Verona

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Verona
Verona
Quinta Parete
www.quintaparete.it
cultura e società
mensile on-line
Diretto da Federico Martinelli
Anno II - n. 12 - Dicembre 2011
Fotografia
Musica
Viaggi
Camera Work
L’altra Sanremo
Torino e dintorni
A Berlino, appassionati
della fotografia e non,
non possono mancare di
vedere questa galleria
Premio Tenco 2011, una
manifestazione canora
“alter ego” di quella che
tutti conoscono
Ai piedi dei monti alpini
lungo il Po si stende la città
più misteriosa d’Italia e
forse del mondo
a pagina 12
a pagina 3
alle pagg. 28-31
Non vado mai al cinema, la vita è troppo breve
di Valeria Giarola
© STEVE SCHAPIRO, MARTIN LUTHER KING
Al Cinema Teatro San Massimo inedito appuntamento danzante
Verona e il flamenco di
Chiara Guerra e Rossano Tosi
Avete voglia di una ventata
Andalusia? L’occasione irripetibile per dimenticarsi del gelo
invernale è domenica 4 dicembre presso il Teatro San Massimo (VR) dove la compagnia
Flamenco Caracoles presenta
“Proxima parada: Calle flamenco Dos”.
Lo spettacolo vedrà la partecipazione dei solisti e coreografi Chiara Guerra e Rossano
Tosi, accompagnati dalla voce
di José Salguero, dalla guitarra
Antonio Porro, dal cajon Paolo
Mappa, con la partecipazione
del corpo di ballo formato da 5
ballerine.
Dichiarato Patrimonio Culturale dell’Umanità nel novembre
del 2010, il flamenco è considerato come ballo popolare spagnolo. Le sue radici sono molto
antiche, anche se la sua origine
etimologica non è ancora stata
chiarita del tutto.
In Orìgenes de lo flamenco y secreto
del canto jondo, Blas Infante ipotizza che questa danza derivi
dalla parola ispano-araba flamenco, ovvero contadino senza terra; altri ipotizzano che
abbia a vedere con le Fiandre,
ritenute la terra d’origine degli
zingari, altri ancora da flameante
(ardente) esecuzione degli artisti. Il flamenco è una tecnica
dalle mille sfaccettature, i palos,
ovvero gli stili musicali sono più
di 50, alcuni prevedono la presenza di chitarra, canto e ballo,
altri solo canto, altri solo canto
e chitarra, ma senza ballo. In
quest’occasione assisteremo ad
uno spettacolo dove musica e
danza si intrecceranno animatamente regalando momenti
coinvolgenti.
Chiara Guerra, coreografa e
ballerina dello spettacolo assieme a Rossano Tosi, ci descrive
il flamenco in una parola: anima.
La sua passione per questo genere di danza, diventa professione appena dopo
l’esame di maturità,
quando appena maggiorenne fa le valige,
direzione: Jerez de la
Frontera, da sempre
centro importantissimo per la cultura del
flamenco e che ospita
ogni anno festival e
ferias più importanti
in materia.
Una disciplina, che
come tutta la danza
richiede ore di intenso lavoro e passione
per l’arte, la musica
e il movimento. Ispirata da inquietudini,
malinconia e nostalgia, Chiara Guerra e
Rossano Tosi anche
in questo appunta-
mento invernale svilupperanno
uno spettacolo che vi coinvolgerà e appassionerà.
Un’occasione anche per sfatare
quello stereotipo che stigmatizza il flamenco come: “quel
ballo che si balla con la rosa in
bocca!!! Ma il flamenco è quello dove si battono i tacchi???”
(Cit. intervista a Chiara Guerra)
Occasione irripetibile per vedere sul palco una danza spettacolare, intrigante e coinvolgente…e se volete un assaggio:
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Informazioni
Inizio spettacolo ore 21:00
Costo d’ingresso: 12 €
Info e prevendite: Cinema
Teatro San Massimo,
via Brigata Aosta, 8
Tel.: 045 8902596
Verona è
2 Musica
Quinta Parete
cultura e società
Novembre 2010
Dicembre 2011
Società
13
Vi diremo qualsiasi cazzata vorrete sentire
NonTommasoli
vado [email protected]
al cinema, la vita è troppo breve
di Silvano
Segue dalla prima
Sono in video, ergo sum
Tutti vediamo la volgarità del Grande
Fratello, ma nessuno ne parla
Biografie dei protagonisti
ballerino solista al Festival di danza di Friburgo con la compagnia Laura Farret Jimeno; nello stesso anno è in turnè in Giappone
con la compagnia di Mara Terzi. Nel 2007 è
di
Omologati in TV. Peggio, omoge- pugni con un minimo di eleganza programma, non ha mancato
sullo schermo
televisivo ospite, in una puntaneizzati. No, non mi riferisco ai e di buon gusto? Oddio, non è che proporre una selezione –tamammadedicata al flamenco e all’Andalusia, del
gli di viaggi su La7 “Come Thelma
programmi televisivi, che sem- siano tanto più signorili gli autori mia! Una selezione… Chissà
programma
quasi
nesbrano tutti “fatti con lo stampino” della trasmissione, che ricordano a altri! – dei provini, dove &
Louise”. Nel 2003 è il Torero della “Carha
da almeno dieci anni, peggio an- ogni piè sospinto il premio finale di suno dei candidati, per esempio,
men”, presentata
dalla compagnia Arte Dansensata,
o il teatro S. Domenico di Crema.
cora dei vari telegiornali che sono alcune centinaia di migliaia euro, saputo dare una rispostaza
95 presso
come fosse l’unica molla a spingere almeno non insensata, alla
proprio tutti uguali.
richiesta
Insieme
all’attrice Pilar Perez Aspa e al chiSto parlando dei concorrenti del questa variopinta umanità a di dichiarare il proprio “tallone
di
tarrista Antonio
Porro, partecipa a “El DunGrande Fratello, tutti conformi a un esporre le proprie miserie alla vista Achille”.
de”, spettacolo presentato per la prima volta
modello standard tristissimo, quello di qualche milione di guardoni. E A ben pensarci, coloroallache
ne
rassegna
“La rosa dei venti”, VII edidella volgarità estrema. Sì, la volga- qui cominciano le rogne vere, per- escono meno peggio sono
proprio
zione
del festival dell’Argentario e nel 2009
Perché
rità dei gesti, delle parole, degli at- ché sarebbe necessaria una com- i reclusi del Grande Fratello.
balla
con la compagnia Arte y flamenco per
Ab- di Zeffirelli all’Arena di Verona.
teggiamenti è il denominatore missione di psicologi, sociologi e fanno pena, fino alla tenerezza.
la Carmen
diventare
comune che unisce, tra loro, quasi antropologi per cercare di capire bagliati dal miraggio di Dal
’98 unisce la passione di ballerino alla
sacco di di insegnante di tecnica, coreotutti i reclusi della “casa”. E li uni- che cosa possa indurre alcuni mi- Vip, e di guadagnare unprofessione
fino adel
unflamenco, nacchere, danza spagnosce anche alla presentatrice, Alessia lioni di persone normali ad abbrut- quattrini, si prostituisconografia
a gambe sempre aperte Marcuzzi. Ma tire il proprio spirito davanti alle punto di non ritorno, rimanendo
la sia a bambini che ad adulti. (val. gia.)
Vita e carriera
di Chiara
Donizzetti
Bergamo.marchiati
Nel 2004
la ritroa vita
da quel suffisso –
dei di“ragazzi
possibile
che nessuno
abbiaGuerra:
mai incredibili esibizioni
viamo
Carmen
svizzera
di appunto –
“del Grande
Fratello”
la con
solitalavoglia
di nell’arena
fatto notare a questa povera ra- della casa”. Forse
Nata
a
Verona
nel
1979,
a
7
anni
inizia
a
stuAvenches
,
dove
balla
insieme
alla
compagazza – addirittura capace la scorsa sentirsi migliori?
che li accompagnerà per tutta la
diare danza
classica
presso il “Laboratorio
gnia fortunatamente,
“Flamencos en route”
Brigitta
Luisa
A farci respirare,
edizione
di sedersi
sul pavimento
vita.diPochi
finora
hanno avuto la
Danza
Verona”
e
conseguendo
il
diploma
di
Merki.
Nel
2009
è
impegnata
in
una
tourneè
dello studio, sempre rigorosamente c’è la Gialappa, che non ne lascia capacità di affrancarsene, e di far
nel 2006.
Oltre alla danza
clasitaliana
con “DossiaAlmas”
presentato
dal-squallida oria insegnante
gambe aperte,
dimenticare
questa
passare
una sia
alla conduttrice
spalancando
sica
studia
danza
moderna,
contemporanea
la
compagnia
“Flamenquevive”
di
Gianna
un’ampia panoramica sulle propria ai concorrenti. Di più, per farci ca- gine mediatica. Per tutti, Luca Are tip-tap.intima – che, in video, pire il livello di
Raccagni.
inoltre ballerina
delche si possono
e pochi altri
squallore Dal
(o di2000
cru- è gentero;
biancheria
A
12
anni
si
avvicina
al
flamenco
e
dal
1996
quartetto
“Mediterranea”,
spettacolo
che
una sola mano.
assume delle posture che fanno a deltà?) dell’ufficio casting del contare sulle dita diha
ogni anno va in Spagna per studiare con i riscosso grande successoNon
nellaritengo
Penisola,
ispisia indenne
da questo
maestri andalusi, la Chiqui de Jerez, Ra- rato a Garcia Lorca. baratro di volgarità l’editore di che, di fronte a questo osanna alla
faela Carrasco, Javier Latorre a Sevilvolgarità, comincio a capire quella
tanto spettacolo.
la e Jerez de la Frontera e con Ciro, Ma- Vita e carriera di Rossano
Tosi:chiedergli – se mai fosse per- striscia di carta bianca, incollata, ai
Vorrei
nuel Reyes, Carmela Greco, La China,
sona abituata a rispondere alle do- tempi della mia adolescenza, sui
Adrian Galia, a Madrid, presso l’accade- Si appassiona allo studiomande
del flamenco
in Ita-contento di far manifesti e le locandine dei film e
– se sarebbe
mia Amor de Dios. Dal 1996 è insegnante di lia con Elena Vicini e Maria
José
Leòn
Soto.
assistere i suoi figli
adolescenti, o i degli spettacoli più “sconvenienti”,
flamenco e tiene corsi sia per bambini che per Trasferitosi a Madrid, sisuoi
perfeziona
all’Accanipoti, a una porcheria simile. che prescriveva «V.M. di 16 anni».
adulti.
demia de flamenco y danza
espanola
“Amor
Ma forse
conosco
la risposta, diret- Forse, adesso, sul cartellone del
La sua carriera vanta partecipazioni impor- de Dios”. Partecipa a numerosi
stages
a Jerez
Grande Fratello si dovrebbe scrivere
tamente ispirata
dal dio denaro.
tanti nel mondo della danza: nel giugno 2001 de la Frontera e SivigliaMi
e nel
mentre
approsono
sempre
ribellato a ogni «V.M. di 99 anni»…
è in tournè in Giappone con la compagnia fondisce anche la danzaforma
classica,
moderna
e espressione Per continuare con il giro di volgadi censura,
come
“Alborea”, che presenta “Carmen” e sem- contemporanea. Il suo curriculum
vanta nudella più proterva
volontà di an- rità e stupidità sui media di oggi, vi
pre con la stessa compagnia balla al Teatro merose partecipazioni importanti:
nel 1999
è il senso e la rimando all’ultima pubblicità di
nientare, nella
gente,
capacità di critica. Ma devo dire Marc Jacobs. Ma tenetevi forte, eh!
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Musica
Dicembre 2011
3
Ne hanno viste di cose, questi occhi
di Paolo Corsi
Ecco la buona canzone d’autore: sensazioni dal Tenco 2011
L’altra Sanremo
Il teatro è uno dei più famosi,
sicuramente il più noto al popolo televisivo, così come la
città che lo ospita. Si tratta del
mitico Teatro Ariston di Sanremo, dove per una settimana
all’anno, attraverso la televisione, entra quasi tutta l’Italia,
a celebrare l’evento mondano
per eccellenza: il festival della
canzone italiana. Ma questa
volta il festival è un altro, quello
della canzone d’autore del Club
Tenco. Sembrerebbe quasi un
caso di omonimia, ma la differenza tra le due manifestazioni è sostanziale. Il Tenco è
una sorta di figlio minore, che
solitamente non finisce sotto i
riflettori, anche se, a ben guardare, dovrebbe essere quello
l’evento canoro per eccellenza,
se la protagonista fosse la qualità della produzione, non solo
italiana, della canzone d’autore. E invece il “Tenco”
rimane una manifestazione poco parlata, che
guadagna si e no qualche
trafiletto sulla stampa
nazionale. Quest’anno la
36a edizione ha addirittura rischiato di saltare a
causa del taglio del 60%
dei finanziamenti. Per carità, i tempi sono duri ed
è comprensibile che si cominci con il rinunciare al
“superfluo”, ma prima di
definire ciò che davvero è
superfluo, sarà interessante vedere se la stessa parsimonia verrà messa in atto
tra qualche mese, quando
il rito si ripeterà con ben
altra pompa. Ci è voluto
un contributo straordinario della SIAE, una volta
tanto vista di buon occhio
dai fruitori di proprietà intellettuale, e soprattutto la caparbietà di un gruppetto di organizzatori, il Club Tenco appunto
(tra essi il veronese Enrico De
Angelis), che non se l’è sentita di
rinunciare proprio quest’anno,
nella ricorrenza del centesimo
anniversario della nascita di
Amilcare Rambaldi. Quell’Amilcare cantato da Paolo Con-
te nella canzone che presta il
titolo a questa edizione: “robe
di Amilcare”, appunto. L’Amilcare inventore di questo festival
e riferimento per generazioni
di giovani e promettenti talenti, che grazie al Tenco hanno
avuto la meritata visibilità e,
a vario titolo, il loro successo.
Bastano pochi nomi di artisti
legati al “Tenco” ed alla figura
di Rambaldi in particolare, per
dare l’idea di cosa stiamo parlando: da Fabrizio De Andrè
a Francesco Guccini, da Paolo
Conte a Roberto Vecchioni,
solo per dirne alcuni tra i più
noti al pubblico italiano. Da
questo festival è passato il gotha
della canzone d’autore internazionale, quella canzone che è
un artefatto di qualità, a partire
dalla forma e dai contenuti dei
testi, fino alla musica, veicolo
privilegiato dei pensieri e delle
emozioni. Non proprio la stessa
cosa della meglio nota manifestazione invernale, dove la qualità delle canzoni è un fatto del
tutto secondario, poiché il loro
successo si basa molto su fattori
extramusicali, e dove il fine ultimo è la commercializzazione
ed il profitto. E pensare che tra i
suoi ideatori vi fu proprio Amilcare Rambaldi. Un “errore di
gioventù”, per dirla con
lui, o forse un’esperienza
utile a correggere poi il
tiro. Paradossalmente, la
mancanza di fondi che
quest’anno ha imposto un
ridimensionamento alla
manifestazione, l’ha anche riavvicinata a quello
che era stato il suo spirito
originario: un’essenzialità
che va molto d’accordo
con la qualità. Anche se
è un vero peccato privarsi
della sigla (quella “Lontano, lontano” di Tenco,
cantata ogni anno da un
artista diverso), come è un
peccato la riduzione degli
incontri pomeridiani ad
una sola occasione (anche
se con l’autentica “chicca” del cortometraggio su
Rambaldi) e i momenti di
fine serata, riservati solo all’ultima del sabato. Infine niente
“Il Cantautore”, l’interessante
programma di sala caratteristico di ogni edizione. Con questi
presupposti era chiaro che l’Ariston non si sarebbe presentato tutto agghindato come lo
si vede in televisione, ma non
ci si aspettava di trovarlo così
spoglio. Nessuna, ma proprio
nessuna, scenografia: il fondale
non è un neutro telo nero, ma
il retro palco nudo e crudo, con
tanto di saracinesche per l’ingresso delle scene, corde, scale,
paranchi e finestroni che danno sulla piazza retrostante. Il
pavimento del palcoscenico è
percorso da metri di cavi fissati
con il nastro adesivo, che collegano casse, microfoni e strumenti, mentre un gruppetto di
instancabili tecnici li sposta e
maneggia in tempo reale per le
esigenze degli artisti che si susseguono. Eppure è difficile concepire un allestimento più bello
e più appropriato di questo. Tra
i tanti artisti ce n’è qualcuno di
richiamo (Edoardo Bennato,
Vinicio Capossela, Luciano Ligabue, a cui è andato il Premio
Tenco, assieme a Jaromir Nohavica), ma i più sono giovani
cantanti e musicisti di talento,
che ancora non si sono affacciati alla grande ribalta della
musica leggera (cosa, del resto,
che non pare nemmeno interessi loro più di tanto). L’obiettivo
principale è fare musica, coltivare una passione che ha già
influenzato le loro scelte e condizionato le loro vite. Li conosciamo nelle conferenze stampa
del mattino, dove parlano di sé
con semplicità, raccontando la
loro passione. Sembra di stare
in una grande famiglia, dove
la gente si conosce, artisti, giornalisti, semplici appassionati, e
condivide un comune sentire.
C’è una simpatica complicità
tra chi presenta, chi intervista,
chi fa le domande (per lo più
degli appassionati che per combinazione fanno anche i giornalisti) e gli artisti. Ed è un’atmosfera che si respira anche
in teatro. Unico denominatore
comune: la musica fatta bene. Il
festival della canzone d’autore
è un’esperienza che merita di
essere vissuta, ma soprattutto è
una realtà che merita di essere
sostenuta, perché la buona canzone d’autore ci fa buona compagnia, ci arricchisce, divenendo talvolta la colonna sonora di
tanti nostri momenti.
4
Teatro
Dicembre 2011
Non vado mai al cinema, la vita è troppo breve
di Michele Fontana
È giunta alla 26 ma edizione l’importante rassegna teatrale della bassa veronese
Teatro San Giovanni:
importanti attori e comici in scena
Prosegue nel mese di dicembre
la 26ma edizione di “Teatro
San Giovanni” presso il Cinema Teatro Astra di San Giovanni Lupatoto. La rassegna,
organizzata dall’associazione
“Il Canovaccio”, da Arteven e
dal Comune di San Giovanni
Lupatoto, prevede diciassette
spettacoli con importanti interpreti del panorama teatrale
italiano e rappresentazioni che
uniscono la cultura alla qualità e che, grazie alla varietà di
opere messe in scena e di tematiche affrontate, possono avvicinare in maniera maggiore il
pubblico al teatro.
Il mese di dicembre ha aperto
i battenti con Marina Massironi, apprezzata attrice già
protagonista di molte pellicole cinematografiche, che
ha proposto il suo spettacolo
“La donna che sbatteva nelle
porte” di Roddy Doyle, per la
regia di Giorgio Gallione. Romanzo che affronta tematiche
quotidiane e racconta la storia
di una donna, attraverso un
monologo recitato dalla protagonista, dal quale affiorano
tutte le sue sensazioni e i suoi
stati d’animo e dove lo sbattere
la testa nelle porte nasconde un
disagio interiore e un mondo di
violenze vissute.
Venerdì 9 dicembre sarà la volta di “Balera paradiso”, regia
affidata ad Alberto Bronzato
con la collaborazione di Ric-
cardo Pippa. Lo spettacolo
ha l’obiettivo di raccontare la
vita attraverso la gestualità del
corpo, la musica e i suoni, per
una rappresentazione originale dove ogni attore metterà in
scena un personaggio raccontando aneddoti, momenti di
vita e ricordi che avrebbero
potuto popolare una balera di
provincia dagli anni Trenta
agli anni Settanta. Verranno
ripercorsi, attraverso gli interpreti, i vari momenti storici che hanno contraddistinto
la nostra civiltà: dalla seconda guerra mondiale al boom
economico, vissuti all’interno
della balera, che rappresenta il
luogo di aggregazione dove le
varie vicende dei protagonisti
si intrecciano.
Appuntamento pre-natalizio
sabato 17 dicembre, per uno
spettacolo carico di senso
dell’umorismo e divertimento.
I protagonisti saranno infatti
i comici emergenti di Zelig e
Colorado, quali Omar Fantini,
Luca Klobas, Cristian Calabrese, Diego e Paolo, Terenzio
Traisci, Cani e Porci, Andrea
Zappacosta, il Grezza, Gnollo, Giuseppe Forte, accompagnati dalle ballerine di Punto
in Movimento/Shiftingpiont.
Modo migliore per augurarsi un buon natale non poteva
esserci, infatti lo spettacolo si
preannuncia ricco di momenti
esilaranti, capaci di infondere
il buon umore negli spettatori
e un clima di allegria e leggerezza portato in scena dagli
attori attraverso gag, battute,
musica e balli che si mescolano
offrendo uno show sicuramente gradito.
visita il sito internet di “Verona è”
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Teatro
Dicembre 2011
Non vado mai al cinema, la vita è troppo breve
di Caterina Caffi
Il palcoscenico offre grandi spettacoli per dicembre e Natale. E i regali non finiscono
Al Camploy un’inverno ricco di sorprese!
Dopo aver sognato insieme allo cente burla.
zio della favola di Mary Cha- Venezia, 1755. “L’uso
ore 21.00
marzo de’ fornaioreche
21.00vanno
se “Harvey”, uomoSabato
nel 31
quale
ore 16.30
Domenica 1 aprile
ore 16.30
avvisando
il fanciullino pascoliano
era per la città
Assessorato alla Cultura
Modus
Vivendicol loro fischio alle case
sopravvissuto ed aveva
permesso che il suo amico immagina- l’ora di fare il pane, per
infornarlo a suo tempo,
rio, il grande coniglio
bianco,
di Adriano
Mazzucco
lle verità)
è cosa specialissima
continuasse a vivere
Regiaaccanto
di Adriano Mazzucco
a lui, torniamo a teatro saba- del paese. Tale è parito 10 e domenica 11 dicembre menti la costumanza
per assistere a una diverten- delle serventi ordinaSabato 14 aprile
21.00
ore 21.00
comunemente commedia ambientata
nel rie, dette ore
15 aprile
ore 16.30
te Massere,oredi16.30
avere la
1500, intitolata Domenica
“Margarita
Trixtragos
e il Gallo” e portata
in scena giornata di libertà in
dalla regista Laura Mistero e occasione del carnevadalla compagnia Verbavolant. le; ed è un divertimento
di Henrik Ibsen
singolare de’ giovanotti
Fiorite proprio nel Regia
secolo
delle Messina
di Nunzia
arti ad ornamento del giardino di questa città tratterinascimentale, le tipografie nersi in divertimento
Programmazione
conobbero una diffusione ca- con questa sorta di gente.”
È
lo
stesso
Goldoni
pillare
in
particolare
a
Venezia
Stagione 2011-2012
ore 21.00
Compagnie amatoriali
a
parlare,
nella
prefae
Firenze.
Ed
è
proprio
nella
ore 16.30
città medicea che vive e lavora zione alla sua opera
il tipografo Annibale Guenzi, “Le Massere”, scritta
la cui attività però non riesce e rappresentata nella
ad avere successo; il suo sogno Venezia del 1755, che
è quello di diventare tipografo verrà riproposta sabato
di corte e lui potrebbe ottene- 17 e domenica 18 dire quel ruolo prestigioso grazie cembre. La commedia
alla raccomandazione del Vi- porta in scena una fansconte Morello, che in cambio tasmagoria di uomini e
del favore gli chiede di giacere donne che nel teatrino
con sua moglie Bianca. Sosti- veneziano parlano di
tuita la donna con la servetta un frammento di vita
Margarita, che Annibale pensa quotidiana, di una vita
segnata dal rintocco di
ignorante ragazzettaDipinti
di campadi Sergio Piccoli
gna, egli crede di poter beffare una campana e del riil Visconte ma la ragazza, figlia chiamo dei fornai alla
di una strega, con un incante- porta. Nel rifacimento
simo scambia il suo corpo con della compagnia La Pocosta- sale sul palcoscenico senza che
quello del padrone mettendo in bile e della regista Lucia Rui- i suoi attori cambino d’abito o
scacco il Visconte e Annibale na Peretti s’annusa il profumo passino dal camerino per rifarstesso e creando un gioco più di goldoniano attraverso il quale si il trucco. Vanno bene così,
perversa malizia che di inno- la vita esce dalle case venete e con i loro occhi cerchiati e le
me prestito to moier?
Aprile 2012
te
?
5
Un nemico del popolo
mani infarinate, con la
loro schiettezza e bonaria volgarità.
Il nuovo anno comincia
il 5 e il 6 gennaio al teatro Camploy, e i residui
dei giochi pirotecnici
fluttuanti nell’aria, diventano le maschere
dei carnevaleschi protagonisti della fiaba che
ci astrae dal tempo e
ci conduce nel castello
avvolto
dall’incantesimo dove, nella notte
dei tempi, una fata trasformò un principe in
bestia e i suoi domestici
in armadi, pentole, scope, teiere, candelabri,
porta-cappelli e poggiapiedi. La Compagnia
dell’Arca riprende la
storia di Jeanne-Marie
Leprince de Beaumont
“La bella e la Bestia
(una nuova storia d’amore) e la trasforma in
armonioso intreccio di
teatro, musica, acrobatica, armoniosamente
legati tra loro in un
spettacolo che vi lascerà
senza fiato e nel quale la
fiaba che incantò i bambini di ogni generazione torna ad affascinare
e a dare messaggi di un
amore che va al di là di
ogni apparenza e pregiudizio,
di un amore disinteressato che
supera le barriere e unisce gli
opposti, un amore gratuito e
puro capace di tutto.
Teatro
Camploy
www.amicidellacattolica.com
6
Teatro
Dicembre 2011
Non vado mai al cinema, la vita è troppo breve
di Francesco Fontana
Atteso dal 13 al 18 dicembre lo spettacolo con protagonista Franco Branciaroli
Il Grande Teatro presenta Servo di scena
Prosegue al Teatro Nuovo di ficoltà, in una rappresentazione
Verona la rassegna “Il Grande molto “british”, dotata dei tipiTeatro”. Dal 13 al 18 dicem- ci connotati della narrazione
bre si potrà assistere all’opera shakespeariana. L’opera è amdi Ronald Harwood Servo di bientanta nel 1940, durante la
scena, con protagonista il cele- seconda guerra mondiale. Nel
bre attore Franco Branciaroli, mezzo dei bombardamenti a
anche regista dello spettacolo. Londra una compagnia teatraAltri interpreti dell’opera sa- le, nonostante le difficoltà della
ranno Tommaso Cardarelli, guerra, si appresta a mettere
Lisa Galantini, Melania
Giglio, Valentina Violo,
Daniele Griggio e Giorgio Lanza. Servo di scena
è un testo teatrale di Ronal Harwood, famoso
drammaturgo e sceneggiatore sudafricano, che
nel 2003, grazie al film Il
pianista, si è aggiudicato
il Premio Oscar alla migliore sceneggiatura non
originale. I temi affrontati nell’opera sono la
tenacia e l’attaccamento
incondizionato al mondo del teatro, anche di
fronte a momenti di dif- L’attore Franco Branciaroli
in scena il Re Lear di William
Shakespeare. Sir Ronald, interpretato da Branciaroli, è un
vecchio attore shakespeariano che, a causa di un malore,
vuole rinunciare all’imminente
rappresentazione. Il protagonista, in un momento di grande
confusione e sconforto che lo
porta persino a dimenticare le
battute da recitare, è sostenuto
però da Norman, il suo fedele
servo di scena, che lo sprona
a non rinunciare alla passione
per il teatro nonostante le grandi difficoltà. L’incoraggiamento
di Norman sembra funzionare,
ma quando tutto pare risolto
sopraggiungono altri impedimenti. Avendo perso ogni speranza e sentendosi vicino
alla morte, Sir Ronald
consegna al fidato servo
una sorta di testamento
spirituale, dove ringrazia tutti i componenti
della compagnia per il
lavoro svolto. Il finale lascia molto spazio
all’immaginazione. Nei
ringraziamenti non viene riportato il nome di
Norman,
concedendo
a ognuno la possibilità
di interpretare in modo
personale la motivazione
della scelta.
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Fotografia
Dicembre 2011
7
La vita non imita l’arte, imita la cattiva televisione
di Michela Saggioro
Dagli archivi dell’Agenzia Magnum al Centro Internazionale di Fotografia
Scavi Scaligeri un’esposizione che punta dritta al cuore
Magnum sul set, mostra fotografica delle
foto che hanno fatto la storia del cinema
Cinema e fotografia è un binomio inscindibile sin dagli esordi
della settima arte, ben rappresentato dalla mostra fotografica Magnum sul set, aperta fino
al prossimo 29 gennaio 2012 al
Centro Internazionale di Fotografia Scavi Scaligeri (Cortile
del Tribunale).
La rassegna, curata da Andréa Holzherr e Isabel Siben,
ospita 117 immagini scattate
dai fotoreporter dell’Agenzia
Magnum sui set di 12 tra i più
grandi capolavori della storia
del cinema. Tra essi Le luci della ribalta di Charlie Chaplin,
Quando la moglie è in vacanza di
Billy Wilder, Gioventù bruciata
di Nicholas Ray, Improvvisamente l’estate scorsa di Joseph L.
Mankiewick, La battaglia di Alamo di JohnWayne, Il processo di
Orson Welles, Gli spostati e Moby
Dick, la balena bianca, entrambi
di John Huston, Zabriskie Point
di Michelangelo Antonioni, Il
pianeta delle scimmie di Franklin
J. Schaffner, L’importante è amare
di Andrej Zulawski e Morte di
un commesso viaggiatore di Volker
Schlöndorff.
L’Agenzia Magnum è una tra
le più importanti agenzie fotografiche del mondo, fondata
nel 1974, per proteggere il diritto d’autore e la trasparenza
dell’informazione, dai «big»
del settore, come Robert Capa,
Henri Cartier-Bresson, David
Seymour, George Rodger, Maria Eisner, Rita Vandivert, Elliott Erwitt, Burt Glinn, Dennis Stock e Bruce Davidson. Il
percorso espositivo è un imperdibile appuntamento per tutti
gli appassionati di fotografia e
cinema ed è tratto dall’esteso
archivio storico frutto del legame artistico che i «paparazzi»
dell’agenzia intrattengono con i
registi dal secondo dopoguerra
in poi.
Magnum sul set è aperta al pubblico da martedì a domenica
dalle 10 alle 19, mentre il giovedì dalle 10 alle 21: tutti i giovedì alle 18 e la domenica alle
11 viene organizzata una visita
guidata gratuita. Inoltre, in occasione dell’esposizione, il Comune di Verona organizza alcuni incontri con esperti in Sala
Farinati della Biblioteca Civica
di Verona (Via Cappello, 43): il
14 dicembre alle 16 Paola Palma presenta Luci della Ribalta, il
21 dicembre alle 16,30 Adamo
Dagradi commenta Il pianeta
delle scimmie, l’11 gennaio alle
16,30 Alberto Scandola illustra
Gioventù bruciata, il 18 alle 16
Mario Tedeschi Turco propone
La battaglia di Alamo e a seguire
il 25 gennaio Paolo Romano
presenta Moby Dick, la balena
bianca. L’ingresso è libero fino
ad esaurimento posti.
La fotografia con Marylin Monroe
che fa da manifesto alla mostra
All’insegna della solidarietà
«Molto più di un pacchetto regalo»,
l’iniziativa natalizia di Feltrinelli e
Mani Tese - Onlus
Il ricavato delle offerte per gli incarti
realizzati dai volontari andrà
a favore dei progetti d’istruzione
per migliaia di ragazzi di strada
del Brasile e Guatemala
Per il quarto anno consecutivo, dal 1 al 24
dicembre nelle librerie Feltrinelli, i volontari
dell’associazione benefica Mani Tese propongono incarti natalizi in cambio di un’offerta a favore del progetto «Molto più di un
pacchetto regalo».
Il ricavato dell’iniziativa servirà alla Onlus
per sostenere la campagna “Dalla strada
alla scuola” promuovendo l’istruzione
dei ragazzi che vivono nelle periferie del
Brasile e del Guatemala e offrendo loro
l’opportunità di un riscatto sociale. Secondo
le ultime stime di Mani Tese si calcola
infatti che ad oggi il numero di minori
abbandonati a se stessi possa variare da 100
a 150 milioni nel mondo; in particolare in
America Latina sono all’incirca 15 milioni.
Le cause dell’abbandono familiare sono le
più svariate: conflitti, abusi, la mancanza
di politiche sociali adeguate, la cattiva
distribuzione del reddito e la povertà
estrema. Per i bambini e ragazzi senza guida
né protezione, alla mercè della sorte, vittime
della miseria, abbandonati della società in
generale, l’unica possibilità di salvezza sono
le attività di recupero.
Di questo si occupa dal 1964 la Onlus, che
proprio attraverso proposte educative aiuta
questi ragazzi a creare un vero e proprio
progetto di vita, personale e continuativo.
L’iniziativa natalizia «Molto più di un
pacchetto regalo» è un bel gesto che tutti
noi, assieme a Feltrinelli e Mani Tese,
possiamo fare per creare un futuro migliore
ai milioni di ragazzi di strada di tutto il
mondo! (mic. sag.)
8
Arte
Dicembre 2011
La vita non imita l’arte, imita la cattiva televisione
di Isabella Zacco
Al Palazzo della Gran Guardia, fino al 9 aprile 2012
Il Settecento a Verona. Tiepolo,
Cignaroli, Rotari. La nobiltà della pittura
Dopo il successo della rassegna dedicata a Corot e all’arte
moderna, nel 2010, il Palazzo della Gran Guardia ha da
poco aperto i battenti ad un
nuovo grande evento artistico, che questa volta si rivolge
al secolo dei lumi, il 1700, così
come Verona lo ha espresso artisticamente, nella sua ricchezza e varietà di opere, e che ha
rappresentato per la città un
decisivo momento di crescita
culturale, testimoniato anche
dalla rete di prestigiosi committenti internazionali, come
principi e nobiltà di Polonia,
Sassonia e Baviera, che richiesero opere veronesi per le loro
residenze.
La mostra, curata da Fabrizio
Magani, Paola Marini e Andrea Tomezzoli, sotto il patrocinio del Comune di Verona,
con l’Assessorato alla Cultura
e il Museo di Castelvecchio,
e la collaborazione della Sopraintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici per le province di Verona,
Rovigo e Vicenza, espone 150
opere, tra dipinti, disegni, documenti e stampe, di maestri
come Tiepolo e dei suoi contemporanei Bellotto, Rotari,
Cignaroli, opere provenienti
dai più grandi musei italiani e
stranieri, il Louvre di Parigi,
il Prado di Madrid e l’Ermitage di Pietroburgo, solo per
citarne alcuni. I curatori hanno selezionato quanto poteva
esprimere al meglio la cultura
e l’arte della Verona del tempo, sottolineando soprattutto
l’autonomia ed originalità della città scaligera rispetto alla
vicina Venezia.
Tra i protagonisti della rassegna, Pietro Antonio Rotari,
definito “il pittore della corte
russa” per il suo lungo soggiorno artistico alla corte degli
Zar, e Giambettino Cignaroli,
Fondatore dell’Accademia di
pittura che porta il suo nome;
modernità e innovazione in-
agli occhi dei visitatori e verrà
poi collocato presso la Tomba
di Giulietta.
In concomitanza con la mostra sono previsti itinerari alla
scoperta dell’arte sacra presso
chiese, palazzi storici e ville
della città, come Palazzo Emilei Forti e Palazzo Salvi Erbisti, opere spesso sconosciute al
grande pubblico. Infine, presso il Museo Archeologico del
Teatro Romano, è stata allestita una mostra che mette in
luce la fervida attività di scavi,
collezionismo e studio delle
antichità romane presente a
Verona nel ‘700. Tale mostra
rappresenta un’ottima occasione, per veronesi e turisti, per
conoscere uno dei musei più
affascinanti della città.
A lato “Alessandro e Rossane” di Pietro
Rotari. In basso “Pomponio II riceve gli
onori trionfali in Campidoglio”
di Giambettino Cignaroli
trodotte da questi due giganti
dell’arte veronese nella cultura
classica del tempo sono stati
patrocinate e promosse da un
altro grande veronese del tempo, Scipione Maffei.
Nello snodarsi delle varie sezioni della mostra, un posto
di primo piano è dedicato ai
vedutisti, tra cui Giambattista e Giandomenico Tiepolo.
Del primo, in particolare, la
mostra riserva al suo pubblico una “sorpresa” tecnologica. La ricostruzione virtuale
del soffitto affrescato nel 1761
da Giambattista Tiepolo per
Palazzo Canossa, danneggiato durante la seconda guerra
mondiale; nell’aprile del ’45,
infatti, l’esplosione del ponte
di Castelvecchio aveva fatto
crollare il “Trionfo di Ercole”, la più famosa opera d’arte
veronese del ‘700. Oggi quel
gioiello è possibile rivederlo
grazie appunto a tecnologie
che lo riportano virtualmente
Arte
Dicembre 2011
9
La vita non imita l’arte, imita la cattiva televisione
di Michela Saggioro
Un prezioso intreccio di opere cinquecentesche, fino al prossimo 12 febbraio 2012
Il Rinascimento a Roma, nel segno di
Michelangelo e Raffello
Grande numero di visitatori nei primi giorni d’apertura
dell’esposizione Il Rinascimento a
Roma, che rimarrà aperta fino
al prossimo 12 febbraio al Museo Fondazione - Palazzo
Sciarra di Roma.
Protagonista assoluto della retrospettiva è il Cinquecento
romano, un’era memorabile nella storia
dell’arte durante la
quale il mecenatismo di papi lungimiranti, come Giulio II della Rovere,
Leone X de’ Medici
e Paolo III Farnese,
attirò in città maestri come Michelangelo e Raffaello. La
Città dei Papi viene
descritta come un
luogo fondamentale d’incontro, ispirazione e scambio
d’idee per gli artisti: la mostra
spazia attraverso 180 sculture, dipinti, disegni, incisioni e
medaglie, riuscendo ad intrecciare in un’unica linea storicoculturale gli aspetti artistici e
architettonici del Cinquecento
nell’Urbe.
Le sette sezioni sono dedicate
a diverse tematiche, tra cui La
Roma di Giulio II e Leone X, Il
Rinascimento e il rapporto con l’antico, La Riforma di Lutero e il Sacco di Roma, I fasti farnesiani, La
Basilica di San Pietro, La maniera
a Roma a metà secolo e gli arredi.
Nelle sale spiccano per bellezza
i capolavori di Raffaello, quali
l’Autoritratto e il Ritratto di
Fedra Inghirami, e di Michelangelo, come l’Apollo-Davide proveniente
dal Museo Nazionale
del Bargello, oltre a
numerose opere d’arte
di artisti coevi, come
Sebastiano del Piombo e Francesco Salviati.
Tra le particolarità esposte anche capolavori antichi, come la Statua di Afrodite accovacciata e il Dioniso
ed Eros, che dialogano con le
opere moderne a testimoniare
quanto l’antico favorì la radice vitale del momento artistico cinquecentesco, divenendo
fonte di ispirazione per alcuni e di emulazione per altri.
Per non scordare le “chicche”
dell’esposizione, tra cui la Pietà di Buffalo (Usa) attribuita
a Michelangelo, esposta dopo
il restauro realizzato dall’Istituto Centrale del Restauro di
Roma, e le suggestive ricostruzioni virtuali in 3D della meravigliosa Loggia di Amore e
I volti, le tonalità e le forme tipiche del
grande periodo artistico in esposizione
Psiche della Farnesina, l’antica
Villa affrescata dalla scuola di
Raffaello e della Cappella Sistina di Michelangelo.
Tutte le opere esposte confermano al visitatore quanto ricco
fu il ‘500 romano, che prese
avvio dal pontificato di Giulio
II (1503-1513) per arrivare al
1564, anno della morte di Michelangelo, che seguì di poco
la conclusione del Concilio di
Trento nel 1563. Questa data
suggellò un’epoca aprendone
contemporaneamente un’altra
all’insegna di quella Controriforma che, reagendo alla Riforma protestante, portò a un
radicale mutamento del clima sociale, culturale e artistico in tutto il Vecchio
Continente. Il fortunato
avvicendarsi al soglio
pontificio di illustri e
grandi mecenati e la
concomitante presenza
a Roma di Michelangelo e Raffaello furono la
spinta propulsiva del secolo, uno tra i più fiorenti
di tutta la Storia dell’arte.
Per ulteriori informazioni in
merito alla mostra Il Rinascimento a Roma è possibile visitare
il sito della Fondazione Roma
- Arte Musei (http://www.fondazioneromamuseo.
it/it/738.html), che
ha organizzato l’esposizione col supporto
di Arthemisia Group
e
Soprintendenza
Speciale per il Patrimonio Artistico ed
Etnoantropologico e
per il Polo Museale
della Città di Roma.
La mostra è stata curata da Marco Bussagli e Claudio Strinati,
con il coordinamento
di Maria Grazia Bernardini e si avvale di
un prestigioso comitato scientifico presieduto da Vittorio
Sgarbi.
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Arte
Dicembre 2011
La vita non imita l’arte, imita la cattiva televisione
di Valeria Giarola
Fino al 15 ottobre 2012 appuntamento con l’arte al Palazzo Ducale di Genova
Van Gogh e il viaggio di Gauguin
Il fil rouge dell’esposizione è il
viaggio, che si sviluppa in un
percorso emozionale ed emozionante presentandocelo nelle sue molteplici sfaccettature:
dallo spostamento geografico,
al viaggio introspettivo nell’animo dell’artista, fino scoperta
di sé stessi tra inquietudini, angosce e paure.
Fulcro della mostra sono le figura di Vincent Van Gogh e
Paul Gauguin.
Oltre alla fruizione dei quadri,
l’osservatore potrà viaggiare
dentro ai capolavori: per l’occasione all’interno del Palazzo
è stata costruita la riproduzione fedele della camera di Van
Gogh all’ospedale di Saint
Rémy. Tale stanza è intrisa della poetica del viaggio: appeso
alla parete c’è il quadro che raffigura gli stivali del pittore, suoi
instancabili compagni di viag-
sua poetica, egli intende alla
perfezione il viaggio fisico e
introspettivo; ne sono testimonianza i venticinque dipinti e i
dieci disegni, prestati a Genova
dal Van Gogh Museum di Amsterdam e dal Kröller-Müller
Museum di Otterlo. Queste
tele, questi schizzi ci accompagnano nel viaggio del folle
pittore conducendoci dai cupi
paesaggi del nord, alla calda
luce della Provenza. I paesaggi al loro interno, nascondono
sempre l’immagine del pittore:
l’artista si cerca e ricerca dentro le sue tele, come prova di
autoaffermazione e di riconoscimento/accettazione
della
propria figura.
È un’elaborazione psicologica verso l’analisi di sé stessi. Il
covone sotto un cielo nuvoloso, ad
esempio, dipinto tre settimane
prima che il pittore decise di
gio, vissuti, consunti, infangati,
che lo hanno condotto dall’Olanda alla Francia.
Tra queste quattro pareti ci si
può ritrovare il mondo; e allo
stesso tempo da qui partono
viaggi che fanno immedesimare l’utente alla scoperta di nuovi
paesaggi e nuove prospettive.
Di fronte alla stanza sono posizionati anche due quadri
di Giorgio Morandi, il quale
intende il suo viaggio in una
maniera complementare, più
monacale rispetto all’impeto di
Van Gogh. Un paragone, questo, che ci fa intendere le mille
possibilità che il binomio arte e
viaggio possono regalarci.
Tornando a Van Gogh, nella
spararsi, racchiude in
sé tutte le inquietudini
ed è intriso di un sentimento di morte: i colori più cupi e pastosi,
il cielo minaccioso che
predilige una tragedia
incombente, dove si
possono scorgere gli
occhi spenti del pittore ormai disperato e
disilluso.
Insieme a Van Gogh
il viaggio non poteva
continuare senza aver
prima trattato un altro grande
del secolo XX: Paul Gauguin.
A tutti è noto come questa figura si leghi a Vincent Van Gogh:
tra i tanti episodi, la leggenda
vuole che fu a causa di una lite
furibonda tra i due se quest’ultimo si tagliò l’orecchio.
Anche Gauguin è nato viaggiatore: già da bambino emigrò
con la famiglia in Perù a seguito dell’avvento al potere di Napoleone III. Sfortunatamente,
durante la traversata oceanica,
il padre muore e la famiglia,
dopo il soggiorno sudamericano ritornerà in Francia. Il pittore s’imbarca in seguito, come
allievo pilota in un mercantile
viaggiando tra Rio de Janeiro
e Le Havre; nel 1868 si arruola
in marina, ma smobilitato torna a Parigi nel 1871 dove è impiegato nell’agenzia di cambio
Bertin. Con una spiccata passione per l’arte, si iscrive all’Accademia Colarossi, dove incontra
Camille Pisarro. Nel 1879 vive
il suo momento impressioni-
sta partecipando alla quarta
mostra di tale corrente presentando una scultura. Tuttavia i
marcati connotati realistici e
il cromatismo ben delimitato e
accentuato lo identificano molto poco nella poetica dei trapassi di colore graduali.
Nel 1883 Gauguin perde il lavoro a seguito di una grave crisi
economica: inizia un altro capitolo della sua vita accompagnato da svariati trasferimenti tra
Copenaghen, Parigi e l’Inghilterra.
Nel 1886 le vite di Gauguin
e Van Gogh finalmente si intrecciano: Gauguin conosce
a Parigi Théo, fratello di Van
Gogh, che gestisce una galleria nella capitale francese, dove
Gauguin espone alcune tele. In
queste ormai siamo ben lontani
dalle poetiche impressioniste e
dopo un soggiorno in Martinica i colori di Gauguin si semplificano.
Rifiutando l’invito di Van
Gogh che gli aveva proposto di
andare a vivere con
lui nell’assolata città
di Arles, Provenza,
Gauguin riparte per
Pont-Aven, in Bretagna, affascinato dai
suoi scorci selvaggi
e primitivi; è qui che
conosce Emile Bernard. In questo periodo il colore si appiattisce
ulteriormente
rievocando le stampe
giapponesi, che sono
tanto care anche a
Van Gogh. Da quest’esperienza
nascerà un nuovo periodo per
Gauguin: il cloisonnisme, noto
anche come sintetismo. Il colore qui si chiude in zone, richia-
Arte
Dicembre 2011
11
La vita non imita l’arte, imita la cattiva televisione
mando le vetrate gotiche, dove
la stesura del colore avveniva
all’interno del filo di piombo,
che ne faceva da contorno.
Dalla forma al colore tutto si
semplifica, mentre gli spostamenti dell’artista si intensificano susseguendosi tra numerosi
spostamenti tra la Francia e
Bruxelles, fino alla partenza
per la Polinesia, dove Gauguin
potrà approfondire la pittura
primitiva e godere della natura
selvaggia.
La nuova arte sfocia nel in uno
stile simbolista dove la pittura
altro non è che un’espressione
dell’idea, che si concretizza in
forma soggettiva perché modificata dalla mente dell’artista.
Tra i tanti quadri
che dal 1891 realizzerà a Tahiti c’è
Da dove veniamo?
Chi siamo? Dove andiamo? (1897-98),
esposto a Palazzo
Ducale.
Definito dallo stesso pittore come
“opera filosofica su
un tema paragonabile a quello del
vangelo”, la grande tela vorrebbe rispondere a quesiti
assoluti cercando
di dare risposte
alle domande che assalgono il
genere umano. I tahitiani rappresentati incarnano il ciclo,
o meglio il viaggio, della vita.
Questo quadro dunque centra
appieno la tematica della mostra rappresentando il percorso
fisico e interiore che ogni uomo
deve fare durante la propria
vita.
Ma l’esposizione non finisce
qui. Dopo i due pilastri di Van
Gogh e Gauguin, si sviluppano altre due sezioni espositive,
la prima dedicata al contesto
americano, la seconda a quello
europeo.
La sezione americana si apre
con il viaggio che contempla
e tende all’infinito, sulla scia
europea del viandante sul mare
di nebbia di Caspar David Friedrich (1818), Edwin Church
per l’Est e Albert Bierstadt per
l’Ovest, ritraggono la natura
americana presentano paesaggi ignoti. Si incontra poi la
poetica di William Homer, che
insieme ad Edward Hopper sigillano i paesaggi in un mutismo impressionante. Il viaggio,
poi, si interiorizza di fronte alle
monocromie di Mark Rothko,
per concludersi con le mareggiate di Richard
Diebenkon,
che
rievoca i paesaggi
burrascosi di Turner.
La sezione europea
vede troneggiare, a
fianco di Gauguin
e Van Gogh, i romantici Friedrich
e Turner con i loro
paesaggi tormentati.
In questo
caso la dimensione
del viaggio è più
romantica e nelle
tele l’uomo tende
a sfidare e ritrarre
una natura impetuosa, prediligendo paesaggi tormentati
come l’animo umano degli artisti stessi. Non è un caso che
Turner, per meglio ritrarre
l’incendio di Londra, si fece legare all’albero di una nave per
poter dipingere “dall’interno”
la furia della natura, per poter
assaporare in prima persona il
brivido della calamità naturale,
per metterti in contatto con noi:
[email protected]
che è specchio dell’animo artistico.
Il viaggio si tranquillizza poi
tra le ninfee del giardino di Giverny di Claude Monet, l’esperienza si fa più intima e raccolta, tra evanescenze e luminismi
che si dissolvono nell’acqua; Si
conclude poi con un’astrazione
concettuale del viaggio tra le
tele di Wassily Kandinsky.
Oltre all’occasione di vedere lo
strepitoso quadro di Gauguin,
la mostra presenta una collezione che viaggia tra i big del secolo XIX e XX, uno splendido
pretesto per viaggiare nel tempo e nello spazio accompagnati
da poetiche artistiche ancora
molto attuali e intrise di passione per il viaggio. Ogni tela è, oltre a tecnica, una scoperta della
psicologia degli artisti. Anche
la cornice espositiva contestualizza al meglio la tematica del
viaggio: chi meglio di Genova,
storica città portuale, caratterizzata da un crocevia di gente e merci frenetico e costante
nei secoli, poteva rappresentare
contesto migliore?
Tra disegni e opere collaterali ai due
artisti, la mostra propone
autentici capolavori
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Fotografia
Dicembre 2011
La vita non imita l’arte, imita la cattiva televisione
di Silvano Tommasoli
Andiamo a dare “un’occhiata” ad una leggendaria istituzione fotografica
La galleria “Camera Work” di Berlino
Se vi occupate di fotografia e
andate a Berlino, non potete
mancare di visitare una delle
più interessanti gallerie private.
“Camera Work” (www.camerawork.de) è uno spazio interamente dedicato alla fotografia,
in un loft su tre piani all’interno del 149 di Kantstraße, nella
zona di Charlottenburg. Non
lontano dal Museo nazionale
della Fotografia, che ha
sede nello stesso edificio
dove si trova la Fondazione Helmut Newton.
“Camera Work” organizza mostre di assoluta
rilevanza, come la personale d Steve Schapiro,
che si è conclusa lo scorso
novembre. Schapiro in
“Eroi” – una serie di ritratti in bianco e nero dei
principale personaggi che
hanno caratterizzato la
vita pubblica degli Stati
Uniti negli Anni Sessan-
ta del XX Secolo – è riuscito a
cogliere e a mettere in evidenza l’essenzialità della personalità e tutta la forza del fascino di Muhammad Ali, Andy
Warhol, Ray Charles, Martin
Luther King, Samuel Beckett,
Robert F. Kennedy e di molti
altri “eroi” della loro epoca.
Così, essi sono consegnati alla
storia e alla memoria collettiva
del Paese, segnando definitiva-
mente quel decennio e tutte le
generazioni successive con il
loro prestigio.
Davanti all’obiettivo di Steve,
questi “eroi” non recitano il
copione che li ha resi celebri
al grande pubblico, ma sono
fedeli a loro stessi, dando corporeità e consistenza ai fondamentali del carattere del popolo americano.
Steve Schapiro, che vive a Chicago, ha iniziato a lavorare
come foto-giornalista nel 1961.
Ha seguito la campagna elettorale di Robert F. Kennedy ed è
stato il primo fotografo ad arrivare sul luogo dell’assassinio
di Martin Luther King. Sue
immagini sono state pubblicate
su Life, Time, People, NewsWeek,
Sports Illustrated e Vanity Fair.
appleproducts.tk
Apple Products
è un gruppo
di persone che
condividono la
passione per i
prodotti Apple.
Visitateci sul sito
internet dove
potrete trovare
guide, aiuti e
molto altro sul
mondo Apple.
Per una totale accessibilità al sito è necessaria l’iscrizione gratuita al forum.
Arte
Dicembre 2011
13
Appuntamenti culturali
di Isabella Zacco - fotogafie di Stefano Campostrini
Dopo averlo intervistato, ecco la presentazione del suo ultimo lavoro poetico
Il nuovo libro di Gilberto Antonioli
Presso il Circolo Dipendenti della Unicredit di Verona è
stata tenuta a battesimo letterario l’ultima raccolta di poesie
di Gilberto Antonioli, poeta e
giornalista caro al pubblico veronese, che lo segue con affetto
in queste tappe sul cammino di
una personale maturazione poetica ed espressiva. Presentato
dal dott. Roberto Tirapelle di
Unicredit e dalla lectio del prof.
Giuseppe Chiecchi dell’Università di Verona, che ne ha messo
in luce i richiami con il Canzoniere del Petrarca, Antonioli ha
poi parlato di sé, come poeta,
definendo tale veste come un
condensato di parole, musica e
colore, e in tale veste lo ritroviamo, nello scorrere dei suoi versi.
“Attimi di dubbio e di certezza”
è il titolo che emerge dalle pennellate di colore autunnale della
copertina, in una prorompente
rivelazione dell’anima che già
dal titolo vuole presentare le sue
sfumature. “Profumo d’erba e
sapore di rugiada nell’ansia che
attanaglia e produce delusioni”,
e poi ancora un breve sottotitolo
“Poesie della quotidianità”.
La tentazione, davvero ingiustificata, che prende quando ci si
trova di fronte a un testo di poesia e si vuole parlarne ad altri
perché questi altri, attraverso le
nostre chiavi di lettura, accedano alla lirica, è quella di usare
gli stessi parametri linguistici,
gli stessi voli semantici. Succede
allora che un testo poetico, ermetico, perché in esso il poeta
chiude i suoi stati d’animo, i suoi
sogni, come anche i suoi incubi,
e a cui si lascia andare, perché
a lui è concesso di volare, viene
“spiegato” in modo ermetico, di
difficile, se non impossibile, interpretazione linguistica. Bello
sarebbe invece, laddove la critica o l’esegesi non arrivano, lasciarsi andare anche noi, lettori
e fruitori del testo poetico, solo
alla sonorità del ritmo musicale,
all’armonia dei versi che giocano a rincorrersi, alle parole che
un mago sapiente sembra mettere insieme, non per spiegare
qualcosa, ma solo per il piacere
di giocare con esse e con gli stati
d’animo da cui scaturiscono.
Pennellate di colore, come quelle della copertina, con gli stessi
colori caldi, passionali, così si
presentano i versi di Antonioli, brevi e intensi, pagina dopo
pagina. Sembra quasi un fluire
libero di pensieri, non ci sono
punti finali, non ci sono maiuscole all’inizio, non ci sono interruzioni forzate lungo il corso
di quello che sembra presentarsi
come un bisogno impellente di
dare voce all’anima. Anche i
titoli sembrano più un omaggio
al mestiere di poeta, che non
vera esigenza di separare e distinguere le liriche, i momenti di
affioramento di un ricordo o di
un altro, spesso dolorosi (“quando la vita inciampa, come si
rialza?”), dolori giovanili che
emergono un attimo, “tormentate mie passioni contrastate”,
“libera, ti prego, inganni e sof-
ferenza dagli amplessi più crudeli del dolore…”, “esistenze
sfregiate da rancori e seduzioni.... mentre le ore attendono la
luce”. Momenti di dubbio e di
certezza, perché.. “è assetata di
certezze l’esistenza, ma si rifugia nei crocicchi incustoditi l’incerto che scompare…”. In altri
passaggi sembra di intuire una
depressione sopita “con la festa
delle scorze e delle foglie si attorciglia insieme al rosso il verde smorto, per impedire la vittoria del grigiore”, “racconta il
vento una storia di grovigli che
riscatta dal grigiore della noia”.
Spesso sono nominate ombre e
oscurità, silenzi, oblio, nebbia,
nubi, vento, lo spezzarsi di qualcosa. Con immagini oniriche,
il mare è a volte protagonista,
con le sue onde, le risacche, gli
schizzi sulle rocce, i gabbiani.
Si coglie un abbandonarsi al
flusso delle stagioni, con i loro
diversi colori e umori, ma sicuramente prevale l’indugio sulle
immagini autunnali, sulle brume invernali, che non un solare
fondersi con le atmosfere dolci
della primavera, con quelle calde dell’estate, che pure procurano sollievo: “in un fremito d’erba schizza un fronte di quiete”,
“s’affaccia il sole che danza…
coccola il vento che ondeggia
sul dorso del grano maturo”,
“cerca il mio sguardo il ciliegio
che fiorisce”.
Ma in fondo, tutte le cupe atmosfere sono temperate da quella
piccola, preziosa dedica iniziale,
che vola alta sui ricordi più dolorosi, su rimpianti e tristezze,
sul domandarsi affannoso del
senso della vita e il farsi scudo
verso un ignoto minaccioso,
lasciandosi finalmente andare
alla dolcezza di chi “illumina il
mio cielo con il suo sguardo di
cerbiatta innamorata”.
14
Musica
Dicembre 2011
di Francesco Fontana
Grandi appuntamenti con la musica leggera, il balletto e il cabaret
Dicembre ricco
per Eventi Verona e Zed Live
Venerdì 16 dicembre arrivano
al Palcover di Villafranca “I
soliti Idioti”, duo comico composto da Francesco Mandelli e
Fabrizio Biggio. Dopo il succes-
solo da pochi anni il successo
che merita. Lo stesso spettacolo, per l’organizzazione di Zed,
andrà invece in scena al Gran
Teatro Geox di Padova la sera
Qui sopra “I soliti idioti”, sotto Ale & Franz, a destra in alto Ivano Fossati
so del precedente tour e l’uscita del 7 dicembre, aprendo la strada ad una serie di imperdibili
Idioti approdano sul palco di appuntamenti targati Zed Live.
Eventi Verona con nuove esi- L’8 dicembre è atteso infatti,
laranti gag comiche, accompa- sempre al Gran Teatro Geox, il
gnati da alcuni dei personaggi cantante Marco Mengoni, che
tratti dalla serie televisiva an- sarà sul palco con il suo nuovo
data in onda su MTV che li ha tour. Il giorno successivo tocresi celebri. Sempre per l’orga- cherà al “Gogol Acoustic Bornizzazione di Eventi Verona è dello”, unica tappa per il nord
atteso al Palcover di Villafran- est italiano per il tour europeo
ca per il 18 dicembre “An Eve- della band. Poi un appuntaning of Burlesque”, un appun- mento da non perdere al Teatro
tamento di grande interesse per Malibran di Venezia con Ivano
un genere che in Italia ha avuto Fossati che, con questo ultimo
tour, dà l’addio alle
scene musicali dopo
oltre quarant’anni di
carriera. In contemporanea, al Gran Teatro Geox, andranno
in scena i Sonics, con
il loro spettacolo intitolato “Meraviglia”.
Sempre nello stesso
contesto l’11 dicembre
sarà la volta di “Le
tentazioni dell’Animal”, spettacolo che vede
sullo stesso palco Piero
Pelù e l’Orchestra Parco della
Musica Contemporanea Ensemble, diretta da Tonino Battista, eseguire brani come quelli, tra gli altri, di Paul Simon e
Philipp Glass. Il 12 dicembre
arriva al Palasport di Trieste Jovanotti con il suo “Ora
Tour”. Il 15 dicembre al Gran
teatro Geox toccherà invece a
True voice for Children, con il
ricavato dello spettacolo devoChildren Onlus. Poi il 16 dicembre, sempre a Padova, sarà
la volta del divertente spettacolo del duo comico composto
da Ale & Franz. Il 17 dicembre
arrivano al Gran Teatro Geox
i ritmi africani del Soweto Gospel Choir e il giorno successivo toccherà invece al cantante
Luca Carboni, che ha da poco
presentato il suo nuovo album
intitolato “Senza Titolo”.
Altro genere di spettacolo attenderà gli spettatori il 25 e 26
dicembre quando andranno
in scena al Gran Teatro Geox
i balletti “Il Lago dei Cigni” e
“Giselle”.
Si chiuderà a capodanno con
un appuntamento d’eccezione:
al Gran Teatro Geox arrivano
infatti Teo Teocoli e la Lavezzi
band. Quello che si prospetta
è uno show che mescola alla
musica le esilaranti gag comiche dell’artista milanese. Mario Lavezzi proporrà sul palco
alcune delle sue canzoni come
apertura dello spettacolo.
Edito da
Quinta Parete
Via Vasco de Gama 13
37024 Arbizzano di Negrar, Verona
Direttore responsabile
Federico Martinelli
Coordinatore editoriale
Silvano Tommasoli
Assistente di redazione
Stefano Campostrini
Hanno collaborato
Daniele Adami
Paolo Antonelli
Alberto Avesani
Stefano Campostrini
Paolo Corsi
Francesco Fontana
Michele Fontana
Valeria Giarola
Agnese Ligossi
Lorenzo Magnabosco
Federico Martinelli
Ernesto Pavan
Alice Perini
Michela Saggioro
Silvano Tommasoli
Isabella Zacco
Stefano Campostrini
Autorizzazione del Tribunale di Verona
del 26 novembre 2008
Registro stampa n° 1821
Musica
Dicembre 2011
15
Verso l’infinito e oltre
di Francesco Fontana
Dopo le date di ottobre e novembre grandi concerti in vista nei prossimi mesi
I Virtuosi Italiani: gli appuntamenti
di dicembre e gennaio
La XIIIma stagione
concertistica dei Virtuosi Italiani, cominciata
lo scorso 20 ottobre con
l’eccezionale pianista di
origine iraniana Ramin
Bahrami, prosegue nei
mesi di dicembre e gennaio con alcuni dei più
interessanti appuntamenti previsti nel programma che accompagnerà il
pubblico con ben 20 concerti domenicali, divisi
tra la Sala Maffeiana e
il Teatro Filarmonico di
Verona, fino al mese di aprile
2012.
Scorrendo il programma si
trovano ospiti di grande spessore come, tra gli altri, Andrea
Griminelli, Sergej Krylov, Pavel Berman, Pavel Vernikov,
Uri Caine, Federico Mondelci,
Giuliano Carella, Giuseppe
Albanese, Ilia Kim, Nicolas
Altstaedt e Cinzia Forte. Una
delle novità della nuova stagione è il nuovo direttore artistico dei Virtuosi Italiani Aldo
Sisillo, direttore d’orchestra
e attualmente direttore artistico della Fondazione Teatro
Comunale di Modena, del Festival delle Nazioni di Città
di Castello e docente presso il
Conservatorio Arrigo Boito di
Parma
Dopo i precedenti prestigiosi
appuntamenti, domenica 11
dicembre toccherà alla piani-
sta di origini coreane Ilia Kim
che, in Sala Maffeiana, si esibirà a partire dalle ore 11. L’artista, assieme ai Virtuosi Italiani, interpreterà il caprise-valse
“Wedding-Cake” per pianoforte e orchestra op. 76, opera
scritta da Camille Saint-Saens,
poi “Danza sacra e profana” di
Claude Debussy e “Quintetto
per pianoforte e archi in fa minore”, di César Franck.
Domenica 18 dicembre sarà
la volta di Federico Mondelci,
sassofonista e direttore, accompagnato al pianoforte da
Leonardo Zunica. Lo spettacolo si terrà in Sala Maffeiana
dalle ore 11. Mondelci sarà sul
palco sia in qualità di direttore
che in quella di sassofonista e
interpreterà “Rapsodia in blu”
di Gershwin per sax, pianoforte e archi e una selezione delle
più belle composizioni di Astor
la “Sinfonia da camera
op.110a”, composizione
di Dmitrji Shostakovich
del 1953. Domenica 22
gennaio
protagonista
sarà la musica da camera. L’esibizione, con
inizio in Sala Maffeiana
alle ore 11, prevede Alberto Martini al violino,
Marco Perini al violoncello e Andrea Dindo al
pianoforte. Si potrà assistere all’esecuzione di il
“Trio”, di Maurice Ravel
e di Sonate per violino e
Piazzola come, tra le altre, pianoforte di Debussy e Ravel.
“Adios Nonino”, “Oblivion”,
“Violentango”, “Milonga Del Angel”.
Sempre in Sala Maffeiana, alle ore 11 del
mattino, il 15 gennaio toccherà a Pavel
Vernikov, violinista
russo accompagnato
sul palco dalla voce
del tenore estone
Mati Turi. Potremo
apprezzare le esecuzioni di “Kol Nidrei
op. 47”, adagio su
melodie ebraiche per
violoncello e orchestra di Max Bruch,
“Divertimento ebraico” per violino solo,
cantor e orchestra di
Leonid Hoffmann,
e a seguire la versione per archi del-
per metterti in contatto con noi:
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16
Musica
Dicembre 2011
Verso l’infinito e oltre
di Francesco Fontana
Si esibisce un interprete simbolo della corrente afro-giamaicana
Passione reggae a Mantova
Data unica in Italia per
Alpha Blondy, il re del reggae
africano!
Mercoledì 7 dicembre al
Palabam di Mantova presenterà in esclusiva il nuovissimo album “Vision”.
La sua musica è roots reggae afro, riconosciuta a livello
mondiale come fondamentale
per il genere; il suo album “Jerusalem” è considerato disco
indispensabile per conoscere e
approfondire la cultura reggae.
Alpha Blondy canta i suoi
testi in ebraico, inglese, francese, arabo e in alcuni dialetti
dell’Africa Occidentale (come
ad esempio il baolé ed il dioula).
Il nuovo album “Vision” è un
altro (capo)lavoro del veterano
Alpha Blondy che, anche in
questo album, ha dato il meglio.
Un sound senza precedenti, un
cd fondamentalmente roots
ma con solide basi afro e world
music, proprio caratteristiche
dell’artista che lo rendono unico nella sua qualità artistica.
La track list è di 13 brani.
All’ascolto delle prime canzoni si nota un solido roots. Poi
si arriva al brano “Pinto” con
forti contaminazioni del ritmo africano, con la voce che
si alterna al ritmo dei fiati.
Segue “C’est Magic” con interessanti ritmi di percussioni
a assoli di armonica. E dopo
due brani prettamente roots
si ascolta “Vuvuzela” con il
suono di percussioni africane.
Non di meno “Bogo” con l’accompagnamento della kora che
L’evento è organizzato da
Mantova.com. I biglietti
sono disponibili in prevendita
sul portale www.mantova.com,
al BoxOffice di Mantova (Palabam, via Melchiorre Gioia,
1) e sui circuiti TicketOne e
Unicredit. Il prezzo in prevendita è di 20 euro (+ 2 euro
d.p.), mentre al botteghino è di
25 euro. È ovviamente consigliato l’acquisto in prevendita!
L’inizio del concerto è previsto
per le 21.30.
prevale sugli altri strumenti. In
“Ces soi-disant amis” c’è
un piacevole utilizzo di strumenti a corda. A terminare la
track list una canzone in acustico e su ritmi lenti dove il cantante mette in risalto le proprie
qualità vocali. Un ottimo lavoro che ancora una volta decreta
Alpha Blondy uno tra i migliori del reggae africano. Un
album che non può mancare
a qualunque cultore di questo
genere.
Oltre ad Alpha Blondy, la serata del 7 dicembre al Palabam sarà particolarmente ricca per tutti gli amanti del reggae e dell’afro. Non è un caso
che, a seguire, protagonista del
live & dj set sarà dj Yano. Con
lui anche Kuma per una selezione di oltre 30 anni di afro.
Insomma, un evento perfetto per un tuffo nella migliore
produzione mondiale reggae,
roots, afro.
visita il sito internet di “Verona è”
www.quintaparete.it
Musica
Dicembre 2011
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Verso l’infinito e oltre
a cura di Stefano Campostrini
Ha preso il via la grande manifestazione dedicata alla musica
VeronaContemporanea Festival
Il sottotitolo “intersezioni, improvvisazioni & sinestesie” si
rende protagonista degli appuntamenti della rassegna promossa da Fondazione Arena di
Verona, giunta alla IV edizione. Da novembre fino a maggio
4 tappe indagheranno la musica contemporanea appunto,
senza dimenticare le sue radici
nel secolo scorso, spaziando da
quella “accademica” al jazz,
dal rock al pop.
Novità della rassegna 20112012 è l’attenzione verso la
vocalità, l’improvvisazione e
la sinestesia, in questo caso tra
suoni e colori. In particolare
l’edizione di quest’anno vuole
rendere omaggio a John Cage,
di cui si celebra il centenario
interprete sperimentale, nota
per il suo virtuosismo sia vocale
che strumentale. Il suo spettacolo “perVersiones” è una commistione di melodie medievali,
canti indiani e sciamani con
jazz, sonorità spagnole e francesi, in un risultato complessivo
molto particolare, tra musica
popolare e contemporanea.
Sabato 26 novembre l’incontro in Sala Maffeiana ha avuto
come tematica sempre la vocalità, sospesa tra passato e presente. Si è esibita poi l’ensemble
Odhecaton diretta da Paolo da
Col, importante gruppo italiano di sole voci maschili che ha
proposto al pubblico “Tenebrae
factae sunt”, viaggio tra le coralità polifoniche rinascimen-
della nascita nel 2012, con tre
programmi dedicati. Teatri
degli eventi sono il Camploy, il
Filarmonico, la Sala Maffeiana, Palazzo della Ragione e il
rinnovato Teatro Ristori.
Il primo appuntamento si è tenuto il 23 novembre e ha avuto come primo protagonista
il gruppo veronese Ensembre
Hobocombo, composto da tre
elementi, che unisce rock e
minimalismo. Partendo come
ispirazione e tributo a Louis
Thomas Hardin (“Moondog”),
compositore americano del secolo scorso, pioniere delle tendenze minimaliste, sviluppate
poi da artisti come Philip Glass
e Steve Reich.
Si è poi esibita sempre al Teatro
Camploy la performer spagnola Fatima Miranda, sapiente
tali poi messe in relazione con
la scrittura contemporanea.
Il 27 novembre è salita sul palco del Filarmonico la cantante
Cristina Zavalloni, solista con
l’Orchestra dell’Arena di Verona. Ha affrontato, con la sua tipica poliedricità, canti a partire
da composizioni minimaliste
fino a quelli di tradizioni popolari spagnole, italiane e russe,
spaziando tra jazz, pop, folk
music e musica d’avanguardia.
A dicembre gli appuntamenti si
concentrano sulll’improvvisazione nei suoi diversi tipi di approccio, come elemento importante della sensibilità musicale
contemporanea
In calendario il 6 dicembre alle
ore 18 nel Cortile Mercato Vecchio, spazio al duo norvegese
Humcrush, singolare forma-
zione che spazia dal jazz ad un
linguaggio sperimentale fatto
di vocalismi ed elettronica
Alle ore 21 è la volta del Francesco Bearzatti Tinissima Qtet,
un ensemble jazzistico che presenta il suo ultimo album X (Suite for Malcolm). Sax, clarinetto,
tromba, contrabbasso e batteria danno vita ad un concept
album dedicato al personaggio
afroamericano, presentato anche tramite immagini durante
l’esibizione, un insieme di stimoli musicali tra rock, hip hop
e sonorità liriche più delicate.
Mercoledì 7 dicembre alle
15.30 nel foyer del Teatro Camploy incontro dedicato sempre
all’improvvisazione, condotto
dal musicologo e compositore
Walter Prati, autore del libro
“All’improvviso. Percorsi d’improvvisazione musicale”.
Si prosegue in serata alle ore 17
con una performance solistica
del batterista Roberto Dani,
un personale percorso di ricerca e di esplorazione timbrica
nell’ambito dell’improvvisazione del suono delle percussioni.
composta tra il 1963 e il 1967,
è considerata la partitura grafica più importante e interessante degli anni ’60. Il percorso
d’indagine del gruppo è sulle
partiture grafiche e sulle ipotesi
musicali sperimentali più avanguardistiche del secolo scorso,
nel tentativo di superare la notazione musicale tradizionale.
L’Ensemble omaggia poi John
Cage, con l’esecuzione della
Variation VI. Gli strumenti utilizzati sono tastiere e sintetizzatori, chitarra e sassofono, alla
ricerca di effetti sonori anche
psichedelici.
Per il ciclo di dicembre, Conclude gli appuntamenti al
Camploy alle 21.30 un evento
eccezionale di improvvisazione guidata, con un numeroso
ensemble che raduna musicisti
di diversa estrazione, alcuni
dei quali hanno partecipato
ai precedenti appuntamenti di
VeronaContemporanea. La performance è intitolata Chain e sarà
condotta dal direttore, compositore e sound artist svedese
Staffan Mossenmark.
Alle ore 18.00 è il momento A seguire nei prossimi numeri
dell’Ensemble Cardew con un gli altri appuntamenti di febprogramma di grande interes- braio.
se che mescola suoni acustici
Nelle due immagini, la cantante
ed elettronica, tra cui spicca
spagnola Fatima Miranda,
Treatise di Cornelius Cardew:
accompagnata al piano
18
Musica
Dicembre 2011
Verso l’infinito e oltre
di Francesco Fontana
A cinque anni dal precedente album “The Open Door” è uscito “Evanescence”
Il nuovo disco degli Evanescence
Il titolo stesso dell’ultimo album
“Evanescence”, potrebbe illudere i più di trovarsi di fronte a
un disco che raccolga l’essenza
delle sonorità della band statunitense, una sorta di punto di
in un locale di Little Rock, città da dove provengono i componenti, è un grande successo
e apre le porte alla carriera del
gruppo. Le prime pubblicazioni sono due EP: Il primo è
arrivo dopo più di dieci anni
di carriera. In realtà il nuovo
progetto discografico delude,
almeno in parte.
Ripercorriamo prima la storia
della band. Il duo che aveva
iniziato l’avventura nel lontano
1995 era composto dalla cantante Amy Lee e dal chitarrista
Ben Moody, ai quali nel 1999
si era aggiunto il tastierista David Hodges, che da molti viene
considerato comunque parte
del gruppo iniziale e co-fondatore del progetto Evanescence.
Il primo live della band, tenuto
intitolato “Evanscence” (1998),
che contiene sette tracce, mentre il secondo è “Sound Asleep”
(1999), composto da solamente
sei tracce. Il primo vero e proprio album in studio è “Origin”
(2000), disco che fa da apripista ai successivi progetti discografici. È una sorta di album
introduttivo, tanto da essere
stato prodotto in tiratura molto
limitata, sole 2500 copie. Con
“Fallen” (2003) la band arriva
al grande successo. Il disco ha
venduto circa 15 milioni di copie in tutto il mondo e contiene
pezzi stupendi quali Bring me to
life, Going under, My Immortal ed
Everybody’s Fool. Nel 2006 esce
“The Open Door” che, nonostante il disco di platino, è qualitativamente di certo inferiore
a “Fallen”.
E ora è finalmente arrivato l’atteso
“Evanescence”. Il
primo singolo estratto What You Want
non è di certo un
pezzo
memorabile e tradisce quelle
sonorità che ci si
aspetta da un disco
chiamato “Evanescence”, apportando
delle pericolose novità ai suoni e alle
linee vocali. Made
of Stone è un brano
che ci coinvolge da
subito in un riff di
chitarra, già sentito
e poco originale, per
proseguire poi senza particolari picchi.
The Change è un altro
brano che probabilmente non sarà ricordato a lungo. Con My
Heart is Broken ritroviamo, finalmente,
le sonorità degli Evanescence: pianoforte in primo piano e
atmosfere suggestive,
il primo brano veramente valido ascoltando i pezzi nell’ordine. Con The Other
Side cambiamo deci-
per metterti in contatto con noi:
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samente genere, andando su un
pezzo concentrato su basso e
batteria. Erase This, dopo l’intro
di piano, ci coinvolge in sonorità decisamente più rock. Sick e
End of the Dream sono altri due
pezzi basati su riff di chitarra,
non particolarmente esaltanti.
Lost In Paradise è una bellissima
ballata di grande atmosfera, la
seconda svolta del disco dopo la
già menzionata My Heart Is Broken. Dopo Oceans e Never Go Back
chiude l’album Swimming Home,
un pezzo diverso dagli altri, con
l’uso dello strumento dell’arpa.
Tirando le somme si può dire
che “Evanescence” non è di
certo l’album che ci si aspettava dopo cinque anni di attesa.
Troppa varietà, troppa sperimentazione e ricerca di suoni
diversi dal solito. Ci si ritrova
invece ad apprezzare i pochi
brani in linea con la tradizione Evanescence, in un album
ibrido, che finisce per apparire
privo di una vera identità.
Musica
Dicembre 2011
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Verso l’infinito e oltre
di Agnese Ligossi
Una musica intrigante e delicata ma che non può rimanere inascoltata
Philharmonics: sussurri dal profondo Nord
C’è un tipo di musica dal valore
quasi metafisico, che trascende
la realtà del mondo e che spande i suoi raggi in ogni direzione
attirando e accecando gli occhi
di chiunque le si avvicini.
Non è questo il caso di Agnes
Obel. La bionda danese appartiene, invece, a quella schiera
di artisti dal talento sommesso,
ancora troppo umani ed imperfetti per poter fare la differen-
s’impone, non rompe il silenzio
ma gli dà forma, lo accompagna senza intromettersi.
I più cinici (o i più musicisti)
considereranno
quest’album
niente di che, cestinandolo senza alcuna pietà. E, in effetti,
lo è: non abbaglia, non cambia la vita, non aggiunge nulla
di nuovo alla scena musicale.
Ma, a volte, è proprio questo di
cui si ha bisogno: di una quasi
za nel sovraffollato panorama
musicale. Quelle in Philharmonics sono canzoni stagionali,
da ascoltare guardando sottili
rami nudi emergere dalla nebbia invernale, da canticchiare
mentre cade la neve. Con l’arrivo dell’estate si lasceranno dimenticare in un angolo ombroso della mente, per poi riemergere con naturalezza ai primi
grigi dell’autunno. La voce di
Agnes si muove delicatamente
su una ragnatela di echi, di suoni provenienti un immenso salone di una villa in rovina – non
ninnananna come
Riverside che culli la
nostra mente senza
ottenebrarla,
delle grandi distanze
che Close Watch apre
dentro di noi, della
familiarità un po’
oscura di un brano
tradizionale come
Katie Cruel. Ogni tanto abbiamo bisogno
di affidarci a qualcuno che metta tutto
il suo cuore in quello
che fa senza voler-
ci scandalizzare a tutti i costi;
ogni tanto dobbiamo sentirci al
sicuro tra braccia che non spaventino, addentrarci in luoghi
che già conosciamo per ritrovare noi stessi. Il viaggio non è
comunque semplice: il paesaggio è scarno (solo qualche pianoforte, una chitarra e un’arpa
qua e là), le voci che arrivano
da lontano sono sottili e a volte indecifrabili nel loro intrecciarsi in cori obliqui, senza un
equilibrio stabile. E la nebbia
regna sovrana, bianca e densa.
Il rumore dei nostri pensieri
diventa fragoroso sotto il ritmo
regolare del carillon alla Yann
Tiersen di Louretta, i bassi del
violoncello di Wallflower ci avvolgono in un’atmosfera quasi
alla Tim Burton, Just So, senza
preavviso, ci strappa addirittura un sorriso. È un mistero
continuo. Anche le parole fluiscono, senza fretta, inesorabili,
conosciute. Finché non arriviamo a Philharmonics, il brano
che dà il titolo a tutto l’album,
la nota inquieta in mezzo a tutto quel sottovoce che lascia un
inaspettato brivido lungo la
schiena cantando di morte e rinascita, di catene e liberazione.
Qualche minuto di immobilità
nervosa e poi possiamo tornare
ai piccoli sentimenti, all’attesa,
ai ricordi con Over The Hill.
Questo è Philharmonics. A pensarci bene, è davvero niente di
che, come lo spazio tra due parentesi o una tazza di tè a metà
mattina – come la vita di tutti,
col suo concatenarsi di pensieri
fluttuanti, crudeltà
indicibili e sorrisi
abbozzati. A tutto
questo Agnes Obel
ha semplicemente
dato una voce, la
sua voce – senza età,
tremante nel suo inglese nordico eppure potente, proprio
come saremmo veramente noi, come tutte quelle parole che
non riusciamo mai
a dire. Niente di che,
appunto.
20
Intervista
Dicembre 2011
Ho cercato di diventare qualcuno
di Alberto Avesani
La giovane band veronese coinvolge con la sua musica accattivante e travolgente
“The Brand”: rock ed energia
Dopo la vittoria del concorso
“Noi Musica” di Lonato (BS),
incontriamo oggi con immenso
piacere i The Brand, un gruppo rock nostrano composto
dalla cantante Alice Ferrigolo,
dai chitarristi Stefano Pistone e
Andrea D’Angelo, dal batterista Michel To Van e dalla new
entry Simone Orsolini al basso.
Come nasce il vostro gruppo musicale e quali sono le
tappe fondamentali della vostra evoluzione artistica?
Beh il gruppo è nato
nel 2001, ed eravamo
3 ragazzi con la sola
voglia di suonare. Col
passare degli anni e
l’aggiungersi di componenti abbiamo capito l’esigenza di trovare
una formazione stabile
e di poter esprimere la
nostra musica con degli inediti. Infine l’ultima tappa sino ad ora
è stata quella di raccogliere questi inediti in
un unico album.
Perché avete adottato il nome “The
Brand”?
Intanto il nome è stato adottato solamente all’uscita del
nostro album (05/2011). Prima
ci chiamavamo Sottomarca,
quindi per sottolineare il fatto
che d’ora in poi saremmo stati un marchio a tutti gli effetti
abbiamo deciso di passare da
sottomarca a “LA marca” (appunto the brand).
Lo stile musicale che proponete al pubblico si ispira
a qualche grande musicista/band o state cercando
di esprimere qualcosa di
innovativo?
Di sicuro all’interno delle nostre canzoni si può riscontrare la presenza di stili tipici di
grandi band del rock 70/80
ma anche contemporanee, ma
lasciamo al pubblico scoprire
di chi parliamo… Quello che
invece cerchiamo di fare è una
musica sì rock, ma anche di facile ascolto con ritornelli che si
Prossime date
Per chi volesse sentire del
buon rock, la band vi da
appuntamento il 9 dicembre
2011 al Porky’s (ex Lucille) e
il 27 gennaio 2012 al Blocco
Music Hall di San Giovanni
Lupatoto.
possono anche fischiettare, perché la musica complicata, fine
a sé stessa è di poco utilizzo a
nostro parere.
Voi suonate sia cover che
pezzi originali. Continuerete con questo binomio o
sentite la necessità di seguire una strada in particolare?
Fin quando non si acquisisce
un certo livello di notorietà le
cover sono d’obbligo, e questo
lo si fa per il pubblico. Ma in altri ambiti, per esempio festival
o contest, noi ci presentiamo
sempre come original band.
La scelta di cantare in inglese deriva da una necessità commerciale o dal vostro gusto personale?
In realtà se dovessimo seguire il
trend commerciale la scelta da
fare sarebbe l’italiano. Se cantiamo in inglese è proprio per
gusti personali, la lingua del
rock è l’inglese.
Da qualche mese è uscito il vostro primo grande
lavoro, “Original”. Quali
sono le tematiche principali trattate nelle canzoni
presenti in tale album?
La tematica trattata in più di
metà album è l’amore, di certo
non in chiave “mielosa” tipica
del pop, ma attraverso storie
che possono parlare di rotture
o di riappacificazioni, insomma tutte le sfaccettature di
questo sentimento. Fuori dai
canoni sono “Searching for” e
“Something”, rispettivamente
l’inizio e la fine di un viaggio
che non è altro che la metafora
della vita.
Farsi conoscere è importante e i new media facilitano sicuramente la vita a
gruppi emergenti come il
vostro. Quali canali di comunicazione adottate?
Beh chi più ne ha più
ne metta! Siamo presenti su tutti i principali social network
(Facebook, Myspace,
Twitter), per le foto
siamo su Flickr, per i
video abbiamo il canale Youtube e abbiamo
un nostro sito ufficiale
(www.therockbrand.
it).
Sognate per un attimo (tutti!): a quale band vorreste
fare da spalla per
aprire un concerto?
Non vorremmo cadere
nel banale, ma… Led
Zeppelin. E’ (stata)
una band che simboleggia il rock, ma a differenza
di altri grandi gruppi come
Deep Purple o AC/DC ha un
alone di misticismo che la rende
unica.
Quali sono i progetti per
il futuro? State già lavorando al secondo album o
siete impegnati a far conoscere quello inciso da
poco?
La cosa a cui stiamo lavorando ora è di creare un vero e
proprio show, che non sia solo
suonare dei pezzi su un palco,
ma di far interagire il pubblico,
aggiungere altri artisti che non
è detto che debbano suonare (e
qui non possiamo aggiungere
altro…) per rendere il nostro
spettacolo veramente unico. In
secondo luogo stiamo pensando
al secondo album, con già alcuni brani in cantiere, che speriamo di far uscire dopo l’estate
2012.
L’opinione
Dicembre 2011
21
“Questa è una transazione, non una discussione”
di Silvano Tommasoli
Dove si parla di suicidio, di sofferenza dell’anima e di sofferenza del corpo
Estetica della vita ed etica della morte
E quindi io ho paura della sofferenza. Perché nei confronti
della morte io,
che in tutto il resto credo di
essere un moderato,
sono assolutamente radicale.
Se noi abbiamo un diritto alla
vita, abbiamo anche
un diritto alla morte.
Sta a noi, deve essere riconosciuto a noi il diritto di scegliere il quando e il come
della nostra morte
Indro Montanelli
Ci pensiamo molto spesso,
quasi tutti. Sempre più spesso,
quando gli anni incedono: per
i giovani, la morte non rappresenta una preoccupazione, anzi
nemmeno il soffio di un pensiero. Più tardi, invece, si comincia a pensare che risolvere il
problema della morte significhi
trovare il senso della vita. Con
un sacco di varianti, naturalmente. Ci sono i cattolici convinti, per i quali il decesso del
corpo segna l’inizio della vera
vita dell’anima, mentre la morte definitiva ed eterna si ha solo
con la “morte seconda”, come è
chiamata nell’Apocalisse la perdita della vita divina e della felicità eterna come pena del pecccato originale. Per i materialisti, che negano l’esistenza di
un’anima, la vita è solo quella
terrena. Dopo questa frontiera,
non c’è proprio nulla. Anzi,
come ha scritto Epicuro, quando ci siamo noi non c’è la morte e quando c’è la morte non ci
siamo noi. E Wittgenstein, che,
successivamente, ha negato la
morte come un evento della
vita («Non si vive la morte»), o
Sartre, che la considera come
un “puro fatto”, come la nascita.
Le cose si complicano molto
quando la morte perde il suo
aspetto di evento naturale, e la
“frontiera” viene attraversata
in conseguenza di un atto violento, o volontario.
Tralasciamo di occuparci della
morte in guerra, per l’estetica
della quale si sono versati fiumi di ottimo inchiostro – sarà
anche bello morire da eroi,
ma a vent’anni, oggi, sembra
più gradevole vivere, no? – e
non sembra questo il luogo per
trattare la morte cruenta delle molte vittime innocenti che
la barbarie umana miete ogni
giorno. Vogliamo parlare del
suicidio, indotti in questa riflessione dalla morte che si è dato,
nei giorni scorsi, Lucio Magri.
E prima di lui, Mario Monicelli
e molti altri.
Il punto centrale della vexata
quaestio è capire, e valutare, la
liceità di porre fine alla propria
vita quando essa non corrisponda più ai canoni e ai requisiti minimi di accettabilità
da parte dell’individuo. Cosa
apparentemente
più facile, quando
la parte conclusiva
della vita sia sottoposta all’inferno
di una patologia
gravissima, che
impone sofferenze
fisiche e morali insostenibili, senza
alcuna speranza
di poter lasciare
quello stato. Ho
detto “apparentemente”, non è
vero? Infatti, basta andare con
il ricordo alle vicende terrene
di Giorgio Welby, per avere
davanti il caso più eclatante di
malato terminale che chiedeva di essere lasciato morire. E
poi, più difficile ancora quando il malato non sia in stato di
coscienza vigile, e, per lui, dovrebbero decidere altri.
Ora, se c’è un’estetica della morte, ci dev’essere anche
un’estetica della vita. Nel senso
che ciascun individuo dovrebbe avere, sempre, contezza del
suo piacersi e del suo piacergli la propria vita, secondo
canoni estetici assolutamente individuali e personali che
hanno l’unico obbligo di non
limitare la libertà altrui. E se
la propria vita non piacesse
più? «Depressione», è spesso la
troppo rapida sentenza.
Certo, depressione è il nome
della patologia che la cosiddet-
ta società civile appioppa a tutti
coloro che escono dai canoni e
dagli schemi definiti secondo
il comune pensare. Insomma,
tutti i “diversi” sono, in fondo
in fondo, depressi. Se non lo
fossero, sarebbero omologati e
non diversi. Così, la normalità
è definita a maggioranza relativa!
In realtà, è molto comprensibile che, a un certo punto dell’esistenza, la conduzione della
propria vita possa non piacere più. All’interno del canone
estetico stabilito per essa, l’equilibrio tra bello e brutto, tra
gradevole e spiacevole – fino al
limite estremo dell’insoppor-
tabile – è quanto mai labile e
delicato. Verso la naturale fine
della vita, poi, quando il conto
degli anni propone, inesorabilmente, una prospettiva mentale e fisica che corre veloce verso
un decadimento senza ritorno,
non appare così assurdo voler
assegnare alla propria esistenza una frontiera della dignità
– sempre ricompresa in quella
propria estetica del vivere – che
non è tollerabile superare.
Mario Monicelli, come autore
cinematografico, è stato uno
degli interpreti e dei narratori
più intelligenti della realtà della vita italiana del Ventesimo
Secolo. A novantacinque anni,
sarebbe stato giusto che diventasse lui stesso un’icona di quel
“miserabile” contro il quale
tanto si è speso? La morte come
catarsi di una vita miserabile è
stata mirabilmente descritta da
Monicelli in uno dei suoi capo-
lavori, La grande guerra del 1959;
dandosi la morte, egli ha scritto
l’ultimo capitolo del suo pensiero, rappresentando il suicidio
come barriera verso una vita
che stava diventando esteticamente inaccettabile.
Certo, il suicidio è stato condannato da molti grandi filosofi, perché contrario alla volontà
divina come sosteneva Platone,
oppure perché rappresenta la
trasgressione di un dovere verso
sé stesso, secondo Kant, o verso
la comunità alla quale si appartiene, come sosteneva Aristotele. Di contro, gli Stoici ritenevano doveroso rinunciare alla
vita, quando fosse impossibile
adempiere il proprio
dovere, e Hume –
che ha intitolato Of
Suicide uno dei suoi
Saggi – affermò che
è questa l’unica via
che consente di uscire da una situazione
insostenibile, il solo
modo per salvare
allo stesso tempo la
propria dignità e libertà.
Lucio Magri non era
malato fisicamente;
almeno, non che si sapesse. A
settantanove anni, si sentiva incapace di condurre la sua vita
senza la seconda moglie, l’amatissima Mara, morta di cancro
tre anni fa. Ha scelto questa via
di uscita da una situazione che
ormai gli era intollerabile e che
riteneva intaccasse la sua dignità.
Non credo che sia giusto criticare la sua scelta, quanto piuttosto rispettarla e accettarla,
nella sua grande complessità.
Infine, è giusto considerare
questo suicido, che egli ha voluto somministrare a sé stesso
con modalità non cruente, non
diverso dall’eutanasia alla quale hanno diritto tutti coloro che
ne hanno chiesto l’applicazione
prima di cadere in stato vegetativo persistente e irreversibile.
Perché le sofferenze dell’anima non sono meno dolorose di
quelle del corpo.
22
Cinema
Dicembre 2011
Visto abbastanza?
di Stefano Campostrini
Concorso per sceneggiature e cortometraggi inediti
Valpolicella Film Festival
L’Associazione
Valpolicella
Fiction ha da sempre sostenuto
e voluto valorizzare il proprio
territorio di rappresentanza
portando il cinema tra le colline sopra Verona. L’intento
degli organizzatori e della manifestazione è quello di diffondere la cultura del cinema e il
suo linguaggio, stimolando il
dialogo e il pensiero. Una proposta culturale che ha portato
alla creazione del Valpolicella
Film Festival, giunto quest’anno alla sua terza edizione, che
si è tenuto dall’1 al 3 dicembre.
Il bando del concorso è stato
presentato lo scorso maggio in
occasione della mostra d’arte organizzata dalla Scuola
d’Arte “Paolo Brenzoni” di
Sant’Ambrogio. Il Museo del
Cinemagia e dell’Immagine di
San Pietro in Cariano è stata la
sede della kermesse, preparata
nell’allestimento per mostrare
l’evoluzione delle tecniche cinematografiche.
Grande partecipazione al progetto, con oltre 120 candidature provenienti da dodici paesi
diversi, in particolare Spagna e
paesi anglosassoni. Segno di un
continuo e crescente interesse
per l’ideazione e la realizzazione di questo concorso, anche in
concomitanza con la creazione
di convenzioni e collegamenti
con realtà del territorio, enti
culturali, promotori turistici ed
istituzioni locali, queste ultime
rappresentate quest’anno dal
Comune di San Pietro in Cariano, posto il patrocinio per
l’evento.
Risultato della selezione è stata la presentazione di quindici cortometraggi e dieci
sceneggiature inediti. I primi
due giorni sono stati mostrati
al pubblico giunto al festival
e successivamente la giuria
composta da esperti, tecnici e
appassionati ha valutato e decretato i lavori più meritevoli,
introducendoli e lasciando poi
spazio alla loro visione.
Immancabile
poi
la sezione dedicata
alle sceneggiature,
in tal caso tutte italiane, con la consueta attenzione per le
trame che potranno
costituire futuri film
o cortometraggi. Ad
esse è stato dedicato
un momento durante la serata conclusiva, con la lettura del
miglior progetto.
L’Associazione Valpolicella
Fiction
continua il suo impegno, offre e sostiene anche la possibilità di iscriversi e
tesserarsi, per rimanere in contatto con
le attività e beneficiare delle opportunità che offre.
Cinema
Dicembre 2011
23
Visto abbastanza?
di Ernesto Pavan
Real Steel è un film semplice che riesce a colpire
Voglio un robot e lo voglio adesso
Real Steel è un sogno infantile.
E fin dalla la prima volta che il
nome “Atom” (lo stesso nome
del celebre robot nato dall’immaginazione del regista e fumettista Osamu Tezuka) è pronunciato, si può stare certi che
si tratta di un sogno fatto dannatamente bene. Non importa
se la trama è una riproposizione dei classici holliwoodiani,
non importa se, a mente fredda,
ogni svolta potrebbe essere ra-
gionevolmente prevista (tranne
l’ultimo, incredibile, ma perfetto colpo di scena): Real Steel non
è un film che si può guardare
rimanendo impassibili. È un
sogno che si muove e combatte
con l’animo di un uomo d’acciaio guidato da persone di carne. È la riscossa delle speranze
di ognuno di noi. Durante le
quasi due ore del film, ciascuno spettatore è Max che non
vuole arrendersi, è Charlie che
rialza la testa, è Atom che
non cadrà nonostante tutti
i pugni che prende. Infantile, certo; ma se l’infanzia
è una culla dal potenziale immenso, che produce
adulti realizzati, allora
essere colpiti da qualcosa
di infantile significa che
parte di quel potenziale
creativo è ancora vivo in
noi. Film più complessi,
articolati e originali non
hanno la carica emotiva di
Real Steel.
Dal punto di vista tecnico, Real
Steel è realizzato in modo eccellente. Le scenografie sono perfette per il tono delle scene a cui
fanno da sfondo e le luci sono
scelte e posizionate con cura. I
robot sono animati con estremo realismo e chi ci ha lavorato è riuscito nel difficile compito di creare volti immobili, ma
immensamente espressivi. E la
musica è l’accompagnamento
perfetto per l’azione sullo schermo. Questa combinazione di
elementi fa sì che lo spettatore
possa immergersi nella visione
del film come in un mondo reale, concreto, di cui anche lui
può far parte. Che è quello che
ogni buon film dovrebbe essere
capace di fare.
Il vero protagonista della vicenda è indubbiamente Max, il
bambino interpretato da Dakota Goyo (sì, è un nome proprio);
un personaggio a cui l’attore
dodicenne riesce a dare un’espressività e una fisicità non comune. Anche Hugh Jackman
non delude e, dall’alto dei suoi
per metterti in contatto con noi:
[email protected]
43 anni, sfoggia un perfetto
phisique du role da pugile in pensione, ma in forma. Il resto del
cast appare un po’ sottotono,
soprattutto quello femminile.
con Olga Fonda che interpreta
una donna algida al punto da
risultate stucchevole ed Evangeline Lilly che non riesce a
dare pieno sviluppo a un personaggio forse troppo prigioniero
del suo ruolo. Kevin Durand fa
il suo mestiere come antagonista viscido e gli altri più o meno
se la cavicchiano, complice il
fatto che un film come Real Steel
ha veramente bisogno solo di
protagonisti interessanti e che
il vero antagonista non è un
personaggio, ma la sconfitta:
qualcosa che bisogna imparare
ad accettare e da cui non ci si
deve lasciar abbattere.
Certamente Real Steel non è un
film profondo, innovativo o che
altro, ma cosa importa? Voglio
un robot e lo voglio adesso.
24
Libri
Dicembre 2011
È la stampa, bellezza
di Ernesto Pavan
Un racconto asciutto e commovente
Tirando le somme di una vita:
L’ultima lezione
Una leggenda della cultura popolare vuole che, prima della
morte, una persona riveda la
propria vita con estrema chiarezza. L’ultima lezione è questa
leggenda resa realtà. Randy
Pausch, professore universitario e uomo realizzato nel pieno
vigore dei suoi quarant’anni,
scopre un giorno che gli rimangono pochi mesi di vita prima
che il cancro lo uccida. Il suo
pensiero va alla sua famiglia, in
particolare ai suoi figli piccoli,
e ai numerosi amici e allievi del
presente e del passato: si chiede
cosa potrà lasciare loro e decide
che la cosa migliore è proprio la
sua vita, sotto forma delle lezioni che questa gli ha insegnato.
Queste sono gli argomenti della
sua ultima lezione, tenuta come
relatore esterno presso una prestigiosa università; e questi sono
anche gli argomenti de L’ultima
lezione, un libro limpido e privo
di ogni retorica, che senza alcuna pretesa rivela uno scorcio
di vera umanità. Attenzione:
L’ultima lezione non è una storia
lagrimevole, né un caso di cannibalismo editoriale. È l’opera
di un docente universitario che
ha pensato agli altri prima che
a se stesso, cercando di fare del
suo passato qualcosa di utile
per chi verrà dopo di lui.
Pausch non era un umanista,
ma uno scienziato, e forse proprio per questo il suo stile è così
leggibile: non c’è una metafora
di troppo, una parola ricercata
o un’espressione desueta. Questo da solo varrebbe la lettura
del libro, per la lezione utile
che molti potrebbero trarne.
Ma non è tutto qui. Con l’attenzione che solo una mente
non inquinata dalla presunzione può avere, Pausch coglie e
porta a galla una serie di insegnamenti che sfuggono a molti
e di altri, che avremo sentito
dire mille volte (“nessun lavoro è troppo umile”), riesce a
dare spiegazioni nuove e convincenti. Anche se si può non
concordare con alcune delle
sue affermazioni, nessuna di
essa è banale e nessuna si può
scartare come “superficiale”.
Quella che ci ha colpito di più
è stato il modo in cui definisce William Shatner, l’attore
che interpretò il capitano Kirk
in Star Trek: “eroico”. Lui, un
uomo che ha combattuto fino
all’ultimo una battaglia persa
e ha dato una grande lezione
di ottimismo (non del tipo che
illude, ma quello vero) e di speranza, ha chiamato “eroico”
qualcun altro per il semplice
fatto che si trattava di una persona capace di approcciare una
questione partendo dall’ignoranza più completa e facendo
domande senza stancarsi, fino
a quando non poteva dire di
aver capito tutto. E, a pensarci
bene, in un’era di supponenza
e arroganza, voler imparare an-
che quando all’apparenza non Randi Pausch, L’ultima lezione,
serve a nulla è davvero un atto BUR, pp. 231, € 9,90
eroico.
L’ultima lezione è un testo breve,
che si legge in poco tempo ma
lascia il segno. Consigliatissimo.
Narrativa, poesia, vita vissuta, storia locale, didattica scolastica,
cultura nel senso più ampio del termine.
Spazio agli autori emergenti, giornalisti e ricercatori.
Particolare attenzione alla promozione del territorio, delle
economie emergenti (marmo, vino, enogastronomia, percorsi
turistici alternativi) e a indagini psico-sociologiche.
Via Jago di Mezzo, 6 - 37024 Negrar
Tel. e Fax 045 8031248
Libri
Dicembre 2011
25
È la stampa, bellezza
di Ernesto Pavan
Ursula Le Guin rende la donna protagonista dell’epica
Lavinia, moglie di Enea,
racconta l’Eneide
Lavinia è un romanzo strano.
L’autrice vorrebbe soffermarsi sul personaggio in assoluto
meno approfondito dell’Eneide
(la sposa di Enea, a cui saranno
dedicati sì e no una dozzina di
versi in tutto il poema) e farne
la protagonista di una storia,
raccontata dal punto di vista
della donna; così avviene, ma il
risultato non è dei
più convincenti,
complici una serie
di incongruenze
che rendono la trama poco credibile.
In primo luogo, quello
che è l’elemento di originalità del romanzo:
Lavinia sa di essere
un personaggio di
fantasia. L’ombra
di Virgilio morente la visita in un
paio di occasioni (dopo le quali
sentiamo parlare
poco o nulla di lui),
stupendosi delle
differenze fra il
personaggio da lui
rozzamente delineato e la persona
“reale”; in queste
occasioni, sollecitato da Lavinia, il
poeta pronuncia
alcune “profezie”
(in realtà canti
dell’Eneide),
che
naturalmente
si
avverano. In ciò
sta il primo problema: le enormi
differenze riscontrate da Virgilio non hanno alcuna influenza sulla storia, che si svolge
esattamente come nel poema.
Non solo, ma la vicenda continua dopo la morte di Turno
(il momento in cui l’Eneide termina brutalmente), nonostante
in teoria si debba concludere,
essendo un parto della fantasia
di Virgilio. Queste contraddizioni sono lasciate inspiegate e
la stessa Lavinia, dopo essersi
interrogata al riguardo, non
sa darsi delle risposte. Il finale,
che non sveliamo, non ha fatto
altro che aumentare la nostra
perplessità, come il fatto che
Latini e Troiani parlino la stessa lingua e si capiscano perfettamente.
Lavinia ha anche un forte problema per quanto riguarda la
gestione dei ritmi narrativi. A
momenti di grande lentezza si
alternano, soprattutto nell’ultima parte, sequenze rapidissime in cui tutto sembra accadere troppo in fretta. Inoltre,
mentre l’inizio del romanzo è
in qualche modo originale, la
parte centrale è di fatto ricalcata dall’Eneide (cambia il punto
di vista, ma gli eventi rimangono quelli) e l’azione sembra
fermarsi a questo punto, senza
che nulla di significativo ac- Ursula K. Le Guin, Lavinia,
cada nella parte conclusiva. È Cavallo di Ferro, pp. 314, €
un peccato, perché lo stile di 16,00
LeGuin è veramente ottimo e
il romanzo si legge con grande scorrevolezza, nonostante
qualche momento di stanca.
Meno soddisfacente è la caratterizzazione dei personaggi,
che esprimono ciascuno una
singola caratteristica: Latino è il
Così parlò Eatwood
padre arrendevole,
“Tutta colpa di Aladin!”, soAmata la madre
stiene imperterrito Eatwood
che vede in Turno
da qualche settimana. Queil figlio che non ha
sta volta devo ammetterlo, ha
mai avuto, Enea
proprio ragione lui. Di una
l’uomo pius e via
cosa ero certo fino a poco fa...
dicendo. Lavinia,
non l’avrei mai assecondato
la voce narrante,
nei suoi turpi ragionamenti. E
appare più convininvece... ma tu guarda il temcente, ma anche
po come cambia le cose!
vagamente estra“Ha la testa tra le nuvole!”,
niata, come se in
sostenevo, “Ma è una cosa
fondo le vicende
passeggera...”,
minimizzada lei vissute non
va
il
ragazzino
invecchiato
la riguardassero
con
fratello
appresso.
“Non
per davvero. Tidite
sciocchezze”,
tuonava
rando le somme,
l’anziano fotografo panzone.
il romanzo è più
Eatwood, sguardo celeste da
che mediocre, ma
prete triste, ascoltava tutti in
meno che buono.
silenzio con la Bibbia in mano
Va fatta menzione
e il rosario nel taschino. “Siedell’orrida scelta
te lontani dalla verità, qui c’è
della
copertina
dell’altro. Ha mal d’Asia il
italiana, compleragazzo”, volle precisare. Un
tamente in convociferare che diveniva semtrasto con il contepre più assordante non fece
nuto del romanzo
che rafforzare l’impeto di Eate la postfazione
wood. Ma c’era dell’altro. Non
dell’autrice: menpago volle farsi sentire, volle
tre quest’ultima ha
dire la sua nuovamente. E,
voluto dipingere
con scatto d’orgoglio, mollò i
un Lazio primitivo
sacchetti che aveva tra le mani
e povero, storicamente accurae, puntando il dito verso di
to (il romanzo si svolge a cavalnoi, ci disse: “ve l’avevo detto,
lo della fondazione di Roma),
sempre a fare di testa vostra...
l’immagine rappresenta una
non dovevate farlo partire”.
matrona riccamente vestita su
Io a questo punto, con plateuno sfondo marmoreo. Una
ale scena d’artista, mi alzai e
scelta forse mirata ad attrarre
senza salutare nessuno uscii
gli appassionati di un certo gedalla porta, sbattendola con
nere storico che non ha molto a
veemenza. Gli alti cosa fecero?
che vedere con Lavinia, il quale
Non mi interessa, chiedetelo a
non è una celebrazione della
Eatwood.
romanità ma uno spioncino sul
mondo che l’ha preceduta.
26
Giochi di ruolo
Dicembre 2011
Nessun uomo è un fallito se ha degli amici
di Ernesto Pavan
Di cosa hai paura: un gioco di orrore soprannaturale
Occhi aperti e passo svelto,
o vi prenderanno!
Di cosa hai paura (di Robin D.
Laws, Janus Design, € 32,00)
non è una novità per chi ha già
avuto a che fare con Esoterroristi
o Sulle tracce di Cthulhu: si tratta di un altro gioco basato sul
sistema GUMSHOE, pensato
per la creazione e la risoluzione di scenari investigativi. La
novità rispetto agli altri due sta
nel tema, molto più basato sui
classici film dell’orrore, e nei
protagonisti: non più specialisti
dell’investigazione, ma persone
comuni che si trovano ad avere
a che fare con orrori soprannaturali. Siccome, a differenza degli investigatori di Sulle
tracce di Cthulhu ed Esoterroristi,
costoro non hanno di base una
forte motivazione che li spinga
ad affrontare il Male, Di cosa
hai paura introduce i Fattori di
Rischio: impulsi individuali
(curiosità, istinto di protezione,
ecc) seguendo i quali i personaggi rimangono invischiati nello scenario, invece che
abbandonarlo il più in fretta
possibile. Ciascun personaggio possiede inoltre un segreto
oscuro, qualcosa di fortemente
negativo che ha fatto o gli è accaduto in passato, che dovrebbe emergere durante il gioco;
diciamo “dovrebbe” perché, a
nostra conoscenza, il ruolo di
questo elemento nelle meccaniche di gioco è talmente marginale da poter essere trascurato.
Anche i Fattori di Rischio non
ci hanno convinto, dal momento che il loro ruolo è quello di
accordo sociale fra giocatori e
Game Master: “i vostri personaggi non abbandoneranno lo
scenario per un motivo. Quel motivo lo
scegliete voi.” Per
quanto utile possa
essere un accordo
del genere, la necessità di esplicitarlo
(non
includendo,
peraltro, i Fattori di
Rischio in alcuna
meccanica di gioco)
ci fa pensare a una
debolezza di fondo del sistema che
una premessa più
forte come quella
degli altri due giochi avrebbe potuto
evitare.
L’ i m p o r t a z i o ne pressoché totale del sistema
GUMSHOE crea
qualche problema
di credibilità delle
storie e di giocabilità: da un lato,
queste
“persone
comuni” appaiono
enormemente capaci e in grado di destreggiarsi in
situazioni nelle quali ci aspetteremmo un minimo di tensione;
dall’altro, la quasi totalità delle
creature descritte nel manuale
può fare a pezzi una dozzina
di personaggi-tipo con enorme
facilità, richiedendo un notevole controllo da parte del Game
Master per evitare che tutto finisca in un grand guignol. Tutto
ciò non è necessariamente un
male, ma ci sembra che il gioco dia per scontato un livello di
consapevolezza del sistema che
non lo è per niente.
Ciò detto, Di cosa hai paura è
un gioco che può interessare
molto chi si avvicina ai giochi
di nuova concezione partendo
dal genere tradizionale (Kult, Il
richiamo di Cthulhu e simili): in
esso ritroverà molti
elementi familiari,
uniti a un sistema
più funzionale e coerente. L’edizione
italiana è come sempre di ottima qualità e include, oltre al
gioco base, il Tomo
dell’orrore incessante,
un supplemento dedicato ai mostri che
può essere utilizzato
anche nelle partite
di Esoterroristi. Oltre
alla versione cartacea, Janus Design
vende sul proprio
sito il PDF del gioco a 14 euro; chi
acquista il manuale
cartaceo riceverà
quest’ultimo senza
alcun costo aggiuntivo. In questo caso,
il rapporto fra prezzo del PDF e prezzo
del cartaceo (il 45%
circa) non è ottimo,
ma è pur sempre
molto buono; chi, letta la nostra
opinione, considera il prezzo
del manuale stampato un investimento eccessivo, potrebbe
ricorrere al PDF e fare comunque un buon affare.
I Nostri servizi:
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Giochi di ruolo
Dicembre 2011
27
Nessun uomo è un fallito se ha degli amici
di Ernesto Pavan
Tema e regolamento rendono Polaris un gioco più unico che raro
Quando i giocatori scrissero un canto epico
Polaris (di Ben Lehman, Janus
Design, € 30,00) è un unicum nel
panorama dei giochi di ruolo.
Lo è per il tema, una “tragedia
cavalleresca all’estremo Nord”;
lo è per l’ambientazione, una
città costruita fra i ghiacci del
Polo popolata da una civiltà
avanzata; lo è per il sistema,
fondato sulla ritualità del dialogo. È un gioco che richiede un
forte coinvolgimento emotivo e
premia i partecipanti con storie
che non avrebbero mai pensato
di poter raccontare ed emozioni uniche.
Le storie di Polaris sono ambientate in quello che, di fatto,
è un mondo morente. La notte, in cui la civiltà di Polaris è
nata è cresciuta, è stata violata
dal Sole; con esso sono arrivati
i Portatori dell’Errore, demoni
di carne e sangue o corruttori
invisibili che sussurrano agli
animi delle persone, portandole verso la follia. Il popolo di
Polaris, abbagliato dallo splendore del Sole, ha preso ad adorarlo, incurante del male che
esso ha portato; solo i Cavalieri
dell’Ordine delle Stelle combattono ancora per la salvezza del
loro popolo, ma la loro è una
lotta disperata, perché i Portatori dell’Errore sono infiniti,
mentre il numero dei Cavalieri
si assottiglia sempre di più. Disprezzati dalle stesse persone
che proteggono, condannati
alla morte o alla corruzione, i
Cavalieri sono i protagonisti
delle storie di Polaris.
La particolarità di questo gio-
co sono i ruoli dei partecipanti, che variano a seconda delle
rispettive posizioni al tavolo. A
turno, ciascuno sarà il Cuore di
un Cavaliere e ne racconterà i
pensieri e le azioni; il giocatore
di fronte a lui sarà l’Errore, che
introdurrà tentazioni e nemici;
infine, i giocatori alla sua de-
stra e alla sua sinistra saranno
le Lune, sui cui ricade la responsabilità dei personaggi minori. Il gioco in sé è un dialogo
sottoforma di racconto cavalleresco, al passato, ed è scandito
da frasi rituali: “ma solo se...”,
“e inoltre...”, “e fu così che...”
possono essere usate, seguendo
visita il sito internet di “Verona è”
www.quintaparete.it
determinate regole, per integrare o modificare il racconto
di un altro giocatore. Nel turno
di ciascuno, sono soprattutto il
Cuore e l’Errore a farla da padroni, con le Lune in un ruolo
che è principalmente di supporto; in conseguenza di ciò, l’autore ha dichiarato che il numero
ideale di giocatori potrebbe essere tre invece dei quattro consigliati all’epoca della stampa
del manuale. Personalmente,
troviamo che Polaris sia un gioco straordinario in tre come in
quattro. L’atmosfera che riesce
a generare, tramite il tono del
manuale e l’utilizzo delle regole, è qualcosa di unico; le regole
stesse, prevedendo solo due finali possibili per un Cavaliere
(la morte o la corruzione), spingono i giocatori ad analizzare
il lato tragico di una vicenda
umana piuttosto che a “giocare
per vincere” come può accadere in altri giochi di ruolo. In
effetti, da quest’ultimo punto di
vista una partita a Polaris può
essere un’eccellente lezione per
chiunque.
Come sempre, oltre al manuale stampato Janus Design ha
messo in vendita il gioco in
formato elettronico, all’ottimo
prezzo di 10 euro. Una politica
commerciale lungimirante, che
consente anche a chi qualche
dubbio riguardo all’hobby di
avvicinarvisi senza dover fare
un grosso investimento economico. Inutile dirlo, per noi
Polaris è un ottimo acquisto in
entrambe le versioni.
28
Viaggi
Dicembre 2011
Houston, abbiamo un problema
di Alice Perini
Città in progress, all’ombra delle Alpi, alla ricerca della luce. Della ribalta e dell’evento
Torino, perché non farle la corte?
Torino è la città più profonda,
più enigmatica, più inquietante, non d’Italia ma del mondo
Giorgio De Chirico
Per secoli e secoli, Augusta Taurinorum non fu altro che un borgo di dimensioni e importanza
modeste: della sua fondazione,
nel 28 a.C., non si trovano tracce nelle fonti storiografiche. Prima di lei, nacquero, per volere
dei Romani, molti altri insediamenti, da Tortona a Novara,
da Vercelli a Ivrea: del resto, il
controllo territoriale del Piemonte consentiva collegamenti
rapidi con le Gallie, il dominio
sul contado e lo sfruttamento
delle notevoli risorse agricole fa soffrisse, oggi, di un’ansia da
della zona. Il silenzio nelle fonti prestazione nel rincorrere quelsi interrompe solo grazie a Ta- le città che hanno raggiunto lo
cito, che, malgrado il nome che status di metropoli perfette per
porta, non esitò a raccontare la il giorno (sempre più corto),
quasi totale distruzione del bor- ideali per l’happy hour, e uniche
go a causa di un incendio nel 69 per la movida che ha cancellato
d.C., tempi di crisi istituzionali la notte.
ante litteram, di contese per la C’era pure il reticolo fognario,
successione imperiale dopo la all’epoca dei Romani: di certo,
morte di Nerone.
però, nelle fogne non scorreva
Contadini, scalpellini, fab- cocaina, oggi presente a conbri e tessitori abitavano que- centrazioni elevatissime nelle
sto rettangolo fortificato di acque di quella che fu la prima
760x670metri, circa le misure capitale d’Italia. Drogati, padi una centuria romana, uno lazzinari e modelle nel regno
spazio razionalmente organiz- dei Savoia e nelle terre di Cazato, rispondente alle esigenze vour? Lo racconta Culicchia, rotta, fasulla, alla costante riurbane, sia di carattere pubbli- scrittore nato proprio in questa cerca del fenomeno-evento; deco, con gli edifici per il culto, per metropoli perversa il cui mo- ciso nel descrivere la sua realtà
l’amministrazione della giusti- dello, anche se non esplicito, è per quello che è, cosa che in
zia e delle funzioni di governo, Las Vegas. Coraggioso nel de- pochi si sentono di affrontare.
terme e anfiteatri, che privato, scrivere la sua città come cor- Inquietante ed enigmatica. Lo
con le case ad insula,
pensava anche De
un fac-simile dei moChirico.
derni appartamenti e
E
forse
anche
casette a schiera, la
Nietzsche,
che
domus, il “villone” di
nell’inquietudine si
un tempo e le tabertrovava a suo agio.
nae. Di tanta intelliEnigmatica. Questo
genza edificatoria,
lo credeva NostradaTorino porta ancora
mus, che elesse Toriil segno: la struttura
no, la città “dei due
urbana a maglie orfiumi”, ovvero del
togonali dà a questa
Po, simbolo del sole
città in evoluzione
per gli esoteristi, e
un aspetto ordinato,
della Dora, emblema
quasi fin troppo predella Luna, a luogo
ciso, come se l’Augusta
del mistero del bene
In questa pagina, dall’alto: veduta con la Mole Antonelliana,
Taurinorum di secoli uno scorcio del Parco del Valentino e il Palazzo Regio
e del male, essendo
collocata sia in uno dei vertici
del triangolo della magia bianca (assieme a Praga e Lione) che
della magia nera (con Londra e
San Francisco). Qui Nietzsche,
in preda al delirio, scrisse L’Anticristo, preoccupandosi di dimostrare in che modo un solo
uomo potesse distruggere il
cristianesimo. Qui è conservata, dal 1578, la Sindone, una
delle reliquie più venerate da
chi crede che questo lenzuolo
abbia avvolto il corpo di Gesù
nel sepolcro. Pare, inoltre, che
la diocesi di Torino possa vantare, assieme a quella di Napoli, un nutrito gruppo di santi e
beati. Che sia anche per questo che Venditti canta “Torino
vuol dire Napoli che fa montagna […] Torino è l’altra faccia
della stessa Roma”? A lui lo si
potrebbe chiedere, a Nietzsche
e a Nostradamus diventa più
complicato.
Irrequieta: così vedo Torino
oggi. Impaziente, preoccupata
di sembrare decorosa, degna
del passato che l’ha portata a
essere una dei centri politici
più importanti per la nascita e
la formazione dell’Italia unita.
Imitatrice, già dall’Ottocento,
di quel nuovo modo borghese di
vivere la città. I palazzi affacciati sui grands boulevards stile Parigi, la smania di rassomigliare
alla vicina Francia e l’ansia di
non sfigurare di fronte a Napoleone III. La prospettiva di un
decennio vissuto come capitale
d’Italia, forse un po’ snob, e la
Viaggi
Dicembre 2011
29
Houston, abbiamo un problema
successiva smentita. La ricerca
di una nuova identità, sfumata quella politica-istituzionale,
non fu cosa semplice: Torino
aveva sviluppato un apparato
burocratico- amministrativo
di tutto rispetto (del resto siamo sempre stati bravi in queste cose noi): un settimo della
popolazione era direttamente
impegnato nelle mansioni governative.
Poi, meno male, arriva la Fiat,
nel luglio del 1899; qualche
anno dopo arriva addirittura
un Lingotto. Una città che ha
vissuto per decenni in simbiosi
con i ritmi della fabbrica e con
i turni degli operai: è uno dei
volti, quello della Torino grigia
e monotona, che in tanti, oggi,
vorrebbero cancellare, con la
speranza di spianare la strada
a una metropoli accattivante, alla moda, divertente. Una
Torino quasi eventuale, perché
tutto qui può (e deve?) essere
evento. Augurandosi di entrare
a far parte di nuove triangolazioni diversamente magiche, il
capoluogo piemontese confida
di aprire i propri orizzonti, sostituendo alle città di Milano e
Genova, gli altri due vertici di
quel miracoloso triangolo industriale, capitali più… Culturali?
Non credo, ce n’è da erudirsi
qui. Verdi? Strano, perché non
è poco potersi vantare di essere
una delle città europee più green: se i suoi viali alberati fossero
messi tutti in fila, si otterrebbe
una linea lunga più di 400 Km,
senza contare i 300.000 fiori
che abbelliscono ogni anno le
sue aiuole. Chic? Mah, la vici-
nanza della Francia ha dato
i suoi frutti, nello stile dei palazzi, nei viali lunghissimi che
anche ad attraversarli con la
macchina ci si mette un’eternità, nella cucina raffinata. Storica? È tutta una storia
qui, dai Romani ai
Savoia.
E poi c’è il Museo Nazionale del Cinema,
perché fu proprio Torino la capitale mondiale della produzione cinematografica
dal 1906 al 1916. C’è
il Torino Film Festival, con la sua 29°
edizione conclusasi
pochi giorni fa, il 3
dicembre scorso. E il
Museo delle Antichità Egizie, il secondo
più importante al
mondo, per numero
di reperti, dopo quello del Cairo.
Sembrava non doves-
se mancare nulla, quando invece arrivano i Giochi Olimpici
invernali del 2006: nuove opere
realizzate (oltre sessantacinque)
tra villaggi per gli atleti e per
i media, palazzetti dello sport e
nuovi impianti e quella metropolitana che aspettava di vedere il fondo della terra da almeno settant’anni.
Ha ancora successo la carta
stampata, in questa città, lo
dice la buona riuscita del Salone Internazionale del Libro.
Chi non affoga nell’inchiostro,
lo farà in un bicerin di cioccolato: nacque proprio qui, nel Settecento, questa famosa bevanda calda a base di caffè, cacao e
crema di latte, anche se, a dire
il vero, non era certo una novità per Torino vedere una tazza
di cioccolata bollente. Bisogna
risalire al 1560, quando per fe-
steggiare il trasferimento della
capitale ducale da Chambéry
a Torino, Emanuele Filiberto
di Savoia offrì simbolicamente
alla città proprio una tazza di
cioccolata. Dal gianduiotto, il
primo cioccolatino a essere incartato, presentato al pubblico
durante il carnevale del 1865
dalla maschera piemontese
Gianduja, alle 85.000 tonnellate di cioccolato prodotte nel
distretto goloso di Turin e dintorni. Da quel gianduiotto a
oggi ne sono passati di anni: - 4
per arrivare a 150. Nel frattempo, siamo stati tutti molto impegnati nel festeggiare un altro
150 con (manco a dirlo) tanti
tanti eventi… Viste le premesse, Torino saprà re-inventarsi
anche nel futuro.
Solo a voi viaggiatori non rimarrà nulla da inventare in
una città che già ha immaginato tutto. E anche se qualcuno ha
detto che «Firenze è una città
per sposi, Venezia, per amanti;
Torino, per i vecchi coniugi che
non hanno più nulla da dirsi»,
sappiate che nel capoluogo piemontese all’ombra delle Alpi
potrà essere solo lo stupore che
vi farà restare senza parole.
In questa pagina, dall’alto: un antico
ponte sul Po dipinto da Bernardo Bellotto,
la cancellata del Palazzo Regio
e la sede Fiat a Mirafiori con
la pista di collaudo sul tetto
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Viaggi
Dicembre 2011
Houston, abbiamo un problema
testo e fotografie di Alice Perini
Venaria Reale e Racconigi, il riscatto di due meraviglie d’altri tempi
L’ingegneria che fu: le regge dei Savoia
perficie, 3 mila tonnellate di
pavimentazioni in pietra, mille metri quadrati di affreschi.
Ecco qualche numero di una
residenza in cui il duca committente del progetto volle inserire tutto ciò che poteva ser-
zi immensi, luminosi, smisurati: dalla Galleria Grande, alta
15 metri, larga 11 e lunga 75,
al Salone di Diana progettato
da Amedeo di Castellamonte,
dalla solennità della cappella di
Sant’Uberto, il santo protetto-
c’era bisogno di qualcos’altro,
in particolare, di rivitalizzare
l’economia locale: intorno al
1670, proprio per rispondere a
quest’esigenza, venne chiamato a Venaria un imprenditore
del tempo, il conte Giovanni
Una magia dell’ingegneria:
questa è Venaria Reale. A battezzarla così fu il duca Carlo
Emanuele II di Savoia, che la
elesse sua residenza di piacere,
luogo ideale per ristorarsi dalle
fatiche cittadine e per praticare l’arte della caccia secondo lo
stile dei re, come testimonia il
nome stesso della reggia in latino, Venatio Regia (da cui il legame con l’arte venatoria). Opera
di geniali architetti del Sei e
Settecento, che realizzarono
questo gioiello in pochi anni,
dal 1658 al 1679, il complesso
della Venaria Reale, a soli 5
Km da Torino, ha oggi ritrovato il suo splendore, dopo oltre
due secoli di utilizzo militare e
di abbandono. Otto anni di lavori in quello che è stato il più
grande cantiere d’Europa nel
recupero di un bene culturale
hanno ridonato all’edificio la
vire allo svago: feste, balli, ricevimenti, concerti, battute di
caccia come manifestazione del
proprio prestigio e come momento di aggregazione fra nobili. Raccontarvi di ciò che po-
magnificenza che merita: dalla sua apertura al pubblico, nel
2007, questo luogo Patrimonio
dell’Unesco è uno dei cinque
siti più visitati in Italia.
80 mila metri quadrati di su-
tete vedere è quasi impossibile.
Ogni salone ha il suo perché,
ogni angolo è una testimonianza di qualche importante fatto
storico o di pettegolezzi di corte. È tutto un susseguirsi di spa-
re dei cacciatori, realizzata da
Filippo Juvarra, alle Scuderie,
anch’esse opera dell’architetto
messinese chiamato a Torino
per fare di questa città una capitale di rango europeo.
Parte della magia
sta anche nel ripristino dei giardini,
resi irriconoscibili
da anni di incuria,
nel restauro della
Citroniera, l’antica
serra creata per il
ricovero degli agrumi, e nel riutilizzo
di questi ampi spazi,
tra cui gli 8 mila metri delle ex Scuderie,
per proseguire sulla
strada del recupero
del nostro patrimonio storico-artistico,
tanto che a Venaria
è attivo, dal 2005,
un importante centro per la conservazione dei beni culturali, il terzo in Italia assieme a
quelli di Roma e Firenze. Del
resto, l’intraprendenza di oggi
non può essere da meno di
quella del passato. Per diventare la “Versailles del Piemonte”
Francesco Galleani, che avviò
un filatoio per la produzione
e la lavorazione della seta. Da
allora, la cittadina registrò una
notevole crescita dell’industria
serica, con la nascita di altri
setifici attivi fino al Novecento
inoltrato.
Se il popolo lo ha soprannominato “Re Tentenna” e Giosuè Carducci “Italo Amleto”,
Carlo Alberto di Savoia avrà
forse avuto qualche momento
di incertezza nel suo mestiere
di sovrano. Noi preferiamo legare il suo nome a Racconigi e
ricordarlo per altre imprese: infatti, il sovrano seppe applicare
la sua cultura internazionale
a favore dell’agricoltura piemontese, creando una razza di
mucche, la piemontese per l’appunto; amava passare gran parte del suo tempo in una serra
davvero all’avanguardia, considerata una delle più importanti
in Europa per la varietà delle
specie conservate, costruita non
solo per dare riparo ai fiori più
delicati, ma anche per permettere la crescita di piante tropicali come ananas, palme, banani e orchidee provenienti da
America, Asia e Africa. Il tutto
Quello che per un uomo è
“magia”, per un altro è ingegneria. “Sovrannaturale” è una
parola inconsistente
Robert Anson Heinlein
Viaggi
Dicembre 2011
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Houston, abbiamo un problema
sailles; un secolo dopo all’inglese, con sentieri disegnati in una
natura progettata per apparire
selvaggia; romantico quello
voluto da Carlo Alberto, con
il lago, i ponticelli, le rovine,
la grotta, l’alternarsi di grandi
distese e di boschetti e le prospettive sempre diverse. Era il
cosiddetto “effetto cannocchiale”, studiato per dare risalto
alla sontuosità del palazzo: gli
ospiti, a bordo della loro carrozza, potevano scorgere, attraverso questi cannocchiali (viali
alberati), una parte sempre
diversa della facciata, per coglierla nella sua interezza solo
all’arrivo davanti alla scalinata
d’ingresso. Mattoni rossi e tetti a pagoda per questo castello
che fu testimone di importanti eventi di casa Savoia, dalla
nascita, nel 1904, dell’ultimo
re d’Italia Umberto II, che qui
volle raggruppare gli oltre 3
lo spiedo, lavapiatti, oltre ai
responsabili della sorveglianza
del forno per la panificazione
e chi era incaricato di provvedere alla ghiacciaia. Nella
lunga lista del personale alle
dipendenze del capo degli Uffici di bocca, il coordinatore di
tutti questi dipendenti, esisteva
anche una figura con l’unica
mansione di portare via l’immondizia…
Ufficio di Cucina, per la preparazione dei cibi, Ufficio di Frutteria, Confetteria e Caffè, per
l’approvvigionamento di frutta,
cioccolato, tè, caffè, oltre a tutto il necessario per torte di ogni
genere, Ufficio di Someglieria,
per l’acquisto e la conservazione di vini e liquori e l’Ufficio di
Credenza, per la distribuzione
del pane ai tavoli, per la cura
e la custodia del vasellame:
un’organizzazione impeccabile
all’opera, forse per l’ultima vol-
mila ritratti di famiglia e tutte
le notizie sulla Sindone, all’incontro, nel 1909, con lo zar di
Russia Nicola II.
Dotato in quegli stessi anni di
elettricità, ascensori, radio,
acqua calda e termosifoni, di
Racconigi colpiscono soprattutto le sue splendide cucine attrezzate e l’ingegnosità di chi le
ha realizzate pensando al gran
da fare che avrebbero avuto i
cuochi nel preparare banchetti per centinaia di invitati: nei
sotterranei, dove si trovavano
le cucine, erano all’opera camerieri, servitori, garzoni impegnati nello scarico delle merci, potaggieri addetti a girare
ta, nel 1925, anno in cui si celebra il matrimonio di Mafalda
di Savoia, la principessa morta
tragicamente nel campo di sterminio di Buchenwald.
Mentre percorrete in carrozza
i sentieri del parco, pensate a
quanto sappiamo essere intraprendenti, a volte, noi uomini,
se siamo riusciti a recuperare,
dopo anni di abbandono, queste due immense opere, rintracciando le risorse necessarie per
procedere al restauro, alla manutenzione, alla conservazione
e alla loro valorizzazione. Insomma, per qualcuno sarà magia, per qualcun altro ingegneria; per me è entrambe le cose.
Nella pagina a fianco due vedute del Palazzo e del suo immenso giardino
In questa pagina, sopra monumento con nido di cicogna sulla guglia, sotto
carrozze a Racconigi. A destra pergolato di rose alla Venaria Reale
proprio a Racconigi, il castello
reale preferito da Carlo Alberto. Almeno due mesi all’anno,
specialmente durante il periodo
estivo, il re era solito “rifugiarsi” in questa dimora e nel parco
sconfinato che la circonda, eletto, nel 2010, “Parco più bello
d’Italia”. E una parte del rico-
noscimento va senz’altro a chi,
negli anni, ha trasformato, con
il proprio estro creativo, questo
ambiente adattandolo di volta
in volta al gusto e alla sensibilità dei regnanti. Geometrico e
ordinato quello realizzato alla
fine del Seicento da Le Nôtre,
l’ideatore dei giardini di Ver-
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Viaggi
Dicembre 2011
Giro giro tondo, io giro intorno al mondo
testo e fotografie di Stefano Campostrini
Sole due settimane, il destino di una persona, sogno o son desto?
Come un viaggio ti cambia la vita
Coloro che ci seguono, almeno
dallo scorso numero, ci auguriamo ricordino dell’articolo
dedicato all’inaugurazione della Royal Opera House di Muscat in Oman, il primo teatro
d’opera del Golfo Arabo. Un
eccezionale avvenimento per
un’imperdibile occasione di scoprire il territorio circostante, il
popolo che lo abita e la sua cultura, almeno come fosse stato
un sopralluogo, vista la durata
di “sole” due settimane della
permanenza. Un soggiorno che
ha dato la possibilità a chi scrive, protagonista di quel viaggio
tra l’onirico e il missionario, di
immergersi e stare a contatto
invece concretamente con un
Paese pressoché sconosciuto a
noi occidentali, fortunatamente
perché privo di evidenti tensioni politico-sociali, le quali sempre per prime trovano spazio
nelle cronache e nelle memorie
dall’estero. Sfortunatamente invece la sua fama è decisamente
inferiore a quella che gli spetta
perché si tratta in effetti di una
nazione promettente, desiderosa di aprirsi al mondo e in una
innegabile situazione di sviluppo socio-economico. Parte di
una zona geografica più ampia,
legata al mondo arabo che da
tempo, e da qualche anno maggiormente, non viene vista con
occhio benevolo e con intenzione di apertura e accoglienza. Le
cose stanno probabilmente cambiando, superate le tensioni internazionali e le reciproche dif-
fidenze è auspicabile che ci sia
un avvicinamento e un positivo
scambio tra presenti e future generazioni. Utopia? Difficoltà diplomatiche? Rancori bilaterali
latenti? O magica realtà?
Si tratta di impressioni, relative al
nostro protagonista, che prendono
corpo in lui e fanno
però da trampolino
per una crescente
volontà di ritornare
e provare a stabilirsi per un certo periodo, cercando o
inventandosi un’occupazione e perché
no, coronare un
sogno d’amore, con
tutte le precauzioni
e controindicazioni del caso, dovute
alle inevitabili e
proprio per questo
sacrosante differenze culturali e religiose, non sempre
Da aeroporto ad aeroporto, quante cose da scoprire,
per chi non prende spesso questo mezzo ogni viaggo è sorprendente.
Le due foto in alto riprendono Malpensa, le restanti si riferiscono all’arrivo
e non pienamente compatibili
con le libertà e le possibilità del
mondo fin qui vissuto dall’occidentale.
Differenze si, ma altrettante
analogie, volontà e sogni, sentimenti e forti pulsioni nate e
maturate esplorando e conoscendo quanto di più affascinante circondava lo straniero
in una terra da lui sempre ammirata e indubbiamente non
priva di attrattiva. Tra lavoro
e tempo libero, le opportunità di poter andare alla ricerca
delle bellezze e delle curiosità locali non sono mancate. Il
grande desiderio di avventura
e di libertà hanno fatto gran
parte del resto. Senza perdersi
in uno shopping economicamente infruttifero, in un bagno
della solita piscina dell’hotel
o nella generale “tenuta” da
turista che ormai sempre più
contamina incivilmente ogni
angolo del mondo. Lasciati alle
spalle, almeno in parte, orari e
costumi occidentali, la mentalità e l’atteggiamento del nostro
protagonista sono stati quello
di affrontare con il massimo
rispetto e smisurata passione
l’ambiente locale, il paesaggio,
le persone e i personaggi incontrati, toccando con mano quella che può essere la quotidianità
Viaggi
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Giro giro tondo, io giro intorno al mondo
di quella parte di mondo. Verso
i luoghi consigliati o più visitati, un punto comunque da dove
cominciare per sfruttare tutti i
cinque sensi e percepire quante più caratteristiche possibile,
immagazzinando informazioni
ed emozioni...
Un viaggio in un tempo relativamente corto ma infinito nella sua intensità, a partire dalla
trasferta in aereo. Ogni volo
è un’esperienza unica, regala
dei momenti indimenticabili
che vorresti non finissero mai,
qualunque sia la sua durata.
L’arrivo intermedio è a Doha,
in Qatar, in attesa della coincidenza notturna per la capitale
omanita Muscat, si scende dalla scala dell’aereo e il caldo pregno di umidità assale il gruppo
abituato, nel paese d’origine, ai
primi giorni di autunno. L’effetto è sferzante, quasi debilitante,
ma offre una straordinaria sensazione di appartenenza al luogo. L’aria è desertica e colorata
infatti di sabbia, le luci fisse e
lampeggianti si sovrappongono, da vicino e da lontano. Da
qualche minuto il protagonista
è convinto di non voler già più
traltare al caldo estivo ma non
solo dell’esterno. Un’ulteriore
prova di forza che può aver
scoraggiato alcuni ma divertito
altri. Un sentimento prolungato poi ovunque nei terminal e
nei saloni d’aspetto, invasi dalle
persone più differenti, ognuna
con il suo vestito, la sua storia,
la sua lingua. Tutti in attesa del
proprio volo, alcuni durante
un riposo, altri connessi con il
mondo, altri ancora alle prese con i propri bambini. Ogni
aeroporto, ogni stazione, ogni
autobus sono appunto luoghi di
zione di umanità, insieme lì e in
quel modo, vista con gli occhi di
colui che anche dalla fotografia
è contagiato e rimane praticamente disarmato di fronte agli
spunti e alle ispirazioni che un
luogo come quello può offrire.
Pare quasi un delitto non poter
fotografare in determinate situazioni e contesti, per motivi
di sicurezza e di privacy. Alla
ricerca quindi di obbiettivi architettonici, con qualche sfondo
di umanità, per portare a casa
ricordi, bagliori di istanti passati a camminare, vedere, sentire.
incontro della società.
Un incontro fisico e
personale se si riconosce qualcuno e magari
lo si saluta. Oppure,
in tanti altri casi, un
incontro virtuale ma
altrettanto emozionale
con innumerevoli altre
persone di cui non si
sa nulla ma delle quali
si rimane comunque
attratti e quasi contagiati. Una piccola por-
Per il momento ci fermiamo
qui, sperando di avervi almeno
incuriosito e con la volontà di
tornare presto in quei luoghi,
per ora con la mente e il cuore.
Il viaggio continua...
lasciare quei luoghi, così sorprendenti al primo impatto,
visti poco prima dall’alto e ora
tanto terreni quanto sempre
onirici.
L’attesa è per l’autobus, proprio quel tipo di autobus, quei
grandi mezzi che attraversano
le zone adiacenti alle piste degli
aeromobili e che vanno a portare o a prelevare i viaggiatori.
Un’attrazione strana quella per
questi autobus, sarà per l’abitudine di utilizzarli ogni giorno
nella propria città come luogo
di spostamento e come luogo di “incontro” della società,
sarà forse la strana funzione
che esercitano invece come
luogo di decompressione dalla
pressione atmosferica e dalla
fusoliera all’aria salubre che si
può respirare nei grandi ambienti di un aeroporto e quindi poi all’aperto nelle strade e
nelle piazze in cui si è giunti.
Nel caso in questione i potenti
mezzi motorizzati hanno avuto
anche la funzione di abituare
il poco conscio visitatore agli
sbalzi termici in quelle determinate parti del mondo in cui
l’aria condizionata fa da con-
Ogni fotografia è un condensato di
significati e sottotesti, evidenti o meno.
Qualche ora tra le fila dei viaggiatori,
sia in volo che a terra
riempie la mente di ispirazioni,
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Enogastronomia
Dicembre 2011
Serviti il pasto, cowboy
di Alice Perini
Bagna caöda, Barolo, Gianduiotto…e la calma dello slow food
Tutti nati in una fetta di Piemonte
Tutti i funghi sono commestibili; alcuni una volta sola
Laurence
Raffinata ed elaborata ma pur
sempre di ispirazione contadina: questa è la cucina piemontese. Influenzato dai sapori
delicati della vicina Francia,
il bravo cuoco sa di non poter
fare a meno di alcuni ingredienti strettamente legati alla
tradizione e alla produzione
agricola di quelle zone. La
campagna offre un minestrone di
verdure, mentre nei boschi che
circondano Alba i tartufi sono
in attesa di essere scoperti da
cani addestrati. Qualche tempo
fa, la raccolta di questo prezioso
“corpo fruttifero ipogeo” (ovvero sotterraneo), era compiuta
grazie all’aiuto di maialini, con
l’unico inconveniente che questi animali ne sono a dir poco
ghiotti… Burro, lardo, formaggi, (di cui molti D.O.C.), riso
e sanato, la carne di vitello di
pochi mesi, nutrito solo con latte, sono la base per molti piatti
della cucina locale.
Che l’aglio sia largamente adoperato, non è un mistero: del resto, se Torino è uno dei vertici
del triangolo della magia nera,
l’allium sativum può tornare utile per tenere lontani i vampiri, considerati dei parassiti e,
quindi, da scacciare grazie alle
proprietà antibatteriche e antisettiche di questa pianta. E
nella bagna caöda, uno dei piatti
regionali più conosciuti, l’aglio
non può mancare. Poco importa che nel Rinascimento questo
bulbo dalle origini antichissime
sia stato bandito, assieme alla
cipolla, dalle cucine dei signori (si dice per l’odore pungente
poco adatto alle narici dei nobili); pazienza se anche Shakespeare, in Sogno di una notte di
mezz’estate, fa recitare a un suo
attore di non mangiare aglio,
perché tutti devono avere un
alito gradevole. Almeno 200
grammi (3-4 spicchi a testa),
nella bagna caöda dovete proprio
metterli. Avrete bisogno anche
di acciughe sotto sale, ingrediente di cui la zona del basso
Piemonte è stata, in passato,
molto ricca grazie alla via del
sale che, partendo dalle saline
di Hyères, nel sud della Francia, attraversava le Alpi per arrivare nella valle del fiume Po.
Olio extravergine di oliva, burro e tante verdure da intingere:
cardi, tagliati a pezzi e lavati
con acqua e limone, peperoni
con polpa grossa e senza semi,
topinambur e carote, patate e
cipolle bollite, fette di zucca…
L’importante è che le verdure
non siano aromatiche (da escludere il finocchio, il sedano o i
ravanelli), che le acciughe siano
quelle “rosse di Spagna”, che
l’aglio, privato del suo germoglio, venga lasciato riposare in
acqua fredda (alcuni suggeriscono nel latte) per alcune ore
e che as poncia, come si dice in
dialetto da queste parti. Il pociar
dei veronesi.
Un tegame di coccio sarà perfetto: fate cuocere lentamente,
per circa trenta minuti, l’aglio
assieme alle acciughe dissalate e senza lische. Coprite il
tutto con l’olio e, a fuoco mol-
to basso, lasciate che si formi
una crema omogenea e soffice,
mescolando di tanto in tanto
con un cucchiaio di legno; fate
attenzione all’aglio che non
dovrà rosolarsi né friggere in
pentola. Una volta ottenuta
una poltiglia, aggiungete altro
Qui sopra il Castello di Barolo, sotto la bagna caoda,
in basso nocciole per preparare i gianduiotti (pag. a fianco)
burro, continuate a mescolare
per altri dieci minuti e poi portate in tavola il recipiente con
sotto un fornelletto (il fojòt), per
mantenere calda la salsa. Ogni
commensale vi immergerà le
verdure, accompagnando ogni
boccone con pane casereccio.
Può essere che il vostro appetito non sia sufficientemente saziato, anzi: ciò spiega perché la
bagna caöda sia classificata come
“antipasto”. In questo caso, potete sempre imparare dai contadini che l’hanno inventata e,
se avete ancora fame, rompere
dentro al tegame qualche uovo
e mangiarlo strapazzato assieme all’intingolo rimasto.
Un piatto così rustico abbinato
a un signor vino? Senza dubbio,
meglio ancora se un Barolo, “il
vino dei re e il re dei vini”. E se
a dirlo fu il sovrano Carlo Alberto, un fondo di verità dovrà
pur esserci. I sommelier ritrovano
nel Barolo il profumo di lampone, violetta e vaniglia; chi
lo acquista, a parte una buona
bottiglia invecchiata di almeno
tre anni, si ritrova con il portafoglio un po’ più leggero.
Prezioso e molto richiesto, soprattutto nel 1800, era anche
il cioccolato, già noto ai palati
piemontesi. Ai tempi del blocco
Enogastronomia
Dicembre 2011
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Serviti il pasto, cowboy
Ingredienti per 4 persone
napoleonico, quando le quantità di cacao che giungevano
in Europa scarseggiavano (pur
presentando prezzi esagerati),
l’idea di Michele Prochet dovette risultare ancor più geniale:
amalgamare al cioccolato un
prodotto tipico del territorio, la
nocciola. Nacque così il gianduiotto, cioccolatino che fece
il suo ingresso in società
nel 1865, mentre due
anni più tardi, il buon
Prochet, cui
vennero riconosciuti i
suoi meriti
nella lavorazione del cioccolato, venne inviato all’Accademia di Francia. Non sappiamo
quanto tempo abbia impiegato
costui nel dar vita al “caposti-
pite gianduia”: sappiamo però
che con 150 ore di lavoro, quattro pasticceri hanno creato il
gianduiotto da record, alto due
metri, lungo quattro e largo
uno, per un totale di 40 quintali (il corrispondente di ben 400
mila gianduiotti normali!).
Se di tempi vogliamo parlare,
perché non ricordare lo Slow
food, l’associazione internazionale
no -prof it
nata nel
19 8 6
d a
un’idea
di Carlo Petrini
proprio da queste parti?
Pollenzo e Bra, due cittadine
situate a metà strada fra Cuneo
e Torino, sono la patria di questo movimento che vanta oltre
100 mila iscritti in 150 Paesi:
contro quella fast life folle che
si nutre ai frenetici fast food, la
cultura dello Slow Food si basa
sulla convinzione che tutti hanno il diritto a un’adeguata porzione di piaceri, da assaporare
in modo lento, educando al
gusto e alla corretta alimentazione, salvaguardando il rispetto per le produzioni agricole
tradizionali e promuovendo la
consapevolezza di un modello
alimentare legato alle identità
locali.
E lentamente, come la chiocciolina emblema di questo movimento, ci avviamo verso la
conclusione. Solo qualche consiglio.
La bagna caöda: gustatela con
calma, come facevano i contadini di un tempo, magari in
compagnia di amici, vicino a
un camino in una sera d’autunno. Il Barolo: vista la spesa
per l’acquisto, assaporatelo a
piccoli sorsi. E il gianduiotto?
Mangiatelo senza fretta, tanto
dovete ancora prendere nota
degli ingredienti qui a fianco…
gnam gnam...cotto e sbafato!
• gr. 250 di olio
extravergine di oliva
• gr. 200 di acciughe
sotto sale
• gr. 200 di aglio
• gr. 40 di burro
• verdure da intingere:
cardi, peperoni,
topinambur, patate,
cavoli, cipolle, radicchio,
carote
• pane casereccio
Vuoi pubblicizzare la tua attività
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cell. 349 6171250
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Sport
Dicembre 2011
Quando il gioco si fa duro
di Daniele Adami
A Valencia il saluto dei piloti a Simoncelli, quel giovane ragazzo con i riccioli in testa
Marco, sogno, silenzio, casino, vita
Mi trovavo al lavoro, quella
domenica. Dopo una pausa di
circa dieci minuti (giusto il tempo di bere un bicchiere
di succo) si doveva riprendere. Mi dirigo alla
mia postazione, e all’improvviso vedo arrivare il
mio responsabile, che mi
dice: “Marco Simoncelli
è morto”. Erano le 11.10.
I miei occhi lo fissano
e dalla bocca esce una
sola parola: cosa? Come
se non si volesse aver
sentito. Mi siedo su uno
sgabello, e così rimango
per qualche istante. Non
sentivo più le forze. Facevo fatica ad alzarmi. Ma
dovevo proseguire col
mio compito. Una notizia del genere, però, ti inchioda
al terreno e credi di essere sulla
luna da quanto ogni movimento, anche il più banale, diventa
difficile.
Verso le 13 corro nella stanza
dove si trova un televisore. Il
telegiornale mostra le immagini che avremmo poi rivisto nei
giorni seguenti. L’incidente, il
casco che vola via, le lacrime, gli
sguardi gonfi che fissano il vuoto. Telefono alla mia ragazza, le
dico cosa è successo, lei lo riferisce ai suoi genitori. Poi si rivolge
a me: “Il ragazzo romagnolo?
Quello coi riccioli? Quello sim-
patico?”. Sì, lui. Parole dense di l’accusa alla troppa tecnologia to gli enormi baffi si riusciva a
tristezza, incredulità, dispiace- presente in questo sport. Altre si cogliere un timido sorriso. Ha
re. Il ragazzo coi riccioli, alto, sono fissate sul sentimento di ri- chiesto una cosa, un piccolo desiderio: nell’ultima gara
di Valencia, invece del
consueto minuto di silenzio, un minuto di casino.
Un desiderio che non si
poteva non realizzare.
E così è stato. Domenica
6 novembre, poco dopo
le 10 di mattina, tutte
le moto hanno percorso
un giro di pista in onore
del giovane pilota romagnolo. Sulla sella della
Honda di Simoncelli, il
mito Kevin Schwantz,
campione del mondo
della classe 500 nel 1993.
Giunte sul traguardo, i
motori hanno fatto quel
piuttosto magro, con un preciso
e magnifico biglietto da visita: il
sorriso.
Il tempo scorre, e assieme al
dolore si inizia a parlare di sicurezza, di pericolosità dei circuiti, di alte velocità. Discorsi
che fuoriescono dall’oblio ogni
volta che accade una tragedia.
Marco stava per scivolare nella via di fuga, invece è riuscito
a rimettere le ruote in pista.
Lo sport che amava gli avrà
suggerito, in quei momenti, di
non mollare la moto. Alcune
trasmissioni televisive non sono
state in grado di andare oltre
morso che potrebbe essere nato casino. Davanti, la numero 58.
nel cuore dei genitori di Simon- Poi, a motori spenti, si è tenuto
celli. Poche, davvero, quelle un toccante momento di raccoche sottolineavano l’aver voluto glimento. Lo sguardo di Valendare a un figlio tutto il possibile tino Rossi, il più silenzioso.
per realizzare un sogno. Perché Un ultimo pensiero, magari due.
si tratta di un figlio, una perso- Il primo è intriso di tristezza.
na in cui credere. Una persona Quando un talento dello sport
per la quale si devono fare delle scompare, tenero e sincero nei
rinunce, magari difficili.
confronti di chi lo circondava,
Lo sport di tutto il mondo si è il mondo dovrebbe prendersela
stretto attorno alla famiglia di con se stesso, dovrebbe arrabMarco. La sua Coriano l’ha biarsi, perché una parte di luce
protetto. Le sue moto l’hanno è venuta a mancare. Il secondo
protetto. Anche quella che tene- può essere di conforto. Stava viva vicino al letto di casa. Papà vendo la sua vita, il suo sogno,
Paolo, che indossava una felpa sino all’ultimo istante, col cuore
col numero 58, il giorno del fu- e con accanto la sua famiglia e i
nerale si è seduto accanto alla suoi amici. Lo ha scritto Vasco:
bara, per terra. Sorpreso dal “la vita è un brivido che vola
grande affetto della gente, sot- via”.
Novembre 2011
38Argomento
Libri/Tecnologia
Mese 2011
Ne hanno viste di cose, questi occhi
di Pinco Pallino
Occhiello
Titolo
R I S TO R A N T E
Casale Spighetta
... dove la cucina tradizionale italiana
viene rivisitata con un sapore d'Oriente ...
Casale Spighetta, un nuovo spazio, un sorprendente gioco
architettonico di salette che si intersecano pur rimanendo raccolte
nella loro intimità. L'atrio Nafura, il Lounge panoramico Gioia
& Gaia, la cantina del Trabucco, il Coffee Lounge tutti con arredi
eleganti, diversi, con un tocco d'oriente legati da toni materiali ed
effetti di luce e colore che rispecchiano alla logica di mirabili equilibri.
Le sale esprimono un’atmosfera ariosa ed elegante perfettamente in
linea con la cucina dello Chef Patron. Un’esigenza per chi, come lo
Chef Angelo Zantedeschi va al di la dell’arte culinaria, un grande
amore per la tradizione e l’arte moderma.
Il Casale la Spighetta è un ristorante collocato nelle colline della
Valpolicella a Verona, i suoi ambienti eleganti sono indicati per cene
romantiche, banchetti e cene aziendali. Dal giardino estivo si può
godere di un meraviglioso panorama.
Via Spighetta 15
37020 Torbe di Negrar, Verona
Tel/fax: +39 045 750 21 88
www.casalespighetta.it