La neve si sta estinguendo come l`orso bruno | Valerio

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La neve si sta estinguendo come l`orso bruno | Valerio
La
pizza
al
taglio
e
l’infinito
||
Lorenzo
Franceschini
Sono convinto che il concetto di pizza al taglio pertenga in
qualche modo al concetto d’infinito – a differenza di quello
di pizza al piatto, collegato al concetto di finito. Infatti,
mentre la pizza al piatto è conclusa in sé, perfetta nella sua
rotondità, quella al taglio è sempre percepita come una parte
di un tutto cui essa rinvia ontologicamente, proprio per il
fatto d’esserne una parte – da qui l’espressione idiomatica
“un pezzo di pizza”. Ma cos’è il tutto di cui questo “pezzo”
farebbe parte? È forse la teglia dalla quale il pezzo è stato
spiccato? A pensarci, sembrerebbe proprio di no: non è questo
il tutto che viene evocato alla nostra sensibilità. Ci
verrebbe piuttosto da rispondere che il “pezzo” sia parte
della pizza intesa in senso assoluto: della totalità della
pizza esistente al mondo, e di quella che è stata fatta, che
si farà e che si può immaginare. Pertanto il pezzo di pizza,
proprio in grazia della sua continuità con il tutto
indefinibile cui appartiene, paragonato a una pizza al piatto
– per quanto grande essa sia –, è, per fare un esempio,
come un orizzonte marino paragonato ad un panorama lacustre.
Il pezzo di pizza è come questo orizzonte, che, perdendosi
nell’indefinito, sussurra le saghe degli oceani e promette
meravigliosi tesori all’uomo che a riva sente forte in sé il
desiderio ancestrale di oltrepassare i confini.
La civetta tra Ulisse ed
Harry
Potter
||
Lorenzo
Franceschini
In occasione della Giornata Europea della Civetta, volta a
tutelare questo nobile ma bistrattato rapace, oggi, sabato 11
marzo, vogliamo parlarvi di quei miti antichi che,
cristallizzandosi nella mentalità occidentale, hanno nutrito
le nostre opinioni e i nostri pregiudizi sulla civetta,
facendone un simbolo culturale e antropologico.
Tutti gli uccelli venivano considerati dagli antichi dei
messaggeri del volere degli dèi, poiché, volando, vengono a
trovarsi in una posizione intermedia tra questi e i mortali.
Nell’Odissea, per esempio, si narra che, alla fine di un
banchetto, mentre Telemaco, figlio di Ulisse, parlava con
l’indovino Teoclimeno, un falco, «nunzio di Apollo» (Odissea,
XV, 527), volò sul suo capo; al che Teoclimeno disse:
«Telemaco, a te l’uccello è volato da destra/ non senza il
volere di un dio: l’ho guardato e ho inteso che buono è
l’auspicio» (ivi, 531, 532). A conferma dell’importanza
accordata agli uccelli nel mondo antico, il personaggio di
Teoclimeno ci mostra qui una figura professionale assai
importante nell’anticha Grecia: quella dell’àugure, cioè colui
che interpretava il volo degli uccelli per capire se gli dèi
approvassero o no l’agire umano.
Originariamente, il significato simbolico della civetta era
sicuramente positivo. Questo animale era sacro ad Atena
(Minerva per i Romani): dea della saggezza, delle arti, della
giustizia, delle opere pubbliche e dell’agricoltura. La
capacità di vedere al buio fece della civetta il simbolo della
ragione che squarcia le tenebre dell’ignoranza. Se una civetta
volava su un campo di battaglia prima dello scontro, i Greci
lo consideravano di buon auspicio, per il fatto che Atena era
anche dea della vittoria.
Ma alla civetta si associano anche argomenti meno seriosi. Gli
antichi Greci pensavano che mangiare le uova della civetta
facesse passare le sbornie e odiare il vino, e per questo era
detestata da Dioniso (Bacco per i Romani). Il mito narra che
un giorno tre fanciulle si rifiutarono di andare alle feste in
onore di Dioniso per completare un lavoro di sartoria (arte
sacra ad Atena), e il dio le punì, trasformandone una in gufo,
una in civetta, una in barbagianni.
Scherzosamente, quando noi oggi vediamo una ragazza o una
donna che ha molti corteggiatori ma non si risolve mai con
nessuno, lasciando tutti in sospeso e attirandoli con moine e
ammiccamenti, ci viene da dire: “ma guarda che civetta!”.
Questo perché la civetta ha la singolare qualità di attirare
gli altri uccelli, per il fatto che questi si sentono in
pericolo, essendo la civetta ghiotta delle loro uova, e quando
la vedono avvicinarsi al loro territorio, le vengono incontro
per scacciarla (si tratta del cosiddetto mobbing, che, come
sanno molti lavoratori, consiste nel far fronte comune contro
qualcuno, rapace o collega che sia). Questa particolarità
della civetta era sfruttata dai cacciatori per catturare gli
uccelli attirati dal rapace – ora tale pratica è proibita,
perché i rapaci sono una specie protetta.
Nella mentalità popolare questo avvicinarsi degli altri
uccelli veniva erroneamente interpretato come derivante non
dalla volontà di difendere il territorio, ma da un’attrazione
esercitata sui volatili dalla civetta, a causa del suo rapido
occhieggiare e dei suoi lesti saltelli, che sembrano dei vezzi
atti ad ammaliare i corteggiatori. In grazia di questa
interpretazione erronea, già nell’Odissea si ha traccia
dell’accostamento dell’animale alla femme fatale: vediamo
infatti che Calipso, la ninfa che trattiene Ulisse con il suo
fascino, ha come suo simbolo proprio la civetta, che vola
liberamente nella sua splendida dimora. È bello citare qui due
esempi di questa concezione rubati alla letteratura. Per prima
cosa, ecco una canzone a ballo di messer Angelo Poliziano
(seconda metà del XV secolo), dove il poeta si rivolge alla
donna desiderata rimproverandole la sua eccessiva leggerezza:
Già non siàn, perch’e’ ti paia,
dama mia, così balocchi;
conosciàn che c’infinocchi
e da tutti vuoi la baia.
Già credetti essere il cucco,
so che ’n gongolo i’ ti tenni,
ma tu m’hai presto ristucco
con tuoi ghigni, attucci e cenni.
Pur del mal tosto rinvenni
E son san com’una lasca:
anch’io so impaniar la frasca,
benché forse a te non paia.
Tu solleciti el zimbello,
e col fischio ognun alletti;
tireresti ad un fringuello,
ma indarno omai ci aspetti.
Quanto più, per Dio, civetti,
tanto più d’ognun sei gufo:
deh, va’ ficcati in un tufo,
cheta, e fa che non si paia.
[…]
Tant’è, dama, a parlar chiaro,
tu vagheggi troppo ognuno,
senza fare alcun divaro
s’egli è bianco o verde o bruno;
me’ faresti a tortene uno
(e sarei proprio buon io),
a quest’altri dire addio
e saresti fuor di baia.
Angelo Poliziano, Stanze, canzone a ballo CXII
Ecco poi alcuni versi del libretto di Così fan tutte di
Lorenzo da Ponte (1790):
In un momento – dar retta a cento;
colle pupille – parlar con mille;
dar speme a tutti – sien belli o brutti,
saper nascondersi – senza confondersi,
senza arrossire – saper mentire
e, qual regina – dall’alto soglio,
col “posso e voglio” farsi ubbidir.
Lorenzo da Ponte, Così fan tutte, atto II, scena I (libretto
per la musica di Wolfgang Amadeus Mozart)
Questi appena ricordati sono i significati più solari di cui
si veste il simbolo della civetta, ma il nostro rapace assomma
in sé anche delle valenze molto tetre. L’origine della
deviazione in senso funereo del significato simbolico della
civetta si ha col mito di Ascalafo, figlio di Acheronte e
Orfne, cui si lega anche il motivo per cui la civetta divenne
sacra ad Atena. Acheronte, sceso agl’Inferi come pena per aver
offerto da bere ai Titani in lotta contro Zeus, ebbe un
figlio, Ascalafo, appunto, il quale spifferò a Zeus che
Persefone aveva mangiato sette chicchi di melagrana, frutto
che era stato proibito dal padre degli dèi. La madre di
Persefone, Demetra, per ripicca trasformò Ascalafo in civetta,
pensando di fargli un danno, ma, poiché, trasformato in
civetta, Ascalafo poteva vedere anche di notte, venne presto
ingaggiato da Atena, che, in qualità dea della sapienza e
della giustizia, lo volle sempre al suo fianco, per vigilare
di notte al suo posto – un po’ come i nostri metronotte, o
come le pattuglie notturne della polizia, che in Italia,
appunto, vengono chiamate civette. Da questo momento in poi la
civetta divenne l’animale simbolo della dea, e anche della
città di Atene, di cui era protettrice – infatti, nelle monete
da quattro dracme coniate ad Atene tra il VI e il III secolo
a. C., così come oggi nelle monete greche da un euro, è
effigiata una civetta. Il rapace compare spesso anche negli
stemmi araldici, negli ex libris e nelle targhe di librerie e
case editrici – si pensi, per esempio, a Les Belles Lettres.
Questo mito, che appartiene al regno degli inferi, getta
comunque una luce tetra sulla fortuna della civetta come
simbolo, infatti, già presso i Romani si pensava che le sue
grida annunciassero avvenimenti nefasti. Si narra che Cesare,
Commodo, Augusto e Agrippa siano morti il giorno dopo aver
visto una civetta. Ancora oggi, in molte tradizioni popolari,
se una civetta canta sul tetto di una casa, è segno che uno
degli abitanti di lì a poco deve morire. In alcuni paesi
europei è stata testimoniata addirittura la barbara usanza di
inchiodare fuori dalla porta di casa una civetta perché si
pensava, senza alcun fondamento, che divorasse gli animali da
cortile, e che quindi dovesse essere tenuta lontano.
Nel primo capitolo de La pietra filosofale, l’autrice di Harry
Potter si diverte a ribaltare queste credenze, stabilendo che
nel suo mondo incantato vedere una civetta di giorno portasse
fortuna. In Harry Potter si può altresì notare che ogni mago è
accompagnato da un gufo o una civetta le cui caratteristiche
fisiche rispecchiano i tratti morali del padrone: per esempio,
l’animale del protagonista è una bellissima civetta delle
nevi, Edvige; Ron ha invece un assiolo, che è un gufo molto
piccolo e poco appariscente, e così via. Se pensiamo ad altre
coppie di maghi e Strigiformi, ci verrà di certo in mente
Merlino e Anacleto, il buffo gufo de La spada nella roccia. Ma
gli esempi sarebbero infiniti.
La natura solitaria della civetta fa sì che essa si rifugi
spesso nei cimiteri, dove può trovare la pace che cerca, ma
questa sua abitudine l’ha avvicinata, nelle credenze popolari,
al demonio e alle streghe. Un’antica leggenda in lingua
spagnola narra che la civetta aveva in origine una voce soave,
ma, avendo assistito alla morte di Cristo, le venne inflitta
la pena di pronunciare soltanto “cruz, cruz”, che in spagnolo
vuol dire, appunto, “croce”. In senso religioso la civetta ha
anche significati positivi, simboleggia infatti Gesù Cristo,
nella notte della morte.
Ci sarebbero altre mille leggende e mille proverbi legati alla
civetta, che la dipingono come un animale luciferino o
intemperante; a noi però piace immaginarla ancora vigile al
fianco di Atena, a vegliare affinché la ragione e la giustizia
non dormano mai. Ed è per questo che vogliamo chiudere il
nostro esiguo intervento con una famosissima immagine tratta
dai Lineamenti di filosofia del diritto di Georg Wilhem
Friedrich Hegel, il grande filosofo tedesco, che paragona
l’osservazione filosofica al volo della civetta: «quando la
Filosofia tinge il suo grigio sul grigio, allora una figura
della vita è invecchiata, e con grigio su grigio non è
possibile ringiovanirla, ma soltanto conoscerla: la civetta di
Minerva inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo».
Alcune informazioni riportate nel presente contributo sono
tratte dal saggio di Maria Altobella Galasso, dal titolo La
civetta dagli altari agli scongiuri. L’immagine è tratta dal
sito YouTube.
Geòdi | un libro di Tommaso
Ottonieri | Fabio Orecchini
Presentiamo per i lettori di Argo il libro di poesia “Geòdi”
di Tommaso Ottonieri pubblicato da Nino Aragno Editore nella
collana “i domani”. Il libro, vincitore dell’ultimo Premio
Feronia, riflette una tessitura consona alle più recenti prove
di Ottonieri, aurorale e biblica come iper-contemporanea, in
continua riformulazione, mai compiuta, in cui la materia del
suono-parola disgregantesi si ricrea in forme sempre nuove,
quasi dei formulari di alchemiche estrazioni.
Riportiamo nell’ordine, oltre ad un testo tratto da Geòdi, un
testo assente, una “cover” da Passione di Libero Bovio che
avrebbe dovuto trovar posto nella sezione “Squame di spiriti”,
una partitura di ascensione scespiriana sul “trapassare”, fra
ceneri e sabbie, dilagante nel vuoto <<per dune senza
lacrime>> ed infine un estratto dalla motivazione di
attribuzione del premio Feronia, scritta per l’occasione da
Francesco Muzzioli, che riflette
sulla <<poetica della
materia>>, motore e matrice dell’opera, intenta ad assediare
ogni <<purezza formale>>
(il testo integrale precedentemente
pubblicato sul sito di Malacoda).
da Geòdi
alchèmia, ii
che un corpo ha da esser macerato
e di putrefazioni addotto in fluido
e distillato un corpo di sua acqua
spinta dell’alto in ascendente corpo:
che ciascun corpo che stilla in sé il suo fluido
e si precipita alle realtà che ha infinto
fuggendo ovunque come un’acqua ardente
mercurialmente fuori il suo termometro:
macera i bordi, estingui l’ombra che
sei che ti circonda, ora va’incontro
al roteare delle tue vertigini,
all’acqua:
intorno al corpo non senti che
dolore,
orrore del confine, questo centro
che vuole aprirsi d’una pronunzia ermafrodita:
***
Passare
(d’après Libero Bovio)
Sei rimasta lontana. In un cubo di ghiaccio.
Sciolto il groppo dei lacci. Chiusi in vena i richiami.
Spunti gli aghi dei rami. Serri in gola il veleno.
Curve d’echi alla rena. Giace pietra il tuo mare.
Un diadema di lacrime. Raggrinzite: si assorbe.
Ori e perle s’intorbidano. Cavi gli occhi si scoprono.
Quando spenta è la febbre. Si ricelano gli astri.
Sotto il manto d’asfalto. Lungo i cigli è la neve.
****
per sabbia*
(ancora un’ultima scena)
Out, out, brief candle!
che l’ombra d’olii corsa al fianco, spina,
scuota le maschere senz’orbita al proscenio –
per verbi a pezzi che alle sabbie imprimano
un raggio muto, a scroscio stelle, e schegge:
e brevi fiaccole incendiano le dune,
se giú dai grani
si srotola un tappeto:
per un galà di rovine
di rumore di furore, senz’orma
questo sibilo dal conto dei rovesci,
automa recitando la sua fiaba estinta
l’ora che intorno stringe, nulla schiude al suo senso:
dai pozzi dai miraggi non cenere si resta
dilava il fumo all’arso delle lingue
se sciolto è l’olio d’ombre, per sabbie acri in cammino
da questa bolla espansa, acché inverso
il fuoco del deserto la sua scena cavi
e poi dilaghi in vuoto, per dune senza lacrime:
***
Nota di Francesco Muzzioli
Geòdi: mentre nella forma della sua scrittura prevale la
varietà
delle diverse e mai ovvie soluzioni ritmiche (che non mancano
di
tendere anche verso la prosa), questa raccolta possiede una
rara
coerenza di fondo, incentrata come indica il titolo sulla
tematica
minerale. Come dire: la vita ridotta al suo estremo residuo,
al
suo supporto meccanico. O meglio: la visione del corpo e della
psiche stessa come materie. Ecco allora che il lessico, ma
direi
proprio il linguaggio cosale, è assunto per parlare dei
movimenti
e dei livelli profondi dell’umano, e con quelli si mescola e
si
dipana. In questa poesia impersonale non ci sono sentimenti ma
al
massimo «sedimenti». Sono forse archetipi? Qualcosa certo
hanno,
tali elementi, di primitivo e di originario; e tuttavia la
loro
modalità è quella dell’emergenza e dell’instabilità, della
metamorfosi continua e inarrestabile, in un paesaggio di
introversioni (i “geodi” che danno il titolo sono i cristalli
che
nascono all’interno di una roccia ignea) ma anche di ingorghi,
di
flussi, di esplosioni, di sorprendenti inversioni. Tutto il
materiale viene sottoposto a una dinamica (ritmica, semantica,
elocutiva) e in questo trattamento risulta coinvolta la stessa
parola poetica, che non trova mai argine alla dismisura
dell’espressione. Per arrivare all’ultima sezione dove il
discorso
si rovescia e si fa scopertamente pubblico: la materia diventa
quella negativa dei rifiuti e degli scarti che la modernità
produce avvelenando l’ambiente e la vita, in una discesa nel
degrado da cui nulla e nessuno può dirsi immune o innocente.
La poetica della materia ci segnala, così, il ritorno del
rimosso
che assedia ogni presunta purezza formale.
****
Geòdi, di Tommaso Ottonieri, Nino Aragno, 2016
*testo presente in Smerilliana n°19
La formula magica |
Meggiolaro – racconto
Mauro
Chi l’avrebbe detto che sarebbe andata a finire così? pensava
forse tra sé e sé, per quanto potesse veramente pensare in
quello stato. Meda e Viganò, Paroliti e Rinaldini e quasi
tutti gli altri in qualche modo si erano riciclati. C’è chi
con la liquidazione aveva aperto un centro fitness, chi si era
messo a fare l’insegnante a contratto in qualche università
privata per somari ricchi. In tanti avevano anticipato di un
paio di anni la pensione e si erano ritirati su una delle
cinquantamila colline dell’Appennino o in riva al lago o al
mare. Ma lui aveva 36 anni e non sapeva da che parte
ricominciare. Nel dubbio spendeva tutto in tramezzini e caffè
corretti, cordiali e aperitivi, prosecchini e digestivi,
genzianelle e rosoli, amari, acquaviti e camparini e in
questo, il Bar Lenotti era un porto sicuro, nascosto alla
vista del mondo giudicante, piantato ormai “dal 1890”
all’angolo tra via del Martirio e vicolo Santa Valeria, nel
centro pulsante della metropoli della finanza, dove l’Italia
era
Italietta, la Borsa era una borsetta e i bancari, banchieri,
analisti,
correntisti, trader, broker, consulenti, revisori, sindaci,
notai,
avvocati e commercialisti si conoscevano tutti, uno per uno e
di tutti sapevano vita, morte, miracoli ma soprattutto
piccolezze, sconcezze, rigurgiti, corna e cambiali e tutto il
peggio che la natura umana nella sua debolezza intrinseca sa
dare al mondo. Un tempo ai tavoli del Lenotti sedevano poeti
del calibro di Borlotti e Bavaglini, premi Nobel per la
Fisica, artisti ed equilibristi, giornalisti come il
pluripremiato Mondelli, il temuto Del Brusco “dalla penna
tagliente” e si dice che ci fossero passati anche Ernest
Hemingway ed Allen Ginsberg e ci avesse dormito – non si sa
dove di preciso né quando – nientemeno che Giuseppe Garibaldi.
Ma erano altri tempi. Nel 2005 l’allora settantottenne
Evaristo Lenotti, ultimo rappresentante della terza
generazione di una stirpe di osti e locandieri, aveva alzato
le braccia e venduto licenza e avviamento ai cinesi per
“250.000 euro in contanti”, si mormorava nell’ambiente. In
pochi mesi la sala biliardo fu evacuata e diventò una specie
di magazzino conto terzi dove iniziò a passare di tutto e la
storica “saletta dei poeti” fu subito riempita di macchinette
di videopoker a cui, giorno dopo giorno, si aggrapparono file
di disperati di tutte le razze, i sessi, le età e i colori.
In quel covo di diseredati Frigerio si trovava perlomeno a suo
agio. Nessuno gli chiedeva chi fosse o cosa fosse stato né
cosa se ne facesse ora del suo prestigioso CFA, quel titolo da
analista finanziario che gli era costato almeno 50 finesettimana a casa a studiare e la bellezza di due fidanzate
che, nel frattempo, l’avevano mandato a quel paese. «Costi più
che ripagati», rispondeva ai bei tempi a chi glielo chiedesse.
«Un aumento secco del 25% della retribuzione lorda da su-bito!», diceva alzando il tono della voce e scandendo le sillabe
davanti ai vecchi amici dell’oratorio quando si ritrovavano
per le “cene del campetto”. Ora non rispondeva neanche più
agli inviti. Chi glielo spiegava a quelli che era finita, che
ora era lui il principe degli sfigati? Da quando la Nadir
Società per Azioni di Gestione del Risparmio era stata
comprata dagli americani il mondo gli era crollato addosso. E
pensare che l’acquirente, Two Beta Investments Llc., fino a
due anni prima non la conosceva nessuno, se non un gruppetto
di nerd scacciafighe con le lenti spesse e il pizzetto a
capretta che potrebbero scassarti la minchia per ore parlando
di codici di programmazione. Appena perfezionato il contratto
di acquisizione, Frigerio, Meda, Viganò e tutti gli altri
analisti e analiste del terzo piano della palazzina Adriatica,
piccolo monumento al neorazionalismo degli anni ’50, erano
stati invitati a mettere i loro effetti personali in un
piccolo scatolone, gentilmente offerto dai nuovi proprietari,
e a togliere il disturbo. Erano rimasti solo i due
commerciali, amiconi dalle narici d’oro e i denti affilati.
Del resto qualcuno i fondi e le gestioni patrimoniali doveva
pure continuare a venderli. Ma gli ordini di acquisto e
vendita dei titoli, l’analisi dei dati di bilancio, il price
to book value, l’impairment, la p/e ratio, la divinazione
delle curve flattening e steepening, dei cigni neri e delle
tempeste perfette, delle posizioni long e short in tutte le
loro possibili combinazioni erano funzioni che poteva
agevolmente svolgere una singola macchina, istruita a dovere.
Un supercomputer, capace non solo di interpretare i dati,
confrontandoli con una serie sterminata di casi simili ma
anche di anticipare gli eventi con un margine di errore
trascurabile. «L’idea al centro di tutto è che si possa
rappresentare la realtà usando una funzione matematica che
l’algoritmo ancora non conosce ma può intuire dopo aver
processato un certo numero di dati» scriveva la Two Beta sul
proprio sito internet, che Frigerio non smetteva di
perlustrare in lungo e in largo in cerca di risposte. Machine
learning: macchine che imparano a fare cose che prima facevano
gli umani e grazie alla capacità di digerire miliardi di dati
alla fine le riescono a fare anche meglio. Gregor Szymborski e
Robert Stielike, i due fondatori e direttori esecutivi della
Two Beta erano diventati miliardari così, grazie a una
funzione matematica prodigiosa, ormai conosciuta nel mondo
finanziario internazionale come “la formula magica”: una serie
di sgorbietti neri su un foglio di calcolo che i due, ora
trentenni, avevano iniziato a mettere insieme quando ancora
non gli cresceva barba a sufficienza per coprire le gote
devastate dall’acne. Negli ultimi anni avevano rilevato decine
di società di gestione in tutto il mondo a prezzi stracciati,
mandato a casa centinaia di analisti e broker e sgomberato
uffici su uffici che erano stati prontamente affittati o
venduti ad altre ditte. I computer liberati erano stati
regalati alle scuole con un atto di magnanimità debitamente
pubblicizzato all’interno del bilancio di sostenibilità della
Beta con la formula finance for education.
Alla fine serviva una sola macchina che usava un’estensione di
memoria virtuale pressoché inesauribile nella grande nuvola
informatica che avvolge l’universo. Luca Frigerio detestava la
Two Beta e odiava Szymborski e Stielike di un odio mortale. Si
sentiva solo, abbandonato da tutti. Aveva anche cercato di
mettere in mezzo gli odiati sindacati. Ma che ne sapevano loro
di intelligenza artificiale? Ormai erano buoni solo a
ingrassare le pensioni di chi ce l’aveva già fatta.
O a
nascondersi, come Frigerio, dal pensiero e dalla vita, in un
posto ancora al riparo dal mondo, dai broker e dalle holding,
dai supercomputer e dalla formula magica, ma certo non dai
cinesi che lo avevano rilevato: il glorioso Bar Lenotti.
Fotografie scelte digitando ‘Merkel Robot’ su Google immagini.
Calabria e Piccadilly | un
racconto di Franco Buffoni
Se Dario Fo, con il suo grammelot, porta alle estreme
conseguenze la riflessione sulla traduzione come sintesi
fonemica, il caso di Imma produce un risultato simile come
sintesi ontologica.
Imma nasce a Roma all’inizio degli anni settanta, figlia di
una coppia di immigrati calabresi, portinai (o come si dice a
Roma: portieri) in un grande stabile (a Roma si dice palazzo)
d’una zona alto borghese. Sprovvisti d’istruzione ma molto
volonterosi, i genitori di Imma sanno conquistarsi la stima
anche degli inquilini inglesi del terzo piano, una coppia
senza figli, lui direttore e lei insegnante nella scuola
inglese distante poche centinaia di metri.
Imma a tre anni si trova così iscritta a quella scuola,
dapprima imparando alla materna canzoncine e buone maniere,
poi come allieva della primaria, quindi delle medie e del
liceo fino alla maturità, che supera brillantemente. E sempre
frequentando anche la casa dei genitori inglesi “adottivi”.
Mentre ogni estate trascorre tre mesi in Calabria a Cirò da
nonna Immacolata e va al mare con gli zii.
Conobbi Imma quando si iscrisse al primo anno di università.
Mi si rivolse subito nel suo inglese perfetto,
dall’intonazione leggermente ironica (che mesi dopo ebbi modo
di riconoscere – identica – nella madre “adottiva”). Imma –
due grandi occhi neri ardenti, capelli fluenti corvini e
intercalari lievemente cockney nei momenti di pausa – era
talmente più “avanti” rispetto ai compagni di corso che subito
le affidai delle mansioni organizzative relative ai seminari.
Per qualche settimana non me ne resi conto: tutto cambiò la
mattina in cui entrai in aula prima del previsto. Imma era
seduta sulla cattedra a gambe divaricate e stava impartendo
ordini sguaiati in… italiano? No, non era italiano quel
miscuglio di calabro-romanesco che usciva dalla bocca di quel
tomboy… persino le sue labbra assumevano un disegno che non le
conoscevo. Come si accorse di me, si ricompose, le labbra
ridivennero quiete, l’inglese riprese il sopravvento e
l’intonazione tornò ad essere quella consueta, leggermente
ironica… Io restai impietrito. Dai colleghi poi seppi delle
difficoltà di Imma in storia e letteratura italiana, e degli
sforzi tremendi che doveva compiere per pronunciare la seconda
lingua straniera, il tedesco.
Passarono i semestri: Imma si era molto affezionata a me, e io
cercavo ogni occasione per farla parlare… in italiano.
Correggendole pronuncia e intonazione e dandole da leggere
romanzi italiani ben scritti, e poi chiedendole di
riassumerli, sia per iscritto sia oralmente. All’inizio fu un
vero disastro, ma Imma era (ed è) molto tenace e piano piano
imparò a cavarsela. Si laureò e poi si legò sentimentalmente e
andò a vivere con un’insegnante inglese della mitica scuola in
cui si era formata, e dove anche lei era stata assunta.
Una sera le due giovani signore mi invitarono a cena. Menù
vegano molto british, intonazione sobriamente ironica e
controllatissima in entrambe. “E in Calabria ci andate?”. “E i
tuoi genitori come hanno preso la vostra unione?”. Risposte
evasive, molto eleganti, leggermente prive di contenuto…
Il giorno dopo Imma mi telefona, ha bisogno di parlarmi. Viene
a casa mia. E finalmente si sfoga. Da donna intelligente quale
è, Imma si rende perfettamente conto dello stato di scissione
in cui vive. “Sugli stessi argomenti”, mi confessa, “io PENSO
in modo diverso a seconda che ne parli in italiano o in
inglese”.
“Non è una questione di traduzione o di lingua. Ma della
mentalità al cui interno mi sono formata”.
“Se avessi frequentato il liceo italiano, probabilmente sarei
riuscita ad amalgamare i due…”, si blocca, mi guarda con le
lacrime agli occhi, “i due cast of mind, quello dei miei
genitori e di nonna Immacolata da una parte (per me l’italiano
è quello) e quello inglese dall’altro. Così vivo con Jane e
con lei mi nutro vegana, insegno a scuola e andiamo in
Inghilterra dai suoi… Ma quando torno a Roma o addirittura in
Calabria, dopo due giorni a morseddhu e sagne chine, non
riuscirei mai a dire in italiano we’re a lesbian couple, e
Jane torna ad essere soltanto la mia amica”.
Da Il racconto dello sguardo acceso, Marcos Y Marcos, 2016.