La neve si sta estinguendo come l`orso bruno | Valerio
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La neve si sta estinguendo come l`orso bruno | Valerio
La pizza al taglio e l’infinito || Lorenzo Franceschini Sono convinto che il concetto di pizza al taglio pertenga in qualche modo al concetto d’infinito – a differenza di quello di pizza al piatto, collegato al concetto di finito. Infatti, mentre la pizza al piatto è conclusa in sé, perfetta nella sua rotondità, quella al taglio è sempre percepita come una parte di un tutto cui essa rinvia ontologicamente, proprio per il fatto d’esserne una parte – da qui l’espressione idiomatica “un pezzo di pizza”. Ma cos’è il tutto di cui questo “pezzo” farebbe parte? È forse la teglia dalla quale il pezzo è stato spiccato? A pensarci, sembrerebbe proprio di no: non è questo il tutto che viene evocato alla nostra sensibilità. Ci verrebbe piuttosto da rispondere che il “pezzo” sia parte della pizza intesa in senso assoluto: della totalità della pizza esistente al mondo, e di quella che è stata fatta, che si farà e che si può immaginare. Pertanto il pezzo di pizza, proprio in grazia della sua continuità con il tutto indefinibile cui appartiene, paragonato a una pizza al piatto – per quanto grande essa sia –, è, per fare un esempio, come un orizzonte marino paragonato ad un panorama lacustre. Il pezzo di pizza è come questo orizzonte, che, perdendosi nell’indefinito, sussurra le saghe degli oceani e promette meravigliosi tesori all’uomo che a riva sente forte in sé il desiderio ancestrale di oltrepassare i confini. La civetta tra Ulisse ed Harry Potter || Lorenzo Franceschini In occasione della Giornata Europea della Civetta, volta a tutelare questo nobile ma bistrattato rapace, oggi, sabato 11 marzo, vogliamo parlarvi di quei miti antichi che, cristallizzandosi nella mentalità occidentale, hanno nutrito le nostre opinioni e i nostri pregiudizi sulla civetta, facendone un simbolo culturale e antropologico. Tutti gli uccelli venivano considerati dagli antichi dei messaggeri del volere degli dèi, poiché, volando, vengono a trovarsi in una posizione intermedia tra questi e i mortali. Nell’Odissea, per esempio, si narra che, alla fine di un banchetto, mentre Telemaco, figlio di Ulisse, parlava con l’indovino Teoclimeno, un falco, «nunzio di Apollo» (Odissea, XV, 527), volò sul suo capo; al che Teoclimeno disse: «Telemaco, a te l’uccello è volato da destra/ non senza il volere di un dio: l’ho guardato e ho inteso che buono è l’auspicio» (ivi, 531, 532). A conferma dell’importanza accordata agli uccelli nel mondo antico, il personaggio di Teoclimeno ci mostra qui una figura professionale assai importante nell’anticha Grecia: quella dell’àugure, cioè colui che interpretava il volo degli uccelli per capire se gli dèi approvassero o no l’agire umano. Originariamente, il significato simbolico della civetta era sicuramente positivo. Questo animale era sacro ad Atena (Minerva per i Romani): dea della saggezza, delle arti, della giustizia, delle opere pubbliche e dell’agricoltura. La capacità di vedere al buio fece della civetta il simbolo della ragione che squarcia le tenebre dell’ignoranza. Se una civetta volava su un campo di battaglia prima dello scontro, i Greci lo consideravano di buon auspicio, per il fatto che Atena era anche dea della vittoria. Ma alla civetta si associano anche argomenti meno seriosi. Gli antichi Greci pensavano che mangiare le uova della civetta facesse passare le sbornie e odiare il vino, e per questo era detestata da Dioniso (Bacco per i Romani). Il mito narra che un giorno tre fanciulle si rifiutarono di andare alle feste in onore di Dioniso per completare un lavoro di sartoria (arte sacra ad Atena), e il dio le punì, trasformandone una in gufo, una in civetta, una in barbagianni. Scherzosamente, quando noi oggi vediamo una ragazza o una donna che ha molti corteggiatori ma non si risolve mai con nessuno, lasciando tutti in sospeso e attirandoli con moine e ammiccamenti, ci viene da dire: “ma guarda che civetta!”. Questo perché la civetta ha la singolare qualità di attirare gli altri uccelli, per il fatto che questi si sentono in pericolo, essendo la civetta ghiotta delle loro uova, e quando la vedono avvicinarsi al loro territorio, le vengono incontro per scacciarla (si tratta del cosiddetto mobbing, che, come sanno molti lavoratori, consiste nel far fronte comune contro qualcuno, rapace o collega che sia). Questa particolarità della civetta era sfruttata dai cacciatori per catturare gli uccelli attirati dal rapace – ora tale pratica è proibita, perché i rapaci sono una specie protetta. Nella mentalità popolare questo avvicinarsi degli altri uccelli veniva erroneamente interpretato come derivante non dalla volontà di difendere il territorio, ma da un’attrazione esercitata sui volatili dalla civetta, a causa del suo rapido occhieggiare e dei suoi lesti saltelli, che sembrano dei vezzi atti ad ammaliare i corteggiatori. In grazia di questa interpretazione erronea, già nell’Odissea si ha traccia dell’accostamento dell’animale alla femme fatale: vediamo infatti che Calipso, la ninfa che trattiene Ulisse con il suo fascino, ha come suo simbolo proprio la civetta, che vola liberamente nella sua splendida dimora. È bello citare qui due esempi di questa concezione rubati alla letteratura. Per prima cosa, ecco una canzone a ballo di messer Angelo Poliziano (seconda metà del XV secolo), dove il poeta si rivolge alla donna desiderata rimproverandole la sua eccessiva leggerezza: Già non siàn, perch’e’ ti paia, dama mia, così balocchi; conosciàn che c’infinocchi e da tutti vuoi la baia. Già credetti essere il cucco, so che ’n gongolo i’ ti tenni, ma tu m’hai presto ristucco con tuoi ghigni, attucci e cenni. Pur del mal tosto rinvenni E son san com’una lasca: anch’io so impaniar la frasca, benché forse a te non paia. Tu solleciti el zimbello, e col fischio ognun alletti; tireresti ad un fringuello, ma indarno omai ci aspetti. Quanto più, per Dio, civetti, tanto più d’ognun sei gufo: deh, va’ ficcati in un tufo, cheta, e fa che non si paia. […] Tant’è, dama, a parlar chiaro, tu vagheggi troppo ognuno, senza fare alcun divaro s’egli è bianco o verde o bruno; me’ faresti a tortene uno (e sarei proprio buon io), a quest’altri dire addio e saresti fuor di baia. Angelo Poliziano, Stanze, canzone a ballo CXII Ecco poi alcuni versi del libretto di Così fan tutte di Lorenzo da Ponte (1790): In un momento – dar retta a cento; colle pupille – parlar con mille; dar speme a tutti – sien belli o brutti, saper nascondersi – senza confondersi, senza arrossire – saper mentire e, qual regina – dall’alto soglio, col “posso e voglio” farsi ubbidir. Lorenzo da Ponte, Così fan tutte, atto II, scena I (libretto per la musica di Wolfgang Amadeus Mozart) Questi appena ricordati sono i significati più solari di cui si veste il simbolo della civetta, ma il nostro rapace assomma in sé anche delle valenze molto tetre. L’origine della deviazione in senso funereo del significato simbolico della civetta si ha col mito di Ascalafo, figlio di Acheronte e Orfne, cui si lega anche il motivo per cui la civetta divenne sacra ad Atena. Acheronte, sceso agl’Inferi come pena per aver offerto da bere ai Titani in lotta contro Zeus, ebbe un figlio, Ascalafo, appunto, il quale spifferò a Zeus che Persefone aveva mangiato sette chicchi di melagrana, frutto che era stato proibito dal padre degli dèi. La madre di Persefone, Demetra, per ripicca trasformò Ascalafo in civetta, pensando di fargli un danno, ma, poiché, trasformato in civetta, Ascalafo poteva vedere anche di notte, venne presto ingaggiato da Atena, che, in qualità dea della sapienza e della giustizia, lo volle sempre al suo fianco, per vigilare di notte al suo posto – un po’ come i nostri metronotte, o come le pattuglie notturne della polizia, che in Italia, appunto, vengono chiamate civette. Da questo momento in poi la civetta divenne l’animale simbolo della dea, e anche della città di Atene, di cui era protettrice – infatti, nelle monete da quattro dracme coniate ad Atene tra il VI e il III secolo a. C., così come oggi nelle monete greche da un euro, è effigiata una civetta. Il rapace compare spesso anche negli stemmi araldici, negli ex libris e nelle targhe di librerie e case editrici – si pensi, per esempio, a Les Belles Lettres. Questo mito, che appartiene al regno degli inferi, getta comunque una luce tetra sulla fortuna della civetta come simbolo, infatti, già presso i Romani si pensava che le sue grida annunciassero avvenimenti nefasti. Si narra che Cesare, Commodo, Augusto e Agrippa siano morti il giorno dopo aver visto una civetta. Ancora oggi, in molte tradizioni popolari, se una civetta canta sul tetto di una casa, è segno che uno degli abitanti di lì a poco deve morire. In alcuni paesi europei è stata testimoniata addirittura la barbara usanza di inchiodare fuori dalla porta di casa una civetta perché si pensava, senza alcun fondamento, che divorasse gli animali da cortile, e che quindi dovesse essere tenuta lontano. Nel primo capitolo de La pietra filosofale, l’autrice di Harry Potter si diverte a ribaltare queste credenze, stabilendo che nel suo mondo incantato vedere una civetta di giorno portasse fortuna. In Harry Potter si può altresì notare che ogni mago è accompagnato da un gufo o una civetta le cui caratteristiche fisiche rispecchiano i tratti morali del padrone: per esempio, l’animale del protagonista è una bellissima civetta delle nevi, Edvige; Ron ha invece un assiolo, che è un gufo molto piccolo e poco appariscente, e così via. Se pensiamo ad altre coppie di maghi e Strigiformi, ci verrà di certo in mente Merlino e Anacleto, il buffo gufo de La spada nella roccia. Ma gli esempi sarebbero infiniti. La natura solitaria della civetta fa sì che essa si rifugi spesso nei cimiteri, dove può trovare la pace che cerca, ma questa sua abitudine l’ha avvicinata, nelle credenze popolari, al demonio e alle streghe. Un’antica leggenda in lingua spagnola narra che la civetta aveva in origine una voce soave, ma, avendo assistito alla morte di Cristo, le venne inflitta la pena di pronunciare soltanto “cruz, cruz”, che in spagnolo vuol dire, appunto, “croce”. In senso religioso la civetta ha anche significati positivi, simboleggia infatti Gesù Cristo, nella notte della morte. Ci sarebbero altre mille leggende e mille proverbi legati alla civetta, che la dipingono come un animale luciferino o intemperante; a noi però piace immaginarla ancora vigile al fianco di Atena, a vegliare affinché la ragione e la giustizia non dormano mai. Ed è per questo che vogliamo chiudere il nostro esiguo intervento con una famosissima immagine tratta dai Lineamenti di filosofia del diritto di Georg Wilhem Friedrich Hegel, il grande filosofo tedesco, che paragona l’osservazione filosofica al volo della civetta: «quando la Filosofia tinge il suo grigio sul grigio, allora una figura della vita è invecchiata, e con grigio su grigio non è possibile ringiovanirla, ma soltanto conoscerla: la civetta di Minerva inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo». Alcune informazioni riportate nel presente contributo sono tratte dal saggio di Maria Altobella Galasso, dal titolo La civetta dagli altari agli scongiuri. L’immagine è tratta dal sito YouTube. Geòdi | un libro di Tommaso Ottonieri | Fabio Orecchini Presentiamo per i lettori di Argo il libro di poesia “Geòdi” di Tommaso Ottonieri pubblicato da Nino Aragno Editore nella collana “i domani”. Il libro, vincitore dell’ultimo Premio Feronia, riflette una tessitura consona alle più recenti prove di Ottonieri, aurorale e biblica come iper-contemporanea, in continua riformulazione, mai compiuta, in cui la materia del suono-parola disgregantesi si ricrea in forme sempre nuove, quasi dei formulari di alchemiche estrazioni. Riportiamo nell’ordine, oltre ad un testo tratto da Geòdi, un testo assente, una “cover” da Passione di Libero Bovio che avrebbe dovuto trovar posto nella sezione “Squame di spiriti”, una partitura di ascensione scespiriana sul “trapassare”, fra ceneri e sabbie, dilagante nel vuoto <<per dune senza lacrime>> ed infine un estratto dalla motivazione di attribuzione del premio Feronia, scritta per l’occasione da Francesco Muzzioli, che riflette sulla <<poetica della materia>>, motore e matrice dell’opera, intenta ad assediare ogni <<purezza formale>> (il testo integrale precedentemente pubblicato sul sito di Malacoda). da Geòdi alchèmia, ii che un corpo ha da esser macerato e di putrefazioni addotto in fluido e distillato un corpo di sua acqua spinta dell’alto in ascendente corpo: che ciascun corpo che stilla in sé il suo fluido e si precipita alle realtà che ha infinto fuggendo ovunque come un’acqua ardente mercurialmente fuori il suo termometro: macera i bordi, estingui l’ombra che sei che ti circonda, ora va’incontro al roteare delle tue vertigini, all’acqua: intorno al corpo non senti che dolore, orrore del confine, questo centro che vuole aprirsi d’una pronunzia ermafrodita: *** Passare (d’après Libero Bovio) Sei rimasta lontana. In un cubo di ghiaccio. Sciolto il groppo dei lacci. Chiusi in vena i richiami. Spunti gli aghi dei rami. Serri in gola il veleno. Curve d’echi alla rena. Giace pietra il tuo mare. Un diadema di lacrime. Raggrinzite: si assorbe. Ori e perle s’intorbidano. Cavi gli occhi si scoprono. Quando spenta è la febbre. Si ricelano gli astri. Sotto il manto d’asfalto. Lungo i cigli è la neve. **** per sabbia* (ancora un’ultima scena) Out, out, brief candle! che l’ombra d’olii corsa al fianco, spina, scuota le maschere senz’orbita al proscenio – per verbi a pezzi che alle sabbie imprimano un raggio muto, a scroscio stelle, e schegge: e brevi fiaccole incendiano le dune, se giú dai grani si srotola un tappeto: per un galà di rovine di rumore di furore, senz’orma questo sibilo dal conto dei rovesci, automa recitando la sua fiaba estinta l’ora che intorno stringe, nulla schiude al suo senso: dai pozzi dai miraggi non cenere si resta dilava il fumo all’arso delle lingue se sciolto è l’olio d’ombre, per sabbie acri in cammino da questa bolla espansa, acché inverso il fuoco del deserto la sua scena cavi e poi dilaghi in vuoto, per dune senza lacrime: *** Nota di Francesco Muzzioli Geòdi: mentre nella forma della sua scrittura prevale la varietà delle diverse e mai ovvie soluzioni ritmiche (che non mancano di tendere anche verso la prosa), questa raccolta possiede una rara coerenza di fondo, incentrata come indica il titolo sulla tematica minerale. Come dire: la vita ridotta al suo estremo residuo, al suo supporto meccanico. O meglio: la visione del corpo e della psiche stessa come materie. Ecco allora che il lessico, ma direi proprio il linguaggio cosale, è assunto per parlare dei movimenti e dei livelli profondi dell’umano, e con quelli si mescola e si dipana. In questa poesia impersonale non ci sono sentimenti ma al massimo «sedimenti». Sono forse archetipi? Qualcosa certo hanno, tali elementi, di primitivo e di originario; e tuttavia la loro modalità è quella dell’emergenza e dell’instabilità, della metamorfosi continua e inarrestabile, in un paesaggio di introversioni (i “geodi” che danno il titolo sono i cristalli che nascono all’interno di una roccia ignea) ma anche di ingorghi, di flussi, di esplosioni, di sorprendenti inversioni. Tutto il materiale viene sottoposto a una dinamica (ritmica, semantica, elocutiva) e in questo trattamento risulta coinvolta la stessa parola poetica, che non trova mai argine alla dismisura dell’espressione. Per arrivare all’ultima sezione dove il discorso si rovescia e si fa scopertamente pubblico: la materia diventa quella negativa dei rifiuti e degli scarti che la modernità produce avvelenando l’ambiente e la vita, in una discesa nel degrado da cui nulla e nessuno può dirsi immune o innocente. La poetica della materia ci segnala, così, il ritorno del rimosso che assedia ogni presunta purezza formale. **** Geòdi, di Tommaso Ottonieri, Nino Aragno, 2016 *testo presente in Smerilliana n°19 La formula magica | Meggiolaro – racconto Mauro Chi l’avrebbe detto che sarebbe andata a finire così? pensava forse tra sé e sé, per quanto potesse veramente pensare in quello stato. Meda e Viganò, Paroliti e Rinaldini e quasi tutti gli altri in qualche modo si erano riciclati. C’è chi con la liquidazione aveva aperto un centro fitness, chi si era messo a fare l’insegnante a contratto in qualche università privata per somari ricchi. In tanti avevano anticipato di un paio di anni la pensione e si erano ritirati su una delle cinquantamila colline dell’Appennino o in riva al lago o al mare. Ma lui aveva 36 anni e non sapeva da che parte ricominciare. Nel dubbio spendeva tutto in tramezzini e caffè corretti, cordiali e aperitivi, prosecchini e digestivi, genzianelle e rosoli, amari, acquaviti e camparini e in questo, il Bar Lenotti era un porto sicuro, nascosto alla vista del mondo giudicante, piantato ormai “dal 1890” all’angolo tra via del Martirio e vicolo Santa Valeria, nel centro pulsante della metropoli della finanza, dove l’Italia era Italietta, la Borsa era una borsetta e i bancari, banchieri, analisti, correntisti, trader, broker, consulenti, revisori, sindaci, notai, avvocati e commercialisti si conoscevano tutti, uno per uno e di tutti sapevano vita, morte, miracoli ma soprattutto piccolezze, sconcezze, rigurgiti, corna e cambiali e tutto il peggio che la natura umana nella sua debolezza intrinseca sa dare al mondo. Un tempo ai tavoli del Lenotti sedevano poeti del calibro di Borlotti e Bavaglini, premi Nobel per la Fisica, artisti ed equilibristi, giornalisti come il pluripremiato Mondelli, il temuto Del Brusco “dalla penna tagliente” e si dice che ci fossero passati anche Ernest Hemingway ed Allen Ginsberg e ci avesse dormito – non si sa dove di preciso né quando – nientemeno che Giuseppe Garibaldi. Ma erano altri tempi. Nel 2005 l’allora settantottenne Evaristo Lenotti, ultimo rappresentante della terza generazione di una stirpe di osti e locandieri, aveva alzato le braccia e venduto licenza e avviamento ai cinesi per “250.000 euro in contanti”, si mormorava nell’ambiente. In pochi mesi la sala biliardo fu evacuata e diventò una specie di magazzino conto terzi dove iniziò a passare di tutto e la storica “saletta dei poeti” fu subito riempita di macchinette di videopoker a cui, giorno dopo giorno, si aggrapparono file di disperati di tutte le razze, i sessi, le età e i colori. In quel covo di diseredati Frigerio si trovava perlomeno a suo agio. Nessuno gli chiedeva chi fosse o cosa fosse stato né cosa se ne facesse ora del suo prestigioso CFA, quel titolo da analista finanziario che gli era costato almeno 50 finesettimana a casa a studiare e la bellezza di due fidanzate che, nel frattempo, l’avevano mandato a quel paese. «Costi più che ripagati», rispondeva ai bei tempi a chi glielo chiedesse. «Un aumento secco del 25% della retribuzione lorda da su-bito!», diceva alzando il tono della voce e scandendo le sillabe davanti ai vecchi amici dell’oratorio quando si ritrovavano per le “cene del campetto”. Ora non rispondeva neanche più agli inviti. Chi glielo spiegava a quelli che era finita, che ora era lui il principe degli sfigati? Da quando la Nadir Società per Azioni di Gestione del Risparmio era stata comprata dagli americani il mondo gli era crollato addosso. E pensare che l’acquirente, Two Beta Investments Llc., fino a due anni prima non la conosceva nessuno, se non un gruppetto di nerd scacciafighe con le lenti spesse e il pizzetto a capretta che potrebbero scassarti la minchia per ore parlando di codici di programmazione. Appena perfezionato il contratto di acquisizione, Frigerio, Meda, Viganò e tutti gli altri analisti e analiste del terzo piano della palazzina Adriatica, piccolo monumento al neorazionalismo degli anni ’50, erano stati invitati a mettere i loro effetti personali in un piccolo scatolone, gentilmente offerto dai nuovi proprietari, e a togliere il disturbo. Erano rimasti solo i due commerciali, amiconi dalle narici d’oro e i denti affilati. Del resto qualcuno i fondi e le gestioni patrimoniali doveva pure continuare a venderli. Ma gli ordini di acquisto e vendita dei titoli, l’analisi dei dati di bilancio, il price to book value, l’impairment, la p/e ratio, la divinazione delle curve flattening e steepening, dei cigni neri e delle tempeste perfette, delle posizioni long e short in tutte le loro possibili combinazioni erano funzioni che poteva agevolmente svolgere una singola macchina, istruita a dovere. Un supercomputer, capace non solo di interpretare i dati, confrontandoli con una serie sterminata di casi simili ma anche di anticipare gli eventi con un margine di errore trascurabile. «L’idea al centro di tutto è che si possa rappresentare la realtà usando una funzione matematica che l’algoritmo ancora non conosce ma può intuire dopo aver processato un certo numero di dati» scriveva la Two Beta sul proprio sito internet, che Frigerio non smetteva di perlustrare in lungo e in largo in cerca di risposte. Machine learning: macchine che imparano a fare cose che prima facevano gli umani e grazie alla capacità di digerire miliardi di dati alla fine le riescono a fare anche meglio. Gregor Szymborski e Robert Stielike, i due fondatori e direttori esecutivi della Two Beta erano diventati miliardari così, grazie a una funzione matematica prodigiosa, ormai conosciuta nel mondo finanziario internazionale come “la formula magica”: una serie di sgorbietti neri su un foglio di calcolo che i due, ora trentenni, avevano iniziato a mettere insieme quando ancora non gli cresceva barba a sufficienza per coprire le gote devastate dall’acne. Negli ultimi anni avevano rilevato decine di società di gestione in tutto il mondo a prezzi stracciati, mandato a casa centinaia di analisti e broker e sgomberato uffici su uffici che erano stati prontamente affittati o venduti ad altre ditte. I computer liberati erano stati regalati alle scuole con un atto di magnanimità debitamente pubblicizzato all’interno del bilancio di sostenibilità della Beta con la formula finance for education. Alla fine serviva una sola macchina che usava un’estensione di memoria virtuale pressoché inesauribile nella grande nuvola informatica che avvolge l’universo. Luca Frigerio detestava la Two Beta e odiava Szymborski e Stielike di un odio mortale. Si sentiva solo, abbandonato da tutti. Aveva anche cercato di mettere in mezzo gli odiati sindacati. Ma che ne sapevano loro di intelligenza artificiale? Ormai erano buoni solo a ingrassare le pensioni di chi ce l’aveva già fatta. O a nascondersi, come Frigerio, dal pensiero e dalla vita, in un posto ancora al riparo dal mondo, dai broker e dalle holding, dai supercomputer e dalla formula magica, ma certo non dai cinesi che lo avevano rilevato: il glorioso Bar Lenotti. Fotografie scelte digitando ‘Merkel Robot’ su Google immagini. Calabria e Piccadilly | un racconto di Franco Buffoni Se Dario Fo, con il suo grammelot, porta alle estreme conseguenze la riflessione sulla traduzione come sintesi fonemica, il caso di Imma produce un risultato simile come sintesi ontologica. Imma nasce a Roma all’inizio degli anni settanta, figlia di una coppia di immigrati calabresi, portinai (o come si dice a Roma: portieri) in un grande stabile (a Roma si dice palazzo) d’una zona alto borghese. Sprovvisti d’istruzione ma molto volonterosi, i genitori di Imma sanno conquistarsi la stima anche degli inquilini inglesi del terzo piano, una coppia senza figli, lui direttore e lei insegnante nella scuola inglese distante poche centinaia di metri. Imma a tre anni si trova così iscritta a quella scuola, dapprima imparando alla materna canzoncine e buone maniere, poi come allieva della primaria, quindi delle medie e del liceo fino alla maturità, che supera brillantemente. E sempre frequentando anche la casa dei genitori inglesi “adottivi”. Mentre ogni estate trascorre tre mesi in Calabria a Cirò da nonna Immacolata e va al mare con gli zii. Conobbi Imma quando si iscrisse al primo anno di università. Mi si rivolse subito nel suo inglese perfetto, dall’intonazione leggermente ironica (che mesi dopo ebbi modo di riconoscere – identica – nella madre “adottiva”). Imma – due grandi occhi neri ardenti, capelli fluenti corvini e intercalari lievemente cockney nei momenti di pausa – era talmente più “avanti” rispetto ai compagni di corso che subito le affidai delle mansioni organizzative relative ai seminari. Per qualche settimana non me ne resi conto: tutto cambiò la mattina in cui entrai in aula prima del previsto. Imma era seduta sulla cattedra a gambe divaricate e stava impartendo ordini sguaiati in… italiano? No, non era italiano quel miscuglio di calabro-romanesco che usciva dalla bocca di quel tomboy… persino le sue labbra assumevano un disegno che non le conoscevo. Come si accorse di me, si ricompose, le labbra ridivennero quiete, l’inglese riprese il sopravvento e l’intonazione tornò ad essere quella consueta, leggermente ironica… Io restai impietrito. Dai colleghi poi seppi delle difficoltà di Imma in storia e letteratura italiana, e degli sforzi tremendi che doveva compiere per pronunciare la seconda lingua straniera, il tedesco. Passarono i semestri: Imma si era molto affezionata a me, e io cercavo ogni occasione per farla parlare… in italiano. Correggendole pronuncia e intonazione e dandole da leggere romanzi italiani ben scritti, e poi chiedendole di riassumerli, sia per iscritto sia oralmente. All’inizio fu un vero disastro, ma Imma era (ed è) molto tenace e piano piano imparò a cavarsela. Si laureò e poi si legò sentimentalmente e andò a vivere con un’insegnante inglese della mitica scuola in cui si era formata, e dove anche lei era stata assunta. Una sera le due giovani signore mi invitarono a cena. Menù vegano molto british, intonazione sobriamente ironica e controllatissima in entrambe. “E in Calabria ci andate?”. “E i tuoi genitori come hanno preso la vostra unione?”. Risposte evasive, molto eleganti, leggermente prive di contenuto… Il giorno dopo Imma mi telefona, ha bisogno di parlarmi. Viene a casa mia. E finalmente si sfoga. Da donna intelligente quale è, Imma si rende perfettamente conto dello stato di scissione in cui vive. “Sugli stessi argomenti”, mi confessa, “io PENSO in modo diverso a seconda che ne parli in italiano o in inglese”. “Non è una questione di traduzione o di lingua. Ma della mentalità al cui interno mi sono formata”. “Se avessi frequentato il liceo italiano, probabilmente sarei riuscita ad amalgamare i due…”, si blocca, mi guarda con le lacrime agli occhi, “i due cast of mind, quello dei miei genitori e di nonna Immacolata da una parte (per me l’italiano è quello) e quello inglese dall’altro. Così vivo con Jane e con lei mi nutro vegana, insegno a scuola e andiamo in Inghilterra dai suoi… Ma quando torno a Roma o addirittura in Calabria, dopo due giorni a morseddhu e sagne chine, non riuscirei mai a dire in italiano we’re a lesbian couple, e Jane torna ad essere soltanto la mia amica”. Da Il racconto dello sguardo acceso, Marcos Y Marcos, 2016.