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Tullia Pasquali Coluzzi Claudio Falciano Il Viaggio Usi e riti della morte in Campania e altrove O miserae frater adempte mihi tu mea tu moriens fregisti commoda frater… A Peppino, e a tutti i nostri cari che ci sono stati solidali compagni per grande parte del nostro lungo viaggio. Dopo sì lunghi anni guizzati via come pesci nell’acque appannate del cuore, che ci rimane di voi? L’ombra usuale di un gesto, l’eco di un lieve richiamo, la luce cara degli occhi che appare nel buio e si spegne. Prefazione Questo modesto lavoro, come quelli precedenti sul matrimonio e sulla nascita, è stato dettato dall’affetto per le tradizioni popolari e dal conseguente desiderio di tramandare le notizie sulle poche reliquie di esse a quelli che rimangono. Ci siamo serviti di scritti di sociologi quali Mircea Eliade, Ernesto De Martino, Adriano Prosperi ed altri che, con ben altra profondità e competenza, hanno affrontato l’argomento. Tullia ha raccolto, senza pretese di dare al testo carattere scientifico, poche ma significative testimonianze di persone semplici attingendone qualcuna, che dimostra la continuità di rituali e credenze attraverso lunghissimi spazi, da testi del passato remoto e recente e da rari ricordi personali. Lo psicologo Claudio Falciano si è occupato dei risvolti psicologici degli eventi luttuosi all’interno del capitolo IV (I modi di sepoltura. La relazione tra i vivi e i morti: dagli onori alle intercessioni) e nel capitolo V; inoltre ha riportato, commentandoli, nella sezione documentaria passi riguardanti i riti funebri nei poemi classici. 7 Introduzione La morte come frattura nel tessuto familiare e sociale Si ringraziano per il loro affettuoso sostegno alla nascita di questo libricino i professori Orazio Miglino e Franco Rubinacci; per il contributo alla revisione del testo la professoressa Irene Carloni e Silvia Coluzzi, per la foto in copertina il dott. Giovanni Carloni, per il contributo all’impaginazione del testo, Giuseppe Madonna; inoltre la dottoressa Silvia Carloni, il signor Giuseppe Curatolo, il signor Salvatore Chiffi, la signora Angelina Falciano, il signor Michele Tramontano con la moglie Rosa, i signori Raffaele Alligrande di Pomigliano, Patrizio Cordela di Sarno, la signora Immacolata Esposito, la signora Immacolata Odierna, il maestro Alfonso Frezza, la maestra Laura Serra e altri per averci trasmesso preziosi ricordi di vecchie usanze. La morte con la nascita è l’evento più importante nella vita dell’uomo, che non ne può fare esperienza se non per ciò che riguarda gli altri. Fin dalle epoche preistoriche, come è stato notato, essa non è stata ritenuta sempre appartenente alla natura umana; secondo alcune religioni, essa sarebbe causata da comportamenti contrari alle leggi divine1. La morte produce una frattura sia nel tessuto familiare sia in quello sociale, tanto più profonda quanto più importante è il ruolo che il morto vi riveste. Quindi la crisi angosciante da essa determinata deve essere frenata e superata da complessi riti di passaggio come le veglie, le lamentazioni, le esequie, le preci, le messe di suffragio, il colore nero del lutto, tutte manifestazioni che vanno perdendo la loro forza ma che, almeno in parte, persistono soprattutto nel mondo agrario. La necessità di esse viene avvertita già nel paleolitico a cui risalgono sepolture rituali: ossa cosparse di ocra, colore del sangue vivificatore e corredi funebri di oggetti diversificati, in tutte le culture, a seconda del sesso e usati in vita dal defunto affinché lo accompagnino nella seconda vita. Questa si svolge, per la concezione classica, in luoghi fisici ben definiti cui si accede attraverso fratture della terra nascoste 1 Cfr. Renzo Paternoster, La morte: riti, credenze e usanze per demonizzarla, win.storiain.net/arret/num180/artic1.asp. 9 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove Introduzione. La morte come frattura nel tessuto familiare e sociale ed accessibili solo ad esseri privilegiati quali Enea e la Sibilla, Orfeo per la sua Euridice. Platone divide le anime in tre categorie: anime giuste ammesse in una sede beata chiamata “la vera terra”, anime di malvagi irrecuperabili inabissate per sempre nel Tartaro mentre quelle colpevoli di peccati espiabili ne potranno uscire col permesso delle loro vittime; anime di uomini non del tutto buoni né del tutto cattivi che nella palude Acherusia dovranno purificarsi attraverso varie pene prima di accedere alla sede felice – il concetto di questo luogo sembra anticipare quello cristiano del Purgatorio codificato nel XII secolo e proclamato come dogma nel Concilio di Trento. Dall’uomo del medioevo la morte, compagna e protagonista assidua della sua vita a causa di pesti, carestie, pessime condizioni igieniche e rimedi completamenti inadeguati, viene accettata passivamente mentre viene angosciosamente temuta la fine improvvisa che impedisce la confessione e quindi la salvezza dell’anima. Tanto ha a cuore la Chiesa quest’ultima che, anche nei secoli successivi, si cerca di dare il battesimo che liberi dal peccato originale agli infanti in punto di morte talvolta estraendoli anche dal grembo della madre defunta. Ce lo spiega con puntualità e chiarezza Adriano Prosperi nel suo saggio Dare l’anima in cui, prendendo spunto da un infanticidio perpetrato da una popolana nel 1700, analizza il problema postosi dalla Chiesa sulla sorte dei neonati morti senza il sacramento. Questi ultimi, con rigore inflessibile condiviso anche da Sant’Agostino, sono condannati all’Inferno e, in seguito, al limbo, da poco cancellato dalla Chiesa. Nel medioevo, all’Inferno, luogo di pene senza fine, e al Paradiso, sede di eterna letizia verrà aggiunto dalla Chiesa un terzo regno, il Purgatorio, dove le anime di coloro che si sono pentiti e che vagano senza pace possano lavare le loro colpe riscattabili, oltre che dal fuoco purificatore, anche dalle preghiere e dalle messe di suffragio. Da questo luogo di pene spesso esse tornano ai vivi in visione o in sogno per ammonirli e per invocare il loro pietoso ricordo e la loro intercessione. Fu così cristianizzata la credenza che gli spiriti delle persone private delle cerimonie funebri e della sepoltura vagassero tra i vivi disturbandoli finché non venissero pacificati dai riti dovuti. Sempre in età medievale viene istituita dai monaci cluniacensi la festa dei morti del 2 novembre e nasce la leggenda del viaggio dei defunti attraverso un lungo e periglioso cammino detto ponte di S. Giacomo (Santiago per gli spagnoli). Questo perché la zona del santuario di Compostela, meta ancora oggi di assidui pellegrinaggi, era ritenuta, prima della scoperta di Cristoforo Colombo, l’estremo confine della terra da cui i morti si partivano per attraversare il mare e giungere all’ultima dimora. Nel 1700, e in seguito, la morte è un dramma per i sopravvissuti che danno un grande valore di memoria e di esempio alle tombe (cfr. I sepolcri di Foscolo) e ai riti funebri che vengono contaminati con quelli pagani malgrado le ripetute proibizioni della Chiesa. Continuano così, privi di ogni riferimento cristiano, i rituali lussuosi con lodi del morto e lamentazioni che già nel mondo latino erano stati condannati dalle leggi delle XII Tavole. Superata la metà del secolo scorso, in una cultura che vede come fine principale il guadagno e il consumismo, la morte si riduce sempre di più ad un fatto individuale perdendo i connotati di coralità – ma in paesi legati ancora in qualche modo ad un’economia agraria, come quelli vesuviani, persiste una certa partecipazione all’evento luttuoso tramite veglie, visite ai morti, doni alla sua famiglia di zucchero e caffè. Come sottolinea Renzo Paternoster nell’opera citata a cui ci siamo richiamati, «rimuovendo il pensiero della morte, arrivando finanche a banalizzarla, innegabilmente svalutiamo il dono che è la vita». 10 11 Capitolo I L’ultima lotta. Il viaggio -Figlio mio quanti sassi stanno’n ponta a’sta scarpata … che fatica a mette i passi, mo’già vedo’na vallata. Sto cerchenno a calatora Vaglio abballe a scivoglioni. Zeppi e radiche de fora che me sgareno i calzoni; tutte’ste fratte de rovi nun m’aresce da spassalle sento strilli annanzi e aretro; tengo da ssfontà’n canneto. Ma è’sto fuosso, figlio bello, che non pozzo attraversare; zompo a lungo ma’n gn’a faccio l’acqua me jetta de quane -. -Patre mio, si te potria Dà’na mano’n pochettino … Te se squassa’sso torace Steso’n cima a’sso lettino … 13 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove Figlio, l’acqua me trasporta Che paura tengo, Oddio -. -Padre mio, damme’ssa mano Che t’aiuto puro io. Zomba zomba n’atra vota! – -Ecco, figlio, so passato …Io te guardo e piagno piano. ‘O torace s’è fermato2. L’agonia del padre è vissuta dal figlio in forma drammatica tramite un affannoso dialogo con lui che sta percorrendo l’impervio passaggio dalla vita alla morte. Passaggio le cui terribili fasi sono scolpite quasi visivamente dalla dinamica descrizione fatta dal moribondo a cui tenta di dare soccorso l’amore del figlio. La via, intralciata da siepi e canneti, cosparsa di fossi e di sassi nel panorama consueto dei Castelli Romani fatto di vigne scoscese nelle quali si condensava il vissuto del protagonista sembra precorrere il viaggio che, secondo l’immaginario, una volta morto, l’uomo deve affrontare. Questa credenza si è propagata fino a noi dal mondo antico – l’itinerario del defunto è già scolpito in lamine d’oro rinvenute in tombe dell’Italia meridionale risalenti al IV- III secolo a. C. ed è simboleggiato dalla rappresentazione di un personaggio che si avvia verso l’aldilà a piedi, a cavallo o in carrozza, talvolta verso una figura che l’accoglie presso una porta semiaperta. A questo proposito ricordiamo il “Ponte di San Giacomo” creato dal mondo cristiano: sottile come un capello o come una lama, cosparso di punte aguzze e di chiodi, il defunto lo deve percorrere a piedi scalzi per giungere, se buono, in Paradiso o 2 Giulio Montagna, Il sapore della terra, Velletri 1998. 14 Capitolo I. L’ultima lotta. Il viaggio per cadere, se malvagio, nel baratro. Compagno di viaggio con il compito di psicopompo assunto nel mondo classico da Ermes, il latino Mercurio3, è San Giacomo Maggiore in abbigliamento da pellegrino4. Se per l’uomo medievale il cammino che il morente si accingeva a intraprendere era irto di difficoltà, il luogo di destinazione veniva posto nel mondo classico in recessi nascosti a cui nessun mortale poteva accedere in vita se non eroi dal destino glorioso, come Ulisse e Enea, o Orfeo per la sua Euridice5. Per questo lungo e periglioso percorso si pensa che si debba munire il vacuo pellegrino del necessario: a Scafati, paese vesuviano, come riferisce Patrizio Cordella di Sarno, quando il morto è ancora in casa per l’anima che, secondo la credenza, si accinge ad intraprendere il viaggio, si mettono vicino alla “colonnetta” (il comodino) acqua e pane. Se l’ultima lotta (agoné) si protraeva, in Sardegna si ricorreva ad una crudele e nascosta eutanasia praticata da un’esperta 3 Ermes, latino Mercurio, oltre ad essere araldo degli dei, protettore dei viandanti e dei mercanti, ha il compito, munito di una bacchetta magica, il caduceo, e di ali ai piedi, di guidare le anime nel mondo tenebroso dell’Ade. Per questo il morituro, quando più tardi l’aldilà comprese anche luoghi meno cupi, libava a lui pregandolo di condurlo nel luogo buono degli Inferi. Orazio in Carmi I 10, 17-20, con versi leggeri così si rivolge al dio: «Tu le anime pie restituisci alle sedi beate/e con la verga d’oro la lieve turba sospingi/agli dei superni gradito e a quelli della terra profonda». Nell’Iliade il dio accompagna anche Priamo che va a chiedere ad Achille il riscatto del corpo del figlio. 4 La leggenda medievale narra che a San Giacomo Maggiore che si lamentava del fatto che la sua tomba in Galizia non fosse visitata dai pellegrini, Dio rispose: «Chi non ti visita da vivo ti visiterà da morto». E infatti i defunti, prima di arrivare all’ultima dimora, picchiano ad una porticina invisibile del luogo sacro per salutare il santo. Il luogo della sua sepoltura in Galizia è chiamato “Compostela” nome la cui etimologia potrebbe derivare o da “Campus Stellae” per il fatto che la tomba fu rivelata da una pioggia di stelle, o da “Composita tellus” “Terra di sepolture”. 5 In Calabria si credeva o ancora si crede che l’inizio del viaggio avvenga nel silenzio generale, a mezzanotte, annunziato da un sinistro scricchiolio. 15 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove anziana, la “accabadora” (l’accoppatrice) con soffocamento6. Nel mondo agrario della Sabina, ma anche di altre parti, in un tempo non molto lontano, si riteneva che l’uscita dell’anima fosse impedita dalla colpa commessa in vita di avere dolosamente spostato i termini dei campi7 (le pietre di confine sacre ai Romani erano coronate il 23 febbraio, nella festa dei Terminalia con serti di fiori) o dal fatto di avere bruciato o distrutto o sottratto un aratro considerato sacro come il più importante strumento di lavoro; in tali casi si ponevano sotto il collo del morente delle pietre o si faceva passare sopra di lui, a cominciare dalle gambe fino a sotto la nuca, un aratro o un simulacro di esso in cera8. Tutto questo era accompagnato da formule purificatorie9. Aiutava la fine liberatrice adagiare il morituro con i piedi verso la porta quasi che, dopo la morte, alzandosi, egli potesse dirigersi verso l’uscita10. In questa posizione, alcuni anni fa, nei dintorni di Pomigliano, vedemmo esposto un cadavere nell’ingresso di una casa il cui portale era addobbato con veli neri. Costume giunto da lontano se Plinio il Vecchio (Naturalis Historia VII 6 46) ci informa che già ai suoi tempi veniva praticato: «Ritus naturae hominem capite gigni, mos est Capitolo I. L’ultima lotta. Il viaggio pedibus efferri» (“Secondo natura l’uomo si affaccia alla luce con il capo; alla sepoltura, invece, è costume portarlo con i piedi in avanti”). Su uno dei mezzi che si credeva potessero abbreviare l’agonia del morente, si diffonde Adriano Prosperi citando alcune fonti, come Marcel Granet, il medico Scipione Mercurio e un vescovo veronese del 1500. Il primo aveva trovato in Cina analogie di un’usanza praticata nell’antica Roma, cioè quella di deporre il neonato in terra in attesa di essere riconosciuto – dai cinesi il vecchio giunto alla fine della vita riceveva lo stesso trattamento –; il secondo «segnalò che in territorio veronese era diffusa l’abitudine pagana “di por la creatura in terra nuda subito nata”. E continua Prosperi: Ebbene, proprio in quello stesso territorio (il veronese) un vescovo aveva segnalato e proibito qualche tempo prima un analogo rito di deposizione sulla terra che si praticava per i morenti. Il corpo posto sulla terra simboleggiava il legame con la natura. La vita veniva dalla terra e alla terra doveva tornare: per questo si praticava quel rito della deposizione al suolo11. Ma la cultura cristiana ufficiale combatteva quelle rappresentazioni e quei rituali perché alla natura aveva sostituito la fede nella cura per gli esseri umani da parte di un Dio fatto a loro immagine12. V. Sezione documentaria. Mario Pollia-Fabiola Chavez Hualpa, Mio padre mi disse, ed. Il Cerchio, Rimini 2002. 8 Questa usanza è testimoniata già nel 500 da un documento citato più sotto e riportato da Piero Camporesi (La terra e la luna, Milano 1995 p. 21): «… si proibisce di mettere sotto il capo dell’agonizzante due, tre o più pietre, quando egli abbia confessato di avere in vita sua levati o mossi due o tre o più termini dei confini». 9 V. Sezione documentaria. 10 In Irlanda, ce lo riferisce Philippe Ariés (La morte dal medioevo ad oggi), il defunto è portato con i piedi in avanti nel timore che, guardando verso l’interno della casa, possa invitare qualcuno a seguirlo nell’aldilà. Questo tipo di precauzione è adottato anche per il letto: ci si guarda bene dall’orientare la sponda inferiore verso la porta. 11 Il vescovo veronese, però, afferma che quest’uso si praticava “acciò l’ammalato mora più presto.” 12 Adriano Prosperi, Dare l’anima, Torino 2005, pp. 146-147. 13 Nel Sarnese si crede che, se nel vicinato muore una persona, essa venga seguita da una seconda e da una terza durante l’anno secondo il detto «non c’è uno senza due, non c’è due senza tre». E poi, diceva nonna Olga, si ricomincia daccapo. 16 17 6 7 Il sunnominato Patrizio Cordella ricorda che i nonni morirono a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro13 e che alla sua Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove mente di bambino non riuscì, al momento, comprensibile il perché, a differenza dell’uomo cui batteva forte il cuore durante la «pesante» e protratta agonia, la fine della moglie fosse stata istantanea e priva di sofferenza: infatti, fattasi portare su una sedia sulla soglia della camera, si spense «come una candela» mentre un fascio di raggi piovuti da un cielo coperto di nuvole, l’avvolgeva. Patrizio, più tardi «vedette» la causa della «differenza tra l’agonia breve e quella lunga»: la nonna aveva vissuto amando per tutta la vita il marito («Un solo Dio, un solo marito»); il nonno, invece, l’aveva tradita. Di un amorevole invito a staccarsi dal corpo è stata testimone Mena di Napoli. Mentre si protraeva l’agonia dello zio, la moglie, una calabrese trasferitasi bambina a Milano, china su di lui gli sussurrava: «Antonio, non vuoi andare? Tua sorella Laura ti aspetta». E, appena lui ebbe dato l’ultimo respiro, spalancò le finestre affinché lo spirito fosse libero di volare via dal carcere corporeo14. Peppe Curatolo di Caltanissetta rivede ancora (erano gli anni 40 e aveva allora circa quattro anni) la bisnonna Rosina che apriva con una canna una finestrella che, posta in alto, affacciava sul cortile, per dare libera entrata alle anime di parenti, amici e conoscenti venute a salutare il defunto e ad accompagnarlo all’ultima destinazione. L’antichità Capitolo I. L’ultima lotta. Il viaggio di questa usanza è dimostrata da un documento uscito dalla curia del cardinale Gabriele Paleotti (1522-1579) e pubblicato nell’Episcopale bononiensis civitatis, in cui la Chiesa prese posizione – nello spirito della nuova regolamentazione tridentina – di “abusi et superstitioni et indecenzie intorno ai funerali che si avevano a proibire al popolo dai curati”». Una di queste severe proibizioni riguardava appunto l’apertura di finestre o addirittura lo scoperchiamento parziale del tetto per fare uscire l’anima dell’agonizzante15. Era, ed è ancora, usanza nell’imminenza del trapasso o subito dopo, coprire gli specchi o voltarli verso la parete, e velare le statue e i quadri16: assistette a questa cerimonia Peppe Curatolo, sopra nominato, allora adolescente, forse in occasione della morte di nonna Rosina, quando ebbe modo anche di sentire le lamentazioni e le lodi della defunta da parte di donne prezzolate. E degli specchi vestiti del bianco delle lenzuola ha ancora viva l’immagine una giovane donna, Teresa Fusco, che, bambina, se ne domandava il perché. Venuta dall’Argentina, abitava a Napoli, in via Cappella Vecchia, nei pressi di Piazza dei Martiri, in un ex convento dove morivano con una certa frequenza, quando la vita non si era ancora paurosamente al- 14 Secondo un’altra interpretazione le finestre si aprono affinché possano entrare gli spiriti dei trapassati a prelevare e accompagnare l’anima del loro parente verso la dimora definitiva. Vi è anche la credenza che i parenti morti, nell’attesa dell’ultimo respiro del loro congiunto, si posizionino ai piedi del letto, luogo, quindi, che non deve essere occupato dai vivi. Nel mondo classico il divieto era giustificato dal fatto che la divinità greca che presiede alla sepoltura, Thanatos, attendeva proprio lì la fine mentre il fratello Hypnos, il sonno, stava al capezzale. Pina, la collaboratrice del parrucchiere, signor Tramontano, ricorda che la nonna moribonda esortava le persone a non mettersi sedute sul letto su cui dovevano stare i morti o gli angeli:«Nun v’assettat’ncopp’o liett’, nu vedit ca stann e criature?». 15 Piero Camporesi, La terra e la luna, Milano 1995 pp. 20-21. Nelle valli dell’Adda era consuetudine costruire una piccola apertura nella camera da letto, verso oriente, perché l’anima dell’agonizzante non fosse trattenuta all’interno della casa e non disturbasse gli abitanti. In direzione dell’Oriente era posizionato nel mondo vetero cristiano il giaciglio del moribondo o del morto come luogo da cui si aspettava che, alla fine del mondo, venisse Cristo a giudicare i vivi e i morti. Ce ne dà testimonianza anche Gregorio di Nissa (IV sec.) quando, parlando ne “La vita di Macrina” della morte della sorella dedita alla vita ascetica, ricorda che il letto di lei fu rivolto ad oriente. 16 Frazer (“Il ramo d’oro” vol. I p.301 sgg) afferma che l’usanza è dovuta al fatto che «si teme che l’anima proiettata fuori di una persona (di casa) sotto forma del suo riflesso possa essere portata via dallo spirito del defunto che comunemente si crede rimanga ancora per casa fino al suo funerale». 18 19 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove lungata, persone di una certa età e lei con sua madre andava a porgere le condoglianze. L’uso è ancora vivo nella città; ce lo ha confermato un tassista spiegandocene il motivo: può capitare che l’anima corra il rischio, rimanendo catturata dalla superficie riflettente, di rimanere prigioniera in casa a scapito soprattutto dei vivi. In varie parti d’Europa, e non solo, vigeva ma ancora resiste, il tabù dei nodi che si rifà alla magia simpatica: ogni nodo, ogni catenaccio o chiusura è di impedimento a determinate azioni o eventi: per questo, come si sciolgono tutti i legamenti che impediscano l’unione matrimoniale o il parto, così essi vengono rimossi dagli abiti dei morituri e dei morti insieme con gli anelli e gli orecchini (ma forse quest’ultima azione è dettata anche dal timore che oggetti di valore possano essere rubati). Ci capitava, non ricordo precisamente gli anni dato che ciò si è andato perdendo molto lentamente, di incontrare, preceduti da un suono triste di campanello, un prete con paramenti sacri e un chierichetto che lo copriva con un piccolo baldacchino, una specie di ombrello: andavano a portare l’olio santo a un moribondo per l’Estrema Unzione. A questo si fa risalire il tabù per il quale colui che inavvertitamente si avventuri ad entrare in un negozio o in una casa con l’ombrello aperto, è invitato con parole rudi a chiuderlo. E viene con paura riprovato anche il gesto di posare il cappello sul letto: così, infatti, faceva il prete accingendosi a impartire l’ultimo sacramento. Capitolo II La morte Preparazione al passaggio I cambiamenti della vita, come la morte di una persona cara, la perdita di un figlio o il suo dolore, la separazione dal coniuge, hanno bisogno, per essere elaborati e quindi accettati, di precisi rituali che con idea innovativa vengono individuati da A. Van Gennep come “riti di passaggio”. Per quanto riguarda la morte che determina una terribile frattura contaminante, si ricorre da tempi immemorabili a strategie per esorcizzarla, per placare gli spiriti e aiutarli nella conquista di un luogo di pace: nel mondo antico esse consistevano nel compianto, in sacrifici, in banchetti presso la tomba e offerte di cibo e di acqua, cerimonie che ancora persistono in qualche luogo; nel mondo cristiano in messe di suffragio e preghiere. Uno dei tanti rituali funebri, quello per il corpo di Miseno che, rimasto insepolto, contamina la flotta, viene descritto da Virgilio: Enea fa innalzare una pira con rami di pino e di quercia, e piantare davanti funerei cipressi, lavare il cadavere con acqua calda, cospargerlo con unguenti, adagiarlo sul rogo e gettarvi le vesti17. «Altri si avvicinano all’alto feretro / compito triste e, secondo l’avito costume, / con il viso voltato appiccano il fuo17 L’apologeta Tertulliano riprova questo uso pagano che andava perpetuandosi anche tra i cristiani. 20 21 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove co». Spento il rogo, le ossa vengono lavate col vino e chiuse in un’urna di bronzo. Uno degli amici purifica, con un ramoscello di ulivo immerso nell’acqua lustrale, i compagni proprio come fa ora il sacerdote al momento della benedizione della salma.18 In molte parti d’Italia, specie nel sud, quando le azioni usuali giornaliere vengono interrotte dall’evento luttuoso e il focolare deve rimanere spento, i parenti o i vicini portano alla famiglia il pranzo pronto, a base soprattutto di brodo corroborante. Il cibo è posto in un cesto o, come in Sabina, nella “coppa”, un recipiente di legno, unità di misura dei cereali da seminare in una data estensione di terreno. Questo uso attiene ad un’arcaica cultura agraria in cui il mondo sotterraneo non appartiene solo ai morti ma anche alla vita che rampolla dal seme nascosto nel grembo della madre terra. Gli stipiti della porta della casa in cui giace il defunto vengono addobbati con drappi neri o viola19 arricchiti un tempo da una collana di agli che, come si sa, con il loro odore acuto sono un ottimo repellente contro il diavolo, sostituto delle antiche streghe – per la morte di un bimbo si appendevano fuori della casa anche ferri di cavallo o un crocefisso per impedire l’entrata alle cattive presenze. In qualche parte del Sarnese – lo ricorda una vecchia signora – per tenere lontani dalla casa in Virgilio, Aen. VI vv. 212-231. In tempi più lontani i paramenti erano costituiti da larghi nastri di velluto nero. Nell’antica Roma la porta della casa del defunto era ornata di rami di cipresso e di pino, come ci riferisce Plinio il Vecchio: «alberi ferali posti vicino alla porta come segnale di morte, privi di frutti, poco generosi di ombra». Gaetano Amalfi (La culla, il talamo, la tomba Pompei 1892) ipotizza che queste strisce di tessuto siano «forse lontana reminiscenza del cipresso o pino romano conficcato in terra perché i pontefici si astenessero dall’entrare e restare contaminati». Johann Bachofen (Il simbolismo funerario degli antichi Napoli 1989 p. 199) scrive che i nastri «sono associati alle divinità materne, proprio in quanto prodotto della tessitura e hanno un rapporto specifico con i sepolcri perché congiungono a ritmo alterno l’apparire e lo sparire dei fili… ». 18 19 22 Capitolo II. La morte lutto e quindi più facile ad essere contaminata, gli spiriti maligni20, si accendeva un fuocherello forse perpetuazione della suffitio fatta dai romani con un ramo di alloro passato sulla fiamma per impedire la contaminazione della morte21. La credenza che il cadavere, soprattutto quello dei piccoli, potesse essere preda di esseri malefici, come le streghe, ha una autorevole conferma in un passo del “Satyricon” di Petronio in cui il corpo di un giovinetto, malgrado la presenza di un nerboruto custode, viene attaccato dalle strigi e ridotto ad un fantoccio di paglia, privo degli organi interni22. La prima pietosa e spontanea azione nei confronti del morto, quella di chiudergli gli occhi, ha forse una valenza apotropaica perché il suo sguardo terribile, vacuo e privo ormai di luce, potrebbe attirare il vivo. Plinio il Vecchio tenta di darcene una spiegazione nella Naturalis Historia XI 150: «Secondo l’usanza romana ai morenti si chiudono gli occhi e di nuovo li si riaprono quando il cadavere è sul rogo e perché non è lecito che essi siano visti da alcuno nel momento supremo e perché è empio non mostrarli al cielo». Nell’Italia meridionale, a Potenza e a Cosenza, gli occhi del morto che rimangono aperti portano un terribile presagio: a quel lutto familiare presto ne seguirà a breve un altro. Passati i tempi in cui il morto veniva avvolto in un sudario, si ricorreva, dopo aver lavato il corpo, ad indumenti nuovi23 20 Che l’aglio abbia avuto sempre una funzione apotropaica è documentato ampiamente. Esso ha una sua presenza autorevole anche contro Dracula, orribile personaggio del romanzo gotico dell’irlandese Bram Stoker del 1897, passato poi ai fumetti. 21 I romani ponevano vicino al letto funebre le acerrae, cassette in cui bruciavano incensi e altre essenze profumate che, essendo volatili, si credeva potessero venire più facilmente in contatto col mondo superiore.. 22 Petronio, Satyricon 63.5 (cfr. Sezione documentaria). 23 In Calabria, se uomo, il defunto era (od è) lasciato con i piedi nudi, se 23 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove spesso preparati per le donne già nel corredo di sposa. Erano contenuti nella “mappatella” fatta di biancheria da letto e intima; vi erano aggiunte “‘e scuolle”, triangoli di lino ricamati che, oltre che per il fine lugubre di tenere chiusa la bocca del morto, servivano anche, con pezzi di patata all’interno, contro il mal di testa dei vivi24. Anche la signora Filomena Di Napoli aveva indicato alla nipote Mena il posto segreto in cui aveva riposto la sua “mappatella” per conservare, anche da morta, un dignitoso pudore. Il vestiario vecchio e il materasso venivano bruciati affinché, a causa della magia simpatica, non richiamassero indietro l’anima del morto. Ma, ci racconta la signora Angelina di Sarno, lei, come altri, mise nelle bare del padre e della madre gli ultimi indumenti da loro indossati dopo averli attorcigliati. Candele che sostituiscono le lampade ad olio degli antichi tempi sono accese ai lati del letto funebre nella camera che per questo viene chiamata “camera ardente” (questa usanza potrebbe riflettere inconsapevolmente l’antica credenza, applicata anche alle culle dei neonati, della luce come custode contro le cattive presenze). La suddetta signora Angelina Falciano riferisce ancora che per la vestizione si chiude la porta che viene riaperta in seguito per dare libera entrata ai visitatori – secondo altri, per permettere alle anime degli antenati di accompagnare agli estremi riti il caro parente. A mezzanotte, poi, si lascia nella stanza chiusa il morto da solo con tutte le luci accese, per lui ultime ormai, e le finestre aperte in modo che gli spiriti, buoni o cattivi, pos- Capitolo II. La morte sano entrare e portare via l’anima. Riaperta la porta, si ha cura di osservare con trepidazione i lineamenti del proprio caro: se sono distesi e sereni, danno il messaggio di un viaggio verso il mondo celeste, altrimenti la crudele notizia di una dolorosa discesa dell’anima nel regno dell’eterna pena. Vestito il defunto con abiti decorosi (la cravatta è senza il nodo che impedirebbe il distacco dell’anima dal corpo), lo si pone nella cassa. Ma da qualche tempo – ce lo riferiscono donne sarnesi – si usa lasciare il defunto con il pigiama o con la camicia da notte prendendosi cura di riporre ben piegati vicino al corpo gli abiti “buoni” e le scarpe nuove da indossare nell’aldilà in modo da non fare una brutta figura. E questo prolungarsi oltre la morte di una sorta di rispetto umano provinciale denota una radicata concezione inconsapevole di un oltretomba pagano. Un tempo, circa quaranta anni fa, l’imbottitura interna della bara che non esisteva o era troppo costosa, era sostituita con foglie profumate di limone e di altri agrumi di cui si riempiva talvolta anche una federa. Si dava così seguito inconsapevolmente all’usanza dei greci e dei latini di usare per i riti funebri piante mediterranee aromatiche, come il mirto, l’alloro, l’origano e il rosmarino25. Ramoscelli di quest’ultimo – il nome significa “rugiada marina” ed è simbolo dell’immortalità dell’anima – venivano posti dagli antichi tra le mani dei defunti o bruciati al posto dell’incenso26 mentre col rametto di origano immerso nell’acqua catartica si aspergeva il cadavere; donna, viene abbigliata con una veste sciolta forse perché nodi di qualsiasi genere possono impedire la libera uscita dell’anima. 24 Questo fatto ha dato origine al detto napoletano «’nce vonne’e scuolle’n fronte» che allude, metaforicamente parlando, al male di testa provocato da qualche preoccupazione. 25 Plinio (Nat. Hist. XXXV, 160) ci riferisce che lo scrittore latino Varrone fu sepolto nel 27 a. C. dentro un sarcofago di terracotta «secondo l’uso pitagorico immerso in foglie di mirto, di pioppo nero e di olivo». 26 Ancora oggi accanto alla salma vengono deposti sulle braci foglie di ulivo e grani d’incenso, aroma che nel mondo antico veniva ricollegato con la divinità a cui facilitava l’accesso; in chiesa la bara viene incensata dal sacerdote. 24 25 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove il rosmarino, inoltre, fino alle soglie del XX secolo, adornava come pianta del ricordo, con altri fiori, i funerali. Il capo del defunto veniva appoggiato delicatamente su un piatto “accopputo”– ce lo racconta sempre col suo linguaggio semplice Patrizio Cordella. Questo tipo rustico di poggiatesta ci richiama la tegola spezzata di cui l’imago di Cinzia morta si lamenta con Properzio per averle ferito il capo (laesit et obiectum tegula curta caput)27. Diverse modalità di riti venivano seguite a seconda dell’età e della condizione del defunto: a Marigliano, quando moriva un prete, si bagnava la salma con acqua e sale, la si vestiva con la tunica e le si poneva vicino un calice di vino bianco e del pane, chiaro simbolismo del sacrificio eucaristico. Il corpo di una ragazza sposata da poco o vicina alle nozze veniva abbigliato col tanto desiderato abito bianco e le si poneva tra le mani o accanto una ciocca di capelli del fidanzato o marito. Al momento della sepoltura della giovane – ce lo riferisce Raffaele Alligrande, alunno di Irene Carloni – si gettavano nella fossa rose e gigli, segno di purezza. Dopo essere stato cosparso di acqua santa, anche il corpicino del bambino morto veniva abbigliato con vesti candide come la sua breve vita; vicino era posto un bicchiere d’acqua, intorno e sul letto, si spandevano petali di rose bianche e confetti, nelle manine profumava una rosa bianca senza spine perché la piccola anima potesse uscire senza farsi male – di questo particolare patetico ci informa il sunnominato Raffaele Alligrande di Pomigliano d’Arco28 che ci riferisce altre notizie sulle usanze funebri e sulle reliquie di esse. Di fiori e confetti sparsi sul cor- Capitolo II. La morte picino di un bimbo esposto in una chiesa di Capri si sofferma brevemente nella seconda metà dell’ottocento Gregorovius: …Era coperto da un velo bianco sul quale erano sparsi fiori e mandorle zuccherate; è difficile che il bambino in vita abbia assaggiato quei dolci; però quando sono morti si danno ai poveri bambini dei pescatori perché servano loro di gioco nella tomba. Il bambino fu portato senza alcuna cerimonia nella cripta della chiesa dove, secondo un’antica usanza, tutti i defunti vengono tuttora seppelliti…29 In vaghi ricordi della mia infanzia nei Castelli Romani affiora la visione funerea di personaggi con tunica bianca, mantello e cappuccio nero; quest’ultimo, a punta e con buchi per gli occhi e per la bocca30, mi è rimasto impresso come segno triste e misterioso di morte. Non ricordo se vedevo questi “incappucciati” nelle processioni del Venerdì Santo o al seguito dei funerali o in ambedue le circostanze. La lettura di un libro di Maurizio Tiberi, Un tenore dall’800, mi ha confermato che, almeno in Lanuvio, esisteva, ancora agli inizi del’900, l’usanza venuta dal medioevo di andare da parte di appartenenti ad una confraternita (in questo paese quella di S. Maria delle Grazie) a prelevare il defunto a casa per accompagnarlo in chiesa. Ce lo testimonia il protagonista del suddetto libro, il grande tenore lanuvino Giacomo Lauri Volpi, che con intensa commozione così rievoca la morte prematura della mamma: Properzio, Elegia 4, 7. Ma già alla fine dell’Ottocento G. Amalfi nel suo libro più su citato, dice che nelle mani dell’innocente era posto un mazzolino di fiori e nella bocca un garofano. Il funerale era seguito da coetanei vestiti da angioletti come avviene ora nelle processioni. Gregorovius, Passeggiate per l’Italia, Bologna 1968 vol. IV p. 97. Costoro appartengono alle Confraternite laiche, le prime delle quali nacquero per dare ai propri membri morti degni funerali e suffragi e a quelli malati mutuo soccorso. Della continuità di questa usanza fino ai primi del secolo scorso ci dà testimonianza, attraverso il ricordo del padre, Simone, il maestro lanuvino Alfonso Frezza: il nonno di cui porta il nome venne trasportato all’ospedale per un’operazione dai membri della sua confraternita. Di sodalizi laici si hanno notizie a Napoli dove presero il nome di “Staurite” verso il 900. 26 27 27 28 29 30 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove E la morte liberatrice sopravvenne: la bella morte che non altera i lineamenti e compone le sembianze nella dolcezza di gradevole sogno… Io vedevo fantasmi in ogni ombra della terrazza e della Torre, rifugio di colombe, civette e barbagianni. Il sangue mi si agghiacciava dallo spavento. I fantasmi vennero il giorno seguente sotto le spoglie di fratelli incappucciati e intonacati di nero e me la portarono via, mia madre. A sette anni certe visioni non si cancellano più nella memoria. Credetti che gli incappucciati mi avessero rapito la mamma che poco prima mi era apparsa rosea, sorridente come viva nella bara coperta di fiori …31 In Campania chi ne aveva la possibilità faceva trasportare il feretro da un tiro di sei cavalli bianchi seguito da una lunga fila di orfanelli o orfanelle32 con i ceri accesi mentre da finestre e balconi le persone facevano cadere una pioggia di fiori e di riso sulla bara, in silenzio, senza gli applausi di cui oggi si fa grande uso, inopportuni dal momento che l’evento è triste e il morto non può sentire. Anni orsono assistemmo proprio noi, a Sant’Agata dei Goti, al funerale di un bambino e al fitto getto di confetti bianchi durante il percorso. Di un tipo di trasporto funebre di un piccino ci dà testimonianza Goethe nel suo Viaggio in Italia scritto sullo scorcio del 1700: colori vivaci dei paramenti, fregi d’oro e d’argento sulla piccola bara in cui, quasi “soffocato tra i nastri rosa”, giace il morticino vestito del bianco della sua innocenza; ai lati quattro angeli con mazzi di fiori che, attaccati a fili di ferro, dondolano33. Capitolo II. La morte Prima ancora, durante la notte che precede il trasporto, il defunto, non viene lasciato solo ma lo si veglia recitando il rosario inframmezzato da ricordi di lui.34 In segno di lutto, in molti luoghi del mondo e d’Italia, specie nelle campagne, almeno fino ai primi anni del secolo scorso, nella casa colpita dal lutto venivano sospesi i lavori casalinghi: il fuoco era spento, la panificazione interrotta, non si spazzava né si spolverava nel timore che così potesse essere espulsa anche l’anima ancora indugiante all’interno. Da quando e dove si è andata spegnendo l’usanza venuta da tempi remoti quella forma gridata di epicedio intonata da familiari o donne prezzolate chiamate nel mondo latino “praeficae”?35 Oltre che dal libro famoso di E. de Martino, ce ne viene notizia da un libricino di Gaetano Amalfi, sopra citato. Erano manifestazioni di rimpianto per avere perduto, con la morte del proprio caro, le cure di lui (ma si parla – non si sa quanto affettuosamente – anche di botte). Quei lamenti si chiamavano “riepeto” cioè “rammento ripetuto delle azioni del defunto” e contenevano formule fisse: «Ah, quanno me regalaje chillo bello moccaturo! / Ah quanno me dava tante mazzate!»36. Spesso il riepeto era accompagnato da un furioso schiaffeggiarsi, graffiarsi e strapparsi i capelli; era il “riepeto vattuto” tutto al femminile fin dal tempo antico perché il principio della natura che domina sulla vita e la morte è femminile… Dopo la morte, solo la madre resta accanto al cadavere, Maurizio Tiberi, Un tenore dall’800 S.R.M.A.R. p. 26. 32 Nonna Olga che a Potenza, piccolissima, viveva in un triste orfanotrofio, raccontava che le pessime suore costrinsero in un giorno invernale una bimba malata a seguire con le altre il feretro per non perdere il cero donato dai parenti; la piccina morì sottraendosi così ad ulteriori torture. 33 Cfr. sezione documentaria. 34 Una simile, ma più moderna, commemorazione è stata vissuta recentemente a Roma dalla famiglia di John Benda che, riunitasi nella casa del nonno, morto da poco, lo ha ricordato con filmini sulla vita con lui condivisa. 35 Il termine proviene dal latino praeficere e significa “colei che presiede alle lamentazioni” o, come scrive lo storico latino Festo “quella che dà il ritmo del lamento”. 36 G. Amalfi, op. cit. p. 62. 28 29 31 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove che si tratti della Madre Terra o di una donna terrena che prenda il suo posto; in ogni momento, nella nascita e nella morte, la madre appare davvero come Gea (“Terra”), Gyné (“Donna”)… Sono le donne “Le amanti del lamento” (φιλόϑρηνοι γυναικες) che eseguono il lamento funebre…37». Questi rituali, come si è detto, sono simili in molte età e in molti luoghi e testimoniati largamente dalle arti figurative, anche le più primitive, e dalle letterature, specie quelle del mondo classico come i poemi omerici e i drammi. Nella parodo dell’“Alcesti” di Euripide38 il coro che avanza si meraviglia del silenzio che regna nella dimora di Admeto e una parte di esso teme che la sposa di lui sia morta, una parte spera che sia ancora viva dal momento che non vede segni di lutto né sente il battere delle mani: Non vedo davanti alle porte / l’acqua lustrale come è d’uso / presso le porte dei morti / né chioma recisa nell’atrio / segni di lutto per i defunti; / non risuona il batter di mani di giovani donne39. In luoghi della costiera al lamento di una singola persona faceva eco la riconferma del coro:«Ier’overo, ier’overo». Per l’Aldilà le più care cose Nella cassa vengono con amorosa cura deposti gli oggetti usati in vita, i più cari: occhiali, forbicine e, a fianco al corpo, le Johann Jacob Bachofen, op. cit. pp. 268 e 244. Alcesti si offre di morire al posto del marito Admeto ma Eracle in compenso della benevola accoglienza fattagli malgrado il grave lutto della casa, scende agli Inferi e la riporta tra i vivi. 39 Euripide, Alcesti vv.98-101. 37 38 30 Capitolo II. La morte scarpe affinché il defunto si presenti in forma perfetta nell’aldilà. Vicino al corpo del nonno di Patrizio vennero deposti una bottiglia di vino, noci, nocciole e una busta della terra della campagna che aveva coltivato. Durante l’alluvione del 1998 a Sarno, Immacolata Esposito trovò nel fango da cui era stata sepolta tutta la famiglia del fratello, un borsellino con il denaro. Lo mise nella bara accanto alla salma della cognata perché era “cosa sua”. Il signor Michele Tramontano, parrucchiere di Mariglianella, testimonia che la cugina fornì il papà defunto di occhiali per lettura, penna e settimana enigmistica perché «Lui amava tantissimo cruciverba e rebus». Una sua zia, invece, depose nella bara del marito la protesi della gamba e il bastone «per poterlo far camminare nell’altra dimensione». Già E. de Martino, attraverso il lamento di una vedova lucana, testimonia questa usanza pagana per cui «lo stesso Aldilà si configura come un mondo che continua in forma larvale e evanescente quello nel quale viviamo». Dopo avere esaltato le virtù attive del marito defunto, la donna elenca le cose deposte nella bara: …due camicie, una nuova, una rattoppata, bene della tua donna; la tovaglia per pulirti la faccia all’altro mondo…; due paia di mutande, uno nuovo e uno con la toppa sul sedere; e poi ti ho messo la pipa… ché eri appassionato del fumo… E ora per chi debbo mandarti il sigaro all’altro mondo, bene della tua donna?40 Pasquale che ha la bancarella in via S. Chiara, a Napoli, ci riferisce che, quando morì un conosciuto pizzaiolo del quartiere, i figli gli deposero ai fianchi e ai piedi molte monete, come si fa o si faceva in Calabria per pagare il diritto di accesso all’altro mondo; si perpetuava così l’usanza antica, non però sistematica, 40 E. De Martino, Morte e pianto rituale, Torino 1975 p. 81. 31 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove attestata dal V secolo a. C., di porre nella bocca del morto o sul petto o nella mano o ai suoi fianchi, l’obolo per il burbero traghettatore delle anime, Caronte41. Questa usanza non attestata nel Vecchio Testamento viene alquanto sporadicamente testimoniata da ritrovamenti di sepolcri ebraici del I secolo e proviene probabilmente dalla cultura dei romani dominatori. La moneta come viatico per un mondo ultramondano42 fu sostituita dai primi cristiani provenienti dall’Africa e dall’Asia con l’Ostia consacrata che, in seguito, perché non fosse contaminata dal disfacimento del corpo, veniva chiusa in una teca con la scritta Christus est hic; l’usanza si spense verso il 1200 quando, al posto dell’Ostia, accompagnò il defunto il Crocifisso e poi il rosario. Dell’uso di porre denaro vicino al morto, parlando del viaggio che dobbiamo intraprendere dopo la fine, ci fa uno “sfizioso” quadretto Pietrangelo Buttafuoco in un articolo de “Il Giornale” del12 giugno 2013: Tra la vita e la morte c’è quindi l’andare, il dovere andare. È il cammino oltre il quale, prima della destinazione, c’è il pedaggio. Mi ricordo della morte di zio Peppino. Sua figlia, Concettina, gli mise una banconota da mille lire in tasca. È un retaggio questo di sana sensibilità pagana. Serve a pagare il debito con Caronte. Qualcuno, 41 A Napoli, nella necropoli rinvenuta in via Santa Teresa degli Scalzi, dietro il Museo, furono trovate monete di bronzo, risalenti ad un periodo che va dagli ultimi anni del IV secolo a. C. al III, nella bocca dei morti ad esclusione dei bambini – si ipotizza che la ragione di ciò possa essere il fatto che i piccoli per la loro innocenza non devono pagare pena. Secondo l’ipotesi di qualche studioso, la moneta, per il materiale metallico e per la forma rotonda, avrebbe potuto avere anche una valenza apotropaica con l’impedire alle malefiche presenze di introdursi nel corpo del defunto e di funestare così il mondo dei vivi. Ma altri pensano che il denaro messo nella bara costituisca una forma di risarcimento per il morto che ha dovuto lasciare quanto ha accumulato. 42 In Abruzzo la moneta sarebbe dovuta servire per pagare il traghetto del Giordano, in Sardegna per darla all’Angelo nocchiero. 32 Capitolo II. La morte il solito moderno, s’infastidì del gesto: «I soldi?». Fu Santina Lo Gioco, spiritosa sempre, a rendere chiaro il tutto ai parvenü della laicità obbligata convenuti al consòlo. Parlò con estrema serietà, Santina: «Nessuna meraviglia. E così, quando arriva, con i soldi che gli restano, zio Peppino si compra il gelato». Nel quando si arriva c’è il senso tra la vita e la morte, il cominciare a esistere oltre la vita e la morte è il pedaggio, ovvero, anche l’eventualità di comprarsi un gelato. Ma non basta: qualche vicina di casa che abbia perduto precedentemente uno stretto parente, consegna degli oggetti di lui da mettere nella bara per essergli consegnati, soprattutto pacchetti di sigarette che intanto non lo possono più danneggiare. L’uso è attestato in alcuni luoghi come Avigliano, in provincia di Potenza, secondo quanto ci dice la signora Marinella e addirittura in Romania dove E. De Martino poté prendere visione e servirsene per la sua opera, di schede di osservazione redatte da alcuni etnografi e conservate nell’archivio dell’Istituto del folklore di Bucarest. Riguardano le lunghe e complesse fasi del rito funebre per un pastore, Lazzaro Boia, morto negli anni cinquanta del secolo scorso. Ad un certo punto della cerimonia una lamentatrice pone nella bara due mele: …se ti sarà possibile girare nell’aldilà, se troverai la possibilità di parlare, stasera quando vi arriverai, se ti verrà incontro, il mio dolce fratello, ti ho portato due mele perché tu le dia a lui43. 43 Ernesto de Martino, Morte e pianto rituale, op. cit., p.186. 33 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove Simbolismo del cibo Avvenuta la morte, si provvedeva al banchetto funebre, come usava nell’antica Roma. Si iniziava dall’impastare e far lievitare la pasta per il pane che, sfornato, veniva offerto ai parenti e ai partecipanti alle esequie; talvolta veniva preparato addirittura sulla bara perché avesse un contatto più diretto col defunto. Interessante a questo proposito l’articolo apparso nel luglio-agosto del 2002 nel periodico “Oltre”: dopo la morte della persona, donne estranee alla famiglia preparavano il pane e il tempo di lievitazione e dell’impasto corrispondeva al tempo in cui il morto doveva rimanere nella casa. Osserva Andrea Romanazzi44 che vi è un rapporto di magia simpatica tra il morto e il frumento il cui seme messo nella terra morirà per dare vita alla pianta; allo stesso modo il defunto passerà dalla morte alla rigenerazione. E Piero Camporesi, sempre a proposito del simbolismo dei cibi, scrive: … come la minestra e i dolci a base di uova nel pranzo battesimale indicavano l’analogia fra vita nuova, rinascita e trionfo sulla morte… la stessa funzione aveva il pane funebre; e come la luna – segno di morte e di rinascita, di crescita e di decrescita – il pane assumeva le forme tonde, allo stesso modo della piada sulla quale venivano stilizzati quei simboli solari che nel mondo precristiano non erano rari anche sui coperchi delle urne cinerarie, emblemi della fecondità e della rigenerazione…45. La socializzazione simbolica del fatto nutritivo, correlata al senso arcaico della continuità biologica Capitolo II. La morte e della fondamentale presenza larvale degli antenati (il ritorno dei trapassati nella notte del 1° novembre, la finestra aperta, nello stesso giorno per far entrare gli spiriti incarnatisi in volatili) non si può intendere compiutamente se non rapportata a tutto il complesso e impressionante cerimoniale della morte che ci è stato tramandato non dalla cultura contadina (puramente orale) ma da quella scritta e, nel nostro caso, dagli uomini di chiesa istituzionalmente avversi a una cultura profondamente diversa dalla loro46. A Sarno, come ci riferisce ancora Patrizio, dopo il triste evento, il focolare rimaneva spento, simbolo di frattura tra il prima e il dopo e di sospensione della normalità della vita; non si cucinava per otto lunghi giorni ma i vicini di casa preparavano per i parenti del defunto pasta e fagioli e baccalà, cibo, in quel tempo, dei poveri che ora non possono più permetterselo. L’usanza di mangiare questo saporito piatto è rimasta nel Sarnese per la festa dei morti. Un diffuso simbolismo ctonio dai tempi più antichi fino ai nostri hanno le fave, specie quelle nere che venivano deposte nel mondo antico nelle sepolture47 o sparse sul feretro o mangiate durante i banchetti funebri (ma Pitagora proibiva questo cibo il cui baccello, secondo lui, rappresentava la porta dell’Ade, i semi un possibile luogo di trasmigrazione delle anime)48. 44 Cfr. www. habanera.it / A. Romanazzi, cultura popolare, tradizioni dimenticate 45 Tanto intensa era la sacralità del pane che, al tempo lontano in cui eravamo bambini, ci esortavano a non sprecare il pane altrimenti in Purgatorio saremmo stati condannati a raccoglierne le briciole con un cestino bucato. P. Camporesi, La terra e la luna cit., pp. 19-20. Fave sono state trovate in villaggi neolitici e in tombe egizie risalenti a migliaia di anni fa. Esse venivano offerte anche a Bacco e a Mercurio, il greco Ermes, guida delle anime verso gli inferi. Plinio il Vecchio ci informa che questi funerei legumi venivano usati nei sacrifici per i defunti dal momento che erano sede delle loro anime. 48 Non so se abbia qualche attinenza con quanto detto il nome “Campo di fave”, luogo situato sulle lagune del lago Menzaleh in Egitto; su di esso regnava Osiride, signore dei morti il cui corpo smembrato dai nemici, venne ricomposto e rianimato da Iside, sua moglie e sorella. 34 35 46 47 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove Contraddice decisamente questo tabù un luogo dei “Fasti” in cui Ovidio, parlando della festa della dea Carnia49 celebrata il primo giugno sul Celio con offerta di fave (Kalendae fabariae), reputa questi legumi, contrapponendoli alle ricercate vivande (ascitae dapes), cibo salutare gustato con farro caldo e lardo (mixta cum calido faba farre). Soggiunge che chiunque si fosse nutrito in quell’occasione di farro e di fave sarebbe stato preservato dai mali delle viscere (Quae duo mixta simul sextis quicumque Kalendis ederit, huic laedi viscer posse negant “Dicono che chiunque abbia mangiato una miscela di questi due cibi nelle calende di giugno non possa avere male di viscere”). Questo legume, ritenuto insieme con i ceci, fin dalla più antica età, connesso con la sfera ctonia50 faceva parte di molti riti funebri. Nel medioevo i monaci lo consideravano cibo di precetto durante la festa dei morti e lo distribuivano con i ceci nelle strade ai poveri, usanza perpetuata nelle regioni italiane, e non solo. Abbiamo assistito a questo tipo di distribuzione molti anni fa in un paesino affacciato sulla valle dell’Amaseno, Pisterzo. Per la festa di San Michele Arcangelo, anticipata ad agosto, la sera, alcuni addetti all’operazione, dopo avere acceso grandi fuochi vicino alla chiesa, mettono a cuocere i ceci in sei enormi calderoni mentre uno, pieno di acqua bollente, serve a rimboccare gli altri. L’operazione di cottura dura tutta la notte; all’alba, dopo un segnale emesso da tromba o tamburo, alcuni ragazzi con un orcio di coccio pieno dei legumi vanno per le Capitolo II. La morte case a distribuirli. Questa usanza potrebbe essere collegata con la volontà di alleviare le carestie che affliggevano nel passato le popolazioni. Ma non dobbiamo dimenticare che l’Arcangelo Michele, venerato sul Gargano, essendo legato in certo qual modo all’oltretomba come colui che pesa le anime prima del Giudizio, viene invocato per una buona morte. In Calabria – non sappiamo se ancora esiste questa usanza – le fave secche venivano cucinate con cotiche di maiale a consolazione di coloro che tornavano da un funerale51 mentre in Sicilia, durante il Venerdì Santo, esse intrecciate in forma di ghirlanda, venivano (o vengono?) prima offerte alla statua di Gesù che legato alla colonna viene portato in processione e poi distribuite e mangiate. I segni del lutto, i simboli della morte Parlando dell’antica tradizione secondo cui Romolo aveva distribuito l’anno in dieci mesi a iniziare da marzo, Ovidio informa che «per altrettanti mesi dopo il funerale la vedova indossava i tristi segni del lutto per il coniuge»52. I tristia signa sono le sordidae vestes di colore nero che appartiene alla sfera dei morti53 (ma presso gli Spartani le donne indossavano in tali occasioni abiti bianchi e le stele funebri erano avvolte da lun- Carnia era la divinità protettrice delle funzioni vitali; teneva, inoltre, lontane dalle culle dei neonati di cui succhiavano il sangue, le strigi, specie di uccelli dalla duplice natura. 50 Secondo alcuni filosofi collegava la fava all’oltretomba il fatto che lo stelo fosse privo di nodi e che le radici affondassero profondamente nella terra; secondo altre credenze il fatto che sul fiore apparisse una sorta di theta, iniziale del nome Thanatos “morte”. Si ricordi, anche che nei ceci e nelle fave si suole vedere una forte simbologia sessuale. 51 Nei santuari mediterranei, durante le Pianepsie (pyanos “fava” e epsein “cuocere”), feste in onore di Apollo ed Atena, si portavano come offerta alle divinità le fave e le si mangiavano in ricordo di Teseo che se ne era nutrito al suo ritorno dall’impresa contro il Minotauro. 52 Le leggi delle XII tavole proibivano spese sontuose per l’abbigliamento: in caso di lutto esso doveva limitarsi a tre indumenti e a una piccola tunica scura per le donne che, inoltre, non dovevano fare lamentazioni né graffiarsi le guance. 53 Ovidio, I Fasti I 35-36 Torino 1946. 36 37 49 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove Capitolo II. La morte ghi nastri neri e bianchi simboleggianti l’alternarsi della vita e della morte). Questo luttuoso abbigliamento continuò ad essere usato per secoli fino a che le nuove generazioni, insensibili alle usanze, le hanno semplicemente ignorate senza che nessuno più le sollecitasse. Nella nostra Italia, solo in pochi paesi conservatori, qualche anziano ancora sente il bisogno di manifestare materialmente il proprio dolore. A Sarno Angelina Falciano ha portato il lutto per sei mesi per la mamma e il doppio del tempo per il papà che “ci teneva assai”. Le vedove, come ai tempi della Roma antica, indossavano le vesti nere per cinque lunghi anni: una nostra cameriera di quando abitavamo a Pomigliano D’Arco aveva perfino fasciato di stoffa nera gli orecchini e si recava ogni giorno al cimitero – in un momento di sfogo sincero, però, confessò che lo faceva per gli occhi della gente dato che la morte del coniuge l’aveva liberata da prolungate violenze e botte. Il lutto doveva essere manifestato anche da parenti acquisiti, come nuore e generi, attraverso segni attutiti quali cravatta o maglioncino o bottone neri. Nel 1943 nostra madre aveva messo alla mia sorellina Grazia e a me, per nostro padre, scomparso nel bombardamento di Roma, un nastro nero tra i capelli mentre i miei cari fratelli avevano una striscia dello stesso colore sul risvolto della giacca – allora erano in molti a portarla; su di essa erano cucite una, due o più stellette a seconda del numero dei propri cari uccisi dalla guerra. Ricchissimo e molto complesso il simbolismo della morte, attraversando i tempi, arriva dalle lontananze del mondo antico fino a noi perdurando nell’età moderna, soprattutto nell’Ottocento. Le tombe di quelle epoche, quasi immensa galleria di quadri o biblioteca, ci danno ricche informazioni sulla storia civile e sociale, ma anche su singole vite, attraverso ritratti, statue, epigrafi densi di significato. Genietti alati, dormienti o piangenti, con fiaccole rovesciate e con piedi accavallati in posizione di riposo, piccole colonne spezzate, porte dell’oltretomba semiaperte, animali mostruosi come grifoni ctoni54, ci richiamano alla mente rappresentazioni del lutto espresse già dalle culture più antiche. Lentamente questa memoria così ricca, si è andata, ai nostri tempi, sempre più banalizzando rattrappendosi in povere esposizioni di foto sulle tombe, in patetici, frettolosi commenti e promesse di un ricordo che presto, con la fine dei congiunti più stretti, si attenuerà fino a sparire. Non compete a questo lavoro dilungarsi sugli infiniti esempi di raffigurazioni e iscrizioni su sepolcri e sarcofagi antichi come quelle che, specie negli anni dell’Impero romano, illustravano le virtù private dei defunti attraverso miti esaltanti la concordia familiare e l’amore coniugale o esaltavano le virtù civiche e belliche attraverso scene di oratoria e di battaglia o ricordavano la gioia della vita perduta con cortei bacchici e marini. Ai miti sulla eterna fedeltà degli sposi appartiene quello di Protesilao e Laodamia55 rappresentato su un sarcofago vaticano e su quello di Santa Chiara a Napoli56. Quest’ultimo, di raffinata fattura greca (III-II sec. a. C.) fu reimpiegato nel seicento come tomba di Giovan Battista Sanfelice. La storia dei 38 39 54 Il grifone dalla duplice forma di uccello e di leone, ha valenza apotropaica o simboleggia la resurrezione. Nel I e II secolo a. C. al simbolismo dei fiori è avvicinato quello degli uccelli che li beccano quasi a rappresentare l’anima che si nutre della loro energia. 55 Laodamia (“Domatrice del popolo”) per non avere adempiuto ai giusti rituali durante il matrimonio con Protesilao (protos “primo” laòs “esercito”), viene punita dagli dei con la morte del marito che, nella spedizione greca contro Troia, sbarcato per primo, viene ucciso da Ettore. Le divinità infere, da lui pregate, gli concedono un breve spazio di tempo per tornare dalla sposa, trascorso il quale, Laodamia si suicida per seguirlo tra i morti 56 V. Sezione documentaria. Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove due sposi è divisa in tre settori: sul lato sinistro è raffigurata la scena dell’eroe morto che supplica la coppia delle divinità infere (ai suoi piedi il piccolo Eros, simbolo dell’amore coniugale); sulla fronte il guerriero consegnato da Ade ad Ermes, varca impetuoso la soglia degli inferi per tornare tra i vivi mentre la moglie, turbata dall’apparizione, giace a terra assistita dalla vecchia nutrice e da figure femminili una delle quali porta le offerte rituali mentre un’altra ha stretto nella mano un oggetto di forma ovoidale57. A destra, seminascosto da un panneggio e velato, vi è il busto del marito che lei si era fatto scolpire per tenerlo sempre accanto. Vicino ad un’ara con legna accese per il sacrificio, è innalzata una stele con l’erma di Dioniso. Alle estremità della scena, a sinistra, è raffigurata la divinità lunare riconoscibile per la falce di luna tra i capelli e a destra quella solare, col capo irraggiato, a sottolineare la durata del tempo concessa ai coniugi; sul lato destro un coltello nelle mani di Laodamia, che è di fronte all’eroe, preannuncia il suo suicidio. Sono presenti ancora Eros piangente e, in attesa, Ermes, guida delle anime agli inferi (psicopompo). Qualche altro esempio interessante, di un simbolismo funebre ancora non molto chiaro, è costituito da alcuni ritrovamenti fatti, in date a noi vicine, delle tombe lucane esposte nel museo di Paestum e di Sarno, cosiddette “del guerriero”. Risalenti al IV secolo, hanno dipinta sulle pareti interne la scena di un “ritorno”, quello di un cavaliere che, riccamente ornato di armatura e delle splendide insegne che lo contraddistinguono, si dirige verso una figura femminile che lo attende 57 Per Bachofen (Il simbolismo funerario degli antichi, Napoli 1989) l’oggetto diviso in due sezioni, è un uovo che «rivela la sua duplice natura, che abbraccia e congiunge il lato luminoso e quello oscuro della creazione terrestre». Questa congettura viene respinta da chi pensa che esso si riferisca ad uno strumento del rito bacchico. 40 Capitolo II. La morte con le libagioni. Intorno i rossi frutti del melograno richiamano il mondo ctonio e la sua regina Proserpina. Su altre tombe o sarcofagi antichi sono raffigurate scene in cui al morto, appartenente a famiglie in vista, vengono offerti, simboli della vittoria nell’agone della vita, bende e serti di fiori di cui si adornavano non solo i comandanti trionfatori ma anche i banchettanti nei convivi familiari e funebri. Così è anche possibile vedere sulle pareti di questo tipo di monumenti e sulle stele funebri la grande e solenne figura di una Nike alata che porge al defunto, entrato nell’immortalità, le meritate insegne e, talvolta, una corona d’oro oppure di fiori (a Roma in maggio, durante la festa dei Rosalia, venivano portate sulle tombe le rose)58. A questa usanza pagana si opporrà la Chiesa cristiana che sostituirà la corona materiale con quella che simboleggia il sacrificio supremo dei martiri della fede e, al posto della Nike, porrà la figura di un angelo. Ciò viene testimoniato dalle rappresentazioni di santi che stringono nella mano la palma, simbolo del martirio, mentre dall’alto il nunzio divino porge loro la corona. Dunque l’usanza attuale dei fiori e delle corone funebri che, sulle bare o attaccate ai lati di un’auto, seguono il morto per marcire sulla tomba quando addirittura non vengono riciclati, viene da lontano, sostituita spesso, più giustamente, da raccolte di denaro per opere di carità. A Napoli, in San Pietro a Maiella, nella quarta cappella a sinistra, una colonnina spezzata, simbolo della fine precoce di una tenera vita, è avvolta da un festone di foglie e fiori; in un angolo pende una piccola ghirlanda in bassorilievo mentre una graziosa testina di bimba emerge in altorilievo da un ovale incorniciato da un serpente – l’animale ctonio simboleggia forse 58 La corona era sostituita da bende nel caso di una donna. La Nike è rappresentata anche sul castone dell’anello della mummia della bambina di Grottarossa esposta nel Museo “Massimo” di Roma. 41 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove Capitolo II. La morte il male improvviso che ha ucciso la creaturina? Alla base è una patetica epigrafe dedicata a Rachele D’Agostino: «Tu al ciel volasti dopo rii dolori / non appena compiuto il tuo terz’anno. / Ma i tuoi dolenti, orbati genitori / quanto altro tempo in terra piangeranno!». Non vi è la data ma la tipologia può riportare la tomba all’Ottocento o ai primi anni del secolo scorso. Sempre nella suddetta chiesa, terza cappella a sinistra, dedicata ai defunti della famiglia Spinelli il cui stemma nobiliare (una spina di pesce) appare più volte, è stato reimpiegato un busto di Traiano interessante per le grandi ali che ricordano la deificazione dopo la morte degli imperatori romani. Il busto fa da base a un sarcofago rappresentato in forma di casa con tetto, porta e finestre. All’anno 1860 appartiene un monumento funebre situato in un ambiente della chiesa di Sant’Arcangelo in Morfisa inglobata in quella di San Domenico Maggiore. La dolente figura della vedova del magistrato, Cesare Gallotti, abbraccia con la destra il busto del marito mentre dalla mano sinistra abbandonata sul fianco pende una ricca corona di fiori. Sulla lastra inferiore sono scritti i riferimenti del morto e esaltate le sue alte virtù mentre su quella superiore, a sottolinearne la profonda fede, è scolpita la frase «Miro impavido la morte / perché era seco l’autore della vita». Altro insigne monumento funebre vediamo nella cappella Piccolomini, a destra della navata di Sant’Anna dei Lombardi: sopra un alto sarcofago ornato da un drappeggio, è sdraiata la giovanissima sposa, Maria D’Aragona; al di sopra, emblematica, la scena della Resurrezione, mentre al disotto una commovente iscrizione recita: Tu che leggi questa epigrafe, leggila silenziosamente per non svegliare colei che dorme. Maria D’Aragona nata dal re Ferdinando è sepolta qui. Sposò Antonio Piccolomini valoroso duce di Amalfi cui lasciò tre figlie pegno del comune amore. Visse anni 20. A D MCCCCLXX Sul fronte dell’altare appare un festone di frutta con teschio centrale fiancheggiato da due figure sdraiate, con cornucopia e leoni rampanti. Sul lato sinistro dell’altare un auriga, quasi in posizione di volo, guida una biga (la scena simboleggia il viaggio dell’anima trainata sul carro del Sole da due cavalli rappresentanti, alla maniera platonica, la passione e la ragione). Sul lato destro una delle fatiche di Ercole, quella dell’uccisione dell’idra. 42 43 Capitolo III Il ritorno La festa dei morti In Atene tre giorni del mese Antesterione (febbraio-marzo) erano dedicati ad una festa agricola in onore di Dioniso per celebrare la fine dell’inverno e il vino nuovo. Nel terzo ed ultimo giorno venivano offerte ad Hermes Ctonio e ai morti le panspermie, specie di focacce, che, confezionate con una miscela di cereali, dovevano essere consumate prima di notte Anche nell’antica Roma, Febbraio (da februa termine attinente alla purificazione dell’anima e del corpo) era il mese dedicato ai morti e agli Dei Mani a cui si facevano sacrifici di animali adulti neri. Durante i giorni di questa commemorazione (Parentalia), dal 13 al 21, i templi rimanevano chiusi e i magistrati deponevano le insegne delle loro cariche, i focolari restavano spenti. Si credeva che le anime si aggirassero tra le tombe finché non venissero placate dalle libagioni e da un banchetto finale allestito nei pressi della sepoltura59. Simili ai semi sepolti nella matrice tellurica, i morti aspettano di tornare alla vita sotto nuova forma. Per questo si accostano ai vivi, specie nei momenti in cui la tensione vitale della collettività raggiun59 La chiesa, condannando questo tipo di usanze, sostituì la festa pagana con quella della Cattedra di San Pietro. 45 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove ge il massimo, cioè nelle feste dette della fertilità, quando le forze generatrici della natura e del gruppo umano sono evocate, scatenate, esasperate dai riti, dall’opulenza e dall’orgia. Le anime dei morti hanno sete di ogni esuberanza biologica, di ogni eccesso organico, perché questo traboccare della vita compensa la povertà della loro sostanza e li proietta in una impetuosa corrente di virtualità e di germi60. Così Mircea Eliade nel suo stimolante e chiaro trattato espone, a proposito del ritorno dei morti, il concetto che la loro festa sia fortemente collegata a quelle evocanti la fertilità della madre terra: essi, infatti, sono assimilati ai semi che, sotterrati, marciscono per dare vita a una nuova pianta. Per l’Italia, si deve rilevare che le credenze sulla presenza e l’azione dei morti nella vita dei vivi, sul loro ritorno sulla terra nel giorno d’inizio di un ciclo annuale, vanno sempre più impallidendo… Ricordiamo tuttavia che il 2 novembre serba, specie in alcune regioni, quel carattere di festa del Capodanno o di inizio di inverno che aveva nel calendario celtico… 61. La chiesa, per cristianizzare il culto dei morti, sostituì, sotto il regno carolingio, al capodanno celtico del I novembre la festa di Ognissanti dedicata ai primi martiri cristiani e resa poi di precetto da papa Sisto IV nel 1475. Ma già prima, dal 998, nell’Abbazia di Cluny, venivano celebrati gli uffici dei defunti nella notte precedente il 2 novembre mentre nella messa del giorno il rito eucaristico era dedicato pro requie omnium defunctorum. Era stato Odilone, abate caritatevole di Cluny, a spostare la celebrazione dall’ottavo giorno dopo la Pentecoste dedicato alla Santa Trinità e associato in qualche modo alla commemorazione dei defunti, 60 61 Mircea Eliade, Trattato di Storia delle religioni Torino 1926 pp.363-364. Paolo Toschi, Le origini del teatro italiano, Torino 1976, pp. 171-72. 46 Capitolo III. Il ritorno a questa data. Secondo J. Claude Schmitt, ciò poteva forse essere stato determinato dal fatto che in autunno il monastero avesse una maggiore quantità di cibo da distribuire ai poveri che vi affluivano. Costoro erano «considerati come sostituti dei morti mentre le vivande materiali che si davano loro simboleggiavano le vivande spirituali ossia i suffragi che abbreviavano le prove dei defunti»62. Solo in seguito, però, la celebrazione in onore dei morti si estese al resto dell’Europa. Nella notte precedente la ricorrenza, gli adulti in silenzio preparavano le strenne per i bambini. Un giorno velato dalla tristezza del ricordo di persone care diveniva così denso di lieta attesa per i più piccini lontani ancora dalla drammaticità della morte. Per tenere buoni i più vivaci li si minacciava: i morti sarebbero venuti a grattargli i piedi o a tirarglieli (minacce molto più temibili di quelle di avere dalla Befana carbone al posto di dolci). Peppe Curatolo di Caltanissetta ricorda di quel giorno il risveglio lieto che preludeva ad una specie di caccia al tesoro: venivano cercati e trovati con grida di gioia i doni dei parenti morti, nascosti in luoghi segreti della casa o nelle scarpe e nelle calze. Ed erano prevalentemente biscotti a forma di ossa (crozzi’i mottu “ossa dei morti”), pupazzi di zucchero raffiguranti i cavalieri del ciclo carolingio così cari al folklore siciliano (Pupi ri zuccaru). Anche a Terni coloro che i primi di novembre vanno a visitare le tombe, trovano sulle bancarelle, nei pressi del cimitero, dolcetti di pasta di mandorle chiamati “fave dei morti”. A Napoli, in Piazza Mercato, almeno fino agli anni Cinquanta, c’era un uomo che confezionava torroni, i cosiddetti “morticielli”, quelli che il fidanzato usava donare alla ragazza a Novembre: erano di forma cilindrica e impastati con 62 Cfr. J. C. Schmitt, Spiriti e fantasmi nella società medievale, Bari 1995, p. 235. 47 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove abbondante pepe. Si chiamava questa dolce usanza «Portà’‘e mmuorte a’nnammurata». Nell’area vesuviana e, in particolar modo, a Pomigliano D’Arco – ce lo riferisce Raffaele Alligrande – si usava (o si usa ancora?) in quel giorno andare al cimitero con una sedia, il ritratto del defunto e un lumino e rimanere vicino alle tombe fino alle 14; per i ragazzini era un giorno di divertimento perché potevano mangiare melograni, simboli ctoni, cachi e fichi d’india venduti sulle bancarelle. Inoltre, essi, andando in giro per il cimitero, raccoglievano la cera colata in terra e, fattane una palla, la vendevano fuori dai cancelli. Irene Carloni ricorda bambini con palloncini colorati comprati alle fiere paesane tenute, alla maniera antica nei pressi del camposanto di Pomigliano e intere famigliole che affollavano il luogo (erano gli anni sessanta). A Sarno, dove resiste qualche reliquia di usanze di tal genere, le donne portano le sedie vicino alle tombe e si intrattengono da mattina a sera, mettendo un lumino davanti alle foto dei propri cari portate da casa e adornandole63. Di quanto fosse, e sia diffusa, la pietas verso i morti anche in un passato non tanto remoto ci dà testimonianza Enrico Heine che, durante uno di quei viaggi intrapresi a piedi dai letterati tedeschi in cui paesaggio è contemplato tra humour e pathos, riporta le considerazioni di un albergatore sulle dolci usanze di gente straniera: … i Turchi seppelliscono molto meglio di noi. I loro camposanti sono dei veri giardini ed essi vi siedono sulle bianche adorne pietre tombali, all’ombra dei cipressi, carezzano gravemente le loro barbe, fumano il tabacco turco nelle lunghe pipe; e presso i cinesi è un vero Capitolo III. Il ritorno godimento vedere come essi danzano cerimoniosamente intorno sulle tombe dei loro cari, e pregano, e prendono il tè, e suonano il violino, e sanno ornare le tombe che loro sono care con ogni sorta di opera in lacca dorata, e figure di porcellana, e pezzi di seta colorata, e fiori artificiali e colorate lanterne… Ah! tutto è bello…64 Pane ed acqua per i morti che tornano Nella Roma primitiva, durante le feste dedicate ai morti, si scoperchiava la fossa (mundus) scavata durante la fondazione della città: da lì si pensava che emergessero gli spiriti nel giorno dei Feralia (21 febbraio), ultimo dei Parentales dedicati alla propiziazione dei Manes, spiriti benevoli degli antenati. Piccoli doni chiedono i Mani: / al posto di un ricco dono gradita è la pietas: / non abitano l’Averno profondo avide divinità. / A loro basta la lapide coronata di serti fioriti / e frutti sparsi e pochi grani di sale65 / e pane bagnato nel vino puro e viole sparse, / offerte deposte in un coccio abbandonato in mezzo alla via… … Si dice, a stento lo credo, che gli avi escano dalle tombe / e nel silenzio della notte si lamentino, / e per le vie della città e per le vaste campagne / le pallide anime, popolo vano, ululino. /… Ora gli spiriti vacui e i corpi sepolti / vanno errando, / ora l’ombra si pasce del cibo a lei offerto… 63 Foscolo evoca questa antica atmosfera di memoria nei vv. 126-29 de “I Sepolcri”: «chi sedea / a libar latte e a raccontar sue pene / ai cari estinti una fragranza intorno / sentia qual d’aura di beati Elisi… ». Enrico Heine, Viaggio in Italia Le più antiche offerte consistevano in farina di farro mista con sale (mola salsa) e in frutti della terra; solo più tardi saranno arricchite da incensi e profumi. Ricordiamo che il sale aveva un’importanza grandissima nel mondo antico essendo utilizzato per la conservazione dei cibi. In Ovidio è detto februum “purificatore”. 48 49 64 65 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove Questo quadro, percorso da un brivido, del ritorno sulla terra delle deformes animae in un tempo in cui le liete fiaccole nuziali vengono sostituite da quelle funebri rivolte verso il basso, in cui i focolari restano senza fuoco, ci viene presentato da Ovidio66. E notizie su simili credenze conservatesi per secoli troviamo ne Il ramo d’oro di Frazer: È credenza assai diffusa che le anime dei morti tornino a rivedere le antiche dimore in una notte dell’anno; in questa occasione la gente si prepara a ricevere i fantasmi stanchi del viaggio mettendo a loro portata cibo e accendendo lampade per guidarli nell’oscurità quando vengono dalle tombe e quando vi tornano67. Ai morti, per farli riposare dall’estenuante viaggio, bisognava cedere il posto nel giaciglio alzandosi presto la mattina e facendogli trovare, come un tempo usava nei paesi vesuviani, il letto apparecchiato con lenzuola pulite. A loro che hanno sete e fame, soprattutto quando intraprendono l’annuale viaggio di ritorno nelle case, attesi con timore o pietà dai loro parenti, bisognava, inoltre, offrire cibo ed acqua nel giorno che li ricorda, usanza diffusa un tempo non lontanissimo ma che ora va scomparendo o resiste solo in qualche rara località conservatrice68. In Friuli un secchio d’acqua aspettava in cucina le bocche degli spiriti assetati (lo ricorda appena, come in una nebbia, una signora di Clauzetto ma non sa se glielo abbiano raccontato o vi avesse, piccolissima, assistito). Nella notte di Ognissanti, nel Sarnese e a Caserta, si preparava sul balcone una bacinella colma d’acqua, una saponetOvidio, I Fasti, II vv. 535- 540 e 551 sgg. James G. Frazer, Il ramo d’oro, Torino 1973, vol. II p. 587. 68 Ma Laura Serra di Velletri persiste ancora nell’abitudine, proveniente dalla lontana infanzia, di lasciare, la notte tra l’uno e il due novembre, la tavola apparecchiata con stoviglie pulite, pane ed acqua. 66 67 50 Capitolo III. Il ritorno ta e un asciugamano; al mattino, se l’acqua era torbida e il lino stropicciato, voleva significare che i cari morti si erano lavati dal viso i segni della stanchezza per un viaggio così lungo. L’acqua, da sempre, nel mondo pagano e cristiano, ha proprietà purificatrici e rigeneratrici. Per questo viene usata in riti religiosi, come il battesimo e il funerale cristiani, o in riti di passaggio, come la nascita, il matrimonio, la morte. Secondo una concezione diffusa anche nella speculazione filosofica antica (Eraclito, frammenti orfici), l’acqua rende il morto «solidale con le semenze … abolendone in modo definitivo la condizione umana» e quindi anche la sofferenza espressa attraverso la sete. La speculazione ulteriore ha deprezzato la funzione germinativa delle acque perché poneva il miglior destino d’oltretomba non nella reintegrazione nel circuito cosmico, ma, al contrario, nell’evasione dal mondo delle forme organiche verso l’empireo e le regioni celesti …69. In alcune regioni italiane si lasciava, dopo la cena, la tavola apparecchiata per i silenziosi ospiti, usanza in passato viva in Romagna, come ci testimonia la triste poesia di Pascoli “La tovaglia”: («Lascia che entrino da sera, / col loro anelito breve /che alla mensa torno torno / riposino fino al giorno…»70) e si ponevano in vari angoli dell’abitazione piatti con pane, recipienti con acqua e lumini accesi. Il pane era al centro di queste offerte funebri dettate dalla pietà o dal desiderio di placare le anime temibili degli spiriti corrucciati contro i vivi e quindi funesti – in genere insepolti, o privati dei giusti riti, o vittime di morte violenta, o donne decedute per parto o infanti uccisi nel grembo materno. 69 70 Mircea Eliade, op. cit. pp. 204-206. Cfr. sezione documentaria. 51 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove I Mani erano assimilati alle divinità ctonie cui si sacrificavano vittime nere, e a cui, come si è detto sopra, si offrivano, in un coccio di vaso trovato per strada, focacce salate, pane bagnato col vino, mentre sulle lastre tombali si spargevano viole71. Inoltre, si imbandivano per loro banchetti e si facevano libagioni di vino, latte caldo, acqua, miele72. I liquidi erano versati in condotti di terracotta o di piombo che arrivavano all’interno della tomba73. In Atene queste imbandigioni venivano allestite il terzo, il nono e il trentesimo giorno dalla morte (il nostro trigesimo) nella supposizione che i multipli del tre potessero favorire il ritorno degli spettri familiari che dovevano quindi essere placati con offerta di cibo. Contesterà questa forma di rito pagano pervenuta fino al 400 e oltre, S. Agostino che nel De civitate Dei scrive a proposito del giusto omaggio cristiano alle tombe dei martiri: «Anche chi vi porta il proprio pasto – non certamente i cristiani più progrediti, né dappertutto vige la consuetudine – chi, comunque, lo fa e, dopo aver posto le vivande sull’altare, prega e le riporta via per cibarsene o anche per farne dono ai poveri, intende santificarle con i meriti dei martiri in nome del Signore»74. Ne Le Confessioni Capitolo III. Il ritorno il Santo loda la madre Monica per avere rispettato il divieto del vescovo Ambrogio di portare cibo sulle tombe «per non fornire occasione di ingollarsi ai beoni e anche perché quella specie di “parentali” assomigliano fin troppo alla superstizione dei pagani … e, invece di un cestello pieno di frutti terreni, ella imparò a portare sulle tombe dei martiri un cuore ricolmo di voti più puri…»75. Sunt aliquid Manes è con il passaggio dell’uomo dal nomadismo all’agricoltura e alle attività stanziali, e dunque con il seppellimento del defunto nelle vicinanze dell’abitato, che nasce la necrofobia (“paura del morto”) e quindi i rituali atti a sconfiggerla. Secondo il primitivo il morto, prima di raggiungere la sua patria nell’aldilà, subisce una sorta di passaggio intermedio il cui superamento e il successivo raggiungimento di quella pace definitiva dipende molto anche dai rituali funebri a lui riservati dai vivi. Solo al termine del periodo di lutto il morto può essere considerato tale… Ecco perché coloro che non hanno avuto una degna sepoltura ed onoranze funebri ritornerebbero in vita76. 71 Le viole erano usate perché le si credeva nate dal sangue di Attis evirato. Il colore rosso fin dalla più remota antichità era associato al sangue, simbolo di rigenerazione anche per il defunto. Nelle sepolture del paleolitico e del neolitico sono stati rinvenuti i resti del morto colorati di ocra. Suppone il Romanazzi che l’usanza potesse essere diretta ad impedire al morto di cercare energia dal sangue dei vivi. 72 Ovidio, I Fasti II vv. 538 sgg. 73 «Le libagioni hanno lo scopo di placare il morto, di lenire le sue sofferenze … mediante la dissoluzione totale nell’acqua» e la trasformazione in seme come avviene nel mondo agricolo, ma sono «anzitutto la sua pacificazione cioè l’estinzione del residuo di condizione umana conservato, la sua immersione totale “nelle acque” affinché ottenga una nuova nascita». Così Mircea Eliade nel trattato sopra citato. 74 Agostino, De Civitate Dei, Einaudi Gallimart 1992, p.355. Refrigerium è il termine con cui i primi cristiani indicavano il banchetto consumato sulle tombe dei martiri e le offerte come quelle portate da Monica e proibite poi dal vescovo Ambrogio. 75 Agostino, Le Confessioni, VI 3 Mondadori 1993, p.95; cfr. Sezione documentaria. 76 Andrea Romanazzi, Culti agrari e rituali di fertilità www. habanera.it. 52 53 Questa l’interpretazione di A. Romanazzi sulla paura da parte dei popoli primitivi, e non solo, del ritorno dei morti cui non sono stati resi i dovuti rituali di sepoltura. Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove Alimentava la necrofobia l’idea degli antichi che gli infanti morti prematuramente andassero ad ingrossare il numero delle persone spente per morte violenta e che, quindi, come loro, vagassero senza pace nei luoghi di appartenenza. Il folklore dell’Europa cristiana ne offre una conferma con una differenza fondamentale: erano gli spiriti dei neonati morti senza battesimo che non lasciavano mai del tutto i luoghi dei viventi. Le testimonianze sono concordi nel considerare lo spirito dell’infante defunto anzitempo come una presenza inquietante, minacciosa, protesa a danneggiare i viventi, impossibile da allontanare. Ma la ragione dell’esclusione era fissata stavolta nel carattere nuovo del cimitero cristiano, luogo di riunione dei morti in attesa della resurrezione. Mentre per i bambini battezzati furono dettate regole speciali per un rito festoso e solenne con corone di fiori e canti celebrativi della loro purezza angelica, i bambini non battezzati non avevano diritto a entrare nello spazio sacro; sepolti in un campo, in cantina, sotto la soglia di casa, alimentavano fantasie di pratiche stregonesche …77. Ma Ariès ipotizza che questo uso di seppellire dove capitava il piccolo morto senza battesimo, protrattosi nelle campagne fino al XIX secolo, potesse essere dovuto al fatto di essere egli considerato come un animale domestico, un cane o un gatto, in così sfavorevoli condizioni demografiche: «Era così poca cosa, così poco inserito nella vita, che neanche si temeva il suo ritorno dopo la morte, a importunare i vivi»78. Il pensiero degli spiriti e delle loro incursioni crea nei vivi timori di vaghi pericoli che vanno esorcizzati con riti e offerte. Altro atteggiamento assume la Chiesa medievale nei confron77 78 Adriano Prosperi, Dare l’anima,cit, p.169. Philippe Ariès, Padri e figli nell’Europa medievale e moderna, Bari 2002, p. 40. 54 Capitolo III. Il ritorno ti dei morti; esso «permise di inculcare nei fedeli una morale religiosa centrata sulla nozione di peccato, di penitenza, di salvezza che culminò, alla fine del XII secolo, nella “nascita del purgatorio”». La Chiesa contiene questo atteggiamento «nella nozione di memoria,“memoria dei morti”…». Questa memoria si esprimeva soprattutto in occasione delle messe celebrate per la salvezza del morto, specialmente nell’anniversario del trapasso… lo scopo della memoria era in realtà quello di favorire la separazione tra i vivi e il morto, di abbreviare la permanenza di quest’ultimo nel purgatorio e, infine, di permettere ai vivi di dimenticare il defunto. La cadenza delle messe e delle preghiere era sempre più allentata… la memoria … era una tecnica sociale di oblio… metteva i morti nella giusta posizione di morti in modo che i vivi, nel caso si fossero ricordati di loro, avrebbero potuto farlo senza paura né sofferenza79. Un tabù, dettato forse dal timore di evocare lo spirito del morto, è quello di non pronunciare il suo nome ma di sostituire o fare precedere ad esso formule di rispetto o di affetto come “la buon’anima”, “il povero”, “lui”. Anche il termine Manes (“buoni”) aveva nel mondo latino un risvolto apotropaico e spesso ci si rivolgeva alle divinità non con il loro nome ma con epiteti vari per il timore di una vendetta. Questo tipo di precauzione molto diffuso viene testimoniato da Frazer80 a proposito degli aborigeni australiani: Si parla raramente di morti e non si nominano mai: se ne parla con voce bassa come «il perduto» o «il poverino che non è più». Dire il loro nome sarebbe eccitare la malignità dello spirito dei 79 80 Jean-Claude Schmitt, Spiriti e fantasmi nella società medievale, cit., pp. 8-10. James G. Ffrazer Il ramo d’oro, cit. vol. I p. 391. 55 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove morti che sorvola la terra qualche tempo prima di partire per il sole calante. In epoca antica si ricorreva nella città a particolari riti apotropaici uno dei quali viene descritto minuziosamente da Ovidio nei “Fasti”. È la notte della ricorrenza dei Lemuria celebrati in maggio nei giorni 9, 11, 13. Per cacciare i fantasmi dei parenti morti (Lemures)81 che, a differenza dei Mani (spiriti buoni degli antenati), si presentano come spettri da placare, gementi e assetati per non avere ottenuto i dovuti sacrifici, il pater familias al buio e a piedi nudi – i riti devono celebrarsi senza alcun impedimento e bisogna avere contatto con la Madre Terra – «dà segni (della sua presenza) … facendo schioccare il pollice e il medio affinché la vacua ombra, se lui tace, non gli vada incontro». Egli si purifica le mani in acqua corrente, volta la schiena82 e, messe delle fave nere in bocca, le sputa dietro le spalle dove si presuppone che il fantasma le raccolga e senza essere visto gli vada dietro, e dice per nove volte: «Con queste fave libero me e i miei». Dopo avere invitato altrettante volte 81 Nel De Deo Socrate, Apuleio, citato da Agostino (De Civitate Dei), dice che «le anime degli uomini sono demoni e uscendo dai corpi divengono lari se si sono ben comportati, altrimenti lemuri o larve». La parola larva, ci dice Paolo Toschi (Le origini del teatro italiano, Boringhieri, Torino 1976, p. 171) «da più di duemila anni indica tanto le anime cattive dei defunti quanto le maschere. Evidentemente perché nella maschera che compariva folleggiando durante le feste del rinnovamento e nelle loro forme drammatiche si riconosceva da tutti il demone il “genius malus ac noxius defunctorum”». 82 L’imposizione di voltare le spalle a cose ed esseri con cui è pericoloso venire in contatto anche con lo sguardo (situazioni terribili come la distruzione di Sodoma, regni infernali come quelli da cui proveniva Euridice, fantasmi di defunti, è un topos che troviamo già nella Genesi (9 15-17): la moglie di Lot, contravviene al divieto del Signore di voltarsi a guardare la distruzione di Sodoma ed è trasformata in statua di sale; in Odissea X 350 allorché la divinità marina Ino, impietosita per il naufrago Odisseo, gli dà un velo da cingersi e da gettare, una volta approdato, nel mare senza voltarsi a guardare; in alcuni luoghi di Virgilio, come nel IV libro delle Georgiche. 56 Capitolo III. Il ritorno gli spiriti a uscire dalla casa, si volta reputando di avere adempiuto al rito e di avere liberato la casa dalla temibile presenza83. Dunque già gli antichi credevano fortemente nella comunicazione tra i vivi e i morti, soprattutto attraverso i sogni o l’evocazione delle anime (necromanzia); pensavano che di loro rimanesse, dopo la fine del corpo, qualcosa anche se non bene determinato tanto che Properzio nell’elegia 4, 7 prepone alla visione di Cinzia che, morta, gli appare nel sogno per rimproverarlo di non avere adempiuto ai riti pietosi verso di lei, quasi un’epigrafe: Sunt aliquid Manes: letum non omnia finit / luridaque evictos effugit umbra rogos (“Eppure in qualche modo esistono gli spiriti: con la morte non tutto finisce / la lugubre ombra vince il rogo e gli sfugge”). Molto più tardi, nel XII secolo, anche il cistercense Alchéro di Chiaravalle nel suo Liber De spiritu et anima scrive: «Quidquid enim corpus non est et tamen aliquid est, recte jam spiritus dicitur (“ Tutto ciò che non è corpo e tuttavia è qualche cosa, giustamente è detto spirito”)84. Nel mondo classico le anime che tornano ai vivi per rimproverarli o per pregarli sono perlopiù quelle dei morti che o sono rimasti insepolti o non hanno avuto i giusti riti85. Una di queste, in forma di fantasma funesto, carico di catene, emaciato e cencioso, appare la notte in una casa di Atene incutendo terrore mortale negli abitanti; solo il filosofo Atenodoro, imperturbabile, continua a scrivere fino a che lo spirito gli fa cenno di avvicinarsi e di seguirlo e lo conduce sul luogo della sepoltura. Dopo avere ottenuto i giusti riti dalle autorità, scompare per sempre. Lo riferisce in un’interessante lettera Ovidio, Fasti V vv. 419-444. Cfr. J. C. Schmitt, Spiriti e fantasmi nella società medievale cit. 85 A volte, secondo una qualche credenza, l’anima in pena che si stacca dal corpo si presenta sotto forma di farfalla che in tempo notturno vola intorno al lume. Nonna Olga chiamava una specie di calabrone notturno che entrava ronzando in casa, “Spirito Santo”. 83 84 57 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove Plinio il Giovane all’amico Sura86: è un racconto che, con ingredienti simili (rumore di catene, aspetto sinistro, buio notturno, indicazione del luogo della sepoltura etc) arriva, percorrendo lunghi spazi temporali, dalla letteratura classica a quella medievale, moderna e contemporanea. Altri e moltissimi sono i luoghi della letteratura greca e latina in cui persone appaiono nel sogno chiedendo pietosamente la sepoltura di cui sono prive. Tra i tanti personaggi dei poemi ricordiamo il virgiliano Palinuro che, caduto dalla nave, viene nel sonno ad Enea supplicandolo di gettare sul suo cadavere offeso un poco di terra (tu mihi terram inice) o Elpenore la cui imago, nell’undicesimo canto dell’Odissea, si presenta ad Ulisse, ignaro della morte di lui, supplicandolo di dare al corpo abbandonato sepoltura per non incorrere nell’ira degli dei – non dimentichiamo che la peggiore minaccia che potesse essere inferta ad un nemico era quella di abbandonare il suo cadavere al “di cani e d’augelli orrido pasto”87. Nel Medioevo …la credenza negli spiriti suscitò un rinnovato interesse e riconquistò una legittimità che aveva perduto nei primi secoli del Cristianesimo: i morti che soffrivano nell’aldilà, molto legittimamente poterono tornare a supplicare i parenti di far dire messe e fare offerte per alleggerire e alleviare le loro pene. Non è dunque un caso se i racconti di apparizioni di fantasmi si moltiplicano a partire dal XII secolo88. Di ciò abbiamo abbondanti esempi nella letteratura straniera, ad esempio in Shakespeare, e in quella italiana, specie nel Cifr. Sezione documentaria. Iliade, I vv. 4-5. 88 Jean- Claude Schmitt, Medioevo superstizioso, Roma 2005, p.122. Capitolo III. Il ritorno Decameron; nella giornata quarta, novella quinta, ad Isabetta appare l’amante Lorenzo ucciso dai fratelli di lei: pallido e tutto rabbuffato, e con panni tutti stracciati e fracidi; e parvele che egli dicesse: «O l’Isabetta, tu non mi fai altro che chiamare, e della mia lunga dimora t’attristi, e me con le tue lacrime fieramente accusi; e per ciò sappi che io non posso più ritornarci, per ciò che l’ultimo dì che tu mi vedesti i tuoi fratelli m’uccisono». E disegnatole il luogo dove sotterrato l’avevano, le disse che mai più nol chiamasse né l’aspettasse; e disparve89. Nell’Ottocento uno degli esempi più famosi di questo tipo di apparizioni è nella “Ballata di Natale” di Dickens: lo spettro che appare a Scrooge, ha, come quello pliniano, l’aspetto cadaverico «come un’aragosta andata a male», i capelli irti; produce con le catene «un rumore metallico», e, come lo spettro antico, fa segno al vivo di avvicinarsi. Ma, mentre in Plinio resta sconosciuto il significato dei ceppi, lo spirito dickensiano venuto per il pentimento dell’amico, spiega: «porto la catena che ho forgiato in vita… un anello dopo l’altro… sono io che me la sono cinta… »90. Sempre nell’800 Enrico Heine riferisce con un certo umorismo nero un sogno avuto in conseguenza della lettura di una storia terribile di apparizione: … Certo i racconti degli spettri producono un senso più tremendo di paura se li si legge durante un viaggio, e di notte, in una città, in una casa, in una camera dove non si è mai stati… Oltre a ciò la luna si mostrava nella camera così equivoca, e sulla parete si muovevano così strane ombre, e quando io mi rizzai sul letto per guardarmi intorno, vidi 86 87 58 89 90 G. Boccaccio, Decameron, giornata IV, novella V. Charles Dickens, Ballata di Natale in Racconti di Natale, Roma 1959. 59 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove tale… Non vi è cosa più inquietante che vedere al lume di luna in uno specchio il proprio viso per caso. Nel frattempo sonò una pesante, sbadigliante campana, così a lungo e così lentamente, che credetti, dopo dodici colpi, che fossero passate dodici ore… Fra il penultimo e l’ultimo colpo di campana suonò un altro orologio, rapido, stridulo, quasi fosse spazientito della lentezza della sua signora comare. Quando tutte e due le lingue di ferro tacquero e in tutta la casa dominò un silenzio di morte, mi parve di sentire nel corridoio davanti alla mia stanza qualche cosa che si muoveva, come il camminare titubante di un vecchio. Infine la porta si aprì e lentamente entrò il morto dottore Ascher. Un brivido mi corse per le ossa… Vidi, come per il passato, lo strano abito trascendentalmente grigio, le stesse gambe astratte, lo stesso viso matematico, solo era più pallido: anche la bocca era raggrinzita e il giro degli occhi aveva un raggio maggiore… si avvicinò e nel suo abituale dialetto scorbutico mi disse: «Non abbia paura e non creda che io sia uno spettro. Che cosa è uno spettro?... In quale logico rapporto si troverebbe con la ragione?». E lo spettro iniziò un’analisi di essa… e concluse logicamente che gli spettri non esistono. Nel frattempo un sudor freddo mi copriva, i denti battevano come castagnette; e solo per paura assentivo ad ogni punto in cui il dottore dimostrava l’assurdità della paura degli spettri. Egli da parte sua la dimostrò con tanto calore che alla fine, per distrazione, tirò fuori dal taschino, invece dell’orologio d’oro un pugno di vermi; e, notato l’errore, rimise in tasca tutto. «La ragione è la cosa più alta… ». L’orologio batté l’una e lo spettro disparve91. I morti tornano in sogno Bisogna indagare donde provengano le visioni / che presentandosi a noi mentre siamo svegli /o affetti dal male o sprofondati nel Capitolo III. Il ritorno sonno / ci atterriscono sicché ci sembra di vedere accanto e di udire / quelli le cui ossa già colpite dalla morte / la terra avvinghia92. Così Lucrezio secondo il quale le visioni sono generate da sottilissime membrane (simulacra) che, staccandosi dalla superficie degli oggetti, colpiscono i nostri sensi. Nel V secolo S. Agostino in una sua opera, De cura pro mortuis gerenda scritta in risposta a Paolino da Nola che si preoccupava della sepoltura, esclude che i morti possano comunicare con i vivi perché i primi non conoscono più il nostro mondo mentre i secondi nulla sanno del loro. Egli ammette che da numerosi racconti si può dedurre che i defunti possano apparire per consigliare o impartire ordini ma considera che «una simile apparizione si produce all’insaputa del morto così come possiamo sognare un uomo vivo senza che lui ne sappia niente»93. I luoghi privilegiati dalle apparizioni oniriche sono perlopiù l’interno della casa, la camera da letto ma anche luoghi strani che non riconosciamo dove i morti ci parlano e noi parliamo a loro che talvolta ci invitano a seguirli oppure ci esortano a non avvicinarci per non essere coinvolti nella loro stessa sorte. Al primo caso appartiene un sogno fatto anni orsono dalla signora Rosa, moglie del parrucchiere di Mariglianella, signor Tramontano, e raccontato con vivo dinamismo. Tra lei e un’anziana vicina di casa defunta (zia Melina) che le si mostra nel sonno e la esorta a seguirla, vi è uno scambio di rapide e salaci battute: Zia Melina: «Ciao Rosé, comm’staje?» Rosa:«Bon’, ma tu che faje cca’?» Lucrezio, De rerum natura I vv. 131-135. Agostino, De cura pro mortuis gerenda ad Paulinum liber unus. Cfr. Jean-Claude Schmitt, Spiriti e fantasmi nella società medievale cit p.29. 92 93 91 A. Heine, Reisebilder, Torino 1931, pp. 45-47. 60 61 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove Zia Melina:«O pecché, pe’sapé comm’staje!» Rosa:«Si ma tu’ccà che faje? Nun aviss’sta ccà!». Zia Melina:«T’aggia venut’a dicere si vuò venì cu mmé». Rosa: «Nun se ne parl’proprio». Zia Melina:«Rosé, nun mé può dicere ca no, J’song’venut’appost». Rosa:«E mal e’fatt’pecché J’ra cca nun mè mov’». Zia Melina:«Jamm’Rosé nun me fa perdere tiemp’…». Rosa:«Ué, Ué Melì, ccà può sta’quand’vuò tu ma je nun vac’a nisciuna part’». Zia Melina:«Rosé J’nun aggia venut’e capa mia, me manna … e nun me pozz’arritirà senz’e te». Rosa:«Melì, a me nun me fott’chi t’a mannat’, sacc’sol ca j ra ccà nun me mov’». Zia Melina:«Vabbuò, si proprij’nu vuò venì, miettit’sti panni nir». Zia Melina:«Rosé sient’si Je m’arretir’senz’e te, è capac’e’avé nu paliaton’». Rosa:«Te ni a i…». Rosa:«Melì, miett’e loc e vattenn’». Zia Melina:«Vabbuò, J’le pos’ccà…» Rosa:«Melì statt’bon e nu passà cchiù pa ccà». Al risveglio Rosa non pensò a quella strana apparizione ma, dopo pochi mesi, se ne ricordò perché gli morì il padre e lei pensò che, se fosse andata con zia Melina, con molta probabilità il padre non sarebbe morto. Analogamente, anche se in un contesto diverso, un’altra apparizione onirica cerca di persuadere la sognatrice ad accompagnarla nel regno dell’aldilà. Racconta una gentile signora di Sarno: In un periodo di triste condizione economica, vidi una sera mio padre angosciato e sentii mamma piangere. Mi rivolsi mentalmente 62 Capitolo III. Il ritorno alla nonna paterna morta che mai avevo conosciuta rimproverandole aspramente di non andare in soccorso del figlio. Addormentatami, mi sentii toccare da qualcosa di freddo e mi sembrò di stare nel cimitero, davanti alla Chiesa Madre nei cui pressi zampillava una bella fontana. C’era un’ombra; le chiesi: «Chi sei?». Rispose: «Sono quella che hai bestemmiato e mi tirò per un braccio dicendo: «Vuoi venire con me?». Alla mia risposta negativa soggiunse: «Sono tua nonna, non ti permettere più di bestemmiarmi; dà questi numeri a tuo padre». Mi diede un terno che uscì ma che papà sbagliò a giocare. La preoccupazione per l’incursione di spiriti malevoli nel sogno indusse la madre del sunnominato Michele a raccomandare al figlio, allora bambino, di non baciare la persona morta che eventualmente gli fosse apparsa nel sonno anche se glielo avesse chiesto; altrimenti, disse, lo avrebbe trascinato con sé. A differenza della maliziosa Melina, il caro parente venuto in sogno a Irene Carloni, docente di lettere in un istituto di Pomigliano, non la vuole come compagna di morte: Nel sonno camminavo e ho visto zio Tonino venire dalla parte opposta. Gli stavo andando incontro per abbracciarlo ma lui mi ha allontanato dicendo: «Tu sai dove sto andando, non ti avvicinare, prosegui per la tua strada». Abbiamo trovato una curiosa analogia con questo tipo di sogno che torna in tempi e in spazi diversi presso individui di varia cultura e credenze in Spiriti e fantasmi nella società medievale di J.C. Schmitt che riferisce un racconto del Dialogus miraculorum scritto da Cesario di Heisterbach: a un monaco addormentatosi nel coro della chiesa appare un confratello defunto che lo invita a seguirlo, cosa che egli, consapevole della natura dello spirito e del luogo infero da lui abitato, non 63 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove esegue. Un altro monaco anziano che obbedisce al comando, muore dopo pochi giorni94. Una madre di Sarno che ha perduto suo figlio, un ragazzo pieno di fede, asserisce che l’anima di lui è sempre con lei: «quando ho un problema basta che dico a Gianni “Aiutami a risollevare questo problema, io mi sento come un calore che mi avvolge a torno e dopo qualche giorno il problema svanisce». Anche lei, che ha voluto prendere tra le mani il teschio del figlio dissepolto, lo ha visto, dopo otto giorni dalla morte di lui, in sogno. Era in una chiesa e la teneva lontana rimproverandole di avergli detto una bugia. Capitolo IV La sepoltura I modi di sepoltura. La relazione tra i vivi e i morti: dagli onori alle intercessioni Dare al termine di “abitazione” valore di spazio delimitato protetto ed anche protettore significa considerarlo sotto l’angolo di osservazione rituale e folclorica mediante il quale è possibile caratterizzare le modalità con cui si è andata manifestando nell’uomo la volontà di conciliarsi col mondo tangibile dell’aldilà. Le manifestazioni di questo desiderio sono concomitanti con il fissarsi dell’uomo alla e sulla terra, momento che si è concordi nel far risalire alla “rivoluzione” del neolitico e alla trasformazione tramite l’agricoltura e l’allevamento degli uomini in esseri sedentari. Questo fenomeno implicò la creazione di dimore stabili il cui accostamento, oltre a dar vita ad un villaggio, portò con sé le esigenze di un’organizzazione sociale. Ma accanto a questo si andò sviluppando, di pari passo alla convinzione di una sopravvivenza oltre il decesso, l’abitudine di cremare o fasciare i corpi per timore che tornassero. Crebbe il culto degli antenati fino al momento in cui, col villanoviano, sarebbero apparse urne cinerarie come replica di edifici»95. 94 95 Paolo Pirillo, Le forme delle dimore e degli insediamenti in La cultura folclorica Bramante Editrice 1988, p.352. Una interessante esposizione di “urne a capanna” è nel museo di Pontecagnano nel Salernitano. Jean Schmitt, cit. p. 272. 64 65 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove Ai modi di sepoltura ritenute “aberrazioni di singole popolazioni” accenna Cicerone nel cap. XLV del I libro delle Tusculane sottolineando che la sepoltura non ha importanza per quanto riguarda noi ma ne ha per i nostri cari a causa della pietas che a loro si deve tenendo, però, sempre presente «noi vivi che i corpi dei morti non hanno alcuna sensazione». Gli Egiziani imbalsamano i morti96 e li custodiscono in sepolcri domestici, i Persiani li seppelliscono dopo averli cosparsi di cera affinché i corpi rimangano inalterati. I Medi hanno la costumanza di non sotterrare i loro morti se prima non sono stati sbranati dalle bestie... Tra i più diffusi trattamenti delle spoglie dei morti nel lungo corso dei millenni vi sono quelli dell’inumazione e dell’incinerazione. Con il primo termine ci si riferisce al seppellimento del corpo (lat. humus “terra”), con il secondo alla cremazione del cadavere e alla conservazione delle ceneri in apposite urne. All’interno di queste due categorie, poi, afferiscono altre forme di trattamento, come la tumulazione (sepoltura in un loculo), la mummificazione e la doppia sepoltura. Nel corso della storia inumazione e incinerazione hanno avuto alti e bassi in termini di utilizzo quantitativo e, a seconda delle epoche, l’una ha prevalso sull’altra (ma sembrerebbe che l’inumazione fra preistoria e storia abbia avuto la meglio). Secondo Ugo Antonielli97, che si basa su ritrovamenti come quelli delle grotte di Grimaldi, sin dal paleolitico e quindi dalla comparsa dell’uomo di Neanderthal, il genere umano avrebbe Capitolo IV. La sepoltura praticato un vero e proprio culto dei morti mediante la sepoltura rituale. Sono molti i ritrovamenti di corpi che, sepolti distesi o in posizione fetale, sono rivolti verso occidente ossia in direzione del sole morente. Per Mircea Eliade questa forma di sepoltura potrebbe ricollegarsi alla funzione di psicopompo che il Sole assolve presso alcune tribù australiane per le quali il tramonto dell’astro equivale al suo passaggio attraverso gli inferi, quando egli accompagna le anime dei morti alla sede definitiva. Per altri il ciclo tramonto-alba corrisponderebbe alla discesa degli spiriti nell’aldilà e al loro successivo ritorno alla vita al seguito dell’astro nascente. Dalla credenza del transito delle anime dal mondo dei vivi a quello dei morti sono nate molte pratiche tra cui ci piace ricordare, in particolar modo, quello della doppia sepoltura; essa prevede una prima inumazione temporanea a cui segue, a distanza di qualche tempo, l’esumazione, la pulizia delle ossa e la definitiva sepoltura. Come evidenziato da Hertz98, questa pratica era molto diffusa tra le popolazioni lontane dal concetto occidentale di civiltà ossia tra quei popoli che nel linguaggio comune vengono definiti “selvaggi”. Lo studioso aveva rilevato ciò tra alcune tribù del Borneo e della Polinesia (ma Francesco Pezzini sottolinea che usanze simili erano presenti nel XVI secolo anche in Europa)99. In seguito alla riforma protestante e alle normative riguardanti il rapporto tra vivi e morti e i tempi per i riti di passaggio, la pratica della doppia sepoltura venne combattuta in maniera sempre più decisa. Malgrado ciò essa si è andata conservando ancora a lungo, seppure limitatamente ad aree sempre più ristrette, come, ad esempio, quelle di Napoli e di qualche paese vesuviano. Nella città partenopea il passag- 96 A Roma la pratica dell’imbalsamazione è testimoniata dalla mummia di Grottarossa cosiddetta dal luogo del ritrovamento; è conservata, con il ricco corredo, nel Museo Nazionale di Roma; il corpicino apparteneva a una bimbetta figlia di un funzionario egizio. 97 Cfr. Enciclopedia Italiana 1933. 98 Robert Hertz, La preminenza della destra e altri Saggi di Antropologia, Torino 1994. 99 F. Pezzini, Doppie esequie e scolatura dei corpi nell’Italia Meridionale d’età moderna in Paleopatologia.it. 66 67 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove Capitolo IV. La sepoltura gio da membro della comunità dei vivi a membro di quella dei morti viene sancito da riti lunghi e complessi che si concludono con la definitiva sepoltura. Testimone dell’ultima fase è stato, nei primi anni del Duemila, Enrico Carloni che accompagnò al cimitero di Poggioreale il signor Ferrara per la riesumazione del corpo del figlio Giacomo, giovane e caro nostro amico, morto qualche anno prima. Non assisté alle operazioni di pulitura dello scheletro da parte degli addetti ma vide portare fuori dall’ambiente mortuario ciò che rimaneva del corpo, lavato con sapone, disinfettato con alcool e cosparso di naftalina; avvolto com’era in un lenzuolo bianco, ricordava una mummia. Le ragioni di tale usanza si collegano alla concezione della morte, dell’aldilà, del rapporto col defunto e ai tempi necessari alla metabolizzazione della perdita di un proprio caro. Infatti, come hanno sottolineato De Martino ed altri, il cadavere assume il significato di impurità capace di contagiare tutto ciò che lo circonda sia dal punto di vista materiale, sia da quello metafisico. Il contagio ricadrebbe, per la magia simpatica, sulle cose possedute in vita dal defunto – spesso venivano sepolti con lui strumenti di lavoro e armi per l’uomo, oggetti di toletta e monili per la donna, giocattoli per i piccini –, sull’acqua presente in casa che per questo era buttata via, sui parenti che per lo stesso motivo dovevano attenersi ad un periodo di lutto, quasi una quarantena che tenesse lontano dalla comunità il contagio e il diffondersi del morbo. Anche se le specifiche usanze variano da comunità a comunità, il concetto del cadavere “contagioso” sembra essere molto comune tra i popoli come dimostrerebbe la presenza di usanze simili in luoghi anche molto distanti tra loro sia geograficamente che culturalmente. Un’altra convinzione molto diffusa è quella che il defunto, una volta giunto nell’aldilà, possa agire a favore o contro i parenti a seconda degli omaggi ricevuti o no. Questo ci riporterebbe a molte usanze funebri ricordate da noi tra cui la doppia sepoltura. A tale proposito ci serviremo dell’interessante analisi fatta dal citato Francesco Pezzini che afferma che il rituale della doppia sepoltura avrebbe lo scopo di favorire l’accesso dell’anima dei defunti all’aldilà e, nello specifico, al purgatorio in modo da sottrarsi al doloroso vagare tra i vivi senza meta né scopo. E questo iter sarà lungo: infatti l’approdo all’altro regno sarà possibile solo quando le ossa, completamente ripulite da ogni contaminante putrefazione, riposeranno definitivamente nel grembo della Madre Terra. L’usanza della doppia sepoltura, oltre ad avere interessanti risvolti antropologici, potrebbe costituire anche l’esito di complesse dinamiche psicologiche. Infatti, come precedentemente accennato, il periodo piuttosto lungo compreso tra la morte della persona e la perdita di tutti i tessuti molli della salma concederebbe ai parenti di distaccarsi gradualmente dal defunto dal punto di vista emotivo e di affrontare così il processo di elaborazione del lutto100. È, infatti, con la sepoltura definitiva che l’anima varca le soglie dell’aldilà lasciando il mondo dei vivi e consentendo ai parenti di continuare a sentire la presenza del proprio caro seppure in modo diverso. Il membro della società vivente, inoltre, sarà rassicurato dalla speranza che, finché il rituale di tal genere verrà celebrato all’interno della famiglia, anch’egli, una volta morto, usufruirà del “beneficio”, vincolato alla pulizia delle ossa, di abbandonare lo stato di anima vagante accedendo a quello di membro del mondo ultraterreno. In tutto ciò entra anche un’ottica utilitaristica e un pensiero magico: per la prima il vivente svolge il rituale anche nella 100 Per qualcuno, oltre a questa funzione, la doppia sepoltura potrebbe assolvere anche al compito di fungere da memoria delle proprie origini e del’humus in cui ciascuno affonda le proprie radici in termini di persona e di personalità. Per questo argomento si rimanda al capitolo V. 68 69 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove Capitolo IV. La sepoltura convinzione di potere così chiedere ed ottenere vantaggi da chi ormai vive nel mondo delle anime; per il secondo egli crede che un’entità esterna possa influenzare in maniera vigorosa la vita umana. Insomma, per quanto riguarda il pensiero magico, alcuni credono che vi sia un legame causa-effetto tra due fenomeni – ad esempio il fulmine come manifestazione dell’ira di un dio. In questo caso, a mio avviso, come in molte superstizioni, il pensiero magico ha un benefico potere deresponsabilizzante in quanto concede all’individuo che vi ricorre la convinzione che le proprie sorti siano decise da forze a lui superiori e non pienamente comprensibili. Fenomeni del genere sono presenti nella mitologia greco-romana; la testimonianza più nota ci viene probabilmente dall’Iliade in cui divinità dalle sembianze antropomorfe prendono ciascuna le parti di uno dei due schieramenti e decidono le sorti dei singoli eroi. Un altro esempio maggiormente chiarificatore della deresponsabilizzazione collegata al pensiero magico è quello del potere della Moira (o Fato che dir si voglia) sulle vite umane e della tessitura del loro destino operata dalle Parche. Nonostante ciò, sempre nella mitologia antica, l’essere umano non risulta mai privo di responsabilità o di potere per quello che riguarda le proprie sorti. Tornando agli esempi tratti dall’Iliade, Achille viene posto davanti ad un bivio: una vita lunga e serena ma priva di gloria o una morte precoce destinata a diventare leggenda. Sarà, quindi, lui a decidere della propria sorte. Per quel che riguarda gli usi e i costumi del folclore e la concezione “superstiziosa” del mondo, la responsabilità sul proprio destino viene restituita attraverso alcuni rituali. Questi, come le pratiche apotropaiche, consentirebbero all’individuo di contrastare l’ineluttabilità del destino cui pensa di andare incontro a seguito di eventi o di azioni proprie e altrui. La persona è libera di aderire o no alle prescrizioni rituali così come Achille era libero di optare per il ritiro dalla guerra e quindi per una vita lunga. L’essere umano, all’interno di questa concezione riacquista responsabilità sulla propria vita – questo in psicologia viene definito empowerment. Ciò è possibile, però, solo se la visione del mondo viene concepita in un’ottica para-religiosa; forse per questo motivo la Chiesa, temendo che così potesse essere diminuito il suo potere in un periodo già segnato dalla riforma protestante, avversò il rituale della doppia sepoltura. Un’usanza, che per alcune modalità espressive è simile a quella della doppia sepoltura, è quella del Famadihana tipica delle tribù del Madagascar. Essa consiste nell’esumazione delle ossa dei parenti a fine di onorarli e, qualora siano stati sepolti in un luogo temporaneo, nel traslarle nella tomba di famiglia. La somiglianza tra questo rituale e quello della doppia sepoltura riguarda, però, solo alcuni aspetti formali quali la pulizia delle ossa e il loro avvolgimento in stoffe, la traslazione da un luogo provvisorio ad uno definitivo. Per altri aspetti, invece, la cosa è diversa: nel famadihana alcuni parenti, specie gli avi più importanti, possono essere dissepolti più volte e in queste occasioni si balla al cospetto dei corpi. Ma la differenza maggiore tra questi due rituali consiste negli aspetti simbolici: in quest’ultimo la pulitura dello scheletro non è finalizzata all’accesso nell’aldilà. Per Bloch101 il famadihana non ha lo scopo prevalente di compiacere i morti e di attirarne le benedizioni bensì quello di ricostruire e di affermare continuamente l’unità della famiglia, del proprio clan. Attraverso questo breve excursus sugli usi e i costumi relativi al rapporto concreto e simbolico tra i vivi e i morti nello spazio e nel 101 Bloch M., Placing the Dead. Tombs, Ancestral Villages and Kinship Organization in Madagascar, Seminar Press, Londra 1971. 70 71 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove tempo si può notare come vi siano credenze che hanno resistito ai millenni, come esse abbiano avuto e abbiano una funzione nell’economia psicologica, spirituale e materiale degli individui e come le appartenenze socio-culturali ne influenzino i significati. Un po’, come le tribù del Madagascar, anche noi con questo lavoro, cerchiamo di recuperare la memoria degli avi, le usanze di un tempo per recuperare “compattezza” poiché penso che solo conoscendo chi si è stati si possa immaginare chi si sarà o chi si vorrà essere. “Centum errant annos…” In Aen. VI, 317-330, alla domanda di Enea, meravigliato che delle anime che si affollano presso il fiume infernale, alcune «abbandonino le rive, altre solchino con i remi le livide acque», la vecchia Sibilla risponde: «tutta questa che vedi è la misera folla degli insepolti / il barcaiolo è Caronte; questi che l’onda trasporta sono i sepolti / non è dato attraversare le orribili rive e le roche correnti prima che le ossa riposino nella loro sede ma centum errant annos volitantque haec litora circum / tum demum admissi, stagna exoptata revisunt (“errano per cento anni e si aggirano intorno a questi lidi; infine, finalmente ammessi, vengono a rivedere il fiume anelato). Il terribile senso di angoscia per la privazione dei riti che hanno da sempre accompagnato la morte e la sepoltura emerge nelle parole e nelle azioni dei parenti ed amici della persona morta in luoghi lontani senza onori funebri o, ancora peggio, entrata nello spazio d’ombra orribile e doloroso degli scomparsi; è un sentimento atavico che, accomunando uomini di ogni luogo e di ogni epoca, fa in modo che essi cerchino per tutta la vita i propri cari per riparare al torto da loro subito e, qualora li trovino ormai morti, 72 Capitolo IV. La sepoltura facciano le debite cerimonie e li depongano nella tomba su cui pregare102. Tra tanti esempi di questo triste rammarico ci piace ricordare quelli così commoventi del carme catulliano in cui, all’interno del mito di Laodamia103, si introduce il compianto per la sepoltura del fratello in terra straniera: Quem nunc tam longe non inter nota sepulcra / nec prope cognatos compositum cineres, / sed Troia obscena, Troia infelice sepultum / detinet extremo terra aliena solo. (“Egli che così lontano, tra sepolcri senza nome / non accanto alle ceneri dei parenti composto / è trattenuto da Troia infame, nella Troade infausta sepolto / in terra straniera agli estremi confini del mondo”)104 Più vicine a noi nel tempo sono le lamentazioni introdotte nella bellissima ed intensa opera di Ernesto De Martino a proposito delle complesse cerimonie sopra ricordate per il funerale di un pastore bulgaro. Una delle lamentatrici si avvicina alla bara e si rivolge al morto supplicandolo di consegnare, tramite il padre, al figlio disperso in terre lontane la candela per un giusto rito che gli è stato negato: Lazzaro, caro mio, /… se ti sarà possibile e ne avrai voglia, / caro, ti ho portato una candela … / dalla a suo padre, /perché la porti al 102 Tanto forte era l’orrore per l’assenza della sepoltura e dei riti ad essa connessi che esso entrò talvolta nel mondo cristiano fino a far temere che per gli insepolti non ci sarebbe stata resurrezione. Già Cicerone, in una delle orazioni contro Verre, riporta che costui, per indurre i parenti a pagare il riscatto, minacciava di gettare i cadaveri delle sue vittime alle belve. A questo proposito. cfr. in sezione documentaria i passi riguardanti le suppliche di Ettore nell’Iliade e di Palinuro nell’Eneide, riportati da Claudio Falciano. 103 Cfr. Sezione documentaria. 104 Catullo, Carmina 68° vv. 97-100. 73 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove mio Giorgio. / Lì dov’egli è morto… non ha avuto candela… / Se incontrerai Giorgio, / e se lo vedrai triste afflitto, / è perché se ne andò senza riti… Un’altra partecipante alla cerimonia funebre piange il figlio morto al fronte “senza candela” esprimendo tutto l’angoscioso orrore per un corpo amato esposto alla violenza della natura e delle bestie: Lui la morte lo prese senza lume / perché aveva il fucile in mano. / È sotterrato alla peggio, / senza croci né bara. / Forse buttato in un torrente, / o sbranato dai cani, / o beccato dai corvi… Seppellire i morti Il rito della sepoltura ha rivestito una grande importanza fin dai tempi preistorici. Secondo Eliano, poligrafo greco del II-III secolo d. C., Eracle per primo introdusse la pratica pietosa di seppellire i corpi dei nemici prima abbandonati ai cani. Già nella Sacra Scrittura, prima tra le altre opere di misericordia105, come quella di dare cibo agli affamati e di vestire gli ignudi, viene ricordata quella di seppellire i morti. Lo testimonia con toni commoventi l’ebreo Tobia che, deportato con la sua gente a Ninive, nel libro della sua storia, continuando l’elencazione delle sue buone azioni, afferma: «… e se vedevo qualcuno dei miei connazionali morto e gettato dietro le mura di Ninive, io lo seppellivo. 105 Il dipinto “Le sette opere di misericordia” del Caravaggio è esposto nella Cappella dell’Istituto “Pio Monte della Misericordia” in via dei Tribunali a Napoli. L’opera misericordiosa di seppellire i morti è rappresentata da un cadavere, di cui appaiono solo i piedi, trasportato da due uomini uno dei quali munito di fiaccola 74 Capitolo IV. La sepoltura Seppellii anche quelli che aveva ucciso Sennacherib, quando tornò fuggendo dalla Giudea, al tempo del castigo mandato dal re del cielo sui bestemmiatori. Nella sua collera ne uccise molti; io sottraevo i loro corpi per la sepoltura e Sennacherib invano li cercava…»106. Al suo ritorno dall’esilio, Tobia, imbandito un banchetto per una festa ebraica, manda il figlio Tobia ad invitare qualche povero e apprende che nella piazza giace abbandonato il cadavere di un uomo della sua gente strangolato. «Io allora mi alzai, lasciando intatto il cibo; tolsi l’uomo dalla piazza e lo deposi in una camera in attesa che tramontasse il sole per poterlo seppellire. Ritornai e, lavatomi, presi il pasto con tristezza… E piansi. Quando poi ci fu il tramonto, andai a scavare una fossa e ve lo seppellii…»107. In seguito l’Arcangelo Raffaele, compagno di viaggio sotto mentite spoglie del figlio, loderà Tobia per avere provveduto alla sepoltura del morto108. Andersen, seppure in tutt’altro contesto, trasse forse qualche ispirazione ne “Il compagno di viaggio” dall’episodio biblico dell’Arcangelo: e, infatti, come a Tobia, anche al protagonista della fiaba, Giovanni, si affianca un essere sovrannaturale che presta il suo aiuto, naturalmente con finalità diverse, in premio della pietas del protagonista nei confronti dell’insepolto. …In mezzo alla chiesa c’era una bara aperta, con dentro un morto che non era stato ancora sepolto. Giovanni non era affatto spaventato perché la sua coscienza era tranquilla; sapeva che i morti non fanno del male, sono i vivi a farlo. E proprio due uomini vivi e cattivi stavano vicino al morto e lo volevano togliere dalla bara e gettarlo fuori dalla chiesa, povero morto! «Perché volete farlo?», chiese Giovanni, «è male! Lasciatelo in pace in nome di Gesù!». «Oh quante storie!», risposero Tb, I, 1-7. Tb, II, 1-17. 108 Tb, XI 13. 106 107 75 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove i due malvagi. «Ci ha imbrogliato! Ci doveva del denaro e non poté pagarlo e ora è morto così non avremo niente. Per questo ci vogliamo vendicare e lui giacerà come un cane fuori dalla chiesa!». «Ho solo 50 talleri», disse Giovanni, «è tutta la mia eredità, ma ve li darò volentieri se mi prometterete sinceramente che lascerete in pace quel povero morto… ». «Va bene », risposero i malvagi, «se proprio vuoi pagare il suo debito, non gli faremo niente, puoi stare certo» e presero i soldi che Giovanni offriva ridendo sguaiatamente della sua bontà, poi se ne andarono. Giovanni ricompose il cadavere nella bara, gli giunse le mani, disse addio e si avviò felice nel grande bosco. Durante il cammino, come si è detto, gli si fa compagno un uomo misterioso il cui aiuto sarà risolutivo per la vittoria sulla malvagità e per un cambiamento meraviglioso di vita. Egli si rivelerà essere il morto che ricambia la dolce pietas verso l’insepolto109. In Odi I 28, ad Orazio, immerso con la mente e col cuore nel caro paesaggio della sua terra, la penisola salentina, arriva triste la voce dell’insepolto poeta tarantino, Archita (IV sec. a. C.), che, dopo avere ricordato con luoghi comuni l’inevitabile destino di morte, chiede che si adempia al dovere della sepoltura per coloro che non hanno goduto di questo pietoso rito. Non costa molto tempo al navigante gettare sul corpo tre manciate di terra. Chi non lo farà avrà una negativa ricompensa: … Ma tu, navigante, non rifiutarti, crudele, / di spargere un poco di sabbia / sulle mie ossa e sul capo insepolto / così qualsiasi minaccia Euro rivolga sui flutti esperii / si abbatta sui boschi di Venosa lasciando / te salvo e una ricca ricompensa ti venga / da 109 Nella Bibbia, nel libro di Tobia, il figlio di costui in viaggio per riscuotere un credito del padre, trova come compagno l’Arcangelo Raffaele sotto mentite spoglie. Anch’Egli, il cui nome significa “Dio guarisce” lo aiuta contro i pericoli e ridona la vista a Tobia. 76 Capitolo IV. La sepoltura Giove propizio e da Nettuno protettore della sacra Taranto. /Non ti importa di commettere una colpa / che potrà colpire i figli innocenti ? /Forse anche a te potrebbe accadere la pena che ti spetta /… non ci sarà espiazione che te ne potrà liberare. / Anche se hai fretta, non è lunga la sosta; / ti sarà possibile riprendere il viaggio / dopo aver gettato tre manciate di terra (sopra il mio corpo). L’Antigone di Sofocle affronta la più terribile delle morti, quella di essere sepolta viva in una caverna, minaccia del tiranno Creonte a chi oserà seppellire Polinice «resti insepolto e incompianto, preda di uccelli e di cani colui che ha messo a ferro e a fuoco la terra dei suoi padri…». Ella, contravvenendo all’applicazione rigida delle leggi, segue quella non scritta dell’amore (“Io lo seppellirò”) e getta tre pugni di polvere sul corpo insepolto del fratello, tanta quanto basta per una sepoltura simbolica che sottragga il morto ad un pallido aggirarsi fuori dall’Ade. Un guardiano scopre il fatto: Quello (il morto) era scomparso non perché chiuso in una tomba / ma nascosto da un lieve strato di cenere sparsa (in fretta) come da chi fuggisse il sacrilegio / e nessuna traccia di belve o di cani / giunti a dilaniarlo appariva110… Mentre rinnova il triste compito, la fanciulla viene sorpresa e portata, come rea di sacrilegio, davanti al re Creonte cui il guardiano racconta che nell’infuriare di una tempesta: … si vede la fanciulla che manda gemiti / come fa un desolato uccello quando vede priva / dei piccoli la culla del vuoto nido / così ella, come ignudo scorge il morto / prorompe in gemiti / 110 Sofocle, Antigone, vv. 255-258. 77 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove copre di maledizioni gli autori / e con le mani di nuovo lo copre con arida polvere / e, levata in alto una levigata anfora, / incorona il corpo con triplice libagione111… All’arrogante crudeltà di Creonte, Antigone risponde proclamando il diritto di ubbidire alle leggi pietose di Giove e della Giustizia, compagna degli dei inferi; esse vivono dalla notte dei tempi. Se avesse lasciato insepolto l’uomo nato dalla stessa madre, un’angoscia mortale l’avrebbe sopraffatta. Il pietoso gesto di coprire in qualche modo il cadavere abbandonato può assimilarsi ad una sepoltura simbolica? Ci ha colpito un editoriale de “La Stampa” del 25 / 10 / 2010 in cui, biasimando i giornali che crudamente espongono immagini di corpi straziati, Mario Calabresi, figlio del commissario ucciso dalle brigate rosse fuori dalla sua casa, dice: Esiste un gesto antico di pietà che mi torna in mente continuamente in questi giorni, è quello di coprire il corpo di chi è morto in luogo pubblico112. Lo si fa con un lenzuolo bianco, con una coperta, con un qualunque indumento che protegga almeno il volto e il busto di chi ha perso la vita rimanendo esposto su un marciapiede, in mezzo alla strada, su una spiaggia o in un campo; è un gesto codificato dal mondo (anche Socrate si copre il volto mentre muore), e non 111 Ibidem, vv. 423-431. Si faceva una triplice libagione versando nella tomba o sul morto, con un vaso a bocca stretta chiamato leukotoe, prima l’idromele, poi il vino dolce, infine l’acqua. Si ricordi la forte valenza sacra del numero tre. 112 Ph. Ariés (L’uomo e la morte dal Medio Evo ad oggi Bari 1980) definisce così questa triste evenienza che coglie l’uomo lontano dai luoghi e dalle persone care: «… è la morte clandestina, senza testimoni né cerimonie: quella del viandante in cammino, dell’annegato nel fiume, dello sconosciuto di cui si scopre il cadavere su un limitare di un campo». E, possiamo aggiungere noi, è quella dei vecchi lasciati soli e finiti miseramente su un pavimento e di moltissimi assassinati gettati sprezzantemente nelle discariche o sotto i ponti. 78 Capitolo IV. La sepoltura serve solo a proteggere i morti dallo sguardo dei vivi ma anche noi stessi, i vivi, dalla vista dei morti. E’il limite del pudore, del rispetto, è il simbolo della compassione e della capacità di fermarsi… “Sed plena errorum sunt omnia” Ma c’è chi in qualche modo contesta la grande importanza data dai più alla sepoltura. Tra questi Cicerone che nel I libro delle “Tusculanae Disputationes” (De contemnenda morte), dopo che sono stati confutati i filosofi che negano l’immortalità dell’anima, passa a dimostrare che la morte non è un male perché riguarda solo il corpo privo ormai di ogni sensibilità. Quindi è ininfluente la sepoltura con i riti ad essa connessi come si evince dalla risposta data da Socrate quando Critone gli domanda come vuole essere seppellito: «Ho perso il mio tempo. Infatti non sono riuscito a persuadere il nostro Critone che io me ne volerò via di qui non lasciando niente di me». E quale cosa triste, come quella di essere divorato da uccelli e fiere, può accadere al morto se esso è ormai una cosa inerte? Anche le opere poetiche che descrivono patetiche scene di lacrime per un corpo offeso e dilaniato o apparizioni di fantasmi che chiedono la sepoltura per i loro corpi abbandonati sono pieni di falsità come lo sono i due tetrametri giambici di Pacuvio in cui Deifilo, ucciso per errore dal padre, chiede nel sogno:« Madre, ti prego, tu che cerchi di alleviare nel sonno l’angoscia, / né hai pietà di me, alzati e seppellisci tuo figlio»113. Nel capitolo XLIX, epilogo del libro, l’autore conclude che, sia che la morte costituisca la desiderata liberazione dal corpo 113 Cicerone, Tusculanae disputationes, liber primus XLIV. 79 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove per una ascesi alla celeste dimora, sia che comporti l’annientamento, non deve essere considerata un male. E, di conseguenza, tra l’imperativo del poeta Ennio «Nessuno mi onori con lacrime né celebri funerali tra i pianti» e l’invito del saggio Solone «Non manchi di lacrime la mia morte, lasciamo che gli amici / siano tristi affinché numerosi seguano con pianti il mio funerale»114, Cicerone dà la preferenza al primo. Dal papa Gregorio Magno (540-604) e da Sant’Agostino viene stigmatizzato, il desiderio dei primi cristiani di seppellire o di essere sepolti vicino alle tombe dei santi (ad sanctos) perché, dice l’autore de “Le confessioni”, alle anime dei morti sono più utili la preghiera e le buone opere. Nel 421 Paolino vescovo di Nola115 gli aveva scritto di avere acconsentito alla richiesta di una fedele di seppellire il proprio figlio nella basilica nolana di San Felice ritenendo che facesse bene ai morti stare accanto alle tombe dei santi. Nell’opera De cura pro mortuis gerenda Sant’Agostino gli risponde che la solennità dei funerali è magis vivorum solacia quam subsidia mortuorum (“è più una consolazione per i vivi che un aiuto ai morti”). Capitolo V Il lutto tra folklore e psicologia Cicerone, op. cit. XLIX. Paolino, nato a Burdigala (od. Bordeaux), nel 355, convertitosi e ordinato sacerdote, dopo l’incontro con Agostino e Ambrogio, si ritirò con la moglie a Nola, presso la tomba del martire S. Felice e lì eresse un santuario adibito, in parte, ad ospizio dei poveri. Ancora oggi, in suo onore, si celebra a Nola la “Festa dei Gigli”, con grandi macchine sorrette da portatori, su una delle quali ondeggia la statua del Santo. Molti manuali di psicologia di fronte a generiche difficoltà, oltre a discutere di tutta una serie di processi e di costrutti di cui non parleremo in questo libro, evidenziano l’importanza di potere usufruire di una solida rete sociale che supporti l’individuo durante un’importante fase di transizione. Per quanto riguarda la specificità del lutto, si aggiunge a questo fattore la necessità dell’elaborazione della perdita (essa comporta cambiamenti conseguenti) e quella della memoria. La prima è un processo dalla durata variabile per ogni singolo individuo che inizia già dalla recezione della notizia della morte di un proprio caro. A seguito di tale evento possono manifestarsi emozioni negative, il desiderio, ormai irrealizzabile, di riconciliarsi col defunto, sintomi fisici, frutto di processi di somatizzazione, senso forte di disorientamento, incertezza rispetto al futuro, insonnia, difficoltà nella concentrazione e nel mantenimento della routine, nonché senso di abulia e/o apatia. Nella maggior parte dei casi tali sintomi regrediscono nel giro abbastanza breve di uno o due anni dall’accaduto in virtù dell’accettazione della scomparsa del proprio caro, dell’eventuale ridefinizione della propria identità e del proprio ruolo all’interno del sistema familiare e di quello sociale, dell’attribuzione di significato all’evento, del sostegno da parte della rete sociale (famiglia, amici, vicini, colleghi) percepito e/o ricevuto 80 81 114 115 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove e di altri fattori intrapsichici per i quali si rimanda a testi scientifici specifici. Infatti, la morte di una persona cara può significare la rottura di uno di quelli che Bowlby ha definito “legami di attaccamento”116 ossia relazioni emotive e sociali funzionali alla sopravvivenza e alla crescita sia materiale che psicologica. La perdita di un simile vincolo relazionale può portare chi la subisce a sperimentare emozioni negative e un profondo senso di disorientamento in quanto può compromettere l’immagine che egli ha di sé come soggetto che garantisce protezione e affetto o come soggetto che ne ha bisogno. Da questo può conseguire il bisogno di ridefinire la propria identità, un processo lungo e tortuoso che a sua volta può rendere necessaria anche una ridefinizione del proprio ruolo all’interno del sistema familiare cosicché le funzioni di chi è venuto a mancare possano continuare ad essere assolte. Come si è precedentemente affermato, le emozioni negative conseguenti alla morte di una persona cara possono essere accompagnate dal desiderio di mantenere un legame con lei; 116 I legami di attaccamento iniziano ad instaurarsi sin dai primi passi dell’esistenza, nei confronti delle figure che si prendono cura di noi e che vengono così definite caregivers o “figure di attaccamento”. Ogni individuo può avere più di una di tali figure, tuttavia tra di esse una diventerà quella primaria (generalmente chi si prende maggiormente cura di lui). Queste aiutano il bambino a crearsi un’immagine di sé e del mondo sia sociale sia materiale che lo circonda. A partire da queste immagini e dalla relazione che ha con le proprie figure di attaccamento, l’individuo si approccerà al mondo esplorandolo e ricavando così conferme e disconferme rispetto ai modelli creatisi sulla base della precedente esperienza. Infatti, in situazioni equilibrate, il bambino a partire dalla sicurezza di avere chi si prende cura di lui e lo protegge, si sente libero di esplorare e sperimentare. Le relazioni di attaccamento si protraggono lungo l’arco di vita e variano andandosi a poggiare su nuove figure più funzionali al soddisfacimento dei bisogni che caratterizzano ogni fascia di età (ad esempio il partner sentimentale è tendenzialmente la figura di attaccamento primaria nell’età adulta). Per un maggiore approfondimento si rimanda ai volumi di John Bowlby e di Mary Ainsworth. Attaccamento e perdita. 82 Capitolo V. Il lutto tra folklore e psicologia questo, in situazioni funzionali, trova parziale appagamento nel ricordo materiale e/o simbolico e in rituali, come, ad esempio, messe in suffragio, visite sulla tomba, riunioni di famiglia etc. Modalità di appagamento di questo genere da una parte testimoniano il desiderio di ricongiunzione, dall’altra, però, manifestano come i parenti stiano facendo fronte alla concretezza della morte e quindi alla realtà aderendo così ad essa. Accettare la realtà è un processo senz’altro necessario per favorire l’elaborazione e l’accettazione del lutto. Tale passaggio può essere facilitato dall’ultimo saluto all’estinto in quanto esso da una parte permette di constatarne la morte, dall’altra si configura come un tributo nei suoi confronti; tributo che, unito agli altri riti funebri, può alleviare gli eventuali sensi di colpa. Sentirsi in colpa nei confronti del defunto, infatti, può prolungare il processo luttuoso e talvolta esitare in quella che Freud definiva “Malinconia”117 e che è attualmente chiamata depressione. Infatti, in questi casi, il senso di colpa fa in modo che un legame spezzato materialmente dalla morte sia eccessivamente investito sul piano psicologico impedendo così al soggetto di instaurare nuove relazioni significative che possano sostituire concretamente quella ormai perduta. Nei casi in cui il soggetto aderisca alla realtà e l’accetti per quella che è, come accade nella maggior parte di essi, lo scorrere del tempo e i contemporanei processi psichici a cui si accennava sopra fanno in modo che i sentimenti depressivi vadano perdendo progressivamente intensità. Contemporaneamente si passa in maniera graduale ad una fase di accettazione della perdita, in cui il desiderio di mantenere il legame è ormai decaduto e la morte della persona cara è entrata a fare parte della storia della vita familiare e personale così che ne possa 117 Freud S., Lutto e Malinconia, in la Teoria Psicoanalitica Bari 2001 83 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove essere preservato il ricordo. Quando, invece, insorgono difficoltà all’interno di questo processo per cui gli individui difficilmente rinunciano al desiderio di ricongiunzione, si corre il rischio di andare incontro a quello che viene definito lutto cronico, ossia una condizione luttuosa caratterizzata da vissuti depressivi che supera la durata di due anni, oppure a un lutto complicato, cioè ad una condizione in cui l’intensità sia dei sintomi sia della durata è eccessiva se messa in relazione con la cultura di appartenenza dei soggetti colpiti. Un’ulteriore condizione luttuosa è quella del lutto minimo caratterizzata da una minima presenza di sentimenti afferenti al polo negativo e di manifestazioni di dolore. Tale condizione smentisce l’opinione comune secondo cui chi non manifesta sofferenza a seguito di un evento doloroso, come la morte di un proprio caro, la sconterà poi sotto altri aspetti118. Tuttavia è sempre importante ricordare che ogni individuo è un essere a sé stante e lo stesso vale per ogni situazione luttuosa; infatti, al pari delle caratteristiche personali di chi subisce un lutto, anche le circostanze della morte della persona cara (morte naturale, violenta, improvvisa) possono avere un peso rilevante sulle reazioni che ne scaturiranno e lo stesso vale per le caratteristiche dell’estinto (età, condizioni di salute etc). Pertanto i passaggi sopra descritti sono quelli più generici, ma sicuramente non rappresentano la totalità dei casi in quanto la mente umana è eccessivamente complessa per potere essere racchiusa in un modello lineare. Per quanto concerne l’importanza della memoria, un filone della psicologia suggerisce alle famiglie, ai gruppi, agli individui di tramandare gli eventi della vita vissuta (e perduta) di generazione in generazione così che ciascuno possa risalire alle 118 L. Pietrantoni, G. Prati, Psicologia dell’emergenza. Il Mulino 2009. 84 Capitolo V. Il lutto tra folklore e psicologia proprie origini e non avere con il proprio passato tagli netti che potrebbero causare disagi emotivi, psicologici e comportamentali sul lungo periodo. Inoltre, la narrazione della propria storia personale, familiare e sociale, come degli studiosi hanno teorizzato e dimostrato (per citarne alcuni, Bruner, Bowen, Andolfi), permette la costruzione, la negoziazione e la ristrutturazione dell’identità individuale e di quella di gruppo. Dunque la trasmissione intergenerazionale delle memorie familiari, popolari o di qualsiasi gruppo sociale che possa definirsi tale, favorisce la creazione e il rafforzamento del senso di appartenenza col conseguente aumento della coesione intergruppale (che si parli di famiglia, popoli, etnie, gruppi politici, religiosi). L’individuo, infatti, non è una monade, così come inteso dal filosofo Leibnizt, ma è parte di una serie di insiemi tra loro interconnessi e il primo di cui fa esperienza è proprio quello dell’ambito familiare; è da esso che trae la propria identità e le proprie radici che ne influenzeranno le successive relazioni e il successivo funzionamento, anche se non secondo una logica di causalità lineare. Seppur privi di una teoria specifica relativa a questi fattori, gli antichi inconsapevolmente ne erano influenzati. Infatti, essi erano soliti affondare le radici dei propri e altrui popoli nei miti al fine di far coincidere la propria e altrui identità con specifiche caratteristiche dell’eroe, del dio o semidio di turno; un esempio è quello relativo a fondazioni di città come Tebe e Roma 119. 119 La fondazione di Roma, secondo i miti più diffusi dagli storici antichi, come Tito Livio e Dionigi di Alicarnasso, viene fatta risalire ai discendenti di Enea, figlio di Venere /Afrodite, Romolo e Remo nati da Rea Silvia e da Marte. Sia di Enea, sia dei due gemelli sono giunti a noi racconti di lunghe peregrinazioni e sfide affrontate con forza e astuzia. Se nel progenitore riscontriamo i valori del coraggio e dell’amicizia – quella ad esempio verso il giovane Pallante –, in Romolo vediamo la fermezza e l’amore verso il proprio popolo e la propria città che lo spinge ad uccidere Remo colpevole di avere contra- 85 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove Miti del genere si possono riscontrare in altre innumerevoli fondazioni di città o di tribù in molte parti del mondo; la loro continua narrazione avrebbe avuto lo scopo di ricordare al popolo le proprie origini intrise, a seconda dei casi, di coraggio, saggezza, forza etc, tutte qualità che per la proprietà transitiva sarebbero andate a costituire anche l’identità degli attuali abitanti in quanto discendenti dell’eroe. Ma, ricollegandoci più direttamente al lutto, uno degli argomenti di questo libro, la memoria dei defunti, da una parte mantiene lo scopo di ricordare a ciascuno le proprie origini, dall’altra ha il fine di attribuire significato all’evento, permettendone l’inserimento all’interno della propria storia familiare, e di alimentare un legame emotivo materialmente spezzato ma psicologicamente ancora integro. è dunque in questo spazio che si collocano i rituali relativi al ricordo dei defunti, come la festività del 2 novembre, le messe di commemorazione, le visite alle tombe, ma anche le grandi manifestazioni commemorative che sono solite farsi in caso di catastrofi o morti di personaggi illustri o che abbiano avuto presa sul grande pubblico. La creazione di eventi pubblici o privati volti a ricordare i cari scomparsi consente, inoltre, di mantenere unita la rete so- Capitolo V. Il lutto tra folklore e psicologia ciale in cui essi erano inseriti. Soffermiamoci, però, sugli eventi privati perché questi meglio rappresentano il taglio del presente libro, in quanto maggiormente densi di quel folklore qui trattato. Tale folklore, infatti, ha una valenza psicologica funzionale al mantenimento del benessere, anche in situazioni di profonda crisi come quelle luttuose. Ad esempio, un’usanza molto diffusa nel meridione è quella di andare a trovare i parenti del defunto portando, oltre al proprio cordoglio, zucchero e caffè, cose che vengono donate anche in occasioni certamente più gioiose. Purtroppo le motivazioni esplicite di tale gesto sono ignote ormai ma posso immaginare che esso rappresenti la disponibilità alla relazione e al sostegno emotivo dal momento che può configurarsi come tramite per la creazione di momenti conviviali (dà ai presenti l’occasione di prendere un caffè) ed è ben noto come nel meridione il cibo sia un canale particolarmente investito ai fini sociali. In tali momenti conviviali diviene possibile alle persone colpite dal lutto esprimere il proprio dolore potendo godere del sostegno degli altri presenti. Inoltre, tutti possono ricordare il defunto attraverso aneddoti e iniziare ad immaginare la vita futura senza di lui dando così inizio all’ormai ben noto “processo di elaborazione del lutto” durante il quale il singolo individuo o il gruppo ritira l’investimento affettivo effettuato sulla persona del morto per trasferire parte di quelle risorse emotive su altre aree. Ritornando alle manifestazioni pubbliche del dolore, esse per millenni hanno trovato espressione nel ricorso a figure quali quelle delle prefiche, donne appartenenti alla rete sociale del defunto o pagate dalla sua famiglia che, di fronte al lutto, davano inizio a lamentazioni funebri piangendo, urlando, percuotendosi a sangue120. Tale usanza, presente già nel mondo stato le leggi sacre. Possiamo, quindi, constatare dai racconti di illustri storici dell’epoca come i romani affondassero le loro radici nel divino e in alcuni dei grandi valori universali. In questa maniera, da una parte veniva giustificato lo splendore della civiltà romana, dall’altra, in un periodo in cui la trasmissione culturale alle grandi masse veniva ancora veicolata dal canale orale, si invitava il popolo a farsi portatore degli stessi valori riconoscendo le proprie origini in essi. Anche nella fondazione di Tebe nella Beozia, frequentemente ricordata nei miti greci, riscontriamo l’intreccio tra divino e grandi valori universali. Essa, infatti, viene imposta dall’Oracolo di Delfi a Cadmo che, giunto nel luogo prescritto, con l’aiuto della dea Atena, sconfigge il possente drago a tre teste sacro ad Ares e dai di lui denti ricava i suoi primi cinque sudditi. Successivamente l’eroe sposa Armonia, figlia di Afrodite e di Ares; la loro progenie avrà così origini divine ed eroiche. 120 Accompagnava queste manifestazioni l’oscillazione del corpo, la stessa usata per gli infanti da addormentare con effetto ipnotico. Nel napoletano si strappava una ciocca di capelli alla vedova per buttarla sul defunto. 86 87 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove antico (Egitto, Grecia, Roma) si è conservata fino agli inizi della seconda metà del’900 nel Sud Italia riducendosi poi a poco a poco fino a scomparire. Le donne avevano il compito di manifestare la sofferenza della famiglia e di amplificarla mostrando da una parte l’amabilità della persona scomparsa (durante i pianti ne venivano decantate le doti), dall’altra il dolore per la grave perdita121. I lamenti venivano intonati su linee melodiche che mutavano da zona a zona e talvolta da villaggio a villaggio all’interno della stessa regione. Il contenuto letterario seguiva canoni ben definiti in cui comparivano, a seconda dei casi, tematiche stereotipate come ad esempio, in caso di morte del capofamiglia, quella della scomparsa della colonna portante della casa, dell’uomo gentile con la moglie e padre affettuoso con i figli – tali lodi erano innalzate anche quando la persona scomparsa nella realtà non le aveva meritate. Le lamentatrici erano solite anche chiedere al defunto se fosse contento del trattamento ricevuto (il lamento, infatti, è un rito all’interno di un più vasto rituale funerario che varia a seconda della cultura del popolo cui si fa riferimento). In Lucania, ad esempio, il morto veniva inumato con i vestiti buoni e i suoi beni più cari, in Romania il periodo di lutto durava tre giorni con il susseguirsi di una serie di riti tradizionali come la processione di un abete, banchetti funebri e lamenti.122 L’intero cerimoniale rituale lascia chiaramente trasparire un’immagine della morte e dell’aldilà intermedia tra quella tipica della religione cattolica e quella della religione pagana per Capitolo V. Il lutto tra folklore e psicologia 121 De Martino (Morte e pianto rituale cit.) ha notato che erano quasi sempre le donne a svolgere questo compito mentre gli uomini che si univano a loro venivano definiti “di cuore molle”. Tale differenza di genere sembrerebbe avere carattere transculturale all’interno dell’area euromediterranea in quanto la maggior parte delle testimonianze si riferiscono a donne in veste di lamentatrici. 122 De Martino E., Morte e pianto rituale cit. la quale il morto continua ad avere una vita simile a quella condotta da vivo. Tale visione della vita ultraterrena sembrerebbe essere confermata ulteriormente dal fatto che le donne descrivevano al defunto l’andamento del funerale, l’arrivo e la partenza dei visitatori quasi fosse stato una persona viva ma incapace di vedere da sé ciò che gli accadeva intorno. Un altro aspetto caratterizzante le lamentazioni funebri lucane era la presenza di persone non prezzolate esterne alla famiglia che, venute a conoscenza del lutto, oltre a piangere il defunto insieme con i parenti e gli amici di lui, approfittavano dell’occasione per aggiungere lamenti per la morte dei propri cari, specialmente se questi, come nel caso dei dispersi in guerra, non avevano potuto godere del dovuto rituale funebre. Abbiamo attinto, per la maggior parte dei dati riguardanti il lamento funebre, dalla pregevolissima disamina che De Martino ha svolto nel testo più volte citato, concentrandosi soprattutto sul suo aspetto rituale. L’autore individua nel rito uno strumento che consente alle persone colpite da un lutto di sfogare il proprio dolore e al contempo di mantenere l’equilibrio psichico ed emotivo. Si potrebbe, infatti, affermare che la schematicità del rituale avesse una funzione contenitrice ma priva dei processi di mentalizzazione che potrebbero permettere un’adeguata padronanza di quelli emotivi in atto. De Martino ha basato le sue affermazioni, da una parte sugli studi di testi psicologici, come quelli freudiani e quelli di Janet, e etnografici, dall’altra sull’osservazione diretta del lamento funebre in Lucania dove, negli anni 50 del secolo scorso, era ancora praticato perlopiù dalle famiglie e dalle comunità contadine. Da qui è emerso che il pianto rituale e il lamento seguivano un preciso ritmo e dei moduli testuali piuttosto comuni all’interno della stessa regione. 88 89 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove Tra una lamentazione e l’altra vi erano alcune pause durante le quali le lamentatrici potevano distrarsi e passare repentinamente da uno stato di profondo dolore ad una sorta di indifferenza che gli consentiva di parlare dei più disparati argomenti anche non attinenti alla circostanza. Mentre agli occhi di alcuni questo era sembrato una palese manifestazione di colpevole ipocrisia, De Martino vi ha scorto una precisa fase del rituale che, come si è precedentemente affermato, avrebbe lo scopo di far mantenere negli individui colpiti dal lutto la presenza a se stessi. Secondo il suo pensiero, il repentino passaggio di stato veniva determinato nelle lamentatrici da una specie di sdoppiamento per cui si manteneva una parte di sé ben lucida e ancorata alla quotidianità, l’altra affranta dal dolore ma rinchiusa nella schematicità del rito. L’evento luttuoso comporta il rischio di “morire con ciò che muore”, ossia di perdere quella spinta vitale che porta l’individuo ad essere persona unica e irripetibile – ciò attualmente rientra nella definizione di lutto cronico e in quella di lutto complicato. Invece è auspicabile in tali eventi “farlo morire – il morto – dentro di noi”123 ossia attuare il disinvestimento nei confronti della relazione con il defunto mantenendone comunque la memoria (questo è definito “lutto comune”). Il lamento funebre, dunque, fungeva da protezione sia dal rischio più generico di perdere la spinta vitale, sia da manifestazioni inadeguate della sofferenza che De Martino ha individuato nello stato di “ebetudine stuporosa”124 chiamato at- Capitolo V. Il lutto tra folklore e psicologia tualmente “dissociazione”125 o, al polo opposto, nel planctus126 irrelativo, una scarica rabbiosa di dolore. Col progredire della civiltà queste usanze funebri risultarono per motivi politici e religiosi poco consone al decoro e pertanto, già nella Grecia classica e durante l’impero romano, vennero promulgate leggi volte a modulare il ricorso alla lamentazione riducendola al minimo, evitando la partecipazione di donne prezzolate e di quelle non imparentate col defunto che approfittavano dell’occasione per piangere i propri morti. Platone ne “La Repubblica”, costruendo la sua città ideale, ritiene che non sia decoroso che i guardiani della città che devono essere anche filosofi, si abbandonino, come gli eroi dell’Iliade, a lamenti “da donnicciole e da uomini vili” perché costoro, in quanto persone sagge, non devono temere la morte. E il filosofo continua pregando Omero e gli altri poeti «di non rappresentare Achille, figlio di una dea… mentre “si alza diritto e s’aggira sconvolto sulla spiaggia del mare infecondo” né mentre “con ambo le mani afferra ceneri nere e se le versa sul capo” né in preda a tutti quei gemiti e pianti che il poeta gli ha attribuito …»127. De Martino, op. cit. p. 14. Questo stato, come ci riferisce De Martino, in Lucania prendeva un preciso nome: “attasamento”. 125 Si tratta di un meccanismo di difesa per cui alcuni processi psichici vengono del tutto estromessi dall’intero sistema psichico comportandone così un distacco. Nei casi dell’ebetudine a cui ci si riferisce, la dissociazione si manifesta nell’incompleta adesione alla realtà; è un meccanismo di difesa che interviene frequentemente a seguito di fenomeni traumatici nel tentativo di ridurre l’impatto psichico. 126 Il termine latino viene da plangere (radice plag- plak di origine onomatopeica): il suo primo significato è “percuotere” con allusione al gesto di dolore di “battersi il petto”. Anche il sostantivo ”lutto” si ricollega allo stato di dolore che provoca il pianto e la sua radice antica leug- evocava l’atto violento di “battere”, “rompere”. 127 Platone, op. cit., III 388. Il filosofo cita i vv. 10-12 del canto XXIV dell’Iliade. 90 91 123 124 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove In Israele venivano vietati i gesti di autolesionismo come oltraggiosi nei confronti di Dio, unico padrone del corpo umano. Con l’avvento del Cristianesimo e una nuova concezione dell’aldilà per cui la morte, e quindi la vita ultraterrena, ci permette la vicinanza con Dio, il lamento funebre è visto come una mancanza di fede. Se da una parte la morte non deve essere causa di dolore eccessivo, è giusta la tristezza conseguente all’assenza del proprio caro in quanto essa è propria della natura umana. Tale sentimento, però, deve essere manifestato in modo intimo e sommesso – poche lacrime rigarono il volto di Gesù alla notizia della morte di Lazzaro; sommesso e privato fu il pianto di Agostino per la morte della madre128. La figura che meglio sancisce il passaggio dalla vecchia modalità di pianto alla nuova, tipica del cristianesimo, è quella della Mater Dolorosa: Maria, che nella sua piena umanità ha un’iniziale reazione pregna di dolore vedendo il figlio crocifisso e incoronato di spine, in un secondo momento assiste in una specie di rassegnato mutismo alla scena per poi invitare le altre donne a non affliggersi perché Lui tornerà come promesso. Il rituale del lamento funebre, come si è detto, è proseguito, sebbene più raramente fino ad oltre la metà del ’900 e oggi sembra essere del tutto sparito. Ciò potrebbe essere dovuto a cambiamenti socio-economici e al progressivo venir meno di una cultura arcaica che caratterizzava il mondo agricolo. Questi fattori, uniti a millenni di sedimentazione dei dogmi cattolici e alle evoluzioni provocate dall’Illuminismo e in seguito dal Positivismo, presumibilmente hanno favorito un maggior ricorso a strategie psichiche di difesa, quali la razionalizzazione che permetterebbe appunto di facilitare l’accettazione del lutto quale evento normativo del ci128 Capitolo V. Il lutto tra folklore e psicologia clo della vita. Ciò spiegherebbe anche perché i ceti più abbienti e quindi con maggiore possibilità di accedere alla cultura, all’epoca degli studi di De Martino, avessero già in larga maggioranza abbandonato il ricorso a questo tipo di rituale funebre. In conclusione mi sento di affermare che gli usi funebri, frutto di sedimentazioni culturali millenarie, siano dei mezzi “ingenui” (ossia adoperati senza avere conoscenza del loro valore psicologico) utili a preservare l’equilibrio psicoaffettivo e il senso di continuità a cui miriamo per avere sicurezza in noi stessi e nel mondo circostante. Agostino, Confessioni IX, XII-XIII. 92 93 Capitolo VI I regni dell’Aldilà L’aldilà nel mondo antico L’aldilà omerico è un regno buio dove le vacue ombre dei defunti – tranne quelle degli insepolti – privi di pene, buoni o cattivi che siano, hanno necessità di bere il sangue di animali neri sacrificati per rianimarsi temporaneamente e rispondere alle domande di Odisseo che per questo scende fino agli estremi confini del mondo. Una visione della dimora delle anime molto vicina a quella cristiana per la sua triplice divisione e per l’etica si trova, invece, in Platone che, nel dialogo Fedone, descrivendo i quattro grandi fiumi, Oceano, Acheronte, Piriflegetonte, Cocito, si sofferma a parlare delle sorti delle anime dopo la morte. Esse sono distribuite in tre luoghi che potrebbero in certo qual modo corrispondere ai nostri Purgatorio, Inferno, Paradiso. Nella palude Acherusia convengono, su barche naviganti sull’Acheronte, le ombre dei defunti che hanno tenuto in vita «una via di mezzo» e lì dimorano per uno spazio di tempo più o meno lungo purificandosi dalle loro colpe; nel Tartaro, profondissima voragine che attraversa tutta la terra, sono inabissati per sempre i colpevoli di sacrilegi, di omicidi e simili misfatti inespiabili mentre coloro che abbiano commesso colpe gravi ma espiabili ne possono uscire purché riescano ad ottenerne il permesso dalle loro vittime; il terzo luogo è abitato da coloro che si siano distinti per la santità della 95 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove vita e che, «liberi e sciolti da questi luoghi terreni come da carceri, giungono in alto nella pura dimora e abitano sulla vera terra»129. Negli Inferi romani, dove lo squallore scompare solo nei Campi Elisi, scende anche Enea trovandovi la triste figura di Caronte, le turbe di coloro che attendono di essere traghettati e quelle degli insepolti. Ma nel V secolo alcune tavolette orfiche e qualche ode di Pindaro descrivono un luogo che sembra anticipare il Paradiso cristiano, inondato di luce e privo di dolore, dove la morte è concepita come inizio di eterna beatitudine. Queste nuove idee vengono da paesi orientali, come la Tracia, o dall’Egitto dando vita ai misteri di Osiride, eleusini, orfici, dionisiaci. Essi nascono dalla concezione della catabasi negli inferi di un dio che riporta la vittoria sulla morte e sul cui esempio l’individuo può conseguire un felice destino dopo la fine terrena. Nella Bibbia il numero dei fortunati è limitato a qualche grande profeta come Elia rapito sul carro di fuoco e asceso al cielo mentre nel mondo egiziano i Misteri di Osiride promettono la salvezza alla totalità degli iniziati tramite l’imitazione delle vicende del dio solare130. Senza l’apporto dell’Oriente i greci non sarebbero stati capaci di dare agli uomini desiderosi di risolvere l’enigma della morte, una sola parola di speranza. E, fatto quasi stupefacente, anche Israele, che fu sempre sostenuto… dall’incrollabile fede nell’onnipotenza e misericordia di Dio e i cui libri sacri sono pieni di minuziose prescrizioni sul culto e sulla vita sociale, non è mai giunto al punto di elaborare una escatologia, ossia una teoria dei destini dell’uomo dopo la morte (pur credendo alla sopravvivenza)131. Capitolo VI. I regni dell’Aldilà Nel vangelo di Luca (Il ricco epulone, 16, 19-31) si parla di due sedi dei defunti: in una, l’inferno, viene precipitato il ricco, impietoso epulone, nell’altra, “il seno di Abramo”, viene trasportato dagli angeli il povero Lazzaro che in vita non aveva ottenuto neanche una mollica di quelle cadute dalla mensa opulenta. Secondo l’apologeta Tertulliano, in questo luogo, non celeste ma sovrastante gli inferi da cui lo divide un incolmabile baratro, i giusti godono di una consolazione provvisoria «finché la consumazione di ogni cosa non completi la resurrezione di tutti con la ricompensa del Creatore»132. Insomma, mentre il refrigerium vero e proprio accoglie la beatitudine eterna dei martiri subito dopo la morte e quella degli eletti dopo il Giudizio Universale, il “seno di Abramo” è un refrigerium interim cioè provvisorio ristoro per i giusti in attesa della resurrezione. …e in quello medievale. Il Limbo. La suddivisione dei regni dell’aldilà fatta da Dante viene condivisa, almeno in parte, dal domenicano Antonino Pierozzi nel trattato Summa Theologiae della metà del 1400. Il paradiso, ubicato nell’empireo, è il locus gloriae, l’inferno, posto al centro della terra, è il locus miseriae. In questo ultimo regno hanno, secondo l’uomo di chiesa, una posizione particolare i piccoli morti senza battesimo e condannati nel Concilio di Firenze del 1439 “a scendere subito nell’inferno”, cosa sostenuta in modo intransigente anche da Sant’Agostino. «La posizione delle ani- Platone, Fedone, LXII 114. Cfr. sezione documentaria. Cfr. Maurice Bouisson, I riti della magia, Carnago 1994 pp. 69 sgg. 131 M. Bouisson, op. cit. p. 71. 132 Tertulliano, Adversus Marcionem, IV, 34, 11-14. A differenza di Tertulliano che parla del Paradiso come di sede immediata dei soli martiri, mentre ai giusti, in genere, viene riservato un ristoro temporaneo, Marcione sostiene che il luogo di beatitudine spetta subito, non solo ai martiri ma anche ai giusti in questione. 96 97 129 130 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove me dei parvuli era sì nell’Inferno ma si poteva descrivere come quella di chi in una casa piena di fiamme si trova vicino al tetto e perciò non avverte gli effetti del fuoco»133. Nella parte superiore dell’Inferno, nel I cerchio, Dante pone coloro che vissero al di fuori della vera religione o che, per essere vissuti prima del Cristianesimo, seguirono le virtù cardinali e non le teologali. In questo luogo chiamato Limbo (“lembo”) soggiornano anche, come si è detto, i piccini che non hanno ricevuto il battesimo purificatore del peccato originale e porta della fede mentre i patriarchi ne sono stati liberati da Cristo disceso agli Inferi. Tutti costoro non sono afflitti da pene materiali ma dal dolore per l’assenza della visione di Dio. Agli inizi del 1900, il catechismo di Pio X sottolinea che «i bimbi morti senza battesimo vanno al limbo dove non godono Dio ma nemmeno soffrono perché, avendo solo il peccato originale, non meritano il paradiso ma nemmeno l’inferno e il purgatorio». Nel 2007, con un testo intitolato «La speranza di salvezza per i bimbi che muoiono senza essere battezzati», la Chiesa, che già lo aveva fatto nel “Nuovo Catechismo” del 1992, rivede il concetto del Limbo dove ormai sarebbe confinata una schiera sempre più numerosa di infanti uccisi prima di venire alla luce. Questo ripensamento trova giustificazione nel fatto che «la misericordia di Dio vuole che tutti gli esseri umani siano salvati». Ma prima di questi interventi, per scongiurare il pericolo che il neonato, morendo senza il primo sacramento, fosse confinato in un posto così poco accogliente, ci si affrettava a battezzarlo. L’autrice ricorda che questo timore sussisteva ancora negli anni cinquanta del secolo scorso, quando nacquero i primi suoi figli, tanto che in genere si ricorreva al battesimo prima possibile a differenza dei tempi odierni in cui il piccolo, ormai grandicello, potrebbe avviarsi da solo al fonte battesimale. 133 A. Prosperi, Dare l’anima cit. p. 180. 98 Capitolo VI. I regni dell’Aldilà Nei secoli passati si pensava che i figlioletti dal luogo ultramondano inviassero tristi messaggi ai genitori che cercavano di rimediare pronunciando durante la comunione la formula «Io ti battezzo» seguita dal nome del morticino. Nel XVI secolo Carlo Borromeo rese obbligatorio il parto cesareo sulla madre morente per battezzare il feto e salvargli l’anima134. Il Purgatorio La credenza che le anime dei defunti, colpevoli solo di peccati veniali di cui si fossero pentiti, potessero essere agevolate da preci, da riti di suffragio e da elemosine, nel percorso alla beatitudine eterna esisteva già nella Chiesa primitiva e ancora prima. Lo confermano testi importanti come quello della Bibbia cristiana (II libro dei Maccabei) in cui Giuda Maccabeo ordina un sacrificio purificatorio dei peccati per i caduti in battaglia135. Nel mondo cristiano, inoltre, la grande importanza di abbreviare le pene delle anime per mezzo dell’intercessione dei vivi è sottolineata dagli Atti di Perpetua e di Felicita, due giovani cristiane cartaginesi condannate con i loro compagni di fede alle fiere agli inizi dell’anno 200, sotto l’imperatore Settimio Severo. Nei capitoli III-X, Perpetua in persona, secondo la tradizione, rivela due visioni notturne che l’hanno convinta dell’efficacia delle orazioni in soccorso dei defunti. Nella prima ella vede il fratellino Dinocrate morto per un tumore uscire da un luogo oscuro, sfigurato in volto dal male e assetato; diviso dalla sorella da uno spazio incolmabile, tenta invano di bere da una vasca colma di 134 A proposito di un macabro espediente cui si ricorreva nel 1400, quello di portare i cadaverini in appositi santuari per resuscitarli momentaneamente e impartirgli il sacramento, cfr. Adriano Prosperi, Dare l’anima cit. pp.204 sgg. 135 Cfr. Sezione documentaria. 99 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove acqua ma dai bordi troppo alti. Nel secondo sogno che subentra ad ore di intensa preghiera, appare a Perpetua il bambino ben curato nell’abbigliamento e con la ferita cicatrizzata che, bevuto a sazietà da una coppa d’oro posata sui bordi ormai bassi della vasca, si dedica a giochi infantili; da ciò ella deduce che Dinocrate, grazie alle sue suppliche, è libero dalla pena. Più tardi si sviluppò il contenuto teologico del Purgatorio determinando come e in che contesto dovesse avvenire il percorso o per l’incontro definitivo con Dio o per la condanna eterna. Infatti, nel sistema binario (Inferno-Paradiso) fu introdotto, nella seconda parte del XII secolo, il Purgatorio136; nelle sue fiamme le anime che, pur essendo incorporee, sono in grado di soffrire, si sarebbero purificate dai peccati veniali ottenendo l’accesso al regno celeste137. Ma le pene possono essere alleviate dalle preghiere, dalle messe e dalle indulgenze della Chiesa che con la loro vendita provocò più tardi scandali disastrosi. La raffigurazione del Purgatorio, immaginata nei primi tempi come un cupo luogo sotterraneo, viene rivoluzionata dal poema di Dante che lo colloca in una montagna coronata dal Paradiso Terrestre, le cui pendici, vengono scalate dalle anime in un percorso ascensionale. Il concetto di “scala” che porta al cielo si era andato delineando già in una letteratura visionaria che abbraccia i secoli VI-XII. La più suggestiva di queste visioni in cui per la prima volta appare il regno intermedio tra l’inferno e il paradiso, è contenuta nel Tractatus de Purgatorio Sancti Patricii redatto all’incirca nel 1180 136 Il dogma viene proclamato nel Concilio di Trento del 1543. Come ci dice Le Goff, La nascita del Purgatorio, il termine come sostantivo è usato solo verso il 1200; prima accompagna come aggettivo i nomi poena, ignis. 137 Il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica così recita a proposito del Purgatorio: «Il Purgatorio è lo stato di quanti muoiono nell’amicizia di Dio, ma, benché sicuri della loro salvezza eterna, hanno ancora bisogno di purificazione per entrare nella beatitudine celeste». 100 Capitolo VI. I regni dell’Aldilà dal monaco cistercense Enrico di Saltrey – nella Cronica Hiberniae si narrava che al santo vescovo irlandese, Patrizio, vissuto verso la seconda metà del 400, Cristo avesse mostrato una caverna o un pozzo attraverso cui entrare nel regno dei morti per purificarsi. Nel Tractatus vi accede un cavaliere, Owein, dopo una preparazione di penitenza. Prima di iniziare il percorso attraverso il regno intermedio dove vengono espiate con pene terribili le colpe, il viaggiatore viene informato da esseri biancovestiti dei tormenti da cui si dovrà guardare. In una delle tante volgarizzazioni trecentesche dell’opera, il cavaliere, trascinato da demoni, scorge un immenso edificio dal quale provengono «grandissimi guai e dolorose istrida che facievono quei miseri … ed essendovi menato drento videvi un crudele modo di pene, cioè vidde tutto lo spazio di quella casa pieno di fosse ritonde… e queste cotali fosse erano tutte piene di diversi metalli che continuamente bollivano; e nelle fosse era grande moltitudine di giente di ogni maniera e età…». In Campania il culto delle anime purganti si diffuse nel 1600, quando la chiesa, dopo la controriforma, sottolineò l’importanza del legame tra i vivi e i morti che avrebbe anche attutito il timore del loro ritorno. Nel contempo andò accentuandosi la venerazione per Maria e Giuseppe che ancora oggi vengono invocati come datori di una buona morte con la giaculatoria «Gesù, Giuseppe e Maria assisteteci nell’ultima agonia». G. Amalfi ricorda gli usi della fine dell’Ottocento, quando le vecchie, custodi del corpo del defunto che non deve mai essere lasciato solo, invocavano: «Anime sante, pezzentelle / che penate’mpriatorio / Nce mannate le scalelle / pe’darve’st’ommo’mparaviso comm’a S. Liborio»138. 138 Gaetano Amalfi, op. cit., p.62. San Liborio (IV sec.) per essere morto se- 101 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove Capitolo VI. I regni dell’Aldilà Testimonianze tra le più importanti di questo culto sono, tra gli altri luoghi, a Napoli, il Cimitero delle Fontanelle e la chiesa di S. Maria delle anime del Purgatorio ad Arco in via dei Tribunali e, a Somma Vesuviana, S. Maria del Pozzo dove la figura della Madonna appare col seno stillante latte, quasi pioggia benefica che smorza l’insopportabile calore delle fiamme purificatrici. Nel Cimitero delle Fontanelle sono i fedeli ad adottare un teschio chiamato affettuosamente “capuzzella” e a curarne la conservazione; in S. Maria ad Arco è il teschio a scegliere, apparendogli in sogno, colui che deve occuparsene. Naturalmente è implicito che alle preghiere per le anime chiamate “pezzentelle” (lat. petentes “che chiedono”) devono corrispondere da parte di esse piccoli favori, come numeri del lotto vincenti o soluzioni per dolori e difficoltà. Durante la seconda metà del settecento si moltiplicarono le edicole votive nella città di Napoli, fatto dovuto, oltre che alla devozione popolare, anche a motivi utilitaristici: infatti i ceri accesi durante la notte illuminavano il buio pericoloso dei vicoli. Molte di esse mostrano statuine di terracotta policroma rappresentanti busti di anime emergenti dalle fiamme del Purgatorio e sovrastate spesso da una scena di Crocefissione o da una Madonna con Bambino. I purganti sono raffigurati nudi come nudi sono nell’immaginario i morti che si levano dai sepolcri nel giorno del Giudizio finale. Una di queste edicole è situata sulla parete destra, partendo da piazzetta Nilo, della via omonima, molto vicino alla confluenza di essa con via dei Tribunali. Vi appaiono statuine di corpi avvolti dalle fiamme e in atto di supplica verso il Crocefisso. Tutti i personaggi sono nudi; solo uno denuncia per mezzo della stola e del tricorno la sua appartenenza all’ordine sacerdotale. Un’altra piccola edicola è incassata nella parete di sinistra, salendo, di via Atri che inizia da via dei Tribunali all’altezza della pizzeria Sorbillo; ma la scena è nascosta quasi completamente da foto di persone defunte; rimane scoperto solo il soffitto, rosso per le fiamme purificatrici. Da notare che in queste edicole la raffigurazione delle pene purgatoriali, ignorando il percorso ascensionale immaginato da Dante, viene collocata in un ambiente cupo di grotta ravvivato solo dalle lingue di fuoco, fuoco che, come sottolinea Le Goff, «rigenera e rende immortali»139. renamente tra le braccia dell’amico, S. Martino di Tours, viene venerato come patrono della buona morte. 139 Cfr. a questo proposito Jacques Le Goff, La nascita del Purgatorio cit., Torino 1996, pp11-15. 102 103 Sezione documentaria In Sardegna la nera professionista dell’eutanasia: l’accabadora Il termine “accabadora” che viene dallo spagnolo acabar (“terminare”) si riferiva ad una donna vestita di nero che interveniva quando l’agonia si protraeva mettendo fine ad essa o sfondando il cranio del renitente con “su mazzolu”, una specie di martello di legno duro, o soffocandolo stringendolo tra le cosce. «È in Barbagia, nella Sardegna più restia all’onda della civilizzazione, che l’accabadora ha un modo di operare che la rende ancor più vicina ad una madre… negli anni 50 qualcuno ancora le apriva le porte di casa … quando operava era come se volesse risucchiare la vittima attraverso la matrice che l’ha generata… Quando era il momento, lei arrivava e, come ha testimoniato una donna dei primi del novecento ciò, “era indispensabile perché non esistevano le medicine per non fare soffrire». La donna si accovacciava dietro al capezzale e stringeva la testa del morente tra le sue gambe. Lo accarezzava e cominciava a cullarlo come fosse un bambino. Gli cantava la stessa ninna nanna che lui si sarà sentito cantare dalla propria madre; quando finalmente l’agonizzante tornava infante, lei lo uccideva con la forma più sensuale di strangolamento. Se non bastava lo soffocava con un cuscino140». 140 Nicoletti Gianluca, reportage tratto da “La Stampa” del 1 maggio 2005. 105 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove Le orribili streghe all’attacco dei morti Petronio, Satyricon, 63 4-5 Durante il sontuoso banchetto offerto da lui, il neo-arricchito Trimalcione non vuole essere da meno del commensale e aggiunge al racconto di costui sul licantropo anche il suo, relativo alle striges, orribili esseri dal duplice aspetto di uomini e di uccelli, che, non solo insidiano le culle e succhiano il sangue dei piccini, ma, sottraendo ai morti le viscere in un orrido rito di necrofagia, ne riducono il corpo ad un fantoccio vuoto. E non si limitano a questo ma, toccando mala manu il pezzo di omone che sta nella stanza del morto a fargli la guardia, lo riempiono di lividi portandolo alla pazzia. Ai tempi in cui ero capelluto…, morì il favorito del mio padrone, un gioiellino, perbacco… Dunque, mentre la madre, miserella, si disperava e noi in molti eravamo immersi nella tristezza, all’improvviso le streghe cominciarono a stridere; avresti pensato ad un cane che inseguiva una lepre. Avevamo con noi allora un uomo della Cappadocia, una stanga, arrogante e forzuto; avrebbe potuto sollevare un bue inferocito. Costui, audacemente, con la spada sguainata si precipita fuori dalla porta, con la mano sinistra avvolta ben bene (nel mantello) e trafigge nel mezzo una strega, proprio qui – lungi dal male ciò che tocco. Udiamo un gemito e – giuro che non mento – non vediamo streghe. Il nostro bestione, entrato, si butta sul letto, col corpo pieno di lividi quasi fosse stato frustato, perché chiaramente era stato toccato dalla mala mano. Noi, chiusa la porta, torniamo di nuovo alla nostra incombenza pietosa ma, mentre la madre abbracciava il corpo del figlio, toccandolo, si accorge che è diventato un pupazzo di paglia. Non aveva più cuore né intestini, insomma niente di niente; era chiaro che le streghe avevano involato il fanciullo e al suo posto avevano messo un fantoccio di paglia. Vi prego, dovete assolutamente credermi, vi sono femmine che ne sanno una più del diavolo, abitatrici della notte che mandano tutto sottosopra. Del resto lo stangone, lungo come era, non ebbe più il suo colorito, anzi, pochi giorni dopo, morì pazzo furioso. 106 Sezione documentariaù Lu crucifissu ti lu asu Tra le tradizioni funebri salentine di fine Ottocento, viene ricordata con accenti commossi, da Giulietta Livraghi Verdesca Zain (fondazioneterradotranto), quella di mettere tra le mani del morto, durante l’esposizione della salma, un crocefisso, tramandato nelle famiglie dei più ricchi di generazione in generazione, chiesto, invece, in prestito dai poveri a chi ne aveva più di uno. Era chiamato “crucifissu ti lu asu” perché si sarebbe dovuto baciarlo – ma l’altezza del catafalco non lo permetteva almeno quando si trattava di defunti appartenenti a famiglie altolocate. Dall’autrice viene sottolineata la cerimonia funebre per il povero i cui protagonisti sono le donne, come datrici di vita, e i vecchi che, immersi nella solitudine e stanchi, vanno con la memoria alle mogli defunte. Ma è un giovane che nella casa ricca va a prelevare il crocefisso portando al braccio un telo di lino usato per il battesimo, simbolo della stretta corrispondenza tra la vita e la morte. “Lu crucifissu ti lu asu”, destinato ad essere trasmesso di generazione in generazione, doveva poter rappresentare nel tempo il decoro della casata e non di rado – ritenendolo soggetto a diritti dinastici – veniva citato nei capitoli testamentari, devoluto quasi sempre al primogenito. Col passare degli anni e il sommarsi delle morti, il prestigio di quel crocefisso aumentava, a tal punto che si arrivava a fregiarlo di un nome particolare, affibbiandogli quello del trapassato più illustre: in qualche famiglia poteva essere “Il crocefisso di nonno Giovanni”, in qualche altra quello del bisnonno Giuseppe, in qualche altra ancora ”Il crocefisso dello zio monsignore”… Per le vecchie cameriere, figlie del popolo, come per tutti i loro simili, quel crocefisso era e doveva rimanere “crucifissu ti lu asu”, anche se, a rifletterci bene, avevano torto: i crocefissi mortuari delle famiglie nobili non potevano incarnare sino in fondo quella simbologia giacché, data la differente sistemazione delle 107 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove Sezione documentariaù salme, nessun bacio poteva sfiorarli. La nobiltà veniva identificata, seppure in modo allusivo, in un perenne rapporto di altezze e se la vita aveva le sue lotte in gradino, anche la morte doveva sottostare alla regola dei rialzi. I catafalchi che si approntavano erano dei veri e propri monumenti non facilmente raggiungibili nella loro sovrapposizione di piani: due per le donne, ma non meno di tre per i maschi ai quali anche da morti spettava il riconoscimento di una supremazia adombrata nel mito del loro seme. E più il personaggio era stato importante, più la “castellana” (il catafalco) doveva essere alta. Posta al vertice e in posizione un po’ inclinata per consentirne la visibilità, la salma incuteva una certa soggezione, rafforzata dai damaschi – rossi o giallo oro – che in ricchi drappeggi scendevano fino a terra: un’ulteriore barriera che fermava a timorosa distanza i visitatori più umili che mai e poi mai si sarebbero permessi di accostare a quelle stoffe preziose i loro piedi sporchi di terra, anche se, per la circostanza, infilati nelle scarpe della festa… …La morte dei poveri era una cosa ben diversa e, anche se urlava come una bestia, aveva volto e fiato umani. Le salme, adagiate basse sulla “matthrabbanca”(madia, tavolo), non erano isole irraggiungibili, ma lembi di carne mantenuta umida dalle lacrime. Nelle loro mani il crocefisso non era soltanto l’asta della misericordia che promette perdono, ma la radice sublimata di un credo trascendentale la quale, sovrapponendosi al momento temporale del trapasso, stabiliva una convivenza quasi sacrale fra il ricordo dei viventi e l’essenza purificata dei trapassati. Le persone in visita di lutto vedevano in quel crocefisso il tramite insostituibile dei loro sentimenti, ossia il filo conduttore di un dialogo che intendevano stabilire con l’aldilà: baciandolo erano sicure di ottenere da Dio il permesso di affidare all’anima della salma in esposizione saluti e messaggi da portare alle anime dei loro cari. Un vero e proprio ufficio postale, anomalo nella sua equivalenza di fede, ma tragicamente reale nello sfogo delle pene individuali: appelli di aiuto, richieste di consiglio, sollecitazioni di sogni rivelatori, comunicazioni di mutamenti drammatici, o notizie rassicuranti per l’anima partita in travaglio. Una ridda di voci che trovava la sua espressione più colorita negli interventi delle donne, sempre prime ad accorrere sui luoghi del dolore: convinte che una rappresentazione visiva dei loro affanni servisse a rendere più efficaci le parole e quindi, a meglio esprimere i loro sentimenti, non esitavano a strapparsi i capelli, a graffiarsi il viso, o comunque ad agitare le mani in una mimica di disperazione che sembrava racchiudere l’essenza stessa del dolore. Scansioni di tragedia che toccavano il vertice quando, con incedere assorto da statua dell’Addolorata, si faceva largo una giovane vedova seguita dal grappolo dei suoi orfani. Sulla bocca dell’innocenza, morte e miseria trovavano commistione in un unico boccone amaro e non a torto il coro delle donne si dava a chiedere:«Pane!... Pane!... Pane!.. ». Un’invocazione che di proposito si faceva echeggiare forte, poiché, oltre ad essere una preghiera rivolta al Cielo, intendeva imporsi come appello rivolto ai vivi: un grido che nasceva sì in nome della pietà, ma che, sfruttando l’impunibilità del momento, vibrava come rabbiosa pietrata sui portoni dei ricchi, rappresentando, sia pure in modo coatto, un fermento di ribellione sociale. Più silenzioso, forse più struggente, il pellegrinaggio dei vecchi. Entravano nelle case in lutto in punta di piedi, rigirando tra le mani la coppola nera come fossero intenti a raggomitolare i fili di un’esistenza che l’età tarda confinava nell’amarezza dei consuntivi. Fasciati da una solitudine visibile come un’amputazione, si presentavano con timidezza, quasi che l’essere ancora vivi fosse un torto da farsi perdonare, ma il loro faticoso curvarsi sul crocefisso acquistava il significato di un’espiazione collettiva, una mortificazione antica che non era soltanto loro ma stillava l’amaro di un’infinità di radici forse nate nell’alba del mondo. Anche la loro voce aveva sapore di lontananza mentre sussurravano parole spezzettate dalla commozione: si rivolgevano all’anima della moglie (non aveva importanza se morta un giorno o dieci anni prima) per farle sapere che la vita senza di lei non aveva senso, che erano stanchi e aspettavano la sua chiamata. Un monologo che finiva col franare in una vera e propria commemorazione, tirando in campo le virtù di quell’anima benedetta che tanto aveva lavorato e sofferto nel portare avanti una famiglia… Sentendosene investite, come protagoniste di un ruolo che misconosciuto in vita trovava giusto apprezzamento solo dopo la morte, … intervenivano a coro per rafforzare 108 109 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove i termini della valutazione femminile… Del resto erano sempre le donne a essere le vere protagoniste delle veglie funebri e la loro presenza… sapeva di padronanza come se presiedere agli uffici della morte fosse un loro naturale diritto, derivato dal fatto che erano loro a partorire la vita. Solo nel messaggio di richiesta di perdono non osavano intervenire… La persona che, a cancellazione di un odio o rimorso, andava a chiedere perdono ad un’anima offesa in vita e con la quale non era riuscita a rappacificarsi prima della morte, non doveva avvalersi di interventi estranei… Uno dei doveri delle vecchie era quello di procurare il crocefisso del bacio… Non potendo i poveri permettersi un crocefisso da dedicare alla morte, erano loro ad andare a chiederlo in prestito alle famiglie ricche e, affinché l’atto di carità fosse più valevole, usavano rivolgersi alla famiglia meno amica… Il crocefisso del bacio non si negava a nessuno, e non solo per rispetto verso la morte, ma per timore di attirare la disgrazia sulla casa… Giacché ai signori dispiaceva prestare il proprio crocefisso, ne tenevano un altro dedicato alle richieste del popolo… Quello di famiglia si conservava in uno dei nascondigli più segreti della casa… A prelevarlo doveva essere il più giovane e doveva farlo quando la salma era già composta “sobbr’a lla castellana”… Prima di prendere il crocefisso doveva segnarsi tre volte e attendere che le donne gli appendessero al braccio un asciugamano usato in occasione di un battesimo… Il concetto di un’esistenza da scompitare col travaglio della fine scattava dopo, a veglia funebre conclusa, cioè quando immediatamente prima dei funerali, il crocefisso doveva essere tolto dalle mani del morto. Un compito che spettava al più anziano della famiglia il quale si sentiva in dovere di autoindicarsi come il più stanco della vita, facendo valere il rispetto per quella legge di naturali successioni che la morte non doveva assolutamente incrinare con mietiture fuori stagione. 110 Sezione documentariaù I funerali dei “Signori” di un tempo in Puglia… Emilio Rubino, nella bella rivista salentina, “Aracne” (2008), descrive con una vena sottile di amara ironia, i fastosi riti funebri dedicati ai signori della sua città, Nardò; essi avvengono in una realtà agraria fatta di alterigia e di soprusi nei confronti dei sottoposti considerati solo un poco meglio di quei lavoratori agricoli dell’antica Roma che il poligrafo latino Varrone definisce instrumentum vocale “attrezzatura parlante” per distinguerli dall’instrumentum semivocale, cioè gli animali: In passato anche l’avvenimento legato alla morte era per i ricchi del paese l’occasione per ostentare tutta la notorietà e la stima che il defunto e la sua famiglia riscuotevano nell’ambito della comunità cittadina. Più che momenti di dolore… erano invece ore di concitazione generale per organizzare nel migliore dei modi la cerimonia funebre… Per comprendere meglio quanto fosse minuzioso e vasto l’apparato dimostrativo che con il decesso del signore si metteva in moto, basta pensare all’enorme nugolo di “famigli” legati alla figura dello scomparso e cioè tutte quelle persone che avevano un rapporto di servitù e di collaborazione con la famiglia del defunto. Convocati sotto a “llu palazzu”, i famigli avevano il compito di avvisare amici e conoscenti del luttuoso evento, di farsi carico dei servizi più impellenti o, semplicemente, di sostare nei vari ambienti del palazzo come atto dimostrativo dell’importanza del defunto. Della privilegiata schiera dei famigli facevano parte il fattore che rappresentava la longa manus del padrone, i “fatturieddhri”, persone delegate a tutelare gli interessi del signore in ogni singolo podere, i massari, i coloni, i fittuari, i contadini della casa etc … Quando, pertanto, nella vecchia Nardò veniva a mancare un tal ricco signore, la complessa ma snella macchina umana si metteva subito in moto, tanto che la vita dell’intera città ne risentiva in proporzione dell’importanza sociale ed economica del “signore”. Di pari passo, tutte quante le attività legate direttamente o indirettamente al defunto erano bloccate per alcuni giorni… 111 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove Sezione documentariaù Faceva parte del cerimoniale funebre un gruppo di 16 o 24 uomini scelti tra i più prestanti fisicamente dei famigli i quali, senza alcun compenso e in gruppi di otto, facevano con fervoroso zelo la veglia funebre e, all’indomani, la guardia d’onore della salma. Per facilitare un buon flusso e deflusso dei visitatori, la bara era collocata nell’ambiente più spazioso e meglio arredato del palazzo. L’evento rappresentava anche una buona occasione per l’incontro quasi mondano delle famiglie benestanti del paese. Nel pomeriggio del giorno successivo al decesso, si organizzava in pompa magna il corteo funebre… Innanzi a tutti vi era “lu focalaru” che ogni tanto segnalava con lo sparo di mortaretti, la presenza del corteo funebre. Subito dopo sfilava l’apparato delle corone floreali, portate da coppie di contadini, fittavoli e coloni, lungo le principali vie del paese… Seguiva, poi, il gruppo sacerdotale costituito da dodici preti che, lungo il tragitto, pregavano per l’anima del defunto. Dopo veniva la bara poggiata su una struttura a tre assi chiamata “condula”. Il tutto era sostenuto a spalla da sei persone molto robuste che, di tanto in tanto, erano sostituite da altre che si trovavano ai lati. Dietro al catafalco si snodava, finalmente, il corteo dei personaggi più in vista e poi, a seguire, la lunga fila dei famigli. Tutti portavano un cero acceso fornito dalla famiglia alla quale doveva poi essere restituito. Dal momento in cui la salma lasciava la propria casa, le campane di tutte le chiese cittadine suonavano a “murtoru”, cioè con rintocchi lenti. Una volta giunto in chiesa, il feretro veniva issato, grazie all’aiuto di scale e quant’altro, sulla cosiddetta castillana, una grande impalcatura alta alcuni metri intorno alla quale erano accesi dei ceri e deposti i fiori. Accanto a questo mausoleo sostavano per tutta la notte le guardie d’onore scelte sempre tra i famigli. Il giorno successivo si ricomponeva il corteo e il feretro era trasportato al camposanto. Anche qui ad aprire la lunga fila era il “fucalaru” il quale sparava in continuazione mortaretti sino all’ingresso del cimitero. Prima di andare via, faceva scoppiare il petardo più grosso, il cosiddetto “corpu a cannone”, l’ultimo omaggio della gente al defunto. All’indomani la bara era riposta nel sito definitivo. Solo da allora cessava per tutti lo stato di lutto e ognuno poteva tornare liberamente alle proprie occupazioni. Del sontuoso apparato funerario non restava più nulla, forse neppure il dolore; l’unico segno di lutto era rappresentato da una piccola banda nera intorno alla manica dell’abito maschile e la veste e il velo neri indossati dalle donne. La vita ricominciava con il solito tran-tran degli ordini impartiti dalla vedova (“la signura”) alle domestiche e al personale di casa e dal figlio (“lu signurinu”) al fattore. Della fastosità della pompa funebre si parlava per diverso tempo con ammirata valutazione… mentre per i famigli, per coloro cioè che avevano sudato e dedicato per una vita le migliori energie al padrone, per quelli non vi era nulla dopo la morte, nemmeno una breve considerazione. Morivano in silenzio, lasciando i familiari nel dolore (intenso) e tra tante lacrime (vere). Il loro funerale doveva essere “sbrigato” in tutta fretta per non ostacolare più di tanto la normale vita del paese. La salma, dopo un breve passaggio in chiesa, era condotta frettolosamente al cimitero sul cosiddetto “carru fuci fuci”, carretto dal quale la bara, durante il veloce spostamento, rischiava di cadere non essendo stata quasi mai imbracata opportunamente. Sono proprio questi uomini, cioè i famigli, a ricevere oggi la nostra stima e, se permettete, la nostra ammirazione. Gli altri, i “signori”, hanno già ricevuto elogi e lodi in gran quantità: ora è bene lasciarli riposare per l’eternità nel freddo silenzio della loro tomba. 112 113 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove …e quelli di un bambino a Napoli Nel suo “Viaggio in Italia” J. W. Goethe esaltando la predilezione dei napoletani per i colori sgargianti, colori presenti come nella vita anche nella morte, si sofferma brevemente nella descrizione del funerale di un bambino: E come vivono, così seppelliscono anche i loro morti; nessun corteo lento e lugubre interrompe l’armonia di questo giocondo paese. Ho visto le esequie d’un bambino. Un grande tappeto di velluto rosso, tutto a ricami d’oro, avvolgeva un ampio feretro sopra il quale era posta una piccola bara cesellata, carica di fregi d’oro e di argento; in questa giaceva il morticino vestito di bianco e come soffocato fra i nastri rosa. Ai quattro lati della bara erano quattro angeli, alti ognuno due piedi circa, che tenevano dei grandi fasci di fiori intorno al bimbo addormentato e che, sospesi a dei semplici fili di ferro, dondolavano qua e là ad ogni scossa del carro come se spargessero dolcemente intorno dei profumi rianimanti; e tanto più si dondolavano, quanto più il corteo procedeva per la via con grande celerità e i preti e tutti gli altri con le torce, più che al passo, andavano di corsa141. 141 Sezione documentariaù Il mito di Protesilao e Laodamia Catullo Carmina 68 A Laodamia (“Domatrice del popolo”) sposa l’eroe tessalo, Protesilao, senza avere offerto i doni e compiuto i riti dovuti agli dei. Lo sposo, partito per la guerra di Troia, appena per primo sbarca in terra nemica, cade ucciso. Egli ottiene dagli dei inferi di potere ritornare per breve tempo dalla sposa. Varca, dunque, accompagnato da Mercurio, la porta degli Inferi. Allo scadere delle ore concesse, quando Protesilao si avvia verso il regno dei morti, la moglie si uccide. Il mito famoso è rappresentato spesso, per sottolineare la fedeltà coniugale, su sarcofagi uno dei quali è collocato nella nona cappella a sinistra della chiesa di S. Chiara a Napoli. Nel Carme 68 Catullo accosta la figura di Laodamia a quella di Lesbia che, come lei, non ha rispettato le regole divine: …così un giorno ardente d’amore / venne Laodamia nella casa di Protesilao / inutilmente iniziata non avendo la vittima / placato col sangue sacrificale i padroni del cielo… … Quanto l’ara assetata desideri il sangue del sacrificio / ne fece esperienza, perso il marito, Laodamia / costretta a staccarsi dal collo dello sposo novello / prima che un inverno e un altro ancora / avessero saziato nelle lunghe notti l’avido amore / così che potesse vivere ancora malgrado la perdita: / le Parche ben sapevano che in breve tempo sarebbe morto / se fosse andato soldato alle mura di Ilio… J. W. Goethe, Viaggio in Italia, Firenze 1948, vol. II, p. 192. 114 115 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove La tovaglia G. Pascoli, I Canti di Castel Vecchio Sulla scia delle usanze funebri appartenenti soprattutto alla società agricola di un tempo, Pascoli descrive, rivolgendosi ad una bambina immaginaria del suo tempo, l’usanza di lasciare apparecchiata la mensa, nella sera della loro festa, ai morti che, tornati nelle proprie case affaticati e tristi, si siedono e nel ricordo, piangono lacrime amare. Le dicevano: «Bambina! Che tu non lasci mai stesa, dalla sera alla mattina, ma porta dove l’hai presa, la tovaglia bianca, appena ch’è terminata la cena! Bada, che vengono i morti! i tristi, i pallidi morti! Entrano, ansimano muti. Ognuno è tanto mai stanco! E si fermano seduti la notte intorno a quel bianco. Stanno li sino a domani, col capo tra le due mani, senza che nulla si senta, sotto la lampada spenta». È già grande la bambina: la casa regge, e lavora: fa il bucato e la cucina, fa tutto al modo d’allora. Pensa a tutto, ma non pensa a sparecchiare la mensa. 116 Sezione documentariaù Lascia che vengano i morti, i buoni, i poveri morti. Oh! la notte nera nera, di vento, d’acqua, di neve, lascia che entrino da sera, col loro anelito lieve; che alla mensa torno torno riposino fino a giorno, cercando fatti lontani col capo tra le due mani. Dalla sera alla mattina, cercando cose lontane, stanno fissi, a fronte china, su qualche bricia di pane, e volendo ricordare, bevono lacrime amare. Oh! non ricordano i morti, i cari, i cari suoi morti! «Pane, sì… pane si chiama, che noi spezzammo concordi: ricordate?... È tela, a dama: ce n’era tanta: ricordi?... Queste?... Queste sono due, come le vostre e le tue, due nostre lacrime amare cadute nel ricordare!» 117 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove Usanze che si perpetuano Agostino, Confessioni, VI II 2 I riti funebri pagani non furono cancellati dall’avvento della religione cristiana e dal suo progressivo diffondersi ma continuarono ad persistere anche se chi li praticava spesso non ne percepiva più la causa. Parlando della gratitudine di Monica nei confronti di Ambrogio per il contributo dato alla conversione del figlio, Agostino ricorda l’usanza di lei di portare cibo alle tombe dei Santi e la sua pronta adesione al divieto del vescovo di Milano di farlo. Sant’Agostino sottolinea come l’uso di banchettare sulle tombe quasi a coinvolgerne i morti, era il prolungamento in senso cristiano della ricorrenza dei “parentalia”. Sezione documentariaù ingurgitare e perché quella specie di “parentali” si avvicinavano molto ai riti superstiziosi dei pagani, se ne astenne molto volentieri e, al posto di un canestro colmo di frutti della terra, imparò a portare sulle tombe dei martiri un cuore pieno di voti più puri in modo che potesse donare qualcosa ai bisognosi e lì si celebrasse la comunione del Corpo del Signore a imitazione della cui passione erano stati immolati e incoronati i martiri… Così, avendo recato un giorno, com’era solita fare in Africa, una farinata, del pane e del vino alle tombe dei santi, ed essendole stato vietato dal portinaio, quando seppe che il divieto veniva dal vescovo, l’accettò con tanta pietà e obbedienza che io stesso mi stupii quanto facilmente si fosse fatta accusatrice della sua consuetudine piuttosto che contestatrice di quella proibizione. Infatti non assediava il suo spirito l’ubriachezza né la induceva all’odio del vero l’amore per il vino come la maggior parte degli uomini e delle donne che alla predica della sobrietà provano nausea come i beoni dinanzi ad una bevanda innacquata: ma ella, quando portava il canestro con le vivande rituali da gustare e da distribuire, serviva non più di un piccolo bicchiere di vino diluito a misura del suo palato alquanto sobrio e, se le tombe dei defunti da onorare in tal modo erano molte, portava intorno quello stesso bicchierino di vino non solo innacquatissimo ma addirittura tiepidissimo che poneva dovunque da spartire a piccoli sorsi con i suoi confratelli presenti poiché lì cercava la pietà non il piacere. Dunque, quando scoprì che il divieto era stato impartito dall’illustre predicatore e maestro di pietà anche a quelli che l’avessero compiuto con sobrietà affinché non fosse offerta alcuna occasione agli ubriaconi di 118 119 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove Sezione documentariaù La festa dei Lemuria Ovidio, I Fasti, V, vv. 419-444 Esistono i fantasmi o nascono dai nostri timori? Plinio il Giovane, Epistulae, 7 27 Ovidio descrive qui i particolari della festa celebrata nei giorni 9, 11, 13 di maggio, quando l’anno era ancora di dieci mesi, per placare i Lemures, spiriti molesti dei morti e per espellerli dalle case: il pater familias, di notte e a piedi scalzi giacché nulla deve essere legato durante i riti, stando di spalle, getta dietro di sé fave nere. Fa parte della cerimonia la purificazione delle mani, la esortazione alle ombre di uscire dalla casa ripetuta per nove volte (il nove è un numero apotropaico), la percussione dei bacili bronzei efficace per allontanare gli spiriti, sostituita, con l’avvento del Cristianesimo, dal suono triste delle campane: In Grecia e a Roma abbondano le descrizioni di apparizioni oniriche di defunti, soprattutto di quelli spenti da una morte violenta e quindi funesti, spesso privati di una giusta sepoltura; per essi si devono adempiere rituali che plachino le anime inquiete perché non turbino il mondo dei vivi. Plinio il Giovane, rivolgendosi all’amico Sura, gli chiede se reputi che esistano veramente i fantasmi o se invece siano frutto della nostra mente turbata. La domanda è puramente retorica perché subito dopo lo scrittore offre tre esempi della loro esistenza, il secondo dei quali è il più terrificante e coinvolge, come gli altri, la vista e l’udito. Lo spirito, chiamato con termini greci eidolon o phantasma o con termini latini, effigies, imago, come di prammatica, trascina catene che forse potrebbero simboleggiare il legame che unisce il mondo dei morti a quello dei vivi oppure, in questo caso, potrebbero identificare lo spirito con quello di uno schiavo. Quando è mezzanotte e il silenzio favorisce il sonno, e / voi, cani e i uccelli tacete, / colui che è memore degli antichi riti, e teme gli dei / si alza; ambedue i piedi sono privi di calzature / dà segni della sua presenza facendo schioccare il dito medio col pollice /affinché le lievi ombre non gli vadano incontro se lui sta in silenzio. / Quando si è lavato le mani in acqua corrente per renderle pure,/ si volta e mette prima in bocca fave nere, /e, stando di spalle, le getta dietro di sé. / E dice mentre le getta, «queste io getto, / con queste, dice, libero me e i miei!» / Ripete questo per nove volte, e non guarda indietro. Si pensa che le ombre / le raccolgano e, senza essere viste, lo seguano. / Per la seconda volta immerge le mani nell’acqua e fa risuonare i bronzi di Temesa /e chiede che le ombre escano dalla sua casa./ Dopo aver detto per nove volte «Uscite o Mani paterni», / si volta a guardare e reputa di avere debitamente compiuto i riti. 120 C’era in Atene una casa spaziosa e comoda ma malfamata e funesta. Nel silenzio della notte si faceva sentire un rumore di ferraglia e, se si fosse teso l’orecchio con maggiore attenzione, si sarebbe potuto udire un forte rumore di catene proveniente prima da più lontano poi da più vicino; subito dopo appariva un fantasma, un vecchio emaciato e cencioso, con la barba lunga, i capelli ispidi che portava, scuotendoli, i ceppi che gli avvincevano mani e piedi. Per questo notti angosciose e terribili erano trascorse in una veglia di terrore dagli abitanti: alle veglie subentrava uno stato di malattia e, col crescere della paura, la morte. Difatti, anche di giorno, malgrado il fantasma si dileguasse, il ricordo di lui rimaneva fisso negli occhi e il terrore durava più a lungo di ciò che lo aveva causato. La casa fu abbandonata alla solitudine e lasciata completamente in balia della terrificante apparizione. Tuttavia si 121 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove offriva in vendita a chi, ignaro di un così grave inconveniente, avesse voluto comprarla o prenderla in fitto. Ora venne ad Atene il filosofo Atenodoro, lesse il cartello e, saputo il prezzo, poiché esso così basso faceva sorgere sospetti, indagando, fu informato su tutto ma nondimeno, anzi tanto più invogliato, prese la casa in affitto. Come cominciò ad annottare, ordinò che gli si preparasse il letto nella parte anteriore dell’abitazione, chiese le tavolette, la penna, la lucerna; mandò i suoi familiari nella parte più interna della casa e predispose a scrivere l’intelletto, gli occhi, la mano affinché la mente, se fosse stata libera da impegni, non si creasse fantasmi e terrori immotivati. All’inizio cadde, come dovunque, il silenzio della notte poi si udì rumore di ferraglia e di catene scosse. Egli non alzò gli occhi, non abbandonò la penna ma continuò a concentrare l’attenzione (sul suo lavoro) e ad opporla alle percezioni uditive. Allora il rumore crebbe, continuò ad avvicinarsi e si udì, ora come se fosse sul limitare, ora all’interno. (Atenodoro) si voltò, vide e riconobbe l’apparizione di cui gli avevano parlato. Stava immobile e faceva segno col dito a mo’ di richiamo. Il filosofo, a sua volta, gli fece capire con il gesto della mano di attendere un poco e di nuovo si applicò alla scrittura. Il fantasma faceva risuonare le catene sul capo dello scrivente. Ed egli si voltò a guardare lo spirito che faceva lo stesso gesto di prima e senza più indugi prese la lucerna e lo seguì. Si trascinava il fantasma con lenta andatura come appesantito dalle catene. Dopo aver svoltato verso il cortile della casa, si dileguò all’improvviso lasciando solo il compagno che con erbe e foglie raccolte lasciò un segno sul luogo. Il giorno dopo (Atenodoro) andò dal magistrato e lo consigliò di fare scavare in quel posto. Vi furono trovate ossa avviluppate da catene e mescolate con esse, ossa che il corpo, putrefatto dal passare del tempo e dal contatto con il terreno, aveva lasciato nude e corrose dalle catene. Esse furono raccolte e seppellite a spese dello Stato. La casa, in seguito, seppellito il morto secondo il giusto rito, fu abbandonata dal suo spirito. 122 Sezione documentariaù Il ritorno dei morti La muta della Morte Mary Webb, Tornata alla terra, Mondadori 1949 p.72 In ogni epoca il timore degli spiriti e del loro ritorno ha assillato i superstiti: apparizioni terrificanti che turbano i sogni ma anche la veglia, chiamati con termine latino da qualche abitante dell’odierna Sabina “immagini” oppure genericamente “fantasmi” dal greco phaino “appaio”. Tra i racconti di ritorni ai vivi di singoli spiriti si inseriscono, specie nel Medioevo, quelli di apparizioni orribili di torme di defunti che, a cavallo e circondati da una muta di cani latranti, puniscono severamente, o ammoniscono i peccatori, o partecipano, davanti a viandanti terrorizzati, nel buio della notte, a lugubri messe. Nel seguente brano è la protagonista, una strana e sfortunata creatura, ad avere la percezione di suoni diabolici che riempiono il bosco. Il bosco del Cacciatore… era un luogo deserto e silenzioso, avvolto di antiche leggende. Qui il Cacciatore Nero rinchiudeva il suo destriero, e la Muta della Morte tornava dalla caccia per i colli, nei suoi recinti. Qui, nei crepuscoli novembrini, quando gli uccelli muti si appollaiavano sui pini scuri, si udiva un corno che dalla cima scandiva una diabolica musica accompagnata da un disordinato latrare che era come lo stridore degli alberi segati; e poi l’agghiacciante tumulto della muta al momento del pasto… All’improvviso Hazel si guardò intorno con aria spaventata: «È troppo tardi per rimanere ancora qui» disse… capita male a rimanerci quando fa tardi. Dicono che la Muta della Morte va attorno la sera ». 123 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove Il giusto rito funebre per coloro che ne furono privi, nel mondo antico… Preghiera di un insepolto Omero, Odissea XI, vv.60-76 Dopo essere disceso nell’oltretomba e avere fatto i sacrifici che richiamano una folla di anime evanescenti, Odisseo riconosce Elpenore la cui morte, causata da una caduta, ignorava. Costui, dopo avere narrato le modalità della disgrazia, lo implora di fermarsi sulla strada del ritorno dall’Ade per dargli la sepoltura di cui è ancora privo; solo così l’eroe eviterà l’ira degli dei. Divino figlio di Laerte, ingegnoso Odisseo, la volontà funesta di un dio mi rovinò e troppo vino. Sdraiato sul tetto di Circe non pensai di scendere tornando alla lunga scala e precipitai a capofitto dal tetto; mi si spezzarono le vertebre del collo e l’anima scese nell’Ade… so che partendo da qui, dalla dimora di Ade, fermerai la tua ben costrutta nave all’isola Eea. Là ti scongiuro, ricordati di me. Non lasciarmi, partendo, illacrimato e insepolto affinché io non divenga per te causa di ira divina; bruciami con le mie armi e sulla riva dello spumeggiante mare innalza un tumulo ricordo di un uomo infelice anche per coloro che verranno. Questo compi per me e infiggi sulla mia tomba il remo con i quale quando ero vivo remavo con i compagni. 124 Sezione documentariaù … e nel mondo contemporaneo Nel luglio de 1943 e ancora nel 1944 si susseguirono su Roma incursioni aeree che spianarono soprattutto la zona del Tiburtino lasciando un orribile vuoto di case e di vite. Per giorni si aggirarono negli ospedali e nel grande cimitero del Verano i parenti alla ricerca dei morti. Molti non furono trovati perché dissolti dalle bombe al fosforo, per molti non fu possibile il riconoscimento. Per questo l’autrice, il cui padre non poté avere le giuste esequie, per anni non riuscì ad elaborare del tutto il lutto fermandosi alla fase inconscia della “negazione della perdita”. Con altri parenti combatté affinché almeno i nomi dei dispersi fossero ricordati. Si vinse la battaglia agli inizi del 2000, quando nel Parco dei Caduti del Tiburtino il Comune di Roma pose una lunga stele con incisi i nomi di coloro che non ebbero sepoltura o che, se la ebbero, restarono ignoti. Forse quella cerimonia attutì l’angoscia per il mancato ritrovamento ma non la eliminò tanto che, ancora a distanza di lunghi anni, sogni di ritorno e di rinnovata morte turbano la quiete del sonno. Abbiamo combattuto per anni con lettere ai quotidiani, in ogni ricorrenza di quel giorno, perché il nome dei morti dispersi rimanesse scolpito in qualche posto ed ora sfiliamo in silenzio, tutti ormai vecchi, con la testa china a cercarlo sulle lastre coperte di vetro, che emergono di poco dalla terra quasi a simboleggiare l’altra ricerca tra le macerie. Il nome Agostino Pasquali Coluzzi può servire a qualcosa dato che non indica il luogo di sepoltura? Misi papà in un canto in una lunghissima aspettazione. Un elicottero, nell’ora esatta del bombardamento, ha fatto piovere sul parco lievi, patetici petali di rosa quasi a sostituire quel peso mortale degli ordigni, a riparare con un atto gentile un seguito infinito di azioni infami. Ora in questa mia vecchiaia appannata di tristezza e di rimpianti, ho ripreso a vedere mio padre nei sogni ma in quale stato, quanto cambiato da 125 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove quello che avevo conosciuto! Torna per poi morire subito dopo. Il suo corpo senza vita è o in un ripiano della credenza floreale da lui comprata ad un’asta principesca, o in una cassa aperta, ai piedi del letto. Mi rammarico per il fatto che ci sia stato concesso di riaverlo per così poco tempo, sento l’urgenza di seppellirlo e faccio uscire i bambini dalla stanza affinché non siano contaminati dalla morte e non la contamino con la loro allegria o chiedo a mio marito di accertarsi se non si tratti di morte apparente. Forse, senza accorgermene, porto dentro la ferita per l’immeritata privazione delle esequie da lui subita (anche se allora forse mi andò bene così) e per una sua conseguente sofferenza nel mondo dell’aldilà dovuta all’intensa pietas che aveva per i morti. Questo sentimento sulla necessità di una sepoltura che ci giunge dalla più lontana antichità, viene espresso anche nei poemi classici attraverso l’episodio omerico del vecchio Priamo che va a riscattare il corpo del figlio o attraverso quello virgiliano del giovane nocchiero Palinuro che prega Enea di gettare sul suo corpo insepolto la terra o del compagno di Ulisse, Elpenore, che supplica l’eroe di dargli sepoltura. Una qualche consolazione è venuta da un passo de “Le Confessioni” di Agostino, quello in cui parla della morte della madre: Monica, agli amici «che le chiedevano se non avesse paura di lasciare il suo corpo così lontano dalla patria, aveva risposto: “Nulla è lontano da Dio e non c’è da temere che Egli, alla fine dei tempi, non riconosca il luogo da cui resuscitarmi”. 126 Sezione documentariaù Offerte funebri per un fratello morto lontano Catullo, Carmina 101 Tornando dalla Bitinia nel 56 a.C., Catullo visita la tomba del fratello per portare agli dei Mani, secondo il costume dei padri, le offerte rituali di libagioni – inferias da inferre “portare” – grondanti di molto pianto fraterno e per parlare col suo cenere muto. Si è preferito riportare il carme che ha ispirato Foscolo nella lingua originale evitando di banalizzarlo con una versione poco consona. Multas per gentes et multa per aequora vectus advenio has miseras, frater, ad inferias, ut te postremo donarem munere mortis et mutam nequiquam alloquerer cinerem, quandoquidem fortuna mihi tete abstulit ipsum heu miser indigne frater adempte mihi! Nunc tamen interea haec, prisco quae more parentum tradita sunt tristi munere ad inferias, accipe fraterno multum manantia fletu, atque in perpetuum, frater, ave atque vale! 127 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove Simulacra luce carentum Lucrezio, De rerum natura IV 39- 41 «Cosa fossero i sogni e quale significato avessero fu non solo una questione che appassionò la cultura antica, ma un tema costante nel rapporto dei vivi coi morti: simulacra li definì Lucrezio, ma pur sempre realtà dotate di un minimo di consistenza, leggere membrane che si staccano dai corpi e volteggiano nell’aria. Non fu certo un caso se Tertulliano ricorse alle visioni che si hanno in sogno per fondare la sua dottrina sull’anima. Cristianizzando dottrine platoniche e stoiche, sostenne che il sogno ispirato era un mezzo usato da Dio per rivelare la sua volontà e una sicura prova dell’immortalità dell’anima»142. Di queste strane apparizioni così parla Lucrezio: …mi accingo a parlarti di cose / che a questi argomenti strettamente attengono / cioè di quelle, simulacri di esse chiamati, / che, quasi membrane staccate dalla superficie del corpo, /se ne vanno volando qua e là per l’aria; / esse, venendoci incontro da svegli o in sonno, / ci atterriscono. Fantasmi strani vediamo / o simulacri di estinti che spesso / terribilmente ci scuotono nel languore del sonno. (Te lo dico) affinché non si creda che dall’Ade fuggano gli spiriti /o che le ombre tra i vivi si aggirino / e che qualcosa rimanga di noi dopo la morte /quando il corpo e l’anima insieme / siano stati distrutti, disciolti nei propri elementi. 142 A. Prosperi, op. cit., p. 223. Sezione documentariaù I giusti riti funebri per l’ingresso nell’Aldilà nell’Iliade… Lo stretto legame tra gli onori resi alle spoglie e l’ingresso delle anime nell’Aldilà è documentato già nei grandi poemi antichi. Anche lì è testimoniata la necessità che ai morti, affinché le loro anime possano accedere al regno che loro compete, siano resi gli onori funebri (sepoltura o cremazione, giochi, sacrifici agli dei a seconda dello status sociale di ognuno o delle circostanze in cui ha perso la vita). A tale proposito ricordiamo l’episodio della morte di Ettore nell’Iliade e quello di Palinuro nell’Eneide. Nel primo, Achille, per vendicare Patroclo, affronta l’eroe troiano e, dopo averlo sconfitto, ne strazia le spoglie trascinandole col carro nella polvere. Sarà Priamo, affranto per le sorti del corpo e per quelle dell’anima del figlio, ad implorare Achille di restituirgli il cadavere per offrirgli gli onori necessari all’ingresso nel regno dei morti. Ne avrà una risposta ferocemente negativa cui seguirà la pietà del vincitore: Gli rispose senza più forze, Ettore, l’eroe dall’elmo splendente:/«Per la tua vita, per i tuoi ginocchi, per i genitori ti supplico: /non lasciare che mi divorino i cani presso le navi dei Greci, / ma accetta in abbondanza oro e bronzo, / il riscatto che ti daranno mio padre e la mia nobile madre, / e restituisci il mio corpo a casa, perché i Troiani e le spose / troiane mi concedano l’onore del rogo». / Lo guardò di traverso e gli rispose il veloce Achille: / «Cane, non mi pregare per i tuoi ginocchi né per i genitori: / vorrei che mi bastasse l’animo e il furore / a tagliare il tuo corpo e a mangiarlo crudo per quel che mi hai fatto, / com’è vero che nessuno allontanerà i cani dalla tua testa, / neanche se mi portassero un riscatto di dieci o venti / volte più grande e ne promettessero ancora, / neanche se Priamo discendente di Dardano ti ripagasse / a peso d’oro; neanche così la tua nobile madre / che ti ha partorito ti metterà sopra un letto funebre / e ti piangerà: ti sbraneranno tutto i cani e gli uccelli»143. 143 128 Iliade, XXII 337-354. Trad. di Guido Paduano. 129 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove …e nell’Eneide Davanti alla turba degli insepolti cui non è concesso, se non dopo un lungo tempo, di entrare nell’Ade, si ferma pietoso Enea che, accompagnato dalla Sibilla Cumana, è sceso nell’oltretomba. Gli si avvicina il nocchiero Palinuro, caduto in mare e il cui corpo non ha avuto gli onori dovuti e così lo prega: Per tuo padre ti prego, per la speranza riposta nel futuro di Iulo / strappami, o invitto, alla sventura, getta sul mio corpo la terra / dopo avermi cercato sulle spiagge di Velia (lo puoi) / … Porgi la destra a questo infelice e portami teco attraverso le acque / affinché, almeno da morto riposi in sedi serene…144. Sezione documentariaù Preghiere e sacrifici per i morti Libro dei Maccabei, capitolo 12, versetti 38-45 Il secondo libro dei Maccabei, scritto in greco alla fine del II secolo a. C., appartiene, come il primo, ai libri storici della Bibbia cristiana. Esso espone gli avvenimenti della lotta dei giudei, capeggiati dalla famiglia dei Maccabei145, contro i sovrani seleucidi di Siria, in difesa della propria indipendenza e religione. Nel libro si sottolinea la grande importanza dell’intercessione dei santi e della resurrezione e, nel capitolo in questione, quella dell’aiuto che la preghiera e i sacrifici espiatori possono offrire alle anime dei defunti. Viene anticipato, così, il concetto cristiano della possibile salvazione delle anime attraverso un luogo purgatoriale. Giuda poi radunò l’esercito e venne alla città di Odollam: poiché si compiva la settimana, si purificarono secondo l’usanza e trascorsero là il sabato. Il giorno dopo, quando la cosa divenne indispensabile, i Giudei andarono a raccogliere i corpi per deporli nelle tombe di famiglia con i loro parenti. Trovarono sotto la tunica di ognuno di loro oggetti sacri agli idoli che la legge giudaica proibisce; fu perciò a tutti chiara la causa per cui erano caduti. Quindi tutti, benedicendo l’operato di Dio, giudice giusto che rivela le cose occulte, ricorsero alla preghiera, supplicando che il peccato commesso fosse completamente perdonato. Il nobile Giuda esortò tutto il popolo a conservarsi senza peccato dal momento che si era visto quello che era avvenuto per il peccato dei caduti. Poi, fatta una colletta con tanto a testa per circa duemila dracme d’argento le inviò a Gerusalemme perché fosse offerto un sacrificio espiatorio, agendo così in modo nobile, suggerito dal pensiero della resurrezione. Infatti, se non avesse avuto ferma fede che i caduti sarebbero resuscitati, sarebbe stato 144 145 I Maccabei (“martellatori”) appartenevano ad una famiglia ebraica. Sette di loro, fratelli, furono martirizzati con la loro madre dai nemici. La Chiesa cattolica li ricorda il primo agosto. Virgilio, Eneide VI 364-371. 130 131 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove vano pregare per loro. Se egli, invece, considerava il bel premio riservato a coloro che si addormentano nella morte con sentimenti di pietà, il suo agire era santo e devoto. Per questo, perché fossero assolti dal peccato, fece offrire il sacrificio espiatorio. Sezione documentariaù Premio e pena nel vangelo secondo Luca Luca, 16, 19-31 Exemplum, e non parabola, viene definito già dal XII secolo questo passo del vangelo di Luca che, secondo Le Goff, «arreca tre precisazioni: L’Inferno (Ade) e il luogo di attesa dei giusti (seno di Abramo) sono vicini, stante che ci si può vedere dall’uno all’altro, ma sono separati da un abisso invalicabile; nell’Inferno regna quella caratteristica sete che Mircea Eliade ha chiamato “sete del defunto” e che si ritroverà alla base del concetto di refrigerium; infine il luogo di attesa dei giusti è designato come “il seno di Abramo…».146 Vi era un ricco che vestiva di porpora e bisso e dava tutti i giorni lauti banchetti. Vi era anche un poveretto chiamato Lazzaro il quale, coperto di piaghe, giaceva presso la porta del ricco desideroso di sfamarsi anche delle sole briciole che cadevano dalla tavola del ricco ma nessuno gliene dava, solo i cani venivano a leccargli le piaghe. Avvenne ora che il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo; morì anche il ricco e fu sepolto nell’inferno. Alzando egli gli occhi mentre era fra i tormenti, e vedendo da lontano Abramo e nel seno di lui Lazzaro, esclamò: «Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro ad intingere la punta del suo dito nell’acqua per rinfrescarmi la lingua perché io soffro tra queste fiamme. Ma Abramo gli disse:«Figlio, ricordati dei beni da te ricevuti in vita e dei mali di Lazzaro; ora questi è beato e tu sei tormentato. Inoltre una grande voragine si interpone tra noi e voi cosicché chi volesse passare da qui a voi non può né da costà si può giungere a noi». Quegli soggiunse:«Ti supplico, allora, padre, di inviarlo alla mia casa paterna dove ho cinque fratelli affinché non debbano anch’essi venire in questo luogo di tormenti». Rispose Abramo:«Hanno Mosè e i Profeti, ascoltino quelli». Replicò l’altro:«No, Padre Abramo, ma se uno dalla morte andrà a loro faranno penitenza». Ed egli:«Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non crederanno neppure ad un morto resuscitato». 146 132 Jacques Le Goff, La nascita del Purgatorio, Torino 1996 pp.52-53. 133 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove Le sedi dei morti Platone, Fedone, LXII 114 Socrate, nel dialogo platonico Fedone, si avvicina in certo qual modo alla tripartizione cristiana dell’oltretomba. Le sedi in cui abiteranno le anime dopo la morte sono costituite dalla palude Acherusia, dal Tartaro e da “una pura dimora” chiamata “la vera terra”. Sezione documentariaù portarono offesa: questo, infatti, è il castigo inflittogli dai giudici. Quelli che invece si sono distinti per la santità della vita, si trovano sicuramente liberi e sciolti da questi luoghi terreni come da prigioni e pervengono in alto nella pura dimora abitando sulla vera terra. E vi sono tra questi coloro che, resi puri dalla filosofia, vivono il resto della vita liberi da legami corporei e arrivano a dimore anche più belle di queste che non facilmente ora potremmo descrivere per mancanza di tempo… Ora, quando i morti giungono al luogo dove ciascuno è condotto dal suo demone, per prima cosa si sottopongono al giudizio e vengono distinti coloro che hanno vissuto bene da quelli che non l’hanno fatto. Coloro ai quali si riconosca che hanno tenuto una via di mezzo nella vita, giunti alle rive dell’Acheronte, si imbarcano su navicelle che sono là per loro e arrivano alla palude Acherusia e qui si soffermano e, …..si purificano dalle colpe se per caso ne hanno commesse e ricevono premi ciascuno secondo i meriti. E quelli i cui peccati siano inespiabili per la loro gravità, come chi abbia commesso sacrilegi in grande numero e gravi e ingiuste uccisioni in contrasto con le leggi o simili misfatti, un meritato castigo li butta nel Tartaro donde non escono mai più. Quelli, invece, che abbiano commesso colpe espiabili ma gravi come per esempio fare violenza al padre o alla madre in un impeto di ira, per poi pentirsene e vivere così il resto della vita o chi sia divenuto omicida per un altro simile motivo e similmente se ne sia pentito, questi devono precipitare nel Tartaro ma poi, trascorso un anno dalla caduta, vengono ricacciati dalla marea fuori, gli omicidi lungo il Cocito, i percotitori del padre e della madre lungo il Piriflegetonte, e, quando, trasportati da queste correnti, giungono presso la palude Acherusia, qui gridano e supplicano gli uni quelli che uccisero, gli altri quelli contro cui fecero violenza e, chiamandoli per nome, pregano che gli permettano di uscire fuori e che li accolgano; se riescono a convincerli, escono fuori e così hanno pace ai loro mali; altrimenti di nuovo sono riportati indietro nel Tartaro e ancora da esso vengono ributtati nei fiumi e mai cessano di patire questa alterna sorte se prima non abbiano convinto coloro cui 134 135 Bibliografia Agostino Aurelio, Le Confessioni, Milano 1993. 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Il viaggio 13 Capitolo II – La morte Preparazione al passaggio Per l’Aldilà le più care cose Simbolismo del cibo I segni del lutto, i simboli della morte 21 21 30 34 37 Capitolo III – Il ritorno La festa dei morti Pane e acqua per i morti che tornano Sunt aliquid Manes I morti tornano in sogno 45 45 49 53 60 Capitolo IV – La sepoltura I modi di sepoltura. La relazione tra i vivi e i morti: dagli onori alle intercessioni 65 141 65 Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove Indice “Centum errant annos” Seppellire i morti “Sed plena errorum sunt omnia” 72 74 79 Capitolo V – Il lutto tra folklore e psicologia 81 Capitolo VI – I regni dell’Aldilà L’Aldilà nel mondo antico… … e in quello medievale. Il Limbo Il Purgatorio 95 95 97 99 Sezione documentaria In Sardegna la nera professionista dell’eutanasia: l’accabadora Le orribili streghe all’attacco dei morti Lu crucifissu ti lu asu I funerali dei “Signori” di un tempo in Puglia … …e quello di un bambino a Napoli Il mito di Protesilao e Laodamia La tovaglia Usanze che si perpetuano La festa dei Lemuria Esistono i fantasmi o nascono dai nostri timori? Il ritorno dei morti Il giusto rito funebre per coloro che ne furono privi nel mondo antico… … e nel mondo contemporaneo Offerte funebri per un fratello morto lontano “Simulacra luce carentum” I giusti riti funebri per l’ingresso nell’Aldilà nell’Iliade … 142 …e nell’Eneide Preghiere e sacrifici per i morti Premio e pena nel vangelo secondo Luca La sede dei morti 105 105 106 107 111 114 115 116 118 120 121 123 124 125 127 128 129 143 130 131 133 134