per far posto allo scalone d’onore del costruendo Palazzo Reale, ne sacrificò la
sobria facciata romanica e, senza molti scrupoli, vennero dispersi alcuni dei più insigni monumenti e
affreschi che adornavano l’intera chiesa. Si riuscì a salvare una crocefissione affrescata nel 330 da un
allievo di Giotto (si pensa che lo stesso Giotto, essendo a Milano in quegli anni, vi abbia messo mano)
e ora è stata trasportata sulla parete di testa della chiesa. La stessa arca sepolcrale di Azzone Visconti,
ritenuta opera di Balduccio da Pisa, venne ritrovata nel cantiere dietro il Duomo per essere demolita.
Ora questa bellissima arca è di nuovo in S. Gottardo, quasi integra, alla sinistra dell’altare maggiore.
Fra le bellezze di questa chiesa risalta un bel dipinto raffigurante S. Carlo del Cerano, uno degli autori
seicenteschi dei teleri esposti in Duomo in occasione della festa del santo dedicati alla sua vita e
conosciuti dai milanesi come i quadroni di san Carlo. Questa cappella viscontea-sforzesca, a causa dei
lavori per la costruzione del Palazzo Reale, venne completamente mutata, soprattutto all’interno. Il bel
portale a fasci polistili e il rosone, che una volta adornavano la facciata, ora si possono ammirare,
riadattati, sul fianco destro dell’antica cappella su cui si apre l’attuale ingresso. La chiesa di S. Gottardo
si trova in via Pecorari angolo via Palazzo Reale (laterale al Duomo.)
S. Maria Incoronata
In prossimità di questa chiesa, esisteva una chiesetta dedicata a S. Maria di Garegnano dei Padri
Eremitani di S. Marco. Pietro Liceto da Siena, accanto a essa, fondò un convento per gli Agostiniani
che fu portato a termine nel 1445. La chiesetta, di origine trecentesca, venne fatta riedificare da
Francesco Sforza (1451) e, in occasione della sua incoronazione, la chiesa prese il nome di S. Maria
Incoronata. Nove anni dopo, Bianca Maria volle che, a lato di quella del consorte, fosse costruita una
chiesa, del tutto identica, anzi congiunta a essa in modo da formare un’unica chiesa. L’aspetto di queste
chiese gemelle, costruite in stile gotico, fu notevolmente modificato prima nel 1654 e poi nel 1827. Già
nel 1900, sotto la direzione del Pellegrini, furono compiuti i restauri che l’hanno riportata al disegno
originario di Pietro Solari.
Le due chiese affiancate e simmetriche compongono, in pratica, una rara chiesa a due navate, più larga
che lunga. Numerose sono le opere d’arte in essa contenute attribuite al Bambaia, a Bernardino Zenale,
ad Ambrogio Bergognone, a Vincenzo Foppa, fra i maggiori pittori lombardi del primo Cinquecento.
Questa chiesa merita un’attenta e curata visita, considerando l’unicità della costruzione.
La chiesa si trova in corso Garibaldi.
San Maurizio
Sarebbe veramente interessante scoprire se i milanesi (nativi o no) abbiano almeno una volta visitato
questo splendido edificio che rappresenterebbe in qualsiasi città d’Europa, Italia inclusa, uno dei
massimi monumenti cittadini. Edificata nel 1503, sulle rovine di un’antica chiesa annessa al Monastero
delle Benedettine (questo a sua volta fu demolito nel 1799 e ciò che ne resta oggi è sede del Museo
Archeologico), la chiesa di S. Maurizio è opera in massima parte del pavese Gian Giacomo
Dolcebuono, e fu portata a termine dal Solari, uno dei grandi architetti della Milano sforzesca.
La chiesa è divisa in due settori da una parete trasversale: verso l’ingresso è la chiesa pubblica, dedicata
sin dalle origini ai fedeli; oltre la parte divisoria è la chiesa claustrale, strettamente riservata alle
devozioni delle monache. L’insieme è un vero gioiello di architettura e di decorazioni, per le quali
lavorò una schiera di artisti del XVI secolo, non tutti esattamente identificati. Tutta affrescata, “da capo
a piedi”, così come ci appare, S. Maurizio non ha quasi riscontri nel Rinascimento e descrivere tutte le
opere in essa contenute sarebbe troppo lungo. Posso far presente che in S. Maurizio lavorarono
Bernardino Lumi e i figli Aurelio e Gian Pietro, Calisto Piazza, Antonio Campi, Vincenzo Foppa.
Accenno a qualche capolavoro di questi artisti, lasciando la scoperta ai visitatori che non resteranno
delusi: Storie e Martirio di S. Caterina d ‘Alessandria (cappella Besozzi, terza a destra), pala eseguita
nel 1530 da Bernardino Luini; secondo un’antica credenza popolare, egli avrebbe, per il volto della
martire, ritratto quello della contessa Bianca Maria di Challant, decapitata al Castello Sforzesco nel
1526 per false, infamanti accuse di adulterio. Infatti pare che Bernardino Luini abbia assistito alla
decapitazione, ne sia rimasto sconvolto e, nell’unico modo da lui conosciuto, abbia voluto tramandare
ai posteri il viso della giustiziata.
La pala inserita al centro della parete trasversale, Adorazione dei Magi, è un’opera minore di Antonio
Campi. Se si ha la fortuna di poter accedere alla seconda parte della chiesa, quella un tempo riservata
alle monache, si può vedere un bel coro ligneo e, oltre a notevoli affreschi di Bernardino Luini, una
bellissima Annunciazione del Bergognone.
Per raggiungere S. Maurizio: MM3 fermata Duomo, tram 16 direzione corso Magenta, terza fermata.
S. Cristoforo al Naviglio
Suggestiva meta per le scampagnate fuori porta d’un tempo era I‘Alzaia Naviglio Grande:
costeggiando il canale, ci si fermava in trattoria, sotto un pergolato, ad assaporare i piatti locali
accompagnati da un buon bicchiere di vino. Ma la tappa principale era fermarsi al piccolo oratorio
campestre dedicato a S. Cristoforo: la devozione al santo era fortemente sentita dai milanesi. Ora la
campagna e le osterie con i pergolati non ci sono più, la devozione al santo è andata scemando, ma la
chiesetta di S. Cristoforo resiste ancora a ricordarci la sua storia e i bei tempi andati. S. Cristoforo al
Naviglio è formato da due chiese; la più antica, quella romanica, risale al 1250 e venne costruita
durante gli scavi del Naviglio Grande. La facciata è ornata da un ricco portale in cotto con lunetta a
rosone, aggiunto alla fine del 1300. La seconda, edificata lungo l’argine del naviglio e ultimata nel
1404, è detta Cappella Ducale e fu eretta per voto della cittadinanza milanese dopo la peste del 1333 e
in ringraziamento per la vittoria ottenuta ad Alessandria nel 1391 da Gian Galeazzo Visconti, duca di
Milano, sui Francesi. Davanti ai due portali figurano tre stemmi: il biscione visconteo con la sigla di
Gian Galeazzo Visconti, l’insegna del Comune di Milano e l’emblema cardinalizio di Pietro Filago da
Candia vescovo di Milano, divenuto nel 1409 papa Alessandro V.
L’interno reca evidenti tracce dell’unione delle due chiese. È a due navate, ognuna appartenente a una
delle costruzioni, separate soltanto da un pilastro. Quella di sinistra ha un soffitto ligneo e reca sulle
pareti frammenti di antichi affreschi del 1400 della scuola del Bergognone. Gli affreschi nell’abside
sono stati eseguiti da discepoli del Luini. Quella di destra ha due campate di volte a crociera e le sue
pareti sono decorate da affreschi di pittori gotici. L’altare è decorato da una Vergine col Bambino, del
‘500 lombardo; bellissima è la statua in legno policromo del ‘300 raffigurante S.Cristoforo col
Bambino che affianca un’altra statua lignea del ‘400, che riproduce S.Giuseppe, anch’esso col
Bambino.
È un luogo da visitare e si può raggiungere con la filovia 90/91, scendendo al termine di viale Cassala
(che scavalca il Naviglio) poi a piedi lungo l’Alzaia Naviglio Grande per circa 300 metri. Ecco in
sintesi alcuni luoghi da visitare, il resto, cammin facendo, si può scoprire personalmente.
Carlo Pirovano
SULLA SPIAGGIA DI OSTIA
(“Favole al telefono” di Gianni Rodari)
A pochi chilometri da Roma c’è la spiaggia di Ostia, e i romani d’estate ci vanno a migliaia, sulla
spiaggia non resta nemmeno lo spazio per scavare una buca con la paletta, e chi arriva ultimo non sa
dove piantare l’ombrellone.
Una volta capitò sulla spiaggia di Ostia un bizzarro signore, davvero spiritoso. Arrivò per ultimo, con
l’ombrellone
sotto il braccio, e non trovò il posto per piantarlo. Allora lo aprì, diede un’aggiustatina al manico e
subito l’ombrellone si sollevò per aria, scavalcò migliaia di migliaia di ombrelloni e andò a mettersi
proprio in riva al mare, ma due o tre metri sopra la punta degli altri ombrelloni. Lo spiritoso signore
aprì’ la sua sedia a sdraio, e anche quella galleggiò per aria; si sdraiò all’ombra dell’ombrellone, levò di
tasca un libro e cominciò a leggere, respirando l’aria del mare, frizzante di sale e di iodio.
La gente, sulle prime, non si accorse nemmeno del signore. Stavano tutti sotto i loro ombrelloni,
cercavano di vedere un pezzetto di mare tra le teste di quelli che stavano davanti, o facevano le parole
crociate, e nessuno guardava per aria. Ma ad un tratto una signora sentì qualcosa cadere sul suo
ombrellone, pensò ad una palla, uscì per sgridare i bambini, si guardò intorno, guardò per aria e vide lo
spiritoso signore sospeso sulla sua testa. Il signore guardava in giù e disse a quella signora:
- Scusi, signora, mi è caduto il libro. Lo ributta su per cortesia?
La signora, per la sorpresa, cadde seduta nella sabbia e siccome era molto grassa non riusciva a
risollevarsi.
Accorsero i parenti per aiutarla, e la signora, senza parlare, indicò col dito l’ombrellone volante.
- Per piacere, - ripeté lo spiritoso signore, - mi ributtano su il mio libro ?
- Ma non vede che ha spaventato nostra zia!
- Mi dispiace tanto, non ne avevo davvero l’intenzione.
- E allora scenda di lì, è proibito.
- Niente affatto, sulla spiaggia non c’era posto e mi sono messo qui. Anch’io pago le tasse, sa?
Uno dopo l’altro, intanto, tutti i romani della spiaggia si decisero a guardare per aria, e si additavano
ridendo quel bizzarro bagnante.
- Anvedi quello, - dicevano, - ci ha l’ombrellone a reazzione!
- A Gagarin, - gli gridavano, - me fai montà puro ammè?
Un ragazzino gli gettò su il libro, e il signore lo sfogliava nervosamente per ritrovare il segno, poi si
rimise a leggere sbuffando. Pian piano lo lasciarono in pace. Solo i bambini, ogni tanto, guardavano per
aria con invidia, e i più coraggiosi chiamavano:
- Signore, signore!
- Che volete?
- Perché non ci insegna come si fa a star per aria così?
Ma quello sbuffava e tornava a leggere. Al tramonto, con un leggero sibilo, l’ombrellone volò via, lo
spiritoso signore atterrò sulla strada vicino alla sua motocicletta, montò in sella e se ne andò. Chissà chi
era e chissà dove aveva comprato quell’ombrellone.