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Tullia Pasquali Coluzzi
Claudio Falciano
Il Viaggio
Usi e riti della morte
in Campania e altrove
O miserae frater adempte mihi tu
mea tu moriens fregisti commoda frater…
A Peppino, e a tutti i nostri cari
che ci sono stati solidali compagni
per grande parte del nostro lungo viaggio.
Dopo sì lunghi anni guizzati via come pesci
nell’acque appannate del cuore, che ci rimane di voi?
L’ombra usuale di un gesto, l’eco di un lieve richiamo,
la luce cara degli occhi che appare nel buio e si spegne.
Prefazione
Questo modesto lavoro, come quelli precedenti sul matrimonio e sulla nascita, è stato dettato dall’affetto per le tradizioni popolari e dal conseguente desiderio di tramandare le
notizie sulle poche reliquie di esse a quelli che rimangono. Ci
siamo serviti di scritti di sociologi quali Mircea Eliade, Ernesto
De Martino, Adriano Prosperi ed altri che, con ben altra profondità e competenza, hanno affrontato l’argomento. Tullia
ha raccolto, senza pretese di dare al testo carattere scientifico,
poche ma significative testimonianze di persone semplici attingendone qualcuna, che dimostra la continuità di rituali e credenze attraverso lunghissimi spazi, da testi del passato remoto
e recente e da rari ricordi personali. Lo psicologo Claudio Falciano si è occupato dei risvolti psicologici degli eventi luttuosi
all’interno del capitolo IV (I modi di sepoltura. La relazione tra
i vivi e i morti: dagli onori alle intercessioni) e nel capitolo V;
inoltre ha riportato, commentandoli, nella sezione documentaria passi riguardanti i riti funebri nei poemi classici.
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Introduzione
La morte come frattura nel tessuto familiare e sociale
Si ringraziano per il loro affettuoso sostegno alla nascita di questo libricino i professori Orazio Miglino e Franco Rubinacci; per
il contributo alla revisione del testo la professoressa Irene Carloni e
Silvia Coluzzi, per la foto in copertina il dott. Giovanni Carloni,
per il contributo all’impaginazione del testo, Giuseppe Madonna; inoltre la dottoressa Silvia Carloni, il signor Giuseppe Curatolo, il signor Salvatore Chiffi, la signora Angelina Falciano, il
signor Michele Tramontano con la moglie Rosa, i signori Raffaele
Alligrande di Pomigliano, Patrizio Cordela di Sarno, la signora
Immacolata Esposito, la signora Immacolata Odierna, il maestro
Alfonso Frezza, la maestra Laura Serra e altri per averci trasmesso
preziosi ricordi di vecchie usanze.
La morte con la nascita è l’evento più importante nella vita
dell’uomo, che non ne può fare esperienza se non per ciò che
riguarda gli altri. Fin dalle epoche preistoriche, come è stato
notato, essa non è stata ritenuta sempre appartenente alla natura umana; secondo alcune religioni, essa sarebbe causata da
comportamenti contrari alle leggi divine1. La morte produce
una frattura sia nel tessuto familiare sia in quello sociale, tanto
più profonda quanto più importante è il ruolo che il morto vi riveste. Quindi la crisi angosciante da essa determinata
deve essere frenata e superata da complessi riti di passaggio
come le veglie, le lamentazioni, le esequie, le preci, le messe
di suffragio, il colore nero del lutto, tutte manifestazioni che
vanno perdendo la loro forza ma che, almeno in parte, persistono soprattutto nel mondo agrario. La necessità di esse viene
avvertita già nel paleolitico a cui risalgono sepolture rituali:
ossa cosparse di ocra, colore del sangue vivificatore e corredi
funebri di oggetti diversificati, in tutte le culture, a seconda del
sesso e usati in vita dal defunto affinché lo accompagnino nella
seconda vita.
Questa si svolge, per la concezione classica, in luoghi fisici
ben definiti cui si accede attraverso fratture della terra nascoste
1
Cfr. Renzo Paternoster, La morte: riti, credenze e usanze per demonizzarla,
win.storiain.net/arret/num180/artic1.asp.
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Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
Introduzione. La morte come frattura nel tessuto familiare e sociale
ed accessibili solo ad esseri privilegiati quali Enea e la Sibilla, Orfeo per la sua Euridice. Platone divide le anime in tre
categorie: anime giuste ammesse in una sede beata chiamata
“la vera terra”, anime di malvagi irrecuperabili inabissate per
sempre nel Tartaro mentre quelle colpevoli di peccati espiabili
ne potranno uscire col permesso delle loro vittime; anime di
uomini non del tutto buoni né del tutto cattivi che nella palude Acherusia dovranno purificarsi attraverso varie pene prima
di accedere alla sede felice – il concetto di questo luogo sembra
anticipare quello cristiano del Purgatorio codificato nel XII secolo e proclamato come dogma nel Concilio di Trento.
Dall’uomo del medioevo la morte, compagna e protagonista assidua della sua vita a causa di pesti, carestie, pessime
condizioni igieniche e rimedi completamenti inadeguati, viene
accettata passivamente mentre viene angosciosamente temuta la fine improvvisa che impedisce la confessione e quindi la
salvezza dell’anima. Tanto ha a cuore la Chiesa quest’ultima
che, anche nei secoli successivi, si cerca di dare il battesimo
che liberi dal peccato originale agli infanti in punto di morte
talvolta estraendoli anche dal grembo della madre defunta. Ce
lo spiega con puntualità e chiarezza Adriano Prosperi nel suo
saggio Dare l’anima in cui, prendendo spunto da un infanticidio perpetrato da una popolana nel 1700, analizza il problema
postosi dalla Chiesa sulla sorte dei neonati morti senza il sacramento. Questi ultimi, con rigore inflessibile condiviso anche
da Sant’Agostino, sono condannati all’Inferno e, in seguito, al
limbo, da poco cancellato dalla Chiesa. Nel medioevo, all’Inferno, luogo di pene senza fine, e al Paradiso, sede di eterna letizia verrà aggiunto dalla Chiesa un terzo regno, il Purgatorio,
dove le anime di coloro che si sono pentiti e che vagano senza
pace possano lavare le loro colpe riscattabili, oltre che dal fuoco purificatore, anche dalle preghiere e dalle messe di suffragio.
Da questo luogo di pene spesso esse tornano ai vivi in visione
o in sogno per ammonirli e per invocare il loro pietoso ricordo
e la loro intercessione. Fu così cristianizzata la credenza che gli
spiriti delle persone private delle cerimonie funebri e della sepoltura vagassero tra i vivi disturbandoli finché non venissero
pacificati dai riti dovuti.
Sempre in età medievale viene istituita dai monaci cluniacensi la festa dei morti del 2 novembre e nasce la leggenda del
viaggio dei defunti attraverso un lungo e periglioso cammino
detto ponte di S. Giacomo (Santiago per gli spagnoli). Questo
perché la zona del santuario di Compostela, meta ancora oggi di
assidui pellegrinaggi, era ritenuta, prima della scoperta di Cristoforo Colombo, l’estremo confine della terra da cui i morti si
partivano per attraversare il mare e giungere all’ultima dimora.
Nel 1700, e in seguito, la morte è un dramma per i sopravvissuti che danno un grande valore di memoria e di esempio
alle tombe (cfr. I sepolcri di Foscolo) e ai riti funebri che vengono contaminati con quelli pagani malgrado le ripetute proibizioni della Chiesa. Continuano così, privi di ogni riferimento
cristiano, i rituali lussuosi con lodi del morto e lamentazioni
che già nel mondo latino erano stati condannati dalle leggi
delle XII Tavole.
Superata la metà del secolo scorso, in una cultura che vede
come fine principale il guadagno e il consumismo, la morte si
riduce sempre di più ad un fatto individuale perdendo i connotati di coralità – ma in paesi legati ancora in qualche modo ad
un’economia agraria, come quelli vesuviani, persiste una certa
partecipazione all’evento luttuoso tramite veglie, visite ai morti, doni alla sua famiglia di zucchero e caffè. Come sottolinea
Renzo Paternoster nell’opera citata a cui ci siamo richiamati,
«rimuovendo il pensiero della morte, arrivando finanche a banalizzarla, innegabilmente svalutiamo il dono che è la vita».
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Capitolo I
L’ultima lotta. Il viaggio
-Figlio mio quanti sassi
stanno’n ponta a’sta scarpata …
che fatica a mette i passi,
mo’già vedo’na vallata.
Sto cerchenno a calatora
Vaglio abballe a scivoglioni.
Zeppi e radiche de fora
che me sgareno i calzoni;
tutte’ste fratte de rovi
nun m’aresce da spassalle
sento strilli annanzi e aretro;
tengo da ssfontà’n canneto.
Ma è’sto fuosso, figlio bello,
che non pozzo attraversare;
zompo a lungo ma’n gn’a faccio
l’acqua me jetta de quane -.
-Patre mio, si te potria
Dà’na mano’n pochettino …
Te se squassa’sso torace
Steso’n cima a’sso lettino …
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Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
Figlio, l’acqua me trasporta
Che paura tengo, Oddio -.
-Padre mio, damme’ssa mano
Che t’aiuto puro io.
Zomba zomba n’atra vota! –
-Ecco, figlio, so passato …Io te guardo e piagno piano.
‘O torace s’è fermato2.
L’agonia del padre è vissuta dal figlio in forma drammatica
tramite un affannoso dialogo con lui che sta percorrendo l’impervio passaggio dalla vita alla morte. Passaggio le cui terribili
fasi sono scolpite quasi visivamente dalla dinamica descrizione
fatta dal moribondo a cui tenta di dare soccorso l’amore del
figlio.
La via, intralciata da siepi e canneti, cosparsa di fossi e di
sassi nel panorama consueto dei Castelli Romani fatto di vigne
scoscese nelle quali si condensava il vissuto del protagonista
sembra precorrere il viaggio che, secondo l’immaginario, una
volta morto, l’uomo deve affrontare. Questa credenza si è propagata fino a noi dal mondo antico – l’itinerario del defunto
è già scolpito in lamine d’oro rinvenute in tombe dell’Italia
meridionale risalenti al IV- III secolo a. C. ed è simboleggiato dalla rappresentazione di un personaggio che si avvia verso
l’aldilà a piedi, a cavallo o in carrozza, talvolta verso una figura
che l’accoglie presso una porta semiaperta.
A questo proposito ricordiamo il “Ponte di San Giacomo”
creato dal mondo cristiano: sottile come un capello o come una
lama, cosparso di punte aguzze e di chiodi, il defunto lo deve
percorrere a piedi scalzi per giungere, se buono, in Paradiso o
2
Giulio Montagna, Il sapore della terra, Velletri 1998.
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Capitolo I. L’ultima lotta. Il viaggio
per cadere, se malvagio, nel baratro. Compagno di viaggio con il
compito di psicopompo assunto nel mondo classico da Ermes, il
latino Mercurio3, è San Giacomo Maggiore in abbigliamento da
pellegrino4. Se per l’uomo medievale il cammino che il morente si accingeva a intraprendere era irto di difficoltà, il luogo di
destinazione veniva posto nel mondo classico in recessi nascosti
a cui nessun mortale poteva accedere in vita se non eroi dal destino glorioso, come Ulisse e Enea, o Orfeo per la sua Euridice5.
Per questo lungo e periglioso percorso si pensa che si debba
munire il vacuo pellegrino del necessario: a Scafati, paese vesuviano, come riferisce Patrizio Cordella di Sarno, quando il
morto è ancora in casa per l’anima che, secondo la credenza,
si accinge ad intraprendere il viaggio, si mettono vicino alla
“colonnetta” (il comodino) acqua e pane.
Se l’ultima lotta (agoné) si protraeva, in Sardegna si ricorreva ad una crudele e nascosta eutanasia praticata da un’esperta
3
Ermes, latino Mercurio, oltre ad essere araldo degli dei, protettore dei
viandanti e dei mercanti, ha il compito, munito di una bacchetta magica, il
caduceo, e di ali ai piedi, di guidare le anime nel mondo tenebroso dell’Ade.
Per questo il morituro, quando più tardi l’aldilà comprese anche luoghi meno
cupi, libava a lui pregandolo di condurlo nel luogo buono degli Inferi. Orazio
in Carmi I 10, 17-20, con versi leggeri così si rivolge al dio: «Tu le anime pie
restituisci alle sedi beate/e con la verga d’oro la lieve turba sospingi/agli dei
superni gradito e a quelli della terra profonda». Nell’Iliade il dio accompagna
anche Priamo che va a chiedere ad Achille il riscatto del corpo del figlio.
4
La leggenda medievale narra che a San Giacomo Maggiore che si lamentava del fatto che la sua tomba in Galizia non fosse visitata dai pellegrini, Dio
rispose: «Chi non ti visita da vivo ti visiterà da morto». E infatti i defunti,
prima di arrivare all’ultima dimora, picchiano ad una porticina invisibile del
luogo sacro per salutare il santo. Il luogo della sua sepoltura in Galizia è chiamato “Compostela” nome la cui etimologia potrebbe derivare o da “Campus
Stellae” per il fatto che la tomba fu rivelata da una pioggia di stelle, o da
“Composita tellus” “Terra di sepolture”.
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In Calabria si credeva o ancora si crede che l’inizio del viaggio avvenga nel
silenzio generale, a mezzanotte, annunziato da un sinistro scricchiolio.
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Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
anziana, la “accabadora” (l’accoppatrice) con soffocamento6.
Nel mondo agrario della Sabina, ma anche di altre parti, in un
tempo non molto lontano, si riteneva che l’uscita dell’anima
fosse impedita dalla colpa commessa in vita di avere dolosamente spostato i termini dei campi7 (le pietre di confine sacre
ai Romani erano coronate il 23 febbraio, nella festa dei Terminalia con serti di fiori) o dal fatto di avere bruciato o distrutto
o sottratto un aratro considerato sacro come il più importante
strumento di lavoro; in tali casi si ponevano sotto il collo del
morente delle pietre o si faceva passare sopra di lui, a cominciare dalle gambe fino a sotto la nuca, un aratro o un simulacro
di esso in cera8. Tutto questo era accompagnato da formule
purificatorie9. Aiutava la fine liberatrice adagiare il morituro
con i piedi verso la porta quasi che, dopo la morte, alzandosi,
egli potesse dirigersi verso l’uscita10. In questa posizione, alcuni anni fa, nei dintorni di Pomigliano, vedemmo esposto un
cadavere nell’ingresso di una casa il cui portale era addobbato
con veli neri. Costume giunto da lontano se Plinio il Vecchio
(Naturalis Historia VII 6 46) ci informa che già ai suoi tempi
veniva praticato: «Ritus naturae hominem capite gigni, mos est
Capitolo I. L’ultima lotta. Il viaggio
pedibus efferri» (“Secondo natura l’uomo si affaccia alla luce
con il capo; alla sepoltura, invece, è costume portarlo con i
piedi in avanti”).
Su uno dei mezzi che si credeva potessero abbreviare l’agonia del morente, si diffonde Adriano Prosperi citando alcune
fonti, come Marcel Granet, il medico Scipione Mercurio e un
vescovo veronese del 1500. Il primo aveva trovato in Cina analogie di un’usanza praticata nell’antica Roma, cioè quella di
deporre il neonato in terra in attesa di essere riconosciuto – dai
cinesi il vecchio giunto alla fine della vita riceveva lo stesso
trattamento –; il secondo «segnalò che in territorio veronese
era diffusa l’abitudine pagana “di por la creatura in terra nuda
subito nata”. E continua Prosperi:
Ebbene, proprio in quello stesso territorio (il veronese) un vescovo aveva segnalato e proibito qualche tempo prima un analogo
rito di deposizione sulla terra che si praticava per i morenti. Il
corpo posto sulla terra simboleggiava il legame con la natura. La
vita veniva dalla terra e alla terra doveva tornare: per questo si praticava quel rito della deposizione al suolo11. Ma la cultura cristiana
ufficiale combatteva quelle rappresentazioni e quei rituali perché
alla natura aveva sostituito la fede nella cura per gli esseri umani da
parte di un Dio fatto a loro immagine12.
V. Sezione documentaria.
Mario Pollia-Fabiola Chavez Hualpa, Mio padre mi disse, ed. Il Cerchio,
Rimini 2002.
8
Questa usanza è testimoniata già nel 500 da un documento citato più
sotto e riportato da Piero Camporesi (La terra e la luna, Milano 1995 p. 21):
«… si proibisce di mettere sotto il capo dell’agonizzante due, tre o più pietre,
quando egli abbia confessato di avere in vita sua levati o mossi due o tre o più
termini dei confini».
9
V. Sezione documentaria.
10
In Irlanda, ce lo riferisce Philippe Ariés (La morte dal medioevo ad oggi),
il defunto è portato con i piedi in avanti nel timore che, guardando verso
l’interno della casa, possa invitare qualcuno a seguirlo nell’aldilà. Questo tipo
di precauzione è adottato anche per il letto: ci si guarda bene dall’orientare la
sponda inferiore verso la porta.
11
Il vescovo veronese, però, afferma che quest’uso si praticava “acciò l’ammalato mora più presto.”
12
Adriano Prosperi, Dare l’anima, Torino 2005, pp. 146-147.
13
Nel Sarnese si crede che, se nel vicinato muore una persona, essa venga
seguita da una seconda e da una terza durante l’anno secondo il detto «non c’è
uno senza due, non c’è due senza tre». E poi, diceva nonna Olga, si ricomincia
daccapo.
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Il sunnominato Patrizio Cordella ricorda che i nonni morirono a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro13 e che alla sua
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
mente di bambino non riuscì, al momento, comprensibile il
perché, a differenza dell’uomo cui batteva forte il cuore durante la «pesante» e protratta agonia, la fine della moglie fosse
stata istantanea e priva di sofferenza: infatti, fattasi portare su
una sedia sulla soglia della camera, si spense «come una candela» mentre un fascio di raggi piovuti da un cielo coperto di
nuvole, l’avvolgeva. Patrizio, più tardi «vedette» la causa della
«differenza tra l’agonia breve e quella lunga»: la nonna aveva
vissuto amando per tutta la vita il marito («Un solo Dio, un
solo marito»); il nonno, invece, l’aveva tradita.
Di un amorevole invito a staccarsi dal corpo è stata testimone Mena di Napoli. Mentre si protraeva l’agonia dello zio,
la moglie, una calabrese trasferitasi bambina a Milano, china
su di lui gli sussurrava: «Antonio, non vuoi andare? Tua sorella Laura ti aspetta». E, appena lui ebbe dato l’ultimo respiro,
spalancò le finestre affinché lo spirito fosse libero di volare via
dal carcere corporeo14. Peppe Curatolo di Caltanissetta rivede
ancora (erano gli anni 40 e aveva allora circa quattro anni) la
bisnonna Rosina che apriva con una canna una finestrella che,
posta in alto, affacciava sul cortile, per dare libera entrata alle
anime di parenti, amici e conoscenti venute a salutare il defunto e ad accompagnarlo all’ultima destinazione. L’antichità
Capitolo I. L’ultima lotta. Il viaggio
di questa usanza è dimostrata da un documento uscito dalla
curia del cardinale Gabriele Paleotti (1522-1579) e pubblicato
nell’Episcopale bononiensis civitatis, in cui la Chiesa prese posizione – nello spirito della nuova regolamentazione tridentina – di “abusi et superstitioni et indecenzie intorno ai funerali
che si avevano a proibire al popolo dai curati”». Una di queste
severe proibizioni riguardava appunto l’apertura di finestre o
addirittura lo scoperchiamento parziale del tetto per fare uscire
l’anima dell’agonizzante15.
Era, ed è ancora, usanza nell’imminenza del trapasso o subito dopo, coprire gli specchi o voltarli verso la parete, e velare
le statue e i quadri16: assistette a questa cerimonia Peppe Curatolo, sopra nominato, allora adolescente, forse in occasione
della morte di nonna Rosina, quando ebbe modo anche di
sentire le lamentazioni e le lodi della defunta da parte di donne
prezzolate. E degli specchi vestiti del bianco delle lenzuola ha
ancora viva l’immagine una giovane donna, Teresa Fusco, che,
bambina, se ne domandava il perché. Venuta dall’Argentina,
abitava a Napoli, in via Cappella Vecchia, nei pressi di Piazza
dei Martiri, in un ex convento dove morivano con una certa
frequenza, quando la vita non si era ancora paurosamente al-
14
Secondo un’altra interpretazione le finestre si aprono affinché possano
entrare gli spiriti dei trapassati a prelevare e accompagnare l’anima del loro
parente verso la dimora definitiva. Vi è anche la credenza che i parenti morti,
nell’attesa dell’ultimo respiro del loro congiunto, si posizionino ai piedi del
letto, luogo, quindi, che non deve essere occupato dai vivi. Nel mondo classico
il divieto era giustificato dal fatto che la divinità greca che presiede alla sepoltura, Thanatos, attendeva proprio lì la fine mentre il fratello Hypnos, il sonno,
stava al capezzale. Pina, la collaboratrice del parrucchiere, signor Tramontano,
ricorda che la nonna moribonda esortava le persone a non mettersi sedute sul
letto su cui dovevano stare i morti o gli angeli:«Nun v’assettat’ncopp’o liett’,
nu vedit ca stann e criature?».
15
Piero Camporesi, La terra e la luna, Milano 1995 pp. 20-21. Nelle valli dell’Adda era consuetudine costruire una piccola apertura nella camera da
letto, verso oriente, perché l’anima dell’agonizzante non fosse trattenuta all’interno della casa e non disturbasse gli abitanti. In direzione dell’Oriente era
posizionato nel mondo vetero cristiano il giaciglio del moribondo o del morto
come luogo da cui si aspettava che, alla fine del mondo, venisse Cristo a giudicare i vivi e i morti. Ce ne dà testimonianza anche Gregorio di Nissa (IV sec.)
quando, parlando ne “La vita di Macrina” della morte della sorella dedita alla
vita ascetica, ricorda che il letto di lei fu rivolto ad oriente.
16
Frazer (“Il ramo d’oro” vol. I p.301 sgg) afferma che l’usanza è dovuta al
fatto che «si teme che l’anima proiettata fuori di una persona (di casa) sotto
forma del suo riflesso possa essere portata via dallo spirito del defunto che
comunemente si crede rimanga ancora per casa fino al suo funerale».
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Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
lungata, persone di una certa età e lei con sua madre andava a
porgere le condoglianze. L’uso è ancora vivo nella città; ce lo
ha confermato un tassista spiegandocene il motivo: può capitare che l’anima corra il rischio, rimanendo catturata dalla
superficie riflettente, di rimanere prigioniera in casa a scapito
soprattutto dei vivi.
In varie parti d’Europa, e non solo, vigeva ma ancora resiste,
il tabù dei nodi che si rifà alla magia simpatica: ogni nodo, ogni
catenaccio o chiusura è di impedimento a determinate azioni o
eventi: per questo, come si sciolgono tutti i legamenti che impediscano l’unione matrimoniale o il parto, così essi vengono
rimossi dagli abiti dei morituri e dei morti insieme con gli anelli e gli orecchini (ma forse quest’ultima azione è dettata anche
dal timore che oggetti di valore possano essere rubati).
Ci capitava, non ricordo precisamente gli anni dato che ciò
si è andato perdendo molto lentamente, di incontrare, preceduti da un suono triste di campanello, un prete con paramenti
sacri e un chierichetto che lo copriva con un piccolo baldacchino, una specie di ombrello: andavano a portare l’olio santo
a un moribondo per l’Estrema Unzione. A questo si fa risalire
il tabù per il quale colui che inavvertitamente si avventuri ad
entrare in un negozio o in una casa con l’ombrello aperto, è invitato con parole rudi a chiuderlo. E viene con paura riprovato
anche il gesto di posare il cappello sul letto: così, infatti, faceva
il prete accingendosi a impartire l’ultimo sacramento.
Capitolo II
La morte
Preparazione al passaggio
I cambiamenti della vita, come la morte di una persona
cara, la perdita di un figlio o il suo dolore, la separazione dal
coniuge, hanno bisogno, per essere elaborati e quindi accettati,
di precisi rituali che con idea innovativa vengono individuati
da A. Van Gennep come “riti di passaggio”. Per quanto riguarda la morte che determina una terribile frattura contaminante,
si ricorre da tempi immemorabili a strategie per esorcizzarla,
per placare gli spiriti e aiutarli nella conquista di un luogo di
pace: nel mondo antico esse consistevano nel compianto, in sacrifici, in banchetti presso la tomba e offerte di cibo e di acqua,
cerimonie che ancora persistono in qualche luogo; nel mondo
cristiano in messe di suffragio e preghiere.
Uno dei tanti rituali funebri, quello per il corpo di Miseno
che, rimasto insepolto, contamina la flotta, viene descritto da
Virgilio: Enea fa innalzare una pira con rami di pino e di quercia, e piantare davanti funerei cipressi, lavare il cadavere con
acqua calda, cospargerlo con unguenti, adagiarlo sul rogo e gettarvi le vesti17. «Altri si avvicinano all’alto feretro / compito triste
e, secondo l’avito costume, / con il viso voltato appiccano il fuo17
L’apologeta Tertulliano riprova questo uso pagano che andava perpetuandosi anche tra i cristiani.
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Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
co». Spento il rogo, le ossa vengono lavate col vino e chiuse in
un’urna di bronzo. Uno degli amici purifica, con un ramoscello
di ulivo immerso nell’acqua lustrale, i compagni proprio come
fa ora il sacerdote al momento della benedizione della salma.18
In molte parti d’Italia, specie nel sud, quando le azioni
usuali giornaliere vengono interrotte dall’evento luttuoso e il
focolare deve rimanere spento, i parenti o i vicini portano alla
famiglia il pranzo pronto, a base soprattutto di brodo corroborante. Il cibo è posto in un cesto o, come in Sabina, nella
“coppa”, un recipiente di legno, unità di misura dei cereali da
seminare in una data estensione di terreno. Questo uso attiene
ad un’arcaica cultura agraria in cui il mondo sotterraneo non
appartiene solo ai morti ma anche alla vita che rampolla dal
seme nascosto nel grembo della madre terra.
Gli stipiti della porta della casa in cui giace il defunto vengono addobbati con drappi neri o viola19 arricchiti un tempo
da una collana di agli che, come si sa, con il loro odore acuto
sono un ottimo repellente contro il diavolo, sostituto delle antiche streghe – per la morte di un bimbo si appendevano fuori
della casa anche ferri di cavallo o un crocefisso per impedire
l’entrata alle cattive presenze. In qualche parte del Sarnese – lo
ricorda una vecchia signora – per tenere lontani dalla casa in
Virgilio, Aen. VI vv. 212-231.
In tempi più lontani i paramenti erano costituiti da larghi nastri di velluto nero. Nell’antica Roma la porta della casa del defunto era ornata di rami di
cipresso e di pino, come ci riferisce Plinio il Vecchio: «alberi ferali posti vicino
alla porta come segnale di morte, privi di frutti, poco generosi di ombra». Gaetano Amalfi (La culla, il talamo, la tomba Pompei 1892) ipotizza che queste
strisce di tessuto siano «forse lontana reminiscenza del cipresso o pino romano
conficcato in terra perché i pontefici si astenessero dall’entrare e restare contaminati». Johann Bachofen (Il simbolismo funerario degli antichi Napoli 1989 p.
199) scrive che i nastri «sono associati alle divinità materne, proprio in quanto
prodotto della tessitura e hanno un rapporto specifico con i sepolcri perché
congiungono a ritmo alterno l’apparire e lo sparire dei fili… ».
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Capitolo II. La morte
lutto e quindi più facile ad essere contaminata, gli spiriti maligni20, si accendeva un fuocherello forse perpetuazione della
suffitio fatta dai romani con un ramo di alloro passato sulla
fiamma per impedire la contaminazione della morte21. La credenza che il cadavere, soprattutto quello dei piccoli, potesse
essere preda di esseri malefici, come le streghe, ha una autorevole conferma in un passo del “Satyricon” di Petronio in cui il
corpo di un giovinetto, malgrado la presenza di un nerboruto
custode, viene attaccato dalle strigi e ridotto ad un fantoccio di
paglia, privo degli organi interni22.
La prima pietosa e spontanea azione nei confronti del morto, quella di chiudergli gli occhi, ha forse una valenza apotropaica perché il suo sguardo terribile, vacuo e privo ormai di
luce, potrebbe attirare il vivo. Plinio il Vecchio tenta di darcene
una spiegazione nella Naturalis Historia XI 150: «Secondo l’usanza romana ai morenti si chiudono gli occhi e di nuovo li si
riaprono quando il cadavere è sul rogo e perché non è lecito
che essi siano visti da alcuno nel momento supremo e perché
è empio non mostrarli al cielo». Nell’Italia meridionale, a Potenza e a Cosenza, gli occhi del morto che rimangono aperti
portano un terribile presagio: a quel lutto familiare presto ne
seguirà a breve un altro.
Passati i tempi in cui il morto veniva avvolto in un sudario,
si ricorreva, dopo aver lavato il corpo, ad indumenti nuovi23
20
Che l’aglio abbia avuto sempre una funzione apotropaica è documentato ampiamente. Esso ha una sua presenza autorevole anche contro Dracula,
orribile personaggio del romanzo gotico dell’irlandese Bram Stoker del 1897,
passato poi ai fumetti.
21
I romani ponevano vicino al letto funebre le acerrae, cassette in cui bruciavano incensi e altre essenze profumate che, essendo volatili, si credeva potessero venire più facilmente in contatto col mondo superiore..
22
Petronio, Satyricon 63.5 (cfr. Sezione documentaria).
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In Calabria, se uomo, il defunto era (od è) lasciato con i piedi nudi, se
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Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
spesso preparati per le donne già nel corredo di sposa. Erano
contenuti nella “mappatella” fatta di biancheria da letto e intima; vi erano aggiunte “‘e scuolle”, triangoli di lino ricamati
che, oltre che per il fine lugubre di tenere chiusa la bocca del
morto, servivano anche, con pezzi di patata all’interno, contro
il mal di testa dei vivi24. Anche la signora Filomena Di Napoli
aveva indicato alla nipote Mena il posto segreto in cui aveva
riposto la sua “mappatella” per conservare, anche da morta, un
dignitoso pudore.
Il vestiario vecchio e il materasso venivano bruciati affinché,
a causa della magia simpatica, non richiamassero indietro l’anima del morto. Ma, ci racconta la signora Angelina di Sarno,
lei, come altri, mise nelle bare del padre e della madre gli ultimi indumenti da loro indossati dopo averli attorcigliati.
Candele che sostituiscono le lampade ad olio degli antichi
tempi sono accese ai lati del letto funebre nella camera che
per questo viene chiamata “camera ardente” (questa usanza potrebbe riflettere inconsapevolmente l’antica credenza, applicata anche alle culle dei neonati, della luce come custode contro
le cattive presenze).
La suddetta signora Angelina Falciano riferisce ancora che
per la vestizione si chiude la porta che viene riaperta in seguito
per dare libera entrata ai visitatori – secondo altri, per permettere alle anime degli antenati di accompagnare agli estremi riti
il caro parente. A mezzanotte, poi, si lascia nella stanza chiusa
il morto da solo con tutte le luci accese, per lui ultime ormai,
e le finestre aperte in modo che gli spiriti, buoni o cattivi, pos-
Capitolo II. La morte
sano entrare e portare via l’anima. Riaperta la porta, si ha cura
di osservare con trepidazione i lineamenti del proprio caro: se
sono distesi e sereni, danno il messaggio di un viaggio verso il
mondo celeste, altrimenti la crudele notizia di una dolorosa
discesa dell’anima nel regno dell’eterna pena.
Vestito il defunto con abiti decorosi (la cravatta è senza il
nodo che impedirebbe il distacco dell’anima dal corpo), lo si
pone nella cassa. Ma da qualche tempo – ce lo riferiscono donne sarnesi – si usa lasciare il defunto con il pigiama o con la
camicia da notte prendendosi cura di riporre ben piegati vicino al corpo gli abiti “buoni” e le scarpe nuove da indossare
nell’aldilà in modo da non fare una brutta figura. E questo
prolungarsi oltre la morte di una sorta di rispetto umano provinciale denota una radicata concezione inconsapevole di un
oltretomba pagano.
Un tempo, circa quaranta anni fa, l’imbottitura interna
della bara che non esisteva o era troppo costosa, era sostituita con foglie profumate di limone e di altri agrumi di cui si
riempiva talvolta anche una federa. Si dava così seguito inconsapevolmente all’usanza dei greci e dei latini di usare per i riti
funebri piante mediterranee aromatiche, come il mirto, l’alloro, l’origano e il rosmarino25. Ramoscelli di quest’ultimo – il
nome significa “rugiada marina” ed è simbolo dell’immortalità
dell’anima – venivano posti dagli antichi tra le mani dei defunti o bruciati al posto dell’incenso26 mentre col rametto di
origano immerso nell’acqua catartica si aspergeva il cadavere;
donna, viene abbigliata con una veste sciolta forse perché nodi di qualsiasi
genere possono impedire la libera uscita dell’anima.
24
Questo fatto ha dato origine al detto napoletano «’nce vonne’e scuolle’n
fronte» che allude, metaforicamente parlando, al male di testa provocato da
qualche preoccupazione.
25
Plinio (Nat. Hist. XXXV, 160) ci riferisce che lo scrittore latino Varrone
fu sepolto nel 27 a. C. dentro un sarcofago di terracotta «secondo l’uso pitagorico immerso in foglie di mirto, di pioppo nero e di olivo».
26
Ancora oggi accanto alla salma vengono deposti sulle braci foglie di ulivo
e grani d’incenso, aroma che nel mondo antico veniva ricollegato con la divinità a cui facilitava l’accesso; in chiesa la bara viene incensata dal sacerdote.
24
25
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
il rosmarino, inoltre, fino alle soglie del XX secolo, adornava
come pianta del ricordo, con altri fiori, i funerali.
Il capo del defunto veniva appoggiato delicatamente su un
piatto “accopputo”– ce lo racconta sempre col suo linguaggio
semplice Patrizio Cordella. Questo tipo rustico di poggiatesta
ci richiama la tegola spezzata di cui l’imago di Cinzia morta si lamenta con Properzio per averle ferito il capo (laesit et
obiectum tegula curta caput)27. Diverse modalità di riti venivano seguite a seconda dell’età e della condizione del defunto:
a Marigliano, quando moriva un prete, si bagnava la salma
con acqua e sale, la si vestiva con la tunica e le si poneva vicino un calice di vino bianco e del pane, chiaro simbolismo del
sacrificio eucaristico. Il corpo di una ragazza sposata da poco
o vicina alle nozze veniva abbigliato col tanto desiderato abito
bianco e le si poneva tra le mani o accanto una ciocca di capelli del fidanzato o marito. Al momento della sepoltura della
giovane – ce lo riferisce Raffaele Alligrande, alunno di Irene
Carloni – si gettavano nella fossa rose e gigli, segno di purezza.
Dopo essere stato cosparso di acqua santa, anche il corpicino
del bambino morto veniva abbigliato con vesti candide come
la sua breve vita; vicino era posto un bicchiere d’acqua, intorno e sul letto, si spandevano petali di rose bianche e confetti,
nelle manine profumava una rosa bianca senza spine perché la
piccola anima potesse uscire senza farsi male – di questo particolare patetico ci informa il sunnominato Raffaele Alligrande
di Pomigliano d’Arco28 che ci riferisce altre notizie sulle usanze
funebri e sulle reliquie di esse. Di fiori e confetti sparsi sul cor-
Capitolo II. La morte
picino di un bimbo esposto in una chiesa di Capri si sofferma
brevemente nella seconda metà dell’ottocento Gregorovius:
…Era coperto da un velo bianco sul quale erano sparsi fiori e
mandorle zuccherate; è difficile che il bambino in vita abbia assaggiato quei dolci; però quando sono morti si danno ai poveri bambini
dei pescatori perché servano loro di gioco nella tomba. Il bambino
fu portato senza alcuna cerimonia nella cripta della chiesa dove, secondo un’antica usanza, tutti i defunti vengono tuttora seppelliti…29
In vaghi ricordi della mia infanzia nei Castelli Romani affiora la visione funerea di personaggi con tunica bianca, mantello e cappuccio nero; quest’ultimo, a punta e con buchi per
gli occhi e per la bocca30, mi è rimasto impresso come segno
triste e misterioso di morte. Non ricordo se vedevo questi “incappucciati” nelle processioni del Venerdì Santo o al seguito
dei funerali o in ambedue le circostanze. La lettura di un libro
di Maurizio Tiberi, Un tenore dall’800, mi ha confermato che,
almeno in Lanuvio, esisteva, ancora agli inizi del’900, l’usanza
venuta dal medioevo di andare da parte di appartenenti ad una
confraternita (in questo paese quella di S. Maria delle Grazie)
a prelevare il defunto a casa per accompagnarlo in chiesa. Ce lo
testimonia il protagonista del suddetto libro, il grande tenore
lanuvino Giacomo Lauri Volpi, che con intensa commozione
così rievoca la morte prematura della mamma:
Properzio, Elegia 4, 7.
Ma già alla fine dell’Ottocento G. Amalfi nel suo libro più su citato, dice
che nelle mani dell’innocente era posto un mazzolino di fiori e nella bocca un
garofano. Il funerale era seguito da coetanei vestiti da angioletti come avviene
ora nelle processioni.
Gregorovius, Passeggiate per l’Italia, Bologna 1968 vol. IV p. 97.
Costoro appartengono alle Confraternite laiche, le prime delle quali nacquero per dare ai propri membri morti degni funerali e suffragi e a quelli malati mutuo soccorso. Della continuità di questa usanza fino ai primi del secolo
scorso ci dà testimonianza, attraverso il ricordo del padre, Simone, il maestro
lanuvino Alfonso Frezza: il nonno di cui porta il nome venne trasportato all’ospedale per un’operazione dai membri della sua confraternita. Di sodalizi laici
si hanno notizie a Napoli dove presero il nome di “Staurite” verso il 900.
26
27
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Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
E la morte liberatrice sopravvenne: la bella morte che non altera i lineamenti e compone le sembianze nella dolcezza di gradevole
sogno… Io vedevo fantasmi in ogni ombra della terrazza e della
Torre, rifugio di colombe, civette e barbagianni. Il sangue mi si
agghiacciava dallo spavento. I fantasmi vennero il giorno seguente
sotto le spoglie di fratelli incappucciati e intonacati di nero e me la
portarono via, mia madre. A sette anni certe visioni non si cancellano più nella memoria. Credetti che gli incappucciati mi avessero
rapito la mamma che poco prima mi era apparsa rosea, sorridente
come viva nella bara coperta di fiori …31
In Campania chi ne aveva la possibilità faceva trasportare
il feretro da un tiro di sei cavalli bianchi seguito da una lunga
fila di orfanelli o orfanelle32 con i ceri accesi mentre da finestre
e balconi le persone facevano cadere una pioggia di fiori e di
riso sulla bara, in silenzio, senza gli applausi di cui oggi si fa
grande uso, inopportuni dal momento che l’evento è triste e il
morto non può sentire. Anni orsono assistemmo proprio noi,
a Sant’Agata dei Goti, al funerale di un bambino e al fitto getto
di confetti bianchi durante il percorso. Di un tipo di trasporto funebre di un piccino ci dà testimonianza Goethe nel suo
Viaggio in Italia scritto sullo scorcio del 1700: colori vivaci
dei paramenti, fregi d’oro e d’argento sulla piccola bara in cui,
quasi “soffocato tra i nastri rosa”, giace il morticino vestito del
bianco della sua innocenza; ai lati quattro angeli con mazzi di
fiori che, attaccati a fili di ferro, dondolano33.
Capitolo II. La morte
Prima ancora, durante la notte che precede il trasporto, il
defunto, non viene lasciato solo ma lo si veglia recitando il
rosario inframmezzato da ricordi di lui.34 In segno di lutto,
in molti luoghi del mondo e d’Italia, specie nelle campagne,
almeno fino ai primi anni del secolo scorso, nella casa colpita
dal lutto venivano sospesi i lavori casalinghi: il fuoco era spento, la panificazione interrotta, non si spazzava né si spolverava
nel timore che così potesse essere espulsa anche l’anima ancora
indugiante all’interno.
Da quando e dove si è andata spegnendo l’usanza venuta da
tempi remoti quella forma gridata di epicedio intonata da familiari o donne prezzolate chiamate nel mondo latino “praeficae”?35 Oltre che dal libro famoso di E. de Martino, ce ne viene
notizia da un libricino di Gaetano Amalfi, sopra citato. Erano
manifestazioni di rimpianto per avere perduto, con la morte
del proprio caro, le cure di lui (ma si parla – non si sa quanto
affettuosamente – anche di botte). Quei lamenti si chiamavano “riepeto” cioè “rammento ripetuto delle azioni del defunto”
e contenevano formule fisse: «Ah, quanno me regalaje chillo
bello moccaturo! / Ah quanno me dava tante mazzate!»36. Spesso il riepeto era accompagnato da un furioso schiaffeggiarsi,
graffiarsi e strapparsi i capelli; era il “riepeto vattuto” tutto al
femminile fin dal tempo antico perché
il principio della natura che domina sulla vita e la morte è femminile… Dopo la morte, solo la madre resta accanto al cadavere,
Maurizio Tiberi, Un tenore dall’800 S.R.M.A.R. p. 26.
32
Nonna Olga che a Potenza, piccolissima, viveva in un triste orfanotrofio,
raccontava che le pessime suore costrinsero in un giorno invernale una bimba
malata a seguire con le altre il feretro per non perdere il cero donato dai parenti; la piccina morì sottraendosi così ad ulteriori torture.
33
Cfr. sezione documentaria.
34
Una simile, ma più moderna, commemorazione è stata vissuta recentemente a Roma dalla famiglia di John Benda che, riunitasi nella casa del nonno,
morto da poco, lo ha ricordato con filmini sulla vita con lui condivisa.
35
Il termine proviene dal latino praeficere e significa “colei che presiede alle
lamentazioni” o, come scrive lo storico latino Festo “quella che dà il ritmo del
lamento”.
36
G. Amalfi, op. cit. p. 62.
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29
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Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
che si tratti della Madre Terra o di una donna terrena che prenda il
suo posto; in ogni momento, nella nascita e nella morte, la madre
appare davvero come Gea (“Terra”), Gyné (“Donna”)… Sono le
donne “Le amanti del lamento” (φιλόϑρηνοι γυναικες) che
eseguono il lamento funebre…37».
Questi rituali, come si è detto, sono simili in molte età e in
molti luoghi e testimoniati largamente dalle arti figurative, anche le più primitive, e dalle letterature, specie quelle del mondo
classico come i poemi omerici e i drammi. Nella parodo dell’“Alcesti” di Euripide38 il coro che avanza si meraviglia del silenzio
che regna nella dimora di Admeto e una parte di esso teme che la
sposa di lui sia morta, una parte spera che sia ancora viva dal momento che non vede segni di lutto né sente il battere delle mani:
Non vedo davanti alle porte / l’acqua lustrale come è d’uso /
presso le porte dei morti / né chioma recisa nell’atrio / segni di lutto per i defunti; / non risuona il batter di mani di giovani donne39.
In luoghi della costiera al lamento di una singola persona
faceva eco la riconferma del coro:«Ier’overo, ier’overo».
Per l’Aldilà le più care cose
Nella cassa vengono con amorosa cura deposti gli oggetti
usati in vita, i più cari: occhiali, forbicine e, a fianco al corpo, le
Johann Jacob Bachofen, op. cit. pp. 268 e 244.
Alcesti si offre di morire al posto del marito Admeto ma Eracle in compenso della benevola accoglienza fattagli malgrado il grave lutto della casa,
scende agli Inferi e la riporta tra i vivi.
39
Euripide, Alcesti vv.98-101.
37
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Capitolo II. La morte
scarpe affinché il defunto si presenti in forma perfetta nell’aldilà.
Vicino al corpo del nonno di Patrizio vennero deposti una bottiglia di vino, noci, nocciole e una busta della terra della campagna che aveva coltivato. Durante l’alluvione del 1998 a Sarno,
Immacolata Esposito trovò nel fango da cui era stata sepolta
tutta la famiglia del fratello, un borsellino con il denaro. Lo
mise nella bara accanto alla salma della cognata perché era “cosa
sua”. Il signor Michele Tramontano, parrucchiere di Mariglianella, testimonia che la cugina fornì il papà defunto di occhiali
per lettura, penna e settimana enigmistica perché «Lui amava
tantissimo cruciverba e rebus». Una sua zia, invece, depose nella
bara del marito la protesi della gamba e il bastone «per poterlo
far camminare nell’altra dimensione». Già E. de Martino, attraverso il lamento di una vedova lucana, testimonia questa usanza
pagana per cui «lo stesso Aldilà si configura come un mondo
che continua in forma larvale e evanescente quello nel quale
viviamo». Dopo avere esaltato le virtù attive del marito defunto,
la donna elenca le cose deposte nella bara:
…due camicie, una nuova, una rattoppata, bene della tua donna; la tovaglia per pulirti la faccia all’altro mondo…; due paia di
mutande, uno nuovo e uno con la toppa sul sedere; e poi ti ho
messo la pipa… ché eri appassionato del fumo… E ora per chi
debbo mandarti il sigaro all’altro mondo, bene della tua donna?40
Pasquale che ha la bancarella in via S. Chiara, a Napoli, ci riferisce che, quando morì un conosciuto pizzaiolo del quartiere,
i figli gli deposero ai fianchi e ai piedi molte monete, come si
fa o si faceva in Calabria per pagare il diritto di accesso all’altro
mondo; si perpetuava così l’usanza antica, non però sistematica,
40
E. De Martino, Morte e pianto rituale, Torino 1975 p. 81.
31
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
attestata dal V secolo a. C., di porre nella bocca del morto o sul
petto o nella mano o ai suoi fianchi, l’obolo per il burbero traghettatore delle anime, Caronte41. Questa usanza non attestata
nel Vecchio Testamento viene alquanto sporadicamente testimoniata da ritrovamenti di sepolcri ebraici del I secolo e proviene probabilmente dalla cultura dei romani dominatori. La moneta come viatico per un mondo ultramondano42 fu sostituita
dai primi cristiani provenienti dall’Africa e dall’Asia con l’Ostia
consacrata che, in seguito, perché non fosse contaminata dal
disfacimento del corpo, veniva chiusa in una teca con la scritta
Christus est hic; l’usanza si spense verso il 1200 quando, al posto
dell’Ostia, accompagnò il defunto il Crocifisso e poi il rosario.
Dell’uso di porre denaro vicino al morto, parlando del viaggio che dobbiamo intraprendere dopo la fine, ci fa uno “sfizioso” quadretto Pietrangelo Buttafuoco in un articolo de “Il
Giornale” del12 giugno 2013:
Tra la vita e la morte c’è quindi l’andare, il dovere andare. È il
cammino oltre il quale, prima della destinazione, c’è il pedaggio. Mi
ricordo della morte di zio Peppino. Sua figlia, Concettina, gli mise
una banconota da mille lire in tasca. È un retaggio questo di sana
sensibilità pagana. Serve a pagare il debito con Caronte. Qualcuno,
41
A Napoli, nella necropoli rinvenuta in via Santa Teresa degli Scalzi, dietro il Museo, furono trovate monete di bronzo, risalenti ad un periodo che va
dagli ultimi anni del IV secolo a. C. al III, nella bocca dei morti ad esclusione
dei bambini – si ipotizza che la ragione di ciò possa essere il fatto che i piccoli
per la loro innocenza non devono pagare pena. Secondo l’ipotesi di qualche
studioso, la moneta, per il materiale metallico e per la forma rotonda, avrebbe potuto avere anche una valenza apotropaica con l’impedire alle malefiche
presenze di introdursi nel corpo del defunto e di funestare così il mondo dei
vivi. Ma altri pensano che il denaro messo nella bara costituisca una forma di
risarcimento per il morto che ha dovuto lasciare quanto ha accumulato.
42
In Abruzzo la moneta sarebbe dovuta servire per pagare il traghetto del
Giordano, in Sardegna per darla all’Angelo nocchiero.
32
Capitolo II. La morte
il solito moderno, s’infastidì del gesto: «I soldi?». Fu Santina Lo Gioco, spiritosa sempre, a rendere chiaro il tutto ai parvenü della laicità
obbligata convenuti al consòlo. Parlò con estrema serietà, Santina:
«Nessuna meraviglia. E così, quando arriva, con i soldi che gli restano, zio Peppino si compra il gelato».
Nel quando si arriva c’è il senso tra la vita e la morte, il cominciare a esistere oltre la vita e la morte è il pedaggio, ovvero, anche
l’eventualità di comprarsi un gelato.
Ma non basta: qualche vicina di casa che abbia perduto precedentemente uno stretto parente, consegna degli oggetti di lui
da mettere nella bara per essergli consegnati, soprattutto pacchetti di sigarette che intanto non lo possono più danneggiare.
L’uso è attestato in alcuni luoghi come Avigliano, in provincia
di Potenza, secondo quanto ci dice la signora Marinella e addirittura in Romania dove E. De Martino poté prendere visione
e servirsene per la sua opera, di schede di osservazione redatte
da alcuni etnografi e conservate nell’archivio dell’Istituto del
folklore di Bucarest. Riguardano le lunghe e complesse fasi del
rito funebre per un pastore, Lazzaro Boia, morto negli anni
cinquanta del secolo scorso. Ad un certo punto della cerimonia
una lamentatrice pone nella bara due mele:
…se ti sarà possibile girare nell’aldilà,
se troverai la possibilità di parlare,
stasera quando vi arriverai,
se ti verrà incontro,
il mio dolce fratello,
ti ho portato due mele
perché tu le dia a lui43.
43
Ernesto de Martino, Morte e pianto rituale, op. cit., p.186.
33
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
Simbolismo del cibo
Avvenuta la morte, si provvedeva al banchetto funebre, come
usava nell’antica Roma. Si iniziava dall’impastare e far lievitare
la pasta per il pane che, sfornato, veniva offerto ai parenti e ai
partecipanti alle esequie; talvolta veniva preparato addirittura
sulla bara perché avesse un contatto più diretto col defunto. Interessante a questo proposito l’articolo apparso nel luglio-agosto
del 2002 nel periodico “Oltre”: dopo la morte della persona,
donne estranee alla famiglia preparavano il pane e il tempo di
lievitazione e dell’impasto corrispondeva al tempo in cui il morto doveva rimanere nella casa. Osserva Andrea Romanazzi44 che
vi è un rapporto di magia simpatica tra il morto e il frumento il
cui seme messo nella terra morirà per dare vita alla pianta; allo
stesso modo il defunto passerà dalla morte alla rigenerazione.
E Piero Camporesi, sempre a proposito del simbolismo dei
cibi, scrive:
… come la minestra e i dolci a base di uova nel pranzo battesimale indicavano l’analogia fra vita nuova, rinascita e trionfo sulla morte… la stessa funzione aveva il pane funebre; e come la luna – segno
di morte e di rinascita, di crescita e di decrescita – il pane assumeva
le forme tonde, allo stesso modo della piada sulla quale venivano
stilizzati quei simboli solari che nel mondo precristiano non erano rari anche sui coperchi delle urne cinerarie, emblemi della fecondità e della rigenerazione…45. La socializzazione simbolica del
fatto nutritivo, correlata al senso arcaico della continuità biologica
Capitolo II. La morte
e della fondamentale presenza larvale degli antenati (il ritorno dei
trapassati nella notte del 1° novembre, la finestra aperta, nello stesso
giorno per far entrare gli spiriti incarnatisi in volatili) non si può
intendere compiutamente se non rapportata a tutto il complesso e
impressionante cerimoniale della morte che ci è stato tramandato
non dalla cultura contadina (puramente orale) ma da quella scritta
e, nel nostro caso, dagli uomini di chiesa istituzionalmente avversi a
una cultura profondamente diversa dalla loro46.
A Sarno, come ci riferisce ancora Patrizio, dopo il triste
evento, il focolare rimaneva spento, simbolo di frattura tra il
prima e il dopo e di sospensione della normalità della vita; non
si cucinava per otto lunghi giorni ma i vicini di casa preparavano per i parenti del defunto pasta e fagioli e baccalà, cibo, in
quel tempo, dei poveri che ora non possono più permetterselo.
L’usanza di mangiare questo saporito piatto è rimasta nel Sarnese per la festa dei morti.
Un diffuso simbolismo ctonio dai tempi più antichi fino ai
nostri hanno le fave, specie quelle nere che venivano deposte
nel mondo antico nelle sepolture47 o sparse sul feretro o mangiate durante i banchetti funebri (ma Pitagora proibiva questo
cibo il cui baccello, secondo lui, rappresentava la porta dell’Ade, i semi un possibile luogo di trasmigrazione delle anime)48.
44
Cfr. www. habanera.it / A. Romanazzi, cultura popolare, tradizioni dimenticate
45
Tanto intensa era la sacralità del pane che, al tempo lontano in cui eravamo bambini, ci esortavano a non sprecare il pane altrimenti in Purgatorio
saremmo stati condannati a raccoglierne le briciole con un cestino bucato.
P. Camporesi, La terra e la luna cit., pp. 19-20.
Fave sono state trovate in villaggi neolitici e in tombe egizie risalenti a
migliaia di anni fa. Esse venivano offerte anche a Bacco e a Mercurio, il greco
Ermes, guida delle anime verso gli inferi. Plinio il Vecchio ci informa che questi funerei legumi venivano usati nei sacrifici per i defunti dal momento che
erano sede delle loro anime.
48
Non so se abbia qualche attinenza con quanto detto il nome “Campo di
fave”, luogo situato sulle lagune del lago Menzaleh in Egitto; su di esso regnava
Osiride, signore dei morti il cui corpo smembrato dai nemici, venne ricomposto e rianimato da Iside, sua moglie e sorella.
34
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Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
Contraddice decisamente questo tabù un luogo dei “Fasti” in
cui Ovidio, parlando della festa della dea Carnia49 celebrata il
primo giugno sul Celio con offerta di fave (Kalendae fabariae),
reputa questi legumi, contrapponendoli alle ricercate vivande
(ascitae dapes), cibo salutare gustato con farro caldo e lardo
(mixta cum calido faba farre). Soggiunge che chiunque si fosse
nutrito in quell’occasione di farro e di fave sarebbe stato preservato dai mali delle viscere (Quae duo mixta simul sextis quicumque Kalendis ederit, huic laedi viscer posse negant “Dicono
che chiunque abbia mangiato una miscela di questi due cibi
nelle calende di giugno non possa avere male di viscere”).
Questo legume, ritenuto insieme con i ceci, fin dalla più
antica età, connesso con la sfera ctonia50 faceva parte di molti
riti funebri. Nel medioevo i monaci lo consideravano cibo di
precetto durante la festa dei morti e lo distribuivano con i ceci
nelle strade ai poveri, usanza perpetuata nelle regioni italiane,
e non solo. Abbiamo assistito a questo tipo di distribuzione
molti anni fa in un paesino affacciato sulla valle dell’Amaseno,
Pisterzo. Per la festa di San Michele Arcangelo, anticipata ad
agosto, la sera, alcuni addetti all’operazione, dopo avere acceso
grandi fuochi vicino alla chiesa, mettono a cuocere i ceci in sei
enormi calderoni mentre uno, pieno di acqua bollente, serve a
rimboccare gli altri. L’operazione di cottura dura tutta la notte;
all’alba, dopo un segnale emesso da tromba o tamburo, alcuni
ragazzi con un orcio di coccio pieno dei legumi vanno per le
Capitolo II. La morte
case a distribuirli. Questa usanza potrebbe essere collegata con
la volontà di alleviare le carestie che affliggevano nel passato le
popolazioni. Ma non dobbiamo dimenticare che l’Arcangelo
Michele, venerato sul Gargano, essendo legato in certo qual
modo all’oltretomba come colui che pesa le anime prima del
Giudizio, viene invocato per una buona morte.
In Calabria – non sappiamo se ancora esiste questa usanza – le fave secche venivano cucinate con cotiche di maiale a
consolazione di coloro che tornavano da un funerale51 mentre
in Sicilia, durante il Venerdì Santo, esse intrecciate in forma di
ghirlanda, venivano (o vengono?) prima offerte alla statua di
Gesù che legato alla colonna viene portato in processione e poi
distribuite e mangiate.
I segni del lutto, i simboli della morte
Parlando dell’antica tradizione secondo cui Romolo aveva
distribuito l’anno in dieci mesi a iniziare da marzo, Ovidio
informa che «per altrettanti mesi dopo il funerale la vedova
indossava i tristi segni del lutto per il coniuge»52. I tristia signa
sono le sordidae vestes di colore nero che appartiene alla sfera
dei morti53 (ma presso gli Spartani le donne indossavano in tali
occasioni abiti bianchi e le stele funebri erano avvolte da lun-
Carnia era la divinità protettrice delle funzioni vitali; teneva, inoltre,
lontane dalle culle dei neonati di cui succhiavano il sangue, le strigi, specie di
uccelli dalla duplice natura.
50
Secondo alcuni filosofi collegava la fava all’oltretomba il fatto che lo
stelo fosse privo di nodi e che le radici affondassero profondamente nella terra;
secondo altre credenze il fatto che sul fiore apparisse una sorta di theta, iniziale
del nome Thanatos “morte”. Si ricordi, anche che nei ceci e nelle fave si suole
vedere una forte simbologia sessuale.
51
Nei santuari mediterranei, durante le Pianepsie (pyanos “fava” e epsein
“cuocere”), feste in onore di Apollo ed Atena, si portavano come offerta alle
divinità le fave e le si mangiavano in ricordo di Teseo che se ne era nutrito al
suo ritorno dall’impresa contro il Minotauro.
52
Le leggi delle XII tavole proibivano spese sontuose per l’abbigliamento:
in caso di lutto esso doveva limitarsi a tre indumenti e a una piccola tunica
scura per le donne che, inoltre, non dovevano fare lamentazioni né graffiarsi
le guance.
53
Ovidio, I Fasti I 35-36 Torino 1946.
36
37
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Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
Capitolo II. La morte
ghi nastri neri e bianchi simboleggianti l’alternarsi della vita e
della morte).
Questo luttuoso abbigliamento continuò ad essere usato per
secoli fino a che le nuove generazioni, insensibili alle usanze,
le hanno semplicemente ignorate senza che nessuno più le sollecitasse. Nella nostra Italia, solo in pochi paesi conservatori,
qualche anziano ancora sente il bisogno di manifestare materialmente il proprio dolore. A Sarno Angelina Falciano ha portato
il lutto per sei mesi per la mamma e il doppio del tempo per
il papà che “ci teneva assai”. Le vedove, come ai tempi della
Roma antica, indossavano le vesti nere per cinque lunghi anni:
una nostra cameriera di quando abitavamo a Pomigliano D’Arco aveva perfino fasciato di stoffa nera gli orecchini e si recava
ogni giorno al cimitero – in un momento di sfogo sincero, però,
confessò che lo faceva per gli occhi della gente dato che la morte
del coniuge l’aveva liberata da prolungate violenze e botte.
Il lutto doveva essere manifestato anche da parenti acquisiti, come nuore e generi, attraverso segni attutiti quali cravatta
o maglioncino o bottone neri. Nel 1943 nostra madre aveva messo alla mia sorellina Grazia e a me, per nostro padre,
scomparso nel bombardamento di Roma, un nastro nero tra
i capelli mentre i miei cari fratelli avevano una striscia dello
stesso colore sul risvolto della giacca – allora erano in molti a
portarla; su di essa erano cucite una, due o più stellette a seconda del numero dei propri cari uccisi dalla guerra.
Ricchissimo e molto complesso il simbolismo della morte,
attraversando i tempi, arriva dalle lontananze del mondo antico
fino a noi perdurando nell’età moderna, soprattutto nell’Ottocento. Le tombe di quelle epoche, quasi immensa galleria di
quadri o biblioteca, ci danno ricche informazioni sulla storia
civile e sociale, ma anche su singole vite, attraverso ritratti,
statue, epigrafi densi di significato. Genietti alati, dormienti
o piangenti, con fiaccole rovesciate e con piedi accavallati in
posizione di riposo, piccole colonne spezzate, porte dell’oltretomba semiaperte, animali mostruosi come grifoni ctoni54, ci
richiamano alla mente rappresentazioni del lutto espresse già
dalle culture più antiche.
Lentamente questa memoria così ricca, si è andata, ai nostri tempi, sempre più banalizzando rattrappendosi in povere
esposizioni di foto sulle tombe, in patetici, frettolosi commenti e promesse di un ricordo che presto, con la fine dei congiunti
più stretti, si attenuerà fino a sparire.
Non compete a questo lavoro dilungarsi sugli infiniti esempi di raffigurazioni e iscrizioni su sepolcri e sarcofagi antichi
come quelle che, specie negli anni dell’Impero romano, illustravano le virtù private dei defunti attraverso miti esaltanti la
concordia familiare e l’amore coniugale o esaltavano le virtù
civiche e belliche attraverso scene di oratoria e di battaglia o
ricordavano la gioia della vita perduta con cortei bacchici e
marini. Ai miti sulla eterna fedeltà degli sposi appartiene quello di Protesilao e Laodamia55 rappresentato su un sarcofago
vaticano e su quello di Santa Chiara a Napoli56. Quest’ultimo,
di raffinata fattura greca (III-II sec. a. C.) fu reimpiegato nel
seicento come tomba di Giovan Battista Sanfelice. La storia dei
38
39
54
Il grifone dalla duplice forma di uccello e di leone, ha valenza apotropaica o simboleggia la resurrezione. Nel I e II secolo a. C. al simbolismo dei fiori
è avvicinato quello degli uccelli che li beccano quasi a rappresentare l’anima
che si nutre della loro energia.
55
Laodamia (“Domatrice del popolo”) per non avere adempiuto ai giusti
rituali durante il matrimonio con Protesilao (protos “primo” laòs “esercito”),
viene punita dagli dei con la morte del marito che, nella spedizione greca
contro Troia, sbarcato per primo, viene ucciso da Ettore. Le divinità infere, da
lui pregate, gli concedono un breve spazio di tempo per tornare dalla sposa,
trascorso il quale, Laodamia si suicida per seguirlo tra i morti
56
V. Sezione documentaria.
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
due sposi è divisa in tre settori: sul lato sinistro è raffigurata la
scena dell’eroe morto che supplica la coppia delle divinità infere (ai suoi piedi il piccolo Eros, simbolo dell’amore coniugale);
sulla fronte il guerriero consegnato da Ade ad Ermes, varca
impetuoso la soglia degli inferi per tornare tra i vivi mentre
la moglie, turbata dall’apparizione, giace a terra assistita dalla
vecchia nutrice e da figure femminili una delle quali porta le
offerte rituali mentre un’altra ha stretto nella mano un oggetto
di forma ovoidale57. A destra, seminascosto da un panneggio
e velato, vi è il busto del marito che lei si era fatto scolpire per
tenerlo sempre accanto. Vicino ad un’ara con legna accese per
il sacrificio, è innalzata una stele con l’erma di Dioniso. Alle
estremità della scena, a sinistra, è raffigurata la divinità lunare
riconoscibile per la falce di luna tra i capelli e a destra quella
solare, col capo irraggiato, a sottolineare la durata del tempo
concessa ai coniugi; sul lato destro un coltello nelle mani di
Laodamia, che è di fronte all’eroe, preannuncia il suo suicidio.
Sono presenti ancora Eros piangente e, in attesa, Ermes, guida
delle anime agli inferi (psicopompo).
Qualche altro esempio interessante, di un simbolismo funebre ancora non molto chiaro, è costituito da alcuni ritrovamenti fatti, in date a noi vicine, delle tombe lucane esposte nel
museo di Paestum e di Sarno, cosiddette “del guerriero”.
Risalenti al IV secolo, hanno dipinta sulle pareti interne la
scena di un “ritorno”, quello di un cavaliere che, riccamente
ornato di armatura e delle splendide insegne che lo contraddistinguono, si dirige verso una figura femminile che lo attende
57
Per Bachofen (Il simbolismo funerario degli antichi, Napoli 1989) l’oggetto diviso in due sezioni, è un uovo che «rivela la sua duplice natura, che
abbraccia e congiunge il lato luminoso e quello oscuro della creazione terrestre». Questa congettura viene respinta da chi pensa che esso si riferisca ad uno
strumento del rito bacchico.
40
Capitolo II. La morte
con le libagioni. Intorno i rossi frutti del melograno richiamano il mondo ctonio e la sua regina Proserpina.
Su altre tombe o sarcofagi antichi sono raffigurate scene in
cui al morto, appartenente a famiglie in vista, vengono offerti,
simboli della vittoria nell’agone della vita, bende e serti di fiori
di cui si adornavano non solo i comandanti trionfatori ma anche i banchettanti nei convivi familiari e funebri. Così è anche
possibile vedere sulle pareti di questo tipo di monumenti e sulle
stele funebri la grande e solenne figura di una Nike alata che
porge al defunto, entrato nell’immortalità, le meritate insegne
e, talvolta, una corona d’oro oppure di fiori (a Roma in maggio,
durante la festa dei Rosalia, venivano portate sulle tombe le rose)58. A questa usanza pagana si opporrà la Chiesa cristiana che
sostituirà la corona materiale con quella che simboleggia il sacrificio supremo dei martiri della fede e, al posto della Nike, porrà
la figura di un angelo. Ciò viene testimoniato dalle rappresentazioni di santi che stringono nella mano la palma, simbolo del
martirio, mentre dall’alto il nunzio divino porge loro la corona.
Dunque l’usanza attuale dei fiori e delle corone funebri che,
sulle bare o attaccate ai lati di un’auto, seguono il morto per
marcire sulla tomba quando addirittura non vengono riciclati,
viene da lontano, sostituita spesso, più giustamente, da raccolte di denaro per opere di carità.
A Napoli, in San Pietro a Maiella, nella quarta cappella a
sinistra, una colonnina spezzata, simbolo della fine precoce di
una tenera vita, è avvolta da un festone di foglie e fiori; in un
angolo pende una piccola ghirlanda in bassorilievo mentre una
graziosa testina di bimba emerge in altorilievo da un ovale incorniciato da un serpente – l’animale ctonio simboleggia forse
58
La corona era sostituita da bende nel caso di una donna. La Nike è
rappresentata anche sul castone dell’anello della mummia della bambina di
Grottarossa esposta nel Museo “Massimo” di Roma.
41
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
Capitolo II. La morte
il male improvviso che ha ucciso la creaturina? Alla base è una
patetica epigrafe dedicata a Rachele D’Agostino: «Tu al ciel volasti dopo rii dolori / non appena compiuto il tuo terz’anno. /
Ma i tuoi dolenti, orbati genitori / quanto altro tempo in terra
piangeranno!». Non vi è la data ma la tipologia può riportare la
tomba all’Ottocento o ai primi anni del secolo scorso. Sempre
nella suddetta chiesa, terza cappella a sinistra, dedicata ai defunti della famiglia Spinelli il cui stemma nobiliare (una spina
di pesce) appare più volte, è stato reimpiegato un busto di Traiano interessante per le grandi ali che ricordano la deificazione
dopo la morte degli imperatori romani. Il busto fa da base a
un sarcofago rappresentato in forma di casa con tetto, porta
e finestre. All’anno 1860 appartiene un monumento funebre
situato in un ambiente della chiesa di Sant’Arcangelo in Morfisa inglobata in quella di San Domenico Maggiore. La dolente
figura della vedova del magistrato, Cesare Gallotti, abbraccia
con la destra il busto del marito mentre dalla mano sinistra
abbandonata sul fianco pende una ricca corona di fiori. Sulla
lastra inferiore sono scritti i riferimenti del morto e esaltate le
sue alte virtù mentre su quella superiore, a sottolinearne la profonda fede, è scolpita la frase «Miro impavido la morte / perché
era seco l’autore della vita». Altro insigne monumento funebre
vediamo nella cappella Piccolomini, a destra della navata di
Sant’Anna dei Lombardi: sopra un alto sarcofago ornato da un
drappeggio, è sdraiata la giovanissima sposa, Maria D’Aragona; al di sopra, emblematica, la scena della Resurrezione, mentre al disotto una commovente iscrizione recita: Tu che leggi
questa epigrafe, leggila silenziosamente per non svegliare colei che
dorme. Maria D’Aragona nata dal re Ferdinando è sepolta qui.
Sposò Antonio Piccolomini valoroso duce di Amalfi cui lasciò tre
figlie pegno del comune amore. Visse anni 20.
A D MCCCCLXX
Sul fronte dell’altare appare un festone di frutta con teschio
centrale fiancheggiato da due figure sdraiate, con cornucopia
e leoni rampanti. Sul lato sinistro dell’altare un auriga, quasi
in posizione di volo, guida una biga (la scena simboleggia il
viaggio dell’anima trainata sul carro del Sole da due cavalli rappresentanti, alla maniera platonica, la passione e la ragione).
Sul lato destro una delle fatiche di Ercole, quella dell’uccisione
dell’idra.
42
43
Capitolo III
Il ritorno
La festa dei morti
In Atene tre giorni del mese Antesterione (febbraio-marzo)
erano dedicati ad una festa agricola in onore di Dioniso per celebrare la fine dell’inverno e il vino nuovo. Nel terzo ed ultimo
giorno venivano offerte ad Hermes Ctonio e ai morti le panspermie, specie di focacce, che, confezionate con una miscela di
cereali, dovevano essere consumate prima di notte
Anche nell’antica Roma, Febbraio (da februa termine attinente alla purificazione dell’anima e del corpo) era il mese
dedicato ai morti e agli Dei Mani a cui si facevano sacrifici di
animali adulti neri. Durante i giorni di questa commemorazione (Parentalia), dal 13 al 21, i templi rimanevano chiusi e i
magistrati deponevano le insegne delle loro cariche, i focolari
restavano spenti. Si credeva che le anime si aggirassero tra le
tombe finché non venissero placate dalle libagioni e da un banchetto finale allestito nei pressi della sepoltura59.
Simili ai semi sepolti nella matrice tellurica, i morti aspettano di
tornare alla vita sotto nuova forma. Per questo si accostano ai vivi,
specie nei momenti in cui la tensione vitale della collettività raggiun59
La chiesa, condannando questo tipo di usanze, sostituì la festa pagana
con quella della Cattedra di San Pietro.
45
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
ge il massimo, cioè nelle feste dette della fertilità, quando le forze
generatrici della natura e del gruppo umano sono evocate, scatenate,
esasperate dai riti, dall’opulenza e dall’orgia. Le anime dei morti hanno sete di ogni esuberanza biologica, di ogni eccesso organico, perché
questo traboccare della vita compensa la povertà della loro sostanza e
li proietta in una impetuosa corrente di virtualità e di germi60.
Così Mircea Eliade nel suo stimolante e chiaro trattato
espone, a proposito del ritorno dei morti, il concetto che la
loro festa sia fortemente collegata a quelle evocanti la fertilità
della madre terra: essi, infatti, sono assimilati ai semi che, sotterrati, marciscono per dare vita a una nuova pianta.
Per l’Italia, si deve rilevare che le credenze sulla presenza e l’azione dei morti nella vita dei vivi, sul loro ritorno sulla terra nel
giorno d’inizio di un ciclo annuale, vanno sempre più impallidendo… Ricordiamo tuttavia che il 2 novembre serba, specie in
alcune regioni, quel carattere di festa del Capodanno o di inizio di
inverno che aveva nel calendario celtico… 61.
La chiesa, per cristianizzare il culto dei morti, sostituì, sotto il
regno carolingio, al capodanno celtico del I novembre la festa di
Ognissanti dedicata ai primi martiri cristiani e resa poi di precetto da papa Sisto IV nel 1475. Ma già prima, dal 998, nell’Abbazia di Cluny, venivano celebrati gli uffici dei defunti nella notte
precedente il 2 novembre mentre nella messa del giorno il rito
eucaristico era dedicato pro requie omnium defunctorum. Era stato Odilone, abate caritatevole di Cluny, a spostare la celebrazione
dall’ottavo giorno dopo la Pentecoste dedicato alla Santa Trinità
e associato in qualche modo alla commemorazione dei defunti,
60
61
Mircea Eliade, Trattato di Storia delle religioni Torino 1926 pp.363-364.
Paolo Toschi, Le origini del teatro italiano, Torino 1976, pp. 171-72.
46
Capitolo III. Il ritorno
a questa data. Secondo J. Claude Schmitt, ciò poteva forse essere
stato determinato dal fatto che in autunno il monastero avesse una maggiore quantità di cibo da distribuire ai poveri che vi
affluivano. Costoro erano «considerati come sostituti dei morti
mentre le vivande materiali che si davano loro simboleggiavano le vivande spirituali ossia i suffragi che abbreviavano le prove
dei defunti»62. Solo in seguito, però, la celebrazione in onore dei
morti si estese al resto dell’Europa.
Nella notte precedente la ricorrenza, gli adulti in silenzio
preparavano le strenne per i bambini. Un giorno velato dalla
tristezza del ricordo di persone care diveniva così denso di lieta
attesa per i più piccini lontani ancora dalla drammaticità della
morte. Per tenere buoni i più vivaci li si minacciava: i morti sarebbero venuti a grattargli i piedi o a tirarglieli (minacce
molto più temibili di quelle di avere dalla Befana carbone al
posto di dolci). Peppe Curatolo di Caltanissetta ricorda di quel
giorno il risveglio lieto che preludeva ad una specie di caccia
al tesoro: venivano cercati e trovati con grida di gioia i doni
dei parenti morti, nascosti in luoghi segreti della casa o nelle
scarpe e nelle calze. Ed erano prevalentemente biscotti a forma
di ossa (crozzi’i mottu “ossa dei morti”), pupazzi di zucchero
raffiguranti i cavalieri del ciclo carolingio così cari al folklore
siciliano (Pupi ri zuccaru). Anche a Terni coloro che i primi di
novembre vanno a visitare le tombe, trovano sulle bancarelle,
nei pressi del cimitero, dolcetti di pasta di mandorle chiamati
“fave dei morti”. A Napoli, in Piazza Mercato, almeno fino agli
anni Cinquanta, c’era un uomo che confezionava torroni, i cosiddetti “morticielli”, quelli che il fidanzato usava donare alla
ragazza a Novembre: erano di forma cilindrica e impastati con
62
Cfr. J. C. Schmitt, Spiriti e fantasmi nella società medievale, Bari 1995,
p. 235.
47
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
abbondante pepe. Si chiamava questa dolce usanza «Portà’‘e
mmuorte a’nnammurata».
Nell’area vesuviana e, in particolar modo, a Pomigliano
D’Arco – ce lo riferisce Raffaele Alligrande – si usava (o si usa
ancora?) in quel giorno andare al cimitero con una sedia, il ritratto del defunto e un lumino e rimanere vicino alle tombe fino
alle 14; per i ragazzini era un giorno di divertimento perché potevano mangiare melograni, simboli ctoni, cachi e fichi d’india
venduti sulle bancarelle. Inoltre, essi, andando in giro per il cimitero, raccoglievano la cera colata in terra e, fattane una palla,
la vendevano fuori dai cancelli. Irene Carloni ricorda bambini
con palloncini colorati comprati alle fiere paesane tenute, alla
maniera antica nei pressi del camposanto di Pomigliano e intere
famigliole che affollavano il luogo (erano gli anni sessanta). A
Sarno, dove resiste qualche reliquia di usanze di tal genere, le
donne portano le sedie vicino alle tombe e si intrattengono da
mattina a sera, mettendo un lumino davanti alle foto dei propri
cari portate da casa e adornandole63.
Di quanto fosse, e sia diffusa, la pietas verso i morti anche
in un passato non tanto remoto ci dà testimonianza Enrico
Heine che, durante uno di quei viaggi intrapresi a piedi dai
letterati tedeschi in cui paesaggio è contemplato tra humour e
pathos, riporta le considerazioni di un albergatore sulle dolci
usanze di gente straniera:
… i Turchi seppelliscono molto meglio di noi. I loro camposanti
sono dei veri giardini ed essi vi siedono sulle bianche adorne pietre
tombali, all’ombra dei cipressi, carezzano gravemente le loro barbe,
fumano il tabacco turco nelle lunghe pipe; e presso i cinesi è un vero
Capitolo III. Il ritorno
godimento vedere come essi danzano cerimoniosamente intorno
sulle tombe dei loro cari, e pregano, e prendono il tè, e suonano il
violino, e sanno ornare le tombe che loro sono care con ogni sorta di
opera in lacca dorata, e figure di porcellana, e pezzi di seta colorata,
e fiori artificiali e colorate lanterne… Ah! tutto è bello…64
Pane ed acqua per i morti che tornano
Nella Roma primitiva, durante le feste dedicate ai morti, si
scoperchiava la fossa (mundus) scavata durante la fondazione
della città: da lì si pensava che emergessero gli spiriti nel giorno dei Feralia (21 febbraio), ultimo dei Parentales dedicati alla
propiziazione dei Manes, spiriti benevoli degli antenati.
Piccoli doni chiedono i Mani: / al posto di un ricco dono gradita è la pietas: / non abitano l’Averno profondo avide divinità. / A
loro basta la lapide coronata di serti fioriti / e frutti sparsi e pochi
grani di sale65 / e pane bagnato nel vino puro e viole sparse, / offerte deposte in un coccio abbandonato in mezzo alla via…
… Si dice, a stento lo credo, che gli avi escano dalle tombe / e
nel silenzio della notte si lamentino, / e per le vie della città e per le
vaste campagne / le pallide anime, popolo vano, ululino. /… Ora
gli spiriti vacui e i corpi sepolti / vanno errando, / ora l’ombra si
pasce del cibo a lei offerto…
63
Foscolo evoca questa antica atmosfera di memoria nei vv. 126-29 de “I
Sepolcri”: «chi sedea / a libar latte e a raccontar sue pene / ai cari estinti una
fragranza intorno / sentia qual d’aura di beati Elisi… ».
Enrico Heine, Viaggio in Italia
Le più antiche offerte consistevano in farina di farro mista con sale (mola
salsa) e in frutti della terra; solo più tardi saranno arricchite da incensi e profumi. Ricordiamo che il sale aveva un’importanza grandissima nel mondo antico
essendo utilizzato per la conservazione dei cibi. In Ovidio è detto februum
“purificatore”.
48
49
64
65
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
Questo quadro, percorso da un brivido, del ritorno sulla
terra delle deformes animae in un tempo in cui le liete fiaccole nuziali vengono sostituite da quelle funebri rivolte verso il
basso, in cui i focolari restano senza fuoco, ci viene presentato
da Ovidio66. E notizie su simili credenze conservatesi per secoli
troviamo ne Il ramo d’oro di Frazer:
È credenza assai diffusa che le anime dei morti tornino a rivedere le antiche dimore in una notte dell’anno; in questa occasione la gente si prepara a ricevere i fantasmi stanchi del viaggio
mettendo a loro portata cibo e accendendo lampade per guidarli
nell’oscurità quando vengono dalle tombe e quando vi tornano67.
Ai morti, per farli riposare dall’estenuante viaggio, bisognava
cedere il posto nel giaciglio alzandosi presto la mattina e facendogli trovare, come un tempo usava nei paesi vesuviani, il letto
apparecchiato con lenzuola pulite. A loro che hanno sete e fame,
soprattutto quando intraprendono l’annuale viaggio di ritorno
nelle case, attesi con timore o pietà dai loro parenti, bisognava,
inoltre, offrire cibo ed acqua nel giorno che li ricorda, usanza
diffusa un tempo non lontanissimo ma che ora va scomparendo
o resiste solo in qualche rara località conservatrice68. In Friuli un
secchio d’acqua aspettava in cucina le bocche degli spiriti assetati
(lo ricorda appena, come in una nebbia, una signora di Clauzetto
ma non sa se glielo abbiano raccontato o vi avesse, piccolissima,
assistito). Nella notte di Ognissanti, nel Sarnese e a Caserta, si
preparava sul balcone una bacinella colma d’acqua, una saponetOvidio, I Fasti, II vv. 535- 540 e 551 sgg.
James G. Frazer, Il ramo d’oro, Torino 1973, vol. II p. 587.
68
Ma Laura Serra di Velletri persiste ancora nell’abitudine, proveniente
dalla lontana infanzia, di lasciare, la notte tra l’uno e il due novembre, la tavola
apparecchiata con stoviglie pulite, pane ed acqua.
66
67
50
Capitolo III. Il ritorno
ta e un asciugamano; al mattino, se l’acqua era torbida e il lino
stropicciato, voleva significare che i cari morti si erano lavati dal
viso i segni della stanchezza per un viaggio così lungo.
L’acqua, da sempre, nel mondo pagano e cristiano, ha proprietà purificatrici e rigeneratrici. Per questo viene usata in riti
religiosi, come il battesimo e il funerale cristiani, o in riti di
passaggio, come la nascita, il matrimonio, la morte. Secondo
una concezione diffusa anche nella speculazione filosofica antica (Eraclito, frammenti orfici), l’acqua rende il morto «solidale
con le semenze … abolendone in modo definitivo la condizione
umana» e quindi anche la sofferenza espressa attraverso la sete.
La speculazione ulteriore ha deprezzato la funzione germinativa delle acque perché poneva il miglior destino d’oltretomba
non nella reintegrazione nel circuito cosmico, ma, al contrario,
nell’evasione dal mondo delle forme organiche verso l’empireo e le
regioni celesti …69.
In alcune regioni italiane si lasciava, dopo la cena, la tavola
apparecchiata per i silenziosi ospiti, usanza in passato viva in Romagna, come ci testimonia la triste poesia di Pascoli “La tovaglia”: («Lascia che entrino da sera, / col loro anelito breve /che alla
mensa torno torno / riposino fino al giorno…»70) e si ponevano
in vari angoli dell’abitazione piatti con pane, recipienti con acqua
e lumini accesi. Il pane era al centro di queste offerte funebri dettate dalla pietà o dal desiderio di placare le anime temibili degli
spiriti corrucciati contro i vivi e quindi funesti – in genere insepolti, o privati dei giusti riti, o vittime di morte violenta, o donne
decedute per parto o infanti uccisi nel grembo materno.
69
70
Mircea Eliade, op. cit. pp. 204-206.
Cfr. sezione documentaria.
51
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
I Mani erano assimilati alle divinità ctonie cui si sacrificavano vittime nere, e a cui, come si è detto sopra, si offrivano,
in un coccio di vaso trovato per strada, focacce salate, pane
bagnato col vino, mentre sulle lastre tombali si spargevano viole71. Inoltre, si imbandivano per loro banchetti e si facevano
libagioni di vino, latte caldo, acqua, miele72. I liquidi erano
versati in condotti di terracotta o di piombo che arrivavano
all’interno della tomba73. In Atene queste imbandigioni venivano allestite il terzo, il nono e il trentesimo giorno dalla morte
(il nostro trigesimo) nella supposizione che i multipli del tre
potessero favorire il ritorno degli spettri familiari che dovevano quindi essere placati con offerta di cibo. Contesterà questa
forma di rito pagano pervenuta fino al 400 e oltre, S. Agostino
che nel De civitate Dei scrive a proposito del giusto omaggio
cristiano alle tombe dei martiri: «Anche chi vi porta il proprio
pasto – non certamente i cristiani più progrediti, né dappertutto vige la consuetudine – chi, comunque, lo fa e, dopo aver
posto le vivande sull’altare, prega e le riporta via per cibarsene
o anche per farne dono ai poveri, intende santificarle con i
meriti dei martiri in nome del Signore»74. Ne Le Confessioni
Capitolo III. Il ritorno
il Santo loda la madre Monica per avere rispettato il divieto
del vescovo Ambrogio di portare cibo sulle tombe «per non
fornire occasione di ingollarsi ai beoni e anche perché quella
specie di “parentali” assomigliano fin troppo alla superstizione
dei pagani … e, invece di un cestello pieno di frutti terreni, ella
imparò a portare sulle tombe dei martiri un cuore ricolmo di
voti più puri…»75.
Sunt aliquid Manes
è con il passaggio dell’uomo dal nomadismo all’agricoltura e
alle attività stanziali, e dunque con il seppellimento del defunto nelle vicinanze dell’abitato, che nasce la necrofobia (“paura del
morto”) e quindi i rituali atti a sconfiggerla. Secondo il primitivo
il morto, prima di raggiungere la sua patria nell’aldilà, subisce una
sorta di passaggio intermedio il cui superamento e il successivo
raggiungimento di quella pace definitiva dipende molto anche dai
rituali funebri a lui riservati dai vivi. Solo al termine del periodo
di lutto il morto può essere considerato tale… Ecco perché coloro
che non hanno avuto una degna sepoltura ed onoranze funebri
ritornerebbero in vita76.
71
Le viole erano usate perché le si credeva nate dal sangue di Attis evirato.
Il colore rosso fin dalla più remota antichità era associato al sangue, simbolo di
rigenerazione anche per il defunto. Nelle sepolture del paleolitico e del neolitico sono stati rinvenuti i resti del morto colorati di ocra. Suppone il Romanazzi
che l’usanza potesse essere diretta ad impedire al morto di cercare energia dal
sangue dei vivi.
72
Ovidio, I Fasti II vv. 538 sgg.
73
«Le libagioni hanno lo scopo di placare il morto, di lenire le sue sofferenze … mediante la dissoluzione totale nell’acqua» e la trasformazione in seme
come avviene nel mondo agricolo, ma sono «anzitutto la sua pacificazione cioè
l’estinzione del residuo di condizione umana conservato, la sua immersione
totale “nelle acque” affinché ottenga una nuova nascita». Così Mircea Eliade
nel trattato sopra citato.
74
Agostino, De Civitate Dei, Einaudi Gallimart 1992, p.355. Refrigerium
è il termine con cui i primi cristiani indicavano il banchetto consumato sulle
tombe dei martiri e le offerte come quelle portate da Monica e proibite poi dal
vescovo Ambrogio.
75
Agostino, Le Confessioni, VI 3 Mondadori 1993, p.95; cfr. Sezione documentaria.
76
Andrea Romanazzi, Culti agrari e rituali di fertilità www. habanera.it.
52
53
Questa l’interpretazione di A. Romanazzi sulla paura da
parte dei popoli primitivi, e non solo, del ritorno dei morti cui
non sono stati resi i dovuti rituali di sepoltura.
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
Alimentava la necrofobia l’idea degli antichi che gli infanti
morti prematuramente andassero ad ingrossare il numero delle
persone spente per morte violenta e che, quindi, come loro,
vagassero senza pace nei luoghi di appartenenza.
Il folklore dell’Europa cristiana ne offre una conferma con una
differenza fondamentale: erano gli spiriti dei neonati morti senza
battesimo che non lasciavano mai del tutto i luoghi dei viventi. Le
testimonianze sono concordi nel considerare lo spirito dell’infante
defunto anzitempo come una presenza inquietante, minacciosa, protesa a danneggiare i viventi, impossibile da allontanare. Ma la ragione dell’esclusione era fissata stavolta nel carattere nuovo del cimitero
cristiano, luogo di riunione dei morti in attesa della resurrezione.
Mentre per i bambini battezzati furono dettate regole speciali per
un rito festoso e solenne con corone di fiori e canti celebrativi della
loro purezza angelica, i bambini non battezzati non avevano diritto
a entrare nello spazio sacro; sepolti in un campo, in cantina, sotto la
soglia di casa, alimentavano fantasie di pratiche stregonesche …77.
Ma Ariès ipotizza che questo uso di seppellire dove capitava
il piccolo morto senza battesimo, protrattosi nelle campagne
fino al XIX secolo, potesse essere dovuto al fatto di essere egli
considerato come un animale domestico, un cane o un gatto, in così sfavorevoli condizioni demografiche: «Era così poca
cosa, così poco inserito nella vita, che neanche si temeva il suo
ritorno dopo la morte, a importunare i vivi»78.
Il pensiero degli spiriti e delle loro incursioni crea nei vivi
timori di vaghi pericoli che vanno esorcizzati con riti e offerte.
Altro atteggiamento assume la Chiesa medievale nei confron77
78
Adriano Prosperi, Dare l’anima,cit, p.169.
Philippe Ariès, Padri e figli nell’Europa medievale e moderna, Bari 2002, p. 40.
54
Capitolo III. Il ritorno
ti dei morti; esso «permise di inculcare nei fedeli una morale
religiosa centrata sulla nozione di peccato, di penitenza, di salvezza che culminò, alla fine del XII secolo, nella “nascita del
purgatorio”». La Chiesa contiene questo atteggiamento «nella
nozione di memoria,“memoria dei morti”…».
Questa memoria si esprimeva soprattutto in occasione delle messe
celebrate per la salvezza del morto, specialmente nell’anniversario del
trapasso… lo scopo della memoria era in realtà quello di favorire la separazione tra i vivi e il morto, di abbreviare la permanenza di quest’ultimo nel purgatorio e, infine, di permettere ai vivi di dimenticare il
defunto. La cadenza delle messe e delle preghiere era sempre più allentata… la memoria … era una tecnica sociale di oblio… metteva i morti
nella giusta posizione di morti in modo che i vivi, nel caso si fossero
ricordati di loro, avrebbero potuto farlo senza paura né sofferenza79.
Un tabù, dettato forse dal timore di evocare lo spirito del
morto, è quello di non pronunciare il suo nome ma di sostituire o fare precedere ad esso formule di rispetto o di affetto come
“la buon’anima”, “il povero”, “lui”. Anche il termine Manes
(“buoni”) aveva nel mondo latino un risvolto apotropaico e
spesso ci si rivolgeva alle divinità non con il loro nome ma con
epiteti vari per il timore di una vendetta.
Questo tipo di precauzione molto diffuso viene testimoniato da Frazer80 a proposito degli aborigeni australiani:
Si parla raramente di morti e non si nominano mai: se ne parla
con voce bassa come «il perduto» o «il poverino che non è più».
Dire il loro nome sarebbe eccitare la malignità dello spirito dei
79
80
Jean-Claude Schmitt, Spiriti e fantasmi nella società medievale, cit., pp. 8-10.
James G. Ffrazer Il ramo d’oro, cit. vol. I p. 391.
55
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
morti che sorvola la terra qualche tempo prima di partire per il
sole calante.
In epoca antica si ricorreva nella città a particolari riti apotropaici uno dei quali viene descritto minuziosamente da Ovidio nei
“Fasti”. È la notte della ricorrenza dei Lemuria celebrati in maggio
nei giorni 9, 11, 13. Per cacciare i fantasmi dei parenti morti (Lemures)81 che, a differenza dei Mani (spiriti buoni degli antenati),
si presentano come spettri da placare, gementi e assetati per non
avere ottenuto i dovuti sacrifici, il pater familias al buio e a piedi
nudi – i riti devono celebrarsi senza alcun impedimento e bisogna
avere contatto con la Madre Terra – «dà segni (della sua presenza)
… facendo schioccare il pollice e il medio affinché la vacua ombra,
se lui tace, non gli vada incontro». Egli si purifica le mani in acqua
corrente, volta la schiena82 e, messe delle fave nere in bocca, le sputa dietro le spalle dove si presuppone che il fantasma le raccolga e
senza essere visto gli vada dietro, e dice per nove volte: «Con queste fave libero me e i miei». Dopo avere invitato altrettante volte
81
Nel De Deo Socrate, Apuleio, citato da Agostino (De Civitate Dei), dice
che «le anime degli uomini sono demoni e uscendo dai corpi divengono lari
se si sono ben comportati, altrimenti lemuri o larve». La parola larva, ci dice
Paolo Toschi (Le origini del teatro italiano, Boringhieri, Torino 1976, p. 171)
«da più di duemila anni indica tanto le anime cattive dei defunti quanto le
maschere. Evidentemente perché nella maschera che compariva folleggiando
durante le feste del rinnovamento e nelle loro forme drammatiche si riconosceva da tutti il demone il “genius malus ac noxius defunctorum”».
82
L’imposizione di voltare le spalle a cose ed esseri con cui è pericoloso venire in contatto anche con lo sguardo (situazioni terribili come la distruzione
di Sodoma, regni infernali come quelli da cui proveniva Euridice, fantasmi
di defunti, è un topos che troviamo già nella Genesi (9 15-17): la moglie di
Lot, contravviene al divieto del Signore di voltarsi a guardare la distruzione di
Sodoma ed è trasformata in statua di sale; in Odissea X 350 allorché la divinità
marina Ino, impietosita per il naufrago Odisseo, gli dà un velo da cingersi e
da gettare, una volta approdato, nel mare senza voltarsi a guardare; in alcuni
luoghi di Virgilio, come nel IV libro delle Georgiche.
56
Capitolo III. Il ritorno
gli spiriti a uscire dalla casa, si volta reputando di avere adempiuto
al rito e di avere liberato la casa dalla temibile presenza83. Dunque
già gli antichi credevano fortemente nella comunicazione tra i vivi
e i morti, soprattutto attraverso i sogni o l’evocazione delle anime
(necromanzia); pensavano che di loro rimanesse, dopo la fine del
corpo, qualcosa anche se non bene determinato tanto che Properzio nell’elegia 4, 7 prepone alla visione di Cinzia che, morta, gli
appare nel sogno per rimproverarlo di non avere adempiuto ai riti
pietosi verso di lei, quasi un’epigrafe: Sunt aliquid Manes: letum
non omnia finit / luridaque evictos effugit umbra rogos (“Eppure in
qualche modo esistono gli spiriti: con la morte non tutto finisce
/ la lugubre ombra vince il rogo e gli sfugge”). Molto più tardi,
nel XII secolo, anche il cistercense Alchéro di Chiaravalle nel suo
Liber De spiritu et anima scrive: «Quidquid enim corpus non est et
tamen aliquid est, recte jam spiritus dicitur (“ Tutto ciò che non è
corpo e tuttavia è qualche cosa, giustamente è detto spirito”)84.
Nel mondo classico le anime che tornano ai vivi per rimproverarli o per pregarli sono perlopiù quelle dei morti che o
sono rimasti insepolti o non hanno avuto i giusti riti85. Una di
queste, in forma di fantasma funesto, carico di catene, emaciato e cencioso, appare la notte in una casa di Atene incutendo terrore mortale negli abitanti; solo il filosofo Atenodoro,
imperturbabile, continua a scrivere fino a che lo spirito gli fa
cenno di avvicinarsi e di seguirlo e lo conduce sul luogo della sepoltura. Dopo avere ottenuto i giusti riti dalle autorità,
scompare per sempre. Lo riferisce in un’interessante lettera
Ovidio, Fasti V vv. 419-444.
Cfr. J. C. Schmitt, Spiriti e fantasmi nella società medievale cit.
85
A volte, secondo una qualche credenza, l’anima in pena che si stacca dal
corpo si presenta sotto forma di farfalla che in tempo notturno vola intorno
al lume. Nonna Olga chiamava una specie di calabrone notturno che entrava
ronzando in casa, “Spirito Santo”.
83
84
57
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
Plinio il Giovane all’amico Sura86: è un racconto che, con ingredienti simili (rumore di catene, aspetto sinistro, buio notturno, indicazione del luogo della sepoltura etc) arriva, percorrendo lunghi spazi temporali, dalla letteratura classica a quella
medievale, moderna e contemporanea. Altri e moltissimi sono
i luoghi della letteratura greca e latina in cui persone appaiono nel sogno chiedendo pietosamente la sepoltura di cui sono
prive. Tra i tanti personaggi dei poemi ricordiamo il virgiliano
Palinuro che, caduto dalla nave, viene nel sonno ad Enea supplicandolo di gettare sul suo cadavere offeso un poco di terra
(tu mihi terram inice) o Elpenore la cui imago, nell’undicesimo
canto dell’Odissea, si presenta ad Ulisse, ignaro della morte
di lui, supplicandolo di dare al corpo abbandonato sepoltura
per non incorrere nell’ira degli dei – non dimentichiamo che
la peggiore minaccia che potesse essere inferta ad un nemico
era quella di abbandonare il suo cadavere al “di cani e d’augelli
orrido pasto”87.
Nel Medioevo
…la credenza negli spiriti suscitò un rinnovato interesse e riconquistò una legittimità che aveva perduto nei primi secoli del
Cristianesimo: i morti che soffrivano nell’aldilà, molto legittimamente poterono tornare a supplicare i parenti di far dire messe e
fare offerte per alleggerire e alleviare le loro pene. Non è dunque
un caso se i racconti di apparizioni di fantasmi si moltiplicano a
partire dal XII secolo88.
Di ciò abbiamo abbondanti esempi nella letteratura straniera, ad esempio in Shakespeare, e in quella italiana, specie nel
Cifr. Sezione documentaria.
Iliade, I vv. 4-5.
88
Jean- Claude Schmitt, Medioevo superstizioso, Roma 2005, p.122.
Capitolo III. Il ritorno
Decameron; nella giornata quarta, novella quinta, ad Isabetta
appare l’amante Lorenzo ucciso dai fratelli di lei:
pallido e tutto rabbuffato, e con panni tutti stracciati e fracidi; e parvele che egli dicesse: «O l’Isabetta, tu non mi fai altro
che chiamare, e della mia lunga dimora t’attristi, e me con le tue
lacrime fieramente accusi; e per ciò sappi che io non posso più
ritornarci, per ciò che l’ultimo dì che tu mi vedesti i tuoi fratelli
m’uccisono». E disegnatole il luogo dove sotterrato l’avevano, le
disse che mai più nol chiamasse né l’aspettasse; e disparve89.
Nell’Ottocento uno degli esempi più famosi di questo tipo di
apparizioni è nella “Ballata di Natale” di Dickens: lo spettro che
appare a Scrooge, ha, come quello pliniano, l’aspetto cadaverico
«come un’aragosta andata a male», i capelli irti; produce con le catene «un rumore metallico», e, come lo spettro antico, fa segno al
vivo di avvicinarsi. Ma, mentre in Plinio resta sconosciuto il significato dei ceppi, lo spirito dickensiano venuto per il pentimento
dell’amico, spiega: «porto la catena che ho forgiato in vita… un
anello dopo l’altro… sono io che me la sono cinta… »90.
Sempre nell’800 Enrico Heine riferisce con un certo umorismo nero un sogno avuto in conseguenza della lettura di una
storia terribile di apparizione:
… Certo i racconti degli spettri producono un senso più tremendo
di paura se li si legge durante un viaggio, e di notte, in una città, in
una casa, in una camera dove non si è mai stati… Oltre a ciò la luna si
mostrava nella camera così equivoca, e sulla parete si muovevano così
strane ombre, e quando io mi rizzai sul letto per guardarmi intorno, vidi
86
87
58
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90
G. Boccaccio, Decameron, giornata IV, novella V.
Charles Dickens, Ballata di Natale in Racconti di Natale, Roma 1959.
59
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
tale… Non vi è cosa più inquietante che vedere al lume di luna in uno
specchio il proprio viso per caso. Nel frattempo sonò una pesante, sbadigliante campana, così a lungo e così lentamente, che credetti, dopo
dodici colpi, che fossero passate dodici ore… Fra il penultimo e l’ultimo colpo di campana suonò un altro orologio, rapido, stridulo, quasi
fosse spazientito della lentezza della sua signora comare. Quando tutte
e due le lingue di ferro tacquero e in tutta la casa dominò un silenzio di
morte, mi parve di sentire nel corridoio davanti alla mia stanza qualche
cosa che si muoveva, come il camminare titubante di un vecchio. Infine
la porta si aprì e lentamente entrò il morto dottore Ascher. Un brivido
mi corse per le ossa… Vidi, come per il passato, lo strano abito trascendentalmente grigio, le stesse gambe astratte, lo stesso viso matematico,
solo era più pallido: anche la bocca era raggrinzita e il giro degli occhi
aveva un raggio maggiore… si avvicinò e nel suo abituale dialetto scorbutico mi disse: «Non abbia paura e non creda che io sia uno spettro.
Che cosa è uno spettro?... In quale logico rapporto si troverebbe con la
ragione?». E lo spettro iniziò un’analisi di essa… e concluse logicamente
che gli spettri non esistono. Nel frattempo un sudor freddo mi copriva,
i denti battevano come castagnette; e solo per paura assentivo ad ogni
punto in cui il dottore dimostrava l’assurdità della paura degli spettri.
Egli da parte sua la dimostrò con tanto calore che alla fine, per distrazione, tirò fuori dal taschino, invece dell’orologio d’oro un pugno di
vermi; e, notato l’errore, rimise in tasca tutto. «La ragione è la cosa più
alta… ». L’orologio batté l’una e lo spettro disparve91.
I morti tornano in sogno
Bisogna indagare donde provengano le visioni / che presentandosi a noi mentre siamo svegli /o affetti dal male o sprofondati nel
Capitolo III. Il ritorno
sonno / ci atterriscono sicché ci sembra di vedere accanto e di udire / quelli le cui ossa già colpite dalla morte / la terra avvinghia92.
Così Lucrezio secondo il quale le visioni sono generate da
sottilissime membrane (simulacra) che, staccandosi dalla superficie degli oggetti, colpiscono i nostri sensi.
Nel V secolo S. Agostino in una sua opera, De cura pro mortuis gerenda scritta in risposta a Paolino da Nola che si preoccupava della sepoltura, esclude che i morti possano comunicare
con i vivi perché i primi non conoscono più il nostro mondo
mentre i secondi nulla sanno del loro. Egli ammette che da numerosi racconti si può dedurre che i defunti possano apparire
per consigliare o impartire ordini ma considera che «una simile
apparizione si produce all’insaputa del morto così come possiamo sognare un uomo vivo senza che lui ne sappia niente»93.
I luoghi privilegiati dalle apparizioni oniriche sono perlopiù
l’interno della casa, la camera da letto ma anche luoghi strani
che non riconosciamo dove i morti ci parlano e noi parliamo
a loro che talvolta ci invitano a seguirli oppure ci esortano a
non avvicinarci per non essere coinvolti nella loro stessa sorte.
Al primo caso appartiene un sogno fatto anni orsono dalla signora Rosa, moglie del parrucchiere di Mariglianella, signor Tramontano, e raccontato con vivo dinamismo. Tra lei e
un’anziana vicina di casa defunta (zia Melina) che le si mostra
nel sonno e la esorta a seguirla, vi è uno scambio di rapide e
salaci battute:
Zia Melina: «Ciao Rosé, comm’staje?»
Rosa:«Bon’, ma tu che faje cca’?»
Lucrezio, De rerum natura I vv. 131-135.
Agostino, De cura pro mortuis gerenda ad Paulinum liber unus. Cfr. Jean-Claude Schmitt, Spiriti e fantasmi nella società medievale cit p.29.
92
93
91
A. Heine, Reisebilder, Torino 1931, pp. 45-47.
60
61
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
Zia Melina:«O pecché, pe’sapé comm’staje!»
Rosa:«Si ma tu’ccà che faje? Nun aviss’sta ccà!».
Zia Melina:«T’aggia venut’a dicere si vuò venì cu mmé».
Rosa: «Nun se ne parl’proprio».
Zia Melina:«Rosé, nun mé può dicere ca no, J’song’venut’appost».
Rosa:«E mal e’fatt’pecché J’ra cca nun mè mov’».
Zia Melina:«Jamm’Rosé nun me fa perdere tiemp’…».
Rosa:«Ué, Ué Melì, ccà può sta’quand’vuò tu ma je nun vac’a
nisciuna part’».
Zia Melina:«Rosé J’nun aggia venut’e capa mia, me manna …
e nun me pozz’arritirà senz’e te».
Rosa:«Melì, a me nun me fott’chi t’a mannat’, sacc’sol ca j ra
ccà nun me mov’».
Zia Melina:«Vabbuò, si proprij’nu vuò venì, miettit’sti panni nir».
Zia Melina:«Rosé sient’si Je m’arretir’senz’e te, è capac’e’avé nu
paliaton’».
Rosa:«Te ni a i…».
Rosa:«Melì, miett’e loc e vattenn’».
Zia Melina:«Vabbuò, J’le pos’ccà…»
Rosa:«Melì statt’bon e nu passà cchiù pa ccà».
Al risveglio Rosa non pensò a quella strana apparizione ma,
dopo pochi mesi, se ne ricordò perché gli morì il padre e lei
pensò che, se fosse andata con zia Melina, con molta probabilità il padre non sarebbe morto.
Analogamente, anche se in un contesto diverso, un’altra apparizione onirica cerca di persuadere la sognatrice ad accompagnarla nel regno dell’aldilà.
Racconta una gentile signora di Sarno:
In un periodo di triste condizione economica, vidi una sera mio
padre angosciato e sentii mamma piangere. Mi rivolsi mentalmente
62
Capitolo III. Il ritorno
alla nonna paterna morta che mai avevo conosciuta rimproverandole
aspramente di non andare in soccorso del figlio. Addormentatami,
mi sentii toccare da qualcosa di freddo e mi sembrò di stare nel cimitero, davanti alla Chiesa Madre nei cui pressi zampillava una bella
fontana. C’era un’ombra; le chiesi: «Chi sei?». Rispose: «Sono quella
che hai bestemmiato e mi tirò per un braccio dicendo: «Vuoi venire
con me?». Alla mia risposta negativa soggiunse: «Sono tua nonna,
non ti permettere più di bestemmiarmi; dà questi numeri a tuo padre». Mi diede un terno che uscì ma che papà sbagliò a giocare.
La preoccupazione per l’incursione di spiriti malevoli nel
sogno indusse la madre del sunnominato Michele a raccomandare al figlio, allora bambino, di non baciare la persona morta
che eventualmente gli fosse apparsa nel sonno anche se glielo
avesse chiesto; altrimenti, disse, lo avrebbe trascinato con sé.
A differenza della maliziosa Melina, il caro parente venuto
in sogno a Irene Carloni, docente di lettere in un istituto di
Pomigliano, non la vuole come compagna di morte:
Nel sonno camminavo e ho visto zio Tonino venire dalla parte
opposta. Gli stavo andando incontro per abbracciarlo ma lui mi ha
allontanato dicendo: «Tu sai dove sto andando, non ti avvicinare,
prosegui per la tua strada».
Abbiamo trovato una curiosa analogia con questo tipo di
sogno che torna in tempi e in spazi diversi presso individui di
varia cultura e credenze in Spiriti e fantasmi nella società medievale di J.C. Schmitt che riferisce un racconto del Dialogus
miraculorum scritto da Cesario di Heisterbach: a un monaco
addormentatosi nel coro della chiesa appare un confratello defunto che lo invita a seguirlo, cosa che egli, consapevole della natura dello spirito e del luogo infero da lui abitato, non
63
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
esegue. Un altro monaco anziano che obbedisce al comando,
muore dopo pochi giorni94.
Una madre di Sarno che ha perduto suo figlio, un ragazzo
pieno di fede, asserisce che l’anima di lui è sempre con lei:
«quando ho un problema basta che dico a Gianni “Aiutami a
risollevare questo problema, io mi sento come un calore che mi
avvolge a torno e dopo qualche giorno il problema svanisce».
Anche lei, che ha voluto prendere tra le mani il teschio del figlio dissepolto, lo ha visto, dopo otto giorni dalla morte di lui,
in sogno. Era in una chiesa e la teneva lontana rimproverandole di avergli detto una bugia.
Capitolo IV
La sepoltura
I modi di sepoltura. La relazione
tra i vivi e i morti: dagli onori alle intercessioni
Dare al termine di “abitazione” valore di spazio delimitato
protetto ed anche protettore significa considerarlo sotto l’angolo di osservazione rituale e folclorica mediante il quale è possibile caratterizzare le modalità con cui si è andata manifestando
nell’uomo la volontà di conciliarsi col mondo tangibile dell’aldilà.
Le manifestazioni di questo desiderio sono concomitanti con il
fissarsi dell’uomo alla e sulla terra, momento che si è concordi
nel far risalire alla “rivoluzione” del neolitico e alla trasformazione
tramite l’agricoltura e l’allevamento degli uomini in esseri sedentari. Questo fenomeno implicò la creazione di dimore stabili il
cui accostamento, oltre a dar vita ad un villaggio, portò con sé le
esigenze di un’organizzazione sociale. Ma accanto a questo si andò
sviluppando, di pari passo alla convinzione di una sopravvivenza
oltre il decesso, l’abitudine di cremare o fasciare i corpi per timore
che tornassero. Crebbe il culto degli antenati fino al momento in
cui, col villanoviano, sarebbero apparse urne cinerarie come replica di edifici»95.
94
95
Paolo Pirillo, Le forme delle dimore e degli insediamenti in La cultura folclorica Bramante Editrice 1988, p.352. Una interessante esposizione di “urne
a capanna” è nel museo di Pontecagnano nel Salernitano.
Jean Schmitt, cit. p. 272.
64
65
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
Ai modi di sepoltura ritenute “aberrazioni di singole popolazioni” accenna Cicerone nel cap. XLV del I libro delle Tusculane sottolineando che la sepoltura non ha importanza per
quanto riguarda noi ma ne ha per i nostri cari a causa della
pietas che a loro si deve tenendo, però, sempre presente «noi
vivi che i corpi dei morti non hanno alcuna sensazione».
Gli Egiziani imbalsamano i morti96 e li custodiscono in sepolcri
domestici, i Persiani li seppelliscono dopo averli cosparsi di cera affinché i corpi rimangano inalterati. I Medi hanno la costumanza di non
sotterrare i loro morti se prima non sono stati sbranati dalle bestie...
Tra i più diffusi trattamenti delle spoglie dei morti nel lungo corso dei millenni vi sono quelli dell’inumazione e dell’incinerazione. Con il primo termine ci si riferisce al seppellimento
del corpo (lat. humus “terra”), con il secondo alla cremazione
del cadavere e alla conservazione delle ceneri in apposite urne.
All’interno di queste due categorie, poi, afferiscono altre forme
di trattamento, come la tumulazione (sepoltura in un loculo),
la mummificazione e la doppia sepoltura.
Nel corso della storia inumazione e incinerazione hanno
avuto alti e bassi in termini di utilizzo quantitativo e, a seconda delle epoche, l’una ha prevalso sull’altra (ma sembrerebbe
che l’inumazione fra preistoria e storia abbia avuto la meglio).
Secondo Ugo Antonielli97, che si basa su ritrovamenti come
quelli delle grotte di Grimaldi, sin dal paleolitico e quindi dalla
comparsa dell’uomo di Neanderthal, il genere umano avrebbe
Capitolo IV. La sepoltura
praticato un vero e proprio culto dei morti mediante la sepoltura
rituale. Sono molti i ritrovamenti di corpi che, sepolti distesi o in
posizione fetale, sono rivolti verso occidente ossia in direzione del
sole morente. Per Mircea Eliade questa forma di sepoltura potrebbe ricollegarsi alla funzione di psicopompo che il Sole assolve
presso alcune tribù australiane per le quali il tramonto dell’astro
equivale al suo passaggio attraverso gli inferi, quando egli accompagna le anime dei morti alla sede definitiva. Per altri il ciclo tramonto-alba corrisponderebbe alla discesa degli spiriti nell’aldilà
e al loro successivo ritorno alla vita al seguito dell’astro nascente.
Dalla credenza del transito delle anime dal mondo dei vivi
a quello dei morti sono nate molte pratiche tra cui ci piace
ricordare, in particolar modo, quello della doppia sepoltura;
essa prevede una prima inumazione temporanea a cui segue, a
distanza di qualche tempo, l’esumazione, la pulizia delle ossa
e la definitiva sepoltura. Come evidenziato da Hertz98, questa
pratica era molto diffusa tra le popolazioni lontane dal concetto
occidentale di civiltà ossia tra quei popoli che nel linguaggio
comune vengono definiti “selvaggi”. Lo studioso aveva rilevato
ciò tra alcune tribù del Borneo e della Polinesia (ma Francesco
Pezzini sottolinea che usanze simili erano presenti nel XVI secolo anche in Europa)99. In seguito alla riforma protestante e
alle normative riguardanti il rapporto tra vivi e morti e i tempi
per i riti di passaggio, la pratica della doppia sepoltura venne
combattuta in maniera sempre più decisa. Malgrado ciò essa si
è andata conservando ancora a lungo, seppure limitatamente
ad aree sempre più ristrette, come, ad esempio, quelle di Napoli
e di qualche paese vesuviano. Nella città partenopea il passag-
96
A Roma la pratica dell’imbalsamazione è testimoniata dalla mummia di
Grottarossa cosiddetta dal luogo del ritrovamento; è conservata, con il ricco
corredo, nel Museo Nazionale di Roma; il corpicino apparteneva a una bimbetta figlia di un funzionario egizio.
97
Cfr. Enciclopedia Italiana 1933.
98
Robert Hertz, La preminenza della destra e altri Saggi di Antropologia,
Torino 1994.
99
F. Pezzini, Doppie esequie e scolatura dei corpi nell’Italia Meridionale d’età
moderna in Paleopatologia.it.
66
67
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
Capitolo IV. La sepoltura
gio da membro della comunità dei vivi a membro di quella dei
morti viene sancito da riti lunghi e complessi che si concludono
con la definitiva sepoltura. Testimone dell’ultima fase è stato,
nei primi anni del Duemila, Enrico Carloni che accompagnò
al cimitero di Poggioreale il signor Ferrara per la riesumazione del corpo del figlio Giacomo, giovane e caro nostro amico,
morto qualche anno prima. Non assisté alle operazioni di pulitura dello scheletro da parte degli addetti ma vide portare fuori
dall’ambiente mortuario ciò che rimaneva del corpo, lavato con
sapone, disinfettato con alcool e cosparso di naftalina; avvolto
com’era in un lenzuolo bianco, ricordava una mummia.
Le ragioni di tale usanza si collegano alla concezione della
morte, dell’aldilà, del rapporto col defunto e ai tempi necessari
alla metabolizzazione della perdita di un proprio caro. Infatti,
come hanno sottolineato De Martino ed altri, il cadavere assume il significato di impurità capace di contagiare tutto ciò che
lo circonda sia dal punto di vista materiale, sia da quello metafisico. Il contagio ricadrebbe, per la magia simpatica, sulle cose
possedute in vita dal defunto – spesso venivano sepolti con lui
strumenti di lavoro e armi per l’uomo, oggetti di toletta e monili per la donna, giocattoli per i piccini –, sull’acqua presente
in casa che per questo era buttata via, sui parenti che per lo
stesso motivo dovevano attenersi ad un periodo di lutto, quasi
una quarantena che tenesse lontano dalla comunità il contagio
e il diffondersi del morbo.
Anche se le specifiche usanze variano da comunità a comunità, il concetto del cadavere “contagioso” sembra essere molto
comune tra i popoli come dimostrerebbe la presenza di usanze
simili in luoghi anche molto distanti tra loro sia geograficamente che culturalmente.
Un’altra convinzione molto diffusa è quella che il defunto, una
volta giunto nell’aldilà, possa agire a favore o contro i parenti a
seconda degli omaggi ricevuti o no. Questo ci riporterebbe a molte usanze funebri ricordate da noi tra cui la doppia sepoltura. A
tale proposito ci serviremo dell’interessante analisi fatta dal citato
Francesco Pezzini che afferma che il rituale della doppia sepoltura avrebbe lo scopo di favorire l’accesso dell’anima dei defunti
all’aldilà e, nello specifico, al purgatorio in modo da sottrarsi al
doloroso vagare tra i vivi senza meta né scopo. E questo iter sarà
lungo: infatti l’approdo all’altro regno sarà possibile solo quando
le ossa, completamente ripulite da ogni contaminante putrefazione, riposeranno definitivamente nel grembo della Madre Terra.
L’usanza della doppia sepoltura, oltre ad avere interessanti
risvolti antropologici, potrebbe costituire anche l’esito di complesse dinamiche psicologiche. Infatti, come precedentemente
accennato, il periodo piuttosto lungo compreso tra la morte
della persona e la perdita di tutti i tessuti molli della salma
concederebbe ai parenti di distaccarsi gradualmente dal defunto dal punto di vista emotivo e di affrontare così il processo di
elaborazione del lutto100. È, infatti, con la sepoltura definitiva
che l’anima varca le soglie dell’aldilà lasciando il mondo dei
vivi e consentendo ai parenti di continuare a sentire la presenza
del proprio caro seppure in modo diverso. Il membro della società vivente, inoltre, sarà rassicurato dalla speranza che, finché
il rituale di tal genere verrà celebrato all’interno della famiglia,
anch’egli, una volta morto, usufruirà del “beneficio”, vincolato
alla pulizia delle ossa, di abbandonare lo stato di anima vagante
accedendo a quello di membro del mondo ultraterreno.
In tutto ciò entra anche un’ottica utilitaristica e un pensiero magico: per la prima il vivente svolge il rituale anche nella
100
Per qualcuno, oltre a questa funzione, la doppia sepoltura potrebbe assolvere anche al compito di fungere da memoria delle proprie origini e del’humus in cui ciascuno affonda le proprie radici in termini di persona e di personalità. Per questo argomento si rimanda al capitolo V.
68
69
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
Capitolo IV. La sepoltura
convinzione di potere così chiedere ed ottenere vantaggi da chi
ormai vive nel mondo delle anime; per il secondo egli crede che
un’entità esterna possa influenzare in maniera vigorosa la vita
umana. Insomma, per quanto riguarda il pensiero magico, alcuni
credono che vi sia un legame causa-effetto tra due fenomeni – ad
esempio il fulmine come manifestazione dell’ira di un dio.
In questo caso, a mio avviso, come in molte superstizioni,
il pensiero magico ha un benefico potere deresponsabilizzante
in quanto concede all’individuo che vi ricorre la convinzione
che le proprie sorti siano decise da forze a lui superiori e non
pienamente comprensibili. Fenomeni del genere sono presenti nella mitologia greco-romana; la testimonianza più nota ci
viene probabilmente dall’Iliade in cui divinità dalle sembianze
antropomorfe prendono ciascuna le parti di uno dei due schieramenti e decidono le sorti dei singoli eroi. Un altro esempio
maggiormente chiarificatore della deresponsabilizzazione collegata al pensiero magico è quello del potere della Moira (o
Fato che dir si voglia) sulle vite umane e della tessitura del loro
destino operata dalle Parche. Nonostante ciò, sempre nella mitologia antica, l’essere umano non risulta mai privo di responsabilità o di potere per quello che riguarda le proprie sorti. Tornando agli esempi tratti dall’Iliade, Achille viene posto davanti
ad un bivio: una vita lunga e serena ma priva di gloria o una
morte precoce destinata a diventare leggenda. Sarà, quindi, lui
a decidere della propria sorte.
Per quel che riguarda gli usi e i costumi del folclore e la concezione “superstiziosa” del mondo, la responsabilità sul proprio destino viene restituita attraverso alcuni rituali.
Questi, come le pratiche apotropaiche, consentirebbero
all’individuo di contrastare l’ineluttabilità del destino cui pensa di andare incontro a seguito di eventi o di azioni proprie
e altrui. La persona è libera di aderire o no alle prescrizioni
rituali così come Achille era libero di optare per il ritiro dalla
guerra e quindi per una vita lunga. L’essere umano, all’interno di questa concezione riacquista responsabilità sulla propria
vita – questo in psicologia viene definito empowerment. Ciò è
possibile, però, solo se la visione del mondo viene concepita
in un’ottica para-religiosa; forse per questo motivo la Chiesa,
temendo che così potesse essere diminuito il suo potere in un
periodo già segnato dalla riforma protestante, avversò il rituale
della doppia sepoltura.
Un’usanza, che per alcune modalità espressive è simile a
quella della doppia sepoltura, è quella del Famadihana tipica
delle tribù del Madagascar. Essa consiste nell’esumazione delle
ossa dei parenti a fine di onorarli e, qualora siano stati sepolti
in un luogo temporaneo, nel traslarle nella tomba di famiglia.
La somiglianza tra questo rituale e quello della doppia sepoltura riguarda, però, solo alcuni aspetti formali quali la pulizia
delle ossa e il loro avvolgimento in stoffe, la traslazione da un
luogo provvisorio ad uno definitivo. Per altri aspetti, invece,
la cosa è diversa: nel famadihana alcuni parenti, specie gli avi
più importanti, possono essere dissepolti più volte e in queste
occasioni si balla al cospetto dei corpi. Ma la differenza maggiore tra questi due rituali consiste negli aspetti simbolici: in
quest’ultimo la pulitura dello scheletro non è finalizzata all’accesso nell’aldilà. Per Bloch101 il famadihana non ha lo scopo
prevalente di compiacere i morti e di attirarne le benedizioni
bensì quello di ricostruire e di affermare continuamente l’unità
della famiglia, del proprio clan.
Attraverso questo breve excursus sugli usi e i costumi relativi al
rapporto concreto e simbolico tra i vivi e i morti nello spazio e nel
101
Bloch M., Placing the Dead. Tombs, Ancestral Villages and Kinship Organization in Madagascar, Seminar Press, Londra 1971.
70
71
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
tempo si può notare come vi siano credenze che hanno resistito ai
millenni, come esse abbiano avuto e abbiano una funzione nell’economia psicologica, spirituale e materiale degli individui e come
le appartenenze socio-culturali ne influenzino i significati. Un po’,
come le tribù del Madagascar, anche noi con questo lavoro, cerchiamo di recuperare la memoria degli avi, le usanze di un tempo
per recuperare “compattezza” poiché penso che solo conoscendo
chi si è stati si possa immaginare chi si sarà o chi si vorrà essere.
“Centum errant annos…”
In Aen. VI, 317-330, alla domanda di Enea, meravigliato
che delle anime che si affollano presso il fiume infernale, alcune «abbandonino le rive, altre solchino con i remi le livide
acque», la vecchia Sibilla risponde: «tutta questa che vedi è la
misera folla degli insepolti / il barcaiolo è Caronte; questi che
l’onda trasporta sono i sepolti / non è dato attraversare le orribili rive e le roche correnti prima che le ossa riposino nella
loro sede ma centum errant annos volitantque haec litora circum
/ tum demum admissi, stagna exoptata revisunt (“errano per cento anni e si aggirano intorno a questi lidi; infine, finalmente
ammessi, vengono a rivedere il fiume anelato).
Il terribile senso di angoscia per la privazione dei riti
che hanno da sempre accompagnato la morte e la sepoltura
emerge nelle parole e nelle azioni dei parenti ed amici della persona morta in luoghi lontani senza onori funebri o,
ancora peggio, entrata nello spazio d’ombra orribile e doloroso degli scomparsi; è un sentimento atavico che, accomunando uomini di ogni luogo e di ogni epoca, fa in modo
che essi cerchino per tutta la vita i propri cari per riparare
al torto da loro subito e, qualora li trovino ormai morti,
72
Capitolo IV. La sepoltura
facciano le debite cerimonie e li depongano nella tomba su
cui pregare102.
Tra tanti esempi di questo triste rammarico ci piace ricordare quelli così commoventi del carme catulliano in cui, all’interno del mito di Laodamia103, si introduce il compianto per la
sepoltura del fratello in terra straniera:
Quem nunc tam longe non inter nota sepulcra / nec prope cognatos
compositum cineres, / sed Troia obscena, Troia infelice sepultum / detinet extremo terra aliena solo. (“Egli che così lontano, tra sepolcri
senza nome / non accanto alle ceneri dei parenti composto / è
trattenuto da Troia infame, nella Troade infausta sepolto / in terra
straniera agli estremi confini del mondo”)104
Più vicine a noi nel tempo sono le lamentazioni introdotte
nella bellissima ed intensa opera di Ernesto De Martino a proposito delle complesse cerimonie sopra ricordate per il funerale
di un pastore bulgaro.
Una delle lamentatrici si avvicina alla bara e si rivolge al morto
supplicandolo di consegnare, tramite il padre, al figlio disperso in
terre lontane la candela per un giusto rito che gli è stato negato:
Lazzaro, caro mio, /… se ti sarà possibile e ne avrai voglia, / caro,
ti ho portato una candela … / dalla a suo padre, /perché la porti al
102
Tanto forte era l’orrore per l’assenza della sepoltura e dei riti ad essa
connessi che esso entrò talvolta nel mondo cristiano fino a far temere che per
gli insepolti non ci sarebbe stata resurrezione. Già Cicerone, in una delle orazioni contro Verre, riporta che costui, per indurre i parenti a pagare il riscatto,
minacciava di gettare i cadaveri delle sue vittime alle belve. A questo proposito.
cfr. in sezione documentaria i passi riguardanti le suppliche di Ettore nell’Iliade e di Palinuro nell’Eneide, riportati da Claudio Falciano.
103
Cfr. Sezione documentaria.
104
Catullo, Carmina 68° vv. 97-100.
73
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
mio Giorgio. / Lì dov’egli è morto… non ha avuto candela… / Se
incontrerai Giorgio, / e se lo vedrai triste afflitto, / è perché se ne
andò senza riti…
Un’altra partecipante alla cerimonia funebre piange il figlio
morto al fronte “senza candela” esprimendo tutto l’angoscioso
orrore per un corpo amato esposto alla violenza della natura e
delle bestie:
Lui la morte lo prese senza lume / perché aveva il fucile in
mano. / È sotterrato alla peggio, / senza croci né bara. / Forse buttato in un torrente, / o sbranato dai cani, / o beccato dai corvi…
Seppellire i morti
Il rito della sepoltura ha rivestito una grande importanza fin
dai tempi preistorici. Secondo Eliano, poligrafo greco del II-III
secolo d. C., Eracle per primo introdusse la pratica pietosa di
seppellire i corpi dei nemici prima abbandonati ai cani.
Già nella Sacra Scrittura, prima tra le altre opere di misericordia105, come quella di dare cibo agli affamati e di vestire gli ignudi,
viene ricordata quella di seppellire i morti. Lo testimonia con toni
commoventi l’ebreo Tobia che, deportato con la sua gente a Ninive, nel libro della sua storia, continuando l’elencazione delle sue
buone azioni, afferma: «… e se vedevo qualcuno dei miei connazionali morto e gettato dietro le mura di Ninive, io lo seppellivo.
105
Il dipinto “Le sette opere di misericordia” del Caravaggio è esposto nella
Cappella dell’Istituto “Pio Monte della Misericordia” in via dei Tribunali a
Napoli. L’opera misericordiosa di seppellire i morti è rappresentata da un cadavere, di cui appaiono solo i piedi, trasportato da due uomini uno dei quali
munito di fiaccola
74
Capitolo IV. La sepoltura
Seppellii anche quelli che aveva ucciso Sennacherib, quando tornò
fuggendo dalla Giudea, al tempo del castigo mandato dal re del
cielo sui bestemmiatori. Nella sua collera ne uccise molti; io sottraevo i loro corpi per la sepoltura e Sennacherib invano li cercava…»106. Al suo ritorno dall’esilio, Tobia, imbandito un banchetto
per una festa ebraica, manda il figlio Tobia ad invitare qualche povero e apprende che nella piazza giace abbandonato il cadavere di
un uomo della sua gente strangolato. «Io allora mi alzai, lasciando
intatto il cibo; tolsi l’uomo dalla piazza e lo deposi in una camera
in attesa che tramontasse il sole per poterlo seppellire. Ritornai e,
lavatomi, presi il pasto con tristezza… E piansi. Quando poi ci fu
il tramonto, andai a scavare una fossa e ve lo seppellii…»107.
In seguito l’Arcangelo Raffaele, compagno di viaggio sotto
mentite spoglie del figlio, loderà Tobia per avere provveduto
alla sepoltura del morto108.
Andersen, seppure in tutt’altro contesto, trasse forse qualche
ispirazione ne “Il compagno di viaggio” dall’episodio biblico
dell’Arcangelo: e, infatti, come a Tobia, anche al protagonista
della fiaba, Giovanni, si affianca un essere sovrannaturale che
presta il suo aiuto, naturalmente con finalità diverse, in premio
della pietas del protagonista nei confronti dell’insepolto.
…In mezzo alla chiesa c’era una bara aperta, con dentro un morto
che non era stato ancora sepolto. Giovanni non era affatto spaventato
perché la sua coscienza era tranquilla; sapeva che i morti non fanno
del male, sono i vivi a farlo. E proprio due uomini vivi e cattivi stavano
vicino al morto e lo volevano togliere dalla bara e gettarlo fuori dalla
chiesa, povero morto! «Perché volete farlo?», chiese Giovanni, «è male!
Lasciatelo in pace in nome di Gesù!». «Oh quante storie!», risposero
Tb, I, 1-7.
Tb, II, 1-17.
108
Tb, XI 13.
106
107
75
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
i due malvagi. «Ci ha imbrogliato! Ci doveva del denaro e non poté
pagarlo e ora è morto così non avremo niente. Per questo ci vogliamo
vendicare e lui giacerà come un cane fuori dalla chiesa!». «Ho solo 50
talleri», disse Giovanni, «è tutta la mia eredità, ma ve li darò volentieri se mi prometterete sinceramente che lascerete in pace quel povero
morto… ». «Va bene », risposero i malvagi, «se proprio vuoi pagare il
suo debito, non gli faremo niente, puoi stare certo» e presero i soldi
che Giovanni offriva ridendo sguaiatamente della sua bontà, poi se
ne andarono. Giovanni ricompose il cadavere nella bara, gli giunse le
mani, disse addio e si avviò felice nel grande bosco.
Durante il cammino, come si è detto, gli si fa compagno un
uomo misterioso il cui aiuto sarà risolutivo per la vittoria sulla
malvagità e per un cambiamento meraviglioso di vita. Egli si rivelerà essere il morto che ricambia la dolce pietas verso l’insepolto109.
In Odi I 28, ad Orazio, immerso con la mente e col cuore
nel caro paesaggio della sua terra, la penisola salentina, arriva
triste la voce dell’insepolto poeta tarantino, Archita (IV sec. a.
C.), che, dopo avere ricordato con luoghi comuni l’inevitabile
destino di morte, chiede che si adempia al dovere della sepoltura per coloro che non hanno goduto di questo pietoso rito.
Non costa molto tempo al navigante gettare sul corpo tre manciate di terra. Chi non lo farà avrà una negativa ricompensa:
… Ma tu, navigante, non rifiutarti, crudele, / di spargere un
poco di sabbia / sulle mie ossa e sul capo insepolto / così qualsiasi
minaccia Euro rivolga sui flutti esperii / si abbatta sui boschi di
Venosa lasciando / te salvo e una ricca ricompensa ti venga / da
109
Nella Bibbia, nel libro di Tobia, il figlio di costui in viaggio per riscuotere un credito del padre, trova come compagno l’Arcangelo Raffaele sotto
mentite spoglie. Anch’Egli, il cui nome significa “Dio guarisce” lo aiuta contro
i pericoli e ridona la vista a Tobia.
76
Capitolo IV. La sepoltura
Giove propizio e da Nettuno protettore della sacra Taranto. /Non
ti importa di commettere una colpa / che potrà colpire i figli innocenti ? /Forse anche a te potrebbe accadere la pena che ti spetta /…
non ci sarà espiazione che te ne potrà liberare. / Anche se hai fretta,
non è lunga la sosta; / ti sarà possibile riprendere il viaggio / dopo
aver gettato tre manciate di terra (sopra il mio corpo).
L’Antigone di Sofocle affronta la più terribile delle morti,
quella di essere sepolta viva in una caverna, minaccia del tiranno Creonte a chi oserà seppellire Polinice «resti insepolto
e incompianto, preda di uccelli e di cani colui che ha messo a
ferro e a fuoco la terra dei suoi padri…». Ella, contravvenendo all’applicazione rigida delle leggi, segue quella non scritta
dell’amore (“Io lo seppellirò”) e getta tre pugni di polvere sul
corpo insepolto del fratello, tanta quanto basta per una sepoltura simbolica che sottragga il morto ad un pallido aggirarsi
fuori dall’Ade. Un guardiano scopre il fatto:
Quello (il morto) era scomparso non perché chiuso in una
tomba / ma nascosto da un lieve strato di cenere sparsa (in fretta)
come da chi fuggisse il sacrilegio / e nessuna traccia di belve o di
cani / giunti a dilaniarlo appariva110…
Mentre rinnova il triste compito, la fanciulla viene sorpresa
e portata, come rea di sacrilegio, davanti al re Creonte cui il
guardiano racconta che nell’infuriare di una tempesta:
… si vede la fanciulla che manda gemiti / come fa un desolato
uccello quando vede priva / dei piccoli la culla del vuoto nido
/ così ella, come ignudo scorge il morto / prorompe in gemiti /
110
Sofocle, Antigone, vv. 255-258.
77
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
copre di maledizioni gli autori / e con le mani di nuovo lo copre
con arida polvere / e, levata in alto una levigata anfora, / incorona
il corpo con triplice libagione111…
All’arrogante crudeltà di Creonte, Antigone risponde proclamando il diritto di ubbidire alle leggi pietose di Giove e della Giustizia, compagna degli dei inferi; esse vivono dalla notte
dei tempi. Se avesse lasciato insepolto l’uomo nato dalla stessa
madre, un’angoscia mortale l’avrebbe sopraffatta.
Il pietoso gesto di coprire in qualche modo il cadavere abbandonato può assimilarsi ad una sepoltura simbolica? Ci ha
colpito un editoriale de “La Stampa” del 25 / 10 / 2010 in cui,
biasimando i giornali che crudamente espongono immagini di
corpi straziati, Mario Calabresi, figlio del commissario ucciso
dalle brigate rosse fuori dalla sua casa, dice:
Esiste un gesto antico di pietà che mi torna in mente continuamente in questi giorni, è quello di coprire il corpo di chi è morto in
luogo pubblico112. Lo si fa con un lenzuolo bianco, con una coperta,
con un qualunque indumento che protegga almeno il volto e il busto di chi ha perso la vita rimanendo esposto su un marciapiede, in
mezzo alla strada, su una spiaggia o in un campo; è un gesto codificato dal mondo (anche Socrate si copre il volto mentre muore), e non
111
Ibidem, vv. 423-431. Si faceva una triplice libagione versando nella tomba o sul morto, con un vaso a bocca stretta chiamato leukotoe, prima l’idromele,
poi il vino dolce, infine l’acqua. Si ricordi la forte valenza sacra del numero tre.
112
Ph. Ariés (L’uomo e la morte dal Medio Evo ad oggi Bari 1980) definisce
così questa triste evenienza che coglie l’uomo lontano dai luoghi e dalle persone care: «… è la morte clandestina, senza testimoni né cerimonie: quella
del viandante in cammino, dell’annegato nel fiume, dello sconosciuto di cui
si scopre il cadavere su un limitare di un campo». E, possiamo aggiungere
noi, è quella dei vecchi lasciati soli e finiti miseramente su un pavimento e di
moltissimi assassinati gettati sprezzantemente nelle discariche o sotto i ponti.
78
Capitolo IV. La sepoltura
serve solo a proteggere i morti dallo sguardo dei vivi ma anche noi
stessi, i vivi, dalla vista dei morti. E’il limite del pudore, del rispetto,
è il simbolo della compassione e della capacità di fermarsi…
“Sed plena errorum sunt omnia”
Ma c’è chi in qualche modo contesta la grande importanza data dai più alla sepoltura. Tra questi Cicerone che nel
I libro delle “Tusculanae Disputationes” (De contemnenda
morte), dopo che sono stati confutati i filosofi che negano
l’immortalità dell’anima, passa a dimostrare che la morte
non è un male perché riguarda solo il corpo privo ormai
di ogni sensibilità. Quindi è ininfluente la sepoltura con i
riti ad essa connessi come si evince dalla risposta data da
Socrate quando Critone gli domanda come vuole essere seppellito: «Ho perso il mio tempo. Infatti non sono riuscito a
persuadere il nostro Critone che io me ne volerò via di qui
non lasciando niente di me». E quale cosa triste, come quella
di essere divorato da uccelli e fiere, può accadere al morto se
esso è ormai una cosa inerte?
Anche le opere poetiche che descrivono patetiche scene
di lacrime per un corpo offeso e dilaniato o apparizioni di
fantasmi che chiedono la sepoltura per i loro corpi abbandonati sono pieni di falsità come lo sono i due tetrametri
giambici di Pacuvio in cui Deifilo, ucciso per errore dal padre, chiede nel sogno:« Madre, ti prego, tu che cerchi di
alleviare nel sonno l’angoscia, / né hai pietà di me, alzati e
seppellisci tuo figlio»113.
Nel capitolo XLIX, epilogo del libro, l’autore conclude che,
sia che la morte costituisca la desiderata liberazione dal corpo
113
Cicerone, Tusculanae disputationes, liber primus XLIV.
79
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
per una ascesi alla celeste dimora, sia che comporti l’annientamento, non deve essere considerata un male. E, di conseguenza, tra l’imperativo del poeta Ennio «Nessuno mi onori
con lacrime né celebri funerali tra i pianti» e l’invito del saggio
Solone «Non manchi di lacrime la mia morte, lasciamo che gli
amici / siano tristi affinché numerosi seguano con pianti il mio
funerale»114, Cicerone dà la preferenza al primo.
Dal papa Gregorio Magno (540-604) e da Sant’Agostino
viene stigmatizzato, il desiderio dei primi cristiani di seppellire o di essere sepolti vicino alle tombe dei santi (ad sanctos)
perché, dice l’autore de “Le confessioni”, alle anime dei morti
sono più utili la preghiera e le buone opere. Nel 421 Paolino
vescovo di Nola115 gli aveva scritto di avere acconsentito alla richiesta di una fedele di seppellire il proprio figlio nella basilica
nolana di San Felice ritenendo che facesse bene ai morti stare
accanto alle tombe dei santi. Nell’opera De cura pro mortuis
gerenda Sant’Agostino gli risponde che la solennità dei funerali
è magis vivorum solacia quam subsidia mortuorum (“è più una
consolazione per i vivi che un aiuto ai morti”).
Capitolo V
Il lutto tra folklore e psicologia
Cicerone, op. cit. XLIX.
Paolino, nato a Burdigala (od. Bordeaux), nel 355, convertitosi e ordinato sacerdote, dopo l’incontro con Agostino e Ambrogio, si ritirò con la
moglie a Nola, presso la tomba del martire S. Felice e lì eresse un santuario
adibito, in parte, ad ospizio dei poveri. Ancora oggi, in suo onore, si celebra
a Nola la “Festa dei Gigli”, con grandi macchine sorrette da portatori, su una
delle quali ondeggia la statua del Santo.
Molti manuali di psicologia di fronte a generiche difficoltà,
oltre a discutere di tutta una serie di processi e di costrutti di
cui non parleremo in questo libro, evidenziano l’importanza
di potere usufruire di una solida rete sociale che supporti l’individuo durante un’importante fase di transizione. Per quanto
riguarda la specificità del lutto, si aggiunge a questo fattore la
necessità dell’elaborazione della perdita (essa comporta cambiamenti conseguenti) e quella della memoria. La prima è un
processo dalla durata variabile per ogni singolo individuo che
inizia già dalla recezione della notizia della morte di un proprio
caro. A seguito di tale evento possono manifestarsi emozioni
negative, il desiderio, ormai irrealizzabile, di riconciliarsi col
defunto, sintomi fisici, frutto di processi di somatizzazione,
senso forte di disorientamento, incertezza rispetto al futuro,
insonnia, difficoltà nella concentrazione e nel mantenimento
della routine, nonché senso di abulia e/o apatia.
Nella maggior parte dei casi tali sintomi regrediscono nel
giro abbastanza breve di uno o due anni dall’accaduto in virtù
dell’accettazione della scomparsa del proprio caro, dell’eventuale ridefinizione della propria identità e del proprio ruolo
all’interno del sistema familiare e di quello sociale, dell’attribuzione di significato all’evento, del sostegno da parte della rete
sociale (famiglia, amici, vicini, colleghi) percepito e/o ricevuto
80
81
114
115
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
e di altri fattori intrapsichici per i quali si rimanda a testi scientifici specifici. Infatti, la morte di una persona cara può significare la rottura di uno di quelli che Bowlby ha definito “legami
di attaccamento”116 ossia relazioni emotive e sociali funzionali
alla sopravvivenza e alla crescita sia materiale che psicologica.
La perdita di un simile vincolo relazionale può portare chi la
subisce a sperimentare emozioni negative e un profondo senso
di disorientamento in quanto può compromettere l’immagine
che egli ha di sé come soggetto che garantisce protezione e
affetto o come soggetto che ne ha bisogno. Da questo può conseguire il bisogno di ridefinire la propria identità, un processo
lungo e tortuoso che a sua volta può rendere necessaria anche
una ridefinizione del proprio ruolo all’interno del sistema familiare cosicché le funzioni di chi è venuto a mancare possano
continuare ad essere assolte.
Come si è precedentemente affermato, le emozioni negative conseguenti alla morte di una persona cara possono essere
accompagnate dal desiderio di mantenere un legame con lei;
116
I legami di attaccamento iniziano ad instaurarsi sin dai primi passi
dell’esistenza, nei confronti delle figure che si prendono cura di noi e che vengono così definite caregivers o “figure di attaccamento”. Ogni individuo può
avere più di una di tali figure, tuttavia tra di esse una diventerà quella primaria (generalmente chi si prende maggiormente cura di lui). Queste aiutano il
bambino a crearsi un’immagine di sé e del mondo sia sociale sia materiale che
lo circonda. A partire da queste immagini e dalla relazione che ha con le proprie figure di attaccamento, l’individuo si approccerà al mondo esplorandolo
e ricavando così conferme e disconferme rispetto ai modelli creatisi sulla base
della precedente esperienza. Infatti, in situazioni equilibrate, il bambino a partire dalla sicurezza di avere chi si prende cura di lui e lo protegge, si sente libero
di esplorare e sperimentare. Le relazioni di attaccamento si protraggono lungo
l’arco di vita e variano andandosi a poggiare su nuove figure più funzionali al
soddisfacimento dei bisogni che caratterizzano ogni fascia di età (ad esempio
il partner sentimentale è tendenzialmente la figura di attaccamento primaria
nell’età adulta). Per un maggiore approfondimento si rimanda ai volumi di
John Bowlby e di Mary Ainsworth. Attaccamento e perdita.
82
Capitolo V. Il lutto tra folklore e psicologia
questo, in situazioni funzionali, trova parziale appagamento
nel ricordo materiale e/o simbolico e in rituali, come, ad esempio, messe in suffragio, visite sulla tomba, riunioni di famiglia etc. Modalità di appagamento di questo genere da una
parte testimoniano il desiderio di ricongiunzione, dall’altra,
però, manifestano come i parenti stiano facendo fronte alla
concretezza della morte e quindi alla realtà aderendo così ad
essa. Accettare la realtà è un processo senz’altro necessario per
favorire l’elaborazione e l’accettazione del lutto. Tale passaggio può essere facilitato dall’ultimo saluto all’estinto in quanto
esso da una parte permette di constatarne la morte, dall’altra
si configura come un tributo nei suoi confronti; tributo che,
unito agli altri riti funebri, può alleviare gli eventuali sensi di
colpa. Sentirsi in colpa nei confronti del defunto, infatti, può
prolungare il processo luttuoso e talvolta esitare in quella che
Freud definiva “Malinconia”117 e che è attualmente chiamata
depressione. Infatti, in questi casi, il senso di colpa fa in modo
che un legame spezzato materialmente dalla morte sia eccessivamente investito sul piano psicologico impedendo così al
soggetto di instaurare nuove relazioni significative che possano
sostituire concretamente quella ormai perduta.
Nei casi in cui il soggetto aderisca alla realtà e l’accetti per
quella che è, come accade nella maggior parte di essi, lo scorrere del tempo e i contemporanei processi psichici a cui si accennava sopra fanno in modo che i sentimenti depressivi vadano
perdendo progressivamente intensità. Contemporaneamente
si passa in maniera graduale ad una fase di accettazione della perdita, in cui il desiderio di mantenere il legame è ormai
decaduto e la morte della persona cara è entrata a fare parte
della storia della vita familiare e personale così che ne possa
117
Freud S., Lutto e Malinconia, in la Teoria Psicoanalitica Bari 2001
83
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
essere preservato il ricordo. Quando, invece, insorgono difficoltà all’interno di questo processo per cui gli individui difficilmente rinunciano al desiderio di ricongiunzione, si corre
il rischio di andare incontro a quello che viene definito lutto
cronico, ossia una condizione luttuosa caratterizzata da vissuti
depressivi che supera la durata di due anni, oppure a un lutto
complicato, cioè ad una condizione in cui l’intensità sia dei
sintomi sia della durata è eccessiva se messa in relazione con la
cultura di appartenenza dei soggetti colpiti. Un’ulteriore condizione luttuosa è quella del lutto minimo caratterizzata da
una minima presenza di sentimenti afferenti al polo negativo
e di manifestazioni di dolore. Tale condizione smentisce l’opinione comune secondo cui chi non manifesta sofferenza a
seguito di un evento doloroso, come la morte di un proprio
caro, la sconterà poi sotto altri aspetti118.
Tuttavia è sempre importante ricordare che ogni individuo
è un essere a sé stante e lo stesso vale per ogni situazione luttuosa; infatti, al pari delle caratteristiche personali di chi subisce un lutto, anche le circostanze della morte della persona
cara (morte naturale, violenta, improvvisa) possono avere un
peso rilevante sulle reazioni che ne scaturiranno e lo stesso vale
per le caratteristiche dell’estinto (età, condizioni di salute etc).
Pertanto i passaggi sopra descritti sono quelli più generici, ma
sicuramente non rappresentano la totalità dei casi in quanto
la mente umana è eccessivamente complessa per potere essere
racchiusa in un modello lineare.
Per quanto concerne l’importanza della memoria, un filone
della psicologia suggerisce alle famiglie, ai gruppi, agli individui di tramandare gli eventi della vita vissuta (e perduta) di
generazione in generazione così che ciascuno possa risalire alle
118
L. Pietrantoni, G. Prati, Psicologia dell’emergenza. Il Mulino 2009.
84
Capitolo V. Il lutto tra folklore e psicologia
proprie origini e non avere con il proprio passato tagli netti
che potrebbero causare disagi emotivi, psicologici e comportamentali sul lungo periodo. Inoltre, la narrazione della propria
storia personale, familiare e sociale, come degli studiosi hanno teorizzato e dimostrato (per citarne alcuni, Bruner, Bowen,
Andolfi), permette la costruzione, la negoziazione e la ristrutturazione dell’identità individuale e di quella di gruppo. Dunque la trasmissione intergenerazionale delle memorie familiari,
popolari o di qualsiasi gruppo sociale che possa definirsi tale,
favorisce la creazione e il rafforzamento del senso di appartenenza col conseguente aumento della coesione intergruppale
(che si parli di famiglia, popoli, etnie, gruppi politici, religiosi). L’individuo, infatti, non è una monade, così come inteso
dal filosofo Leibnizt, ma è parte di una serie di insiemi tra loro
interconnessi e il primo di cui fa esperienza è proprio quello
dell’ambito familiare; è da esso che trae la propria identità e le
proprie radici che ne influenzeranno le successive relazioni e il
successivo funzionamento, anche se non secondo una logica di
causalità lineare. Seppur privi di una teoria specifica relativa a
questi fattori, gli antichi inconsapevolmente ne erano influenzati. Infatti, essi erano soliti affondare le radici dei propri e
altrui popoli nei miti al fine di far coincidere la propria e altrui
identità con specifiche caratteristiche dell’eroe, del dio o semidio di turno; un esempio è quello relativo a fondazioni di città
come Tebe e Roma 119.
119
La fondazione di Roma, secondo i miti più diffusi dagli storici antichi,
come Tito Livio e Dionigi di Alicarnasso, viene fatta risalire ai discendenti
di Enea, figlio di Venere /Afrodite, Romolo e Remo nati da Rea Silvia e da
Marte. Sia di Enea, sia dei due gemelli sono giunti a noi racconti di lunghe
peregrinazioni e sfide affrontate con forza e astuzia. Se nel progenitore riscontriamo i valori del coraggio e dell’amicizia – quella ad esempio verso il giovane
Pallante –, in Romolo vediamo la fermezza e l’amore verso il proprio popolo
e la propria città che lo spinge ad uccidere Remo colpevole di avere contra-
85
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
Miti del genere si possono riscontrare in altre innumerevoli
fondazioni di città o di tribù in molte parti del mondo; la loro
continua narrazione avrebbe avuto lo scopo di ricordare al popolo le proprie origini intrise, a seconda dei casi, di coraggio,
saggezza, forza etc, tutte qualità che per la proprietà transitiva
sarebbero andate a costituire anche l’identità degli attuali abitanti in quanto discendenti dell’eroe.
Ma, ricollegandoci più direttamente al lutto, uno degli argomenti di questo libro, la memoria dei defunti, da una parte
mantiene lo scopo di ricordare a ciascuno le proprie origini,
dall’altra ha il fine di attribuire significato all’evento, permettendone l’inserimento all’interno della propria storia familiare,
e di alimentare un legame emotivo materialmente spezzato ma
psicologicamente ancora integro. è dunque in questo spazio
che si collocano i rituali relativi al ricordo dei defunti, come la
festività del 2 novembre, le messe di commemorazione, le visite alle tombe, ma anche le grandi manifestazioni commemorative che sono solite farsi in caso di catastrofi o morti di personaggi illustri o che abbiano avuto presa sul grande pubblico.
La creazione di eventi pubblici o privati volti a ricordare i
cari scomparsi consente, inoltre, di mantenere unita la rete so-
Capitolo V. Il lutto tra folklore e psicologia
ciale in cui essi erano inseriti. Soffermiamoci, però, sugli eventi
privati perché questi meglio rappresentano il taglio del presente
libro, in quanto maggiormente densi di quel folklore qui trattato. Tale folklore, infatti, ha una valenza psicologica funzionale
al mantenimento del benessere, anche in situazioni di profonda
crisi come quelle luttuose. Ad esempio, un’usanza molto diffusa
nel meridione è quella di andare a trovare i parenti del defunto
portando, oltre al proprio cordoglio, zucchero e caffè, cose che
vengono donate anche in occasioni certamente più gioiose. Purtroppo le motivazioni esplicite di tale gesto sono ignote ormai
ma posso immaginare che esso rappresenti la disponibilità alla
relazione e al sostegno emotivo dal momento che può configurarsi come tramite per la creazione di momenti conviviali (dà ai
presenti l’occasione di prendere un caffè) ed è ben noto come nel
meridione il cibo sia un canale particolarmente investito ai fini
sociali. In tali momenti conviviali diviene possibile alle persone
colpite dal lutto esprimere il proprio dolore potendo godere del
sostegno degli altri presenti. Inoltre, tutti possono ricordare il defunto attraverso aneddoti e iniziare ad immaginare la vita futura
senza di lui dando così inizio all’ormai ben noto “processo di
elaborazione del lutto” durante il quale il singolo individuo o il
gruppo ritira l’investimento affettivo effettuato sulla persona del
morto per trasferire parte di quelle risorse emotive su altre aree.
Ritornando alle manifestazioni pubbliche del dolore, esse
per millenni hanno trovato espressione nel ricorso a figure
quali quelle delle prefiche, donne appartenenti alla rete sociale
del defunto o pagate dalla sua famiglia che, di fronte al lutto,
davano inizio a lamentazioni funebri piangendo, urlando, percuotendosi a sangue120. Tale usanza, presente già nel mondo
stato le leggi sacre. Possiamo, quindi, constatare dai racconti di illustri storici
dell’epoca come i romani affondassero le loro radici nel divino e in alcuni dei
grandi valori universali. In questa maniera, da una parte veniva giustificato lo
splendore della civiltà romana, dall’altra, in un periodo in cui la trasmissione
culturale alle grandi masse veniva ancora veicolata dal canale orale, si invitava
il popolo a farsi portatore degli stessi valori riconoscendo le proprie origini in
essi. Anche nella fondazione di Tebe nella Beozia, frequentemente ricordata
nei miti greci, riscontriamo l’intreccio tra divino e grandi valori universali.
Essa, infatti, viene imposta dall’Oracolo di Delfi a Cadmo che, giunto nel
luogo prescritto, con l’aiuto della dea Atena, sconfigge il possente drago a tre
teste sacro ad Ares e dai di lui denti ricava i suoi primi cinque sudditi. Successivamente l’eroe sposa Armonia, figlia di Afrodite e di Ares; la loro progenie
avrà così origini divine ed eroiche.
120
Accompagnava queste manifestazioni l’oscillazione del corpo, la stessa
usata per gli infanti da addormentare con effetto ipnotico. Nel napoletano si
strappava una ciocca di capelli alla vedova per buttarla sul defunto.
86
87
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
antico (Egitto, Grecia, Roma) si è conservata fino agli inizi della seconda metà del’900 nel Sud Italia riducendosi poi a poco a
poco fino a scomparire. Le donne avevano il compito di manifestare la sofferenza della famiglia e di amplificarla mostrando
da una parte l’amabilità della persona scomparsa (durante i
pianti ne venivano decantate le doti), dall’altra il dolore per
la grave perdita121. I lamenti venivano intonati su linee melodiche che mutavano da zona a zona e talvolta da villaggio a
villaggio all’interno della stessa regione. Il contenuto letterario
seguiva canoni ben definiti in cui comparivano, a seconda dei
casi, tematiche stereotipate come ad esempio, in caso di morte
del capofamiglia, quella della scomparsa della colonna portante della casa, dell’uomo gentile con la moglie e padre affettuoso
con i figli – tali lodi erano innalzate anche quando la persona
scomparsa nella realtà non le aveva meritate.
Le lamentatrici erano solite anche chiedere al defunto se
fosse contento del trattamento ricevuto (il lamento, infatti, è
un rito all’interno di un più vasto rituale funerario che varia a
seconda della cultura del popolo cui si fa riferimento). In Lucania, ad esempio, il morto veniva inumato con i vestiti buoni
e i suoi beni più cari, in Romania il periodo di lutto durava tre
giorni con il susseguirsi di una serie di riti tradizionali come la
processione di un abete, banchetti funebri e lamenti.122
L’intero cerimoniale rituale lascia chiaramente trasparire
un’immagine della morte e dell’aldilà intermedia tra quella tipica della religione cattolica e quella della religione pagana per
Capitolo V. Il lutto tra folklore e psicologia
121
De Martino (Morte e pianto rituale cit.) ha notato che erano quasi sempre le
donne a svolgere questo compito mentre gli uomini che si univano a loro venivano definiti “di cuore molle”. Tale differenza di genere sembrerebbe avere carattere
transculturale all’interno dell’area euromediterranea in quanto la maggior parte
delle testimonianze si riferiscono a donne in veste di lamentatrici.
122
De Martino E., Morte e pianto rituale cit.
la quale il morto continua ad avere una vita simile a quella
condotta da vivo. Tale visione della vita ultraterrena sembrerebbe essere confermata ulteriormente dal fatto che le donne
descrivevano al defunto l’andamento del funerale, l’arrivo e la
partenza dei visitatori quasi fosse stato una persona viva ma
incapace di vedere da sé ciò che gli accadeva intorno.
Un altro aspetto caratterizzante le lamentazioni funebri
lucane era la presenza di persone non prezzolate esterne alla
famiglia che, venute a conoscenza del lutto, oltre a piangere
il defunto insieme con i parenti e gli amici di lui, approfittavano dell’occasione per aggiungere lamenti per la morte
dei propri cari, specialmente se questi, come nel caso dei
dispersi in guerra, non avevano potuto godere del dovuto
rituale funebre.
Abbiamo attinto, per la maggior parte dei dati riguardanti il lamento funebre, dalla pregevolissima disamina che De
Martino ha svolto nel testo più volte citato, concentrandosi
soprattutto sul suo aspetto rituale. L’autore individua nel rito
uno strumento che consente alle persone colpite da un lutto
di sfogare il proprio dolore e al contempo di mantenere l’equilibrio psichico ed emotivo. Si potrebbe, infatti, affermare che
la schematicità del rituale avesse una funzione contenitrice ma
priva dei processi di mentalizzazione che potrebbero permettere un’adeguata padronanza di quelli emotivi in atto.
De Martino ha basato le sue affermazioni, da una parte sugli studi di testi psicologici, come quelli freudiani e quelli di Janet, e etnografici, dall’altra sull’osservazione diretta del lamento funebre in Lucania dove, negli anni 50 del secolo scorso,
era ancora praticato perlopiù dalle famiglie e dalle comunità
contadine. Da qui è emerso che il pianto rituale e il lamento
seguivano un preciso ritmo e dei moduli testuali piuttosto comuni all’interno della stessa regione.
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Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
Tra una lamentazione e l’altra vi erano alcune pause durante
le quali le lamentatrici potevano distrarsi e passare repentinamente da uno stato di profondo dolore ad una sorta di indifferenza che gli consentiva di parlare dei più disparati argomenti
anche non attinenti alla circostanza.
Mentre agli occhi di alcuni questo era sembrato una palese manifestazione di colpevole ipocrisia, De Martino vi ha
scorto una precisa fase del rituale che, come si è precedentemente affermato, avrebbe lo scopo di far mantenere negli
individui colpiti dal lutto la presenza a se stessi. Secondo il
suo pensiero, il repentino passaggio di stato veniva determinato nelle lamentatrici da una specie di sdoppiamento per
cui si manteneva una parte di sé ben lucida e ancorata alla
quotidianità, l’altra affranta dal dolore ma rinchiusa nella
schematicità del rito.
L’evento luttuoso comporta il rischio di “morire con ciò
che muore”, ossia di perdere quella spinta vitale che porta l’individuo ad essere persona unica e irripetibile – ciò
attualmente rientra nella definizione di lutto cronico e in
quella di lutto complicato. Invece è auspicabile in tali eventi
“farlo morire – il morto – dentro di noi”123 ossia attuare il
disinvestimento nei confronti della relazione con il defunto mantenendone comunque la memoria (questo è definito
“lutto comune”).
Il lamento funebre, dunque, fungeva da protezione sia dal
rischio più generico di perdere la spinta vitale, sia da manifestazioni inadeguate della sofferenza che De Martino ha individuato nello stato di “ebetudine stuporosa”124 chiamato at-
Capitolo V. Il lutto tra folklore e psicologia
tualmente “dissociazione”125 o, al polo opposto, nel planctus126
irrelativo, una scarica rabbiosa di dolore.
Col progredire della civiltà queste usanze funebri risultarono per motivi politici e religiosi poco consone al decoro
e pertanto, già nella Grecia classica e durante l’impero romano, vennero promulgate leggi volte a modulare il ricorso
alla lamentazione riducendola al minimo, evitando la partecipazione di donne prezzolate e di quelle non imparentate
col defunto che approfittavano dell’occasione per piangere i
propri morti.
Platone ne “La Repubblica”, costruendo la sua città ideale, ritiene che non sia decoroso che i guardiani della città che
devono essere anche filosofi, si abbandonino, come gli eroi
dell’Iliade, a lamenti “da donnicciole e da uomini vili” perché
costoro, in quanto persone sagge, non devono temere la morte. E il filosofo continua pregando Omero e gli altri poeti «di
non rappresentare Achille, figlio di una dea… mentre “si alza
diritto e s’aggira sconvolto sulla spiaggia del mare infecondo”
né mentre “con ambo le mani afferra ceneri nere e se le versa
sul capo” né in preda a tutti quei gemiti e pianti che il poeta gli
ha attribuito …»127.
De Martino, op. cit. p. 14.
Questo stato, come ci riferisce De Martino, in Lucania prendeva un
preciso nome: “attasamento”.
125
Si tratta di un meccanismo di difesa per cui alcuni processi psichici
vengono del tutto estromessi dall’intero sistema psichico comportandone così
un distacco. Nei casi dell’ebetudine a cui ci si riferisce, la dissociazione si manifesta nell’incompleta adesione alla realtà; è un meccanismo di difesa che
interviene frequentemente a seguito di fenomeni traumatici nel tentativo di
ridurre l’impatto psichico.
126
Il termine latino viene da plangere (radice plag- plak di origine onomatopeica): il suo primo significato è “percuotere” con allusione al gesto di
dolore di “battersi il petto”. Anche il sostantivo ”lutto” si ricollega allo stato di
dolore che provoca il pianto e la sua radice antica leug- evocava l’atto violento
di “battere”, “rompere”.
127
Platone, op. cit., III 388. Il filosofo cita i vv. 10-12 del canto XXIV
dell’Iliade.
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123
124
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
In Israele venivano vietati i gesti di autolesionismo come
oltraggiosi nei confronti di Dio, unico padrone del corpo
umano. Con l’avvento del Cristianesimo e una nuova concezione dell’aldilà per cui la morte, e quindi la vita ultraterrena,
ci permette la vicinanza con Dio, il lamento funebre è visto
come una mancanza di fede. Se da una parte la morte non deve
essere causa di dolore eccessivo, è giusta la tristezza conseguente all’assenza del proprio caro in quanto essa è propria della
natura umana. Tale sentimento, però, deve essere manifestato
in modo intimo e sommesso – poche lacrime rigarono il volto
di Gesù alla notizia della morte di Lazzaro; sommesso e privato
fu il pianto di Agostino per la morte della madre128.
La figura che meglio sancisce il passaggio dalla vecchia modalità di pianto alla nuova, tipica del cristianesimo, è quella
della Mater Dolorosa: Maria, che nella sua piena umanità ha
un’iniziale reazione pregna di dolore vedendo il figlio crocifisso
e incoronato di spine, in un secondo momento assiste in una
specie di rassegnato mutismo alla scena per poi invitare le altre
donne a non affliggersi perché Lui tornerà come promesso.
Il rituale del lamento funebre, come si è detto, è proseguito,
sebbene più raramente fino ad oltre la metà del ’900 e oggi
sembra essere del tutto sparito.
Ciò potrebbe essere dovuto a cambiamenti socio-economici
e al progressivo venir meno di una cultura arcaica che caratterizzava il mondo agricolo. Questi fattori, uniti a millenni di
sedimentazione dei dogmi cattolici e alle evoluzioni provocate
dall’Illuminismo e in seguito dal Positivismo, presumibilmente hanno favorito un maggior ricorso a strategie psichiche di
difesa, quali la razionalizzazione che permetterebbe appunto di
facilitare l’accettazione del lutto quale evento normativo del ci128
Capitolo V. Il lutto tra folklore e psicologia
clo della vita. Ciò spiegherebbe anche perché i ceti più abbienti
e quindi con maggiore possibilità di accedere alla cultura, all’epoca degli studi di De Martino, avessero già in larga maggioranza abbandonato il ricorso a questo tipo di rituale funebre.
In conclusione mi sento di affermare che gli usi funebri,
frutto di sedimentazioni culturali millenarie, siano dei mezzi
“ingenui” (ossia adoperati senza avere conoscenza del loro valore psicologico) utili a preservare l’equilibrio psicoaffettivo e
il senso di continuità a cui miriamo per avere sicurezza in noi
stessi e nel mondo circostante.
Agostino, Confessioni IX, XII-XIII.
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93
Capitolo VI
I regni dell’Aldilà
L’aldilà nel mondo antico
L’aldilà omerico è un regno buio dove le vacue ombre dei
defunti – tranne quelle degli insepolti – privi di pene, buoni o
cattivi che siano, hanno necessità di bere il sangue di animali
neri sacrificati per rianimarsi temporaneamente e rispondere
alle domande di Odisseo che per questo scende fino agli estremi confini del mondo.
Una visione della dimora delle anime molto vicina a quella cristiana per la sua triplice divisione e per l’etica si trova, invece, in
Platone che, nel dialogo Fedone, descrivendo i quattro grandi fiumi,
Oceano, Acheronte, Piriflegetonte, Cocito, si sofferma a parlare delle sorti delle anime dopo la morte. Esse sono distribuite in tre luoghi
che potrebbero in certo qual modo corrispondere ai nostri Purgatorio, Inferno, Paradiso. Nella palude Acherusia convengono, su barche naviganti sull’Acheronte, le ombre dei defunti che hanno tenuto
in vita «una via di mezzo» e lì dimorano per uno spazio di tempo più
o meno lungo purificandosi dalle loro colpe; nel Tartaro, profondissima voragine che attraversa tutta la terra, sono inabissati per sempre
i colpevoli di sacrilegi, di omicidi e simili misfatti inespiabili mentre
coloro che abbiano commesso colpe gravi ma espiabili ne possono
uscire purché riescano ad ottenerne il permesso dalle loro vittime; il
terzo luogo è abitato da coloro che si siano distinti per la santità della
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Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
vita e che, «liberi e sciolti da questi luoghi terreni come da carceri,
giungono in alto nella pura dimora e abitano sulla vera terra»129.
Negli Inferi romani, dove lo squallore scompare solo nei
Campi Elisi, scende anche Enea trovandovi la triste figura di
Caronte, le turbe di coloro che attendono di essere traghettati
e quelle degli insepolti.
Ma nel V secolo alcune tavolette orfiche e qualche ode di
Pindaro descrivono un luogo che sembra anticipare il Paradiso
cristiano, inondato di luce e privo di dolore, dove la morte
è concepita come inizio di eterna beatitudine. Queste nuove
idee vengono da paesi orientali, come la Tracia, o dall’Egitto
dando vita ai misteri di Osiride, eleusini, orfici, dionisiaci. Essi
nascono dalla concezione della catabasi negli inferi di un dio
che riporta la vittoria sulla morte e sul cui esempio l’individuo
può conseguire un felice destino dopo la fine terrena.
Nella Bibbia il numero dei fortunati è limitato a qualche
grande profeta come Elia rapito sul carro di fuoco e asceso al
cielo mentre nel mondo egiziano i Misteri di Osiride promettono la salvezza alla totalità degli iniziati tramite l’imitazione
delle vicende del dio solare130.
Senza l’apporto dell’Oriente i greci non sarebbero stati capaci
di dare agli uomini desiderosi di risolvere l’enigma della morte, una
sola parola di speranza. E, fatto quasi stupefacente, anche Israele,
che fu sempre sostenuto… dall’incrollabile fede nell’onnipotenza
e misericordia di Dio e i cui libri sacri sono pieni di minuziose
prescrizioni sul culto e sulla vita sociale, non è mai giunto al punto
di elaborare una escatologia, ossia una teoria dei destini dell’uomo
dopo la morte (pur credendo alla sopravvivenza)131.
Capitolo VI. I regni dell’Aldilà
Nel vangelo di Luca (Il ricco epulone, 16, 19-31) si parla di
due sedi dei defunti: in una, l’inferno, viene precipitato il ricco,
impietoso epulone, nell’altra, “il seno di Abramo”, viene trasportato dagli angeli il povero Lazzaro che in vita non aveva ottenuto neanche una mollica di quelle cadute dalla mensa opulenta. Secondo l’apologeta Tertulliano, in questo luogo, non
celeste ma sovrastante gli inferi da cui lo divide un incolmabile
baratro, i giusti godono di una consolazione provvisoria «finché la consumazione di ogni cosa non completi la resurrezione
di tutti con la ricompensa del Creatore»132. Insomma, mentre
il refrigerium vero e proprio accoglie la beatitudine eterna dei
martiri subito dopo la morte e quella degli eletti dopo il Giudizio Universale, il “seno di Abramo” è un refrigerium interim
cioè provvisorio ristoro per i giusti in attesa della resurrezione.
…e in quello medievale. Il Limbo.
La suddivisione dei regni dell’aldilà fatta da Dante viene
condivisa, almeno in parte, dal domenicano Antonino Pierozzi
nel trattato Summa Theologiae della metà del 1400. Il paradiso,
ubicato nell’empireo, è il locus gloriae, l’inferno, posto al centro
della terra, è il locus miseriae. In questo ultimo regno hanno,
secondo l’uomo di chiesa, una posizione particolare i piccoli
morti senza battesimo e condannati nel Concilio di Firenze del
1439 “a scendere subito nell’inferno”, cosa sostenuta in modo
intransigente anche da Sant’Agostino. «La posizione delle ani-
Platone, Fedone, LXII 114. Cfr. sezione documentaria.
Cfr. Maurice Bouisson, I riti della magia, Carnago 1994 pp. 69 sgg.
131
M. Bouisson, op. cit. p. 71.
132
Tertulliano, Adversus Marcionem, IV, 34, 11-14. A differenza di Tertulliano che parla del Paradiso come di sede immediata dei soli martiri, mentre
ai giusti, in genere, viene riservato un ristoro temporaneo, Marcione sostiene
che il luogo di beatitudine spetta subito, non solo ai martiri ma anche ai giusti
in questione.
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129
130
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
me dei parvuli era sì nell’Inferno ma si poteva descrivere come
quella di chi in una casa piena di fiamme si trova vicino al tetto
e perciò non avverte gli effetti del fuoco»133.
Nella parte superiore dell’Inferno, nel I cerchio, Dante pone
coloro che vissero al di fuori della vera religione o che, per essere
vissuti prima del Cristianesimo, seguirono le virtù cardinali e non le
teologali. In questo luogo chiamato Limbo (“lembo”) soggiornano
anche, come si è detto, i piccini che non hanno ricevuto il battesimo purificatore del peccato originale e porta della fede mentre i
patriarchi ne sono stati liberati da Cristo disceso agli Inferi. Tutti
costoro non sono afflitti da pene materiali ma dal dolore per l’assenza della visione di Dio. Agli inizi del 1900, il catechismo di Pio X
sottolinea che «i bimbi morti senza battesimo vanno al limbo dove
non godono Dio ma nemmeno soffrono perché, avendo solo il
peccato originale, non meritano il paradiso ma nemmeno l’inferno
e il purgatorio». Nel 2007, con un testo intitolato «La speranza di
salvezza per i bimbi che muoiono senza essere battezzati», la Chiesa,
che già lo aveva fatto nel “Nuovo Catechismo” del 1992, rivede il
concetto del Limbo dove ormai sarebbe confinata una schiera sempre più numerosa di infanti uccisi prima di venire alla luce. Questo
ripensamento trova giustificazione nel fatto che «la misericordia di
Dio vuole che tutti gli esseri umani siano salvati».
Ma prima di questi interventi, per scongiurare il pericolo
che il neonato, morendo senza il primo sacramento, fosse confinato in un posto così poco accogliente, ci si affrettava a battezzarlo. L’autrice ricorda che questo timore sussisteva ancora
negli anni cinquanta del secolo scorso, quando nacquero i primi suoi figli, tanto che in genere si ricorreva al battesimo prima
possibile a differenza dei tempi odierni in cui il piccolo, ormai
grandicello, potrebbe avviarsi da solo al fonte battesimale.
133
A. Prosperi, Dare l’anima cit. p. 180.
98
Capitolo VI. I regni dell’Aldilà
Nei secoli passati si pensava che i figlioletti dal luogo ultramondano inviassero tristi messaggi ai genitori che cercavano di
rimediare pronunciando durante la comunione la formula «Io
ti battezzo» seguita dal nome del morticino. Nel XVI secolo
Carlo Borromeo rese obbligatorio il parto cesareo sulla madre
morente per battezzare il feto e salvargli l’anima134.
Il Purgatorio
La credenza che le anime dei defunti, colpevoli solo di peccati veniali di cui si fossero pentiti, potessero essere agevolate da
preci, da riti di suffragio e da elemosine, nel percorso alla beatitudine eterna esisteva già nella Chiesa primitiva e ancora prima. Lo confermano testi importanti come quello della Bibbia
cristiana (II libro dei Maccabei) in cui Giuda Maccabeo ordina
un sacrificio purificatorio dei peccati per i caduti in battaglia135.
Nel mondo cristiano, inoltre, la grande importanza di abbreviare le pene delle anime per mezzo dell’intercessione dei vivi è
sottolineata dagli Atti di Perpetua e di Felicita, due giovani cristiane cartaginesi condannate con i loro compagni di fede alle fiere
agli inizi dell’anno 200, sotto l’imperatore Settimio Severo. Nei
capitoli III-X, Perpetua in persona, secondo la tradizione, rivela due visioni notturne che l’hanno convinta dell’efficacia delle
orazioni in soccorso dei defunti. Nella prima ella vede il fratellino Dinocrate morto per un tumore uscire da un luogo oscuro,
sfigurato in volto dal male e assetato; diviso dalla sorella da uno
spazio incolmabile, tenta invano di bere da una vasca colma di
134
A proposito di un macabro espediente cui si ricorreva nel 1400, quello
di portare i cadaverini in appositi santuari per resuscitarli momentaneamente
e impartirgli il sacramento, cfr. Adriano Prosperi, Dare l’anima cit. pp.204 sgg.
135
Cfr. Sezione documentaria.
99
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
acqua ma dai bordi troppo alti. Nel secondo sogno che subentra
ad ore di intensa preghiera, appare a Perpetua il bambino ben
curato nell’abbigliamento e con la ferita cicatrizzata che, bevuto
a sazietà da una coppa d’oro posata sui bordi ormai bassi della
vasca, si dedica a giochi infantili; da ciò ella deduce che Dinocrate, grazie alle sue suppliche, è libero dalla pena.
Più tardi si sviluppò il contenuto teologico del Purgatorio
determinando come e in che contesto dovesse avvenire il percorso o per l’incontro definitivo con Dio o per la condanna
eterna. Infatti, nel sistema binario (Inferno-Paradiso) fu introdotto, nella seconda parte del XII secolo, il Purgatorio136; nelle
sue fiamme le anime che, pur essendo incorporee, sono in grado
di soffrire, si sarebbero purificate dai peccati veniali ottenendo
l’accesso al regno celeste137. Ma le pene possono essere alleviate
dalle preghiere, dalle messe e dalle indulgenze della Chiesa che
con la loro vendita provocò più tardi scandali disastrosi.
La raffigurazione del Purgatorio, immaginata nei primi
tempi come un cupo luogo sotterraneo, viene rivoluzionata dal
poema di Dante che lo colloca in una montagna coronata dal
Paradiso Terrestre, le cui pendici, vengono scalate dalle anime
in un percorso ascensionale.
Il concetto di “scala” che porta al cielo si era andato delineando
già in una letteratura visionaria che abbraccia i secoli VI-XII. La
più suggestiva di queste visioni in cui per la prima volta appare il regno intermedio tra l’inferno e il paradiso, è contenuta nel
Tractatus de Purgatorio Sancti Patricii redatto all’incirca nel 1180
136
Il dogma viene proclamato nel Concilio di Trento del 1543. Come ci
dice Le Goff, La nascita del Purgatorio, il termine come sostantivo è usato solo
verso il 1200; prima accompagna come aggettivo i nomi poena, ignis.
137
Il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica così recita a proposito del Purgatorio: «Il Purgatorio è lo stato di quanti muoiono nell’amicizia
di Dio, ma, benché sicuri della loro salvezza eterna, hanno ancora bisogno di
purificazione per entrare nella beatitudine celeste».
100
Capitolo VI. I regni dell’Aldilà
dal monaco cistercense Enrico di Saltrey – nella Cronica Hiberniae
si narrava che al santo vescovo irlandese, Patrizio, vissuto verso la
seconda metà del 400, Cristo avesse mostrato una caverna o un
pozzo attraverso cui entrare nel regno dei morti per purificarsi.
Nel Tractatus vi accede un cavaliere, Owein, dopo una preparazione di penitenza. Prima di iniziare il percorso attraverso
il regno intermedio dove vengono espiate con pene terribili
le colpe, il viaggiatore viene informato da esseri biancovestiti dei tormenti da cui si dovrà guardare. In una delle tante
volgarizzazioni trecentesche dell’opera, il cavaliere, trascinato
da demoni, scorge un immenso edificio dal quale provengono
«grandissimi guai e dolorose istrida che facievono quei miseri … ed essendovi menato drento videvi un crudele modo di
pene, cioè vidde tutto lo spazio di quella casa pieno di fosse ritonde… e queste cotali fosse erano tutte piene di diversi
metalli che continuamente bollivano; e nelle fosse era grande
moltitudine di giente di ogni maniera e età…».
In Campania il culto delle anime purganti si diffuse nel
1600, quando la chiesa, dopo la controriforma, sottolineò
l’importanza del legame tra i vivi e i morti che avrebbe anche attutito il timore del loro ritorno. Nel contempo andò accentuandosi la venerazione per Maria e Giuseppe che ancora
oggi vengono invocati come datori di una buona morte con
la giaculatoria «Gesù, Giuseppe e Maria assisteteci nell’ultima
agonia».
G. Amalfi ricorda gli usi della fine dell’Ottocento, quando
le vecchie, custodi del corpo del defunto che non deve mai essere lasciato solo, invocavano: «Anime sante, pezzentelle / che
penate’mpriatorio / Nce mannate le scalelle / pe’darve’st’ommo’mparaviso comm’a S. Liborio»138.
138
Gaetano Amalfi, op. cit., p.62. San Liborio (IV sec.) per essere morto se-
101
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
Capitolo VI. I regni dell’Aldilà
Testimonianze tra le più importanti di questo culto sono,
tra gli altri luoghi, a Napoli, il Cimitero delle Fontanelle e la
chiesa di S. Maria delle anime del Purgatorio ad Arco in via
dei Tribunali e, a Somma Vesuviana, S. Maria del Pozzo dove
la figura della Madonna appare col seno stillante latte, quasi
pioggia benefica che smorza l’insopportabile calore delle fiamme purificatrici. Nel Cimitero delle Fontanelle sono i fedeli
ad adottare un teschio chiamato affettuosamente “capuzzella”
e a curarne la conservazione; in S. Maria ad Arco è il teschio
a scegliere, apparendogli in sogno, colui che deve occuparsene. Naturalmente è implicito che alle preghiere per le anime
chiamate “pezzentelle” (lat. petentes “che chiedono”) devono
corrispondere da parte di esse piccoli favori, come numeri del
lotto vincenti o soluzioni per dolori e difficoltà.
Durante la seconda metà del settecento si moltiplicarono
le edicole votive nella città di Napoli, fatto dovuto, oltre che
alla devozione popolare, anche a motivi utilitaristici: infatti i
ceri accesi durante la notte illuminavano il buio pericoloso dei
vicoli. Molte di esse mostrano statuine di terracotta policroma
rappresentanti busti di anime emergenti dalle fiamme del Purgatorio e sovrastate spesso da una scena di Crocefissione o da
una Madonna con Bambino. I purganti sono raffigurati nudi
come nudi sono nell’immaginario i morti che si levano dai
sepolcri nel giorno del Giudizio finale.
Una di queste edicole è situata sulla parete destra, partendo
da piazzetta Nilo, della via omonima, molto vicino alla confluenza di essa con via dei Tribunali. Vi appaiono statuine di
corpi avvolti dalle fiamme e in atto di supplica verso il Crocefisso. Tutti i personaggi sono nudi; solo uno denuncia per
mezzo della stola e del tricorno la sua appartenenza all’ordine
sacerdotale. Un’altra piccola edicola è incassata nella parete
di sinistra, salendo, di via Atri che inizia da via dei Tribunali
all’altezza della pizzeria Sorbillo; ma la scena è nascosta quasi
completamente da foto di persone defunte; rimane scoperto
solo il soffitto, rosso per le fiamme purificatrici.
Da notare che in queste edicole la raffigurazione delle pene
purgatoriali, ignorando il percorso ascensionale immaginato
da Dante, viene collocata in un ambiente cupo di grotta ravvivato solo dalle lingue di fuoco, fuoco che, come sottolinea Le
Goff, «rigenera e rende immortali»139.
renamente tra le braccia dell’amico, S. Martino di Tours, viene venerato come
patrono della buona morte.
139
Cfr. a questo proposito Jacques Le Goff, La nascita del Purgatorio cit.,
Torino 1996, pp11-15.
102
103
Sezione documentaria
In Sardegna la nera professionista dell’eutanasia: l’accabadora
Il termine “accabadora” che viene dallo spagnolo acabar (“terminare”) si riferiva ad una donna vestita di nero che interveniva
quando l’agonia si protraeva mettendo fine ad essa o sfondando
il cranio del renitente con “su mazzolu”, una specie di martello
di legno duro, o soffocandolo stringendolo tra le cosce.
«È in Barbagia, nella Sardegna più restia all’onda della civilizzazione,
che l’accabadora ha un modo di operare che la rende ancor più vicina ad
una madre… negli anni 50 qualcuno ancora le apriva le porte di casa
… quando operava era come se volesse risucchiare la vittima attraverso la
matrice che l’ha generata… Quando era il momento, lei arrivava e, come
ha testimoniato una donna dei primi del novecento ciò, “era indispensabile
perché non esistevano le medicine per non fare soffrire».
La donna si accovacciava dietro al capezzale e stringeva la testa del
morente tra le sue gambe. Lo accarezzava e cominciava a cullarlo come
fosse un bambino. Gli cantava la stessa ninna nanna che lui si sarà sentito
cantare dalla propria madre; quando finalmente l’agonizzante tornava infante, lei lo uccideva con la forma più sensuale di strangolamento. Se non
bastava lo soffocava con un cuscino140».
140
Nicoletti Gianluca, reportage tratto da “La Stampa” del 1 maggio 2005.
105
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
Le orribili streghe all’attacco dei morti
Petronio, Satyricon, 63 4-5
Durante il sontuoso banchetto offerto da lui, il neo-arricchito
Trimalcione non vuole essere da meno del commensale e aggiunge
al racconto di costui sul licantropo anche il suo, relativo alle striges,
orribili esseri dal duplice aspetto di uomini e di uccelli, che, non
solo insidiano le culle e succhiano il sangue dei piccini, ma, sottraendo ai morti le viscere in un orrido rito di necrofagia, ne riducono
il corpo ad un fantoccio vuoto. E non si limitano a questo ma, toccando mala manu il pezzo di omone che sta nella stanza del morto
a fargli la guardia, lo riempiono di lividi portandolo alla pazzia.
Ai tempi in cui ero capelluto…, morì il favorito del mio padrone, un
gioiellino, perbacco… Dunque, mentre la madre, miserella, si disperava e noi
in molti eravamo immersi nella tristezza, all’improvviso le streghe cominciarono a stridere; avresti pensato ad un cane che inseguiva una lepre. Avevamo
con noi allora un uomo della Cappadocia, una stanga, arrogante e forzuto;
avrebbe potuto sollevare un bue inferocito. Costui, audacemente, con la spada
sguainata si precipita fuori dalla porta, con la mano sinistra avvolta ben bene
(nel mantello) e trafigge nel mezzo una strega, proprio qui – lungi dal male
ciò che tocco. Udiamo un gemito e – giuro che non mento – non vediamo streghe. Il nostro bestione, entrato, si butta sul letto, col corpo pieno di lividi quasi
fosse stato frustato, perché chiaramente era stato toccato dalla mala mano.
Noi, chiusa la porta, torniamo di nuovo alla nostra incombenza pietosa ma,
mentre la madre abbracciava il corpo del figlio, toccandolo, si accorge che è
diventato un pupazzo di paglia. Non aveva più cuore né intestini, insomma
niente di niente; era chiaro che le streghe avevano involato il fanciullo e al suo
posto avevano messo un fantoccio di paglia. Vi prego, dovete assolutamente
credermi, vi sono femmine che ne sanno una più del diavolo, abitatrici della
notte che mandano tutto sottosopra. Del resto lo stangone, lungo come era,
non ebbe più il suo colorito, anzi, pochi giorni dopo, morì pazzo furioso.
106
Sezione documentariaù
Lu crucifissu ti lu asu
Tra le tradizioni funebri salentine di fine Ottocento, viene
ricordata con accenti commossi, da Giulietta Livraghi Verdesca
Zain (fondazioneterradotranto), quella di mettere tra le mani
del morto, durante l’esposizione della salma, un crocefisso, tramandato nelle famiglie dei più ricchi di generazione in generazione, chiesto, invece, in prestito dai poveri a chi ne aveva più
di uno. Era chiamato “crucifissu ti lu asu” perché si sarebbe
dovuto baciarlo – ma l’altezza del catafalco non lo permetteva
almeno quando si trattava di defunti appartenenti a famiglie
altolocate. Dall’autrice viene sottolineata la cerimonia funebre
per il povero i cui protagonisti sono le donne, come datrici di
vita, e i vecchi che, immersi nella solitudine e stanchi, vanno
con la memoria alle mogli defunte. Ma è un giovane che nella
casa ricca va a prelevare il crocefisso portando al braccio un telo
di lino usato per il battesimo, simbolo della stretta corrispondenza tra la vita e la morte.
“Lu crucifissu ti lu asu”, destinato ad essere trasmesso di generazione in
generazione, doveva poter rappresentare nel tempo il decoro della casata e non
di rado – ritenendolo soggetto a diritti dinastici – veniva citato nei capitoli
testamentari, devoluto quasi sempre al primogenito.
Col passare degli anni e il sommarsi delle morti, il prestigio di quel crocefisso aumentava, a tal punto che si arrivava a fregiarlo di un nome particolare, affibbiandogli quello del trapassato più illustre: in qualche famiglia poteva
essere “Il crocefisso di nonno Giovanni”, in qualche altra quello del bisnonno
Giuseppe, in qualche altra ancora ”Il crocefisso dello zio monsignore”… Per le
vecchie cameriere, figlie del popolo, come per tutti i loro simili, quel crocefisso
era e doveva rimanere “crucifissu ti lu asu”, anche se, a rifletterci bene, avevano torto: i crocefissi mortuari delle famiglie nobili non potevano incarnare
sino in fondo quella simbologia giacché, data la differente sistemazione delle
107
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
Sezione documentariaù
salme, nessun bacio poteva sfiorarli. La nobiltà veniva identificata, seppure in
modo allusivo, in un perenne rapporto di altezze e se la vita aveva le sue lotte
in gradino, anche la morte doveva sottostare alla regola dei rialzi. I catafalchi
che si approntavano erano dei veri e propri monumenti non facilmente raggiungibili nella loro sovrapposizione di piani: due per le donne, ma non meno
di tre per i maschi ai quali anche da morti spettava il riconoscimento di una
supremazia adombrata nel mito del loro seme. E più il personaggio era stato
importante, più la “castellana” (il catafalco) doveva essere alta.
Posta al vertice e in posizione un po’ inclinata per consentirne la visibilità,
la salma incuteva una certa soggezione, rafforzata dai damaschi – rossi o giallo oro – che in ricchi drappeggi scendevano fino a terra: un’ulteriore barriera
che fermava a timorosa distanza i visitatori più umili che mai e poi mai si
sarebbero permessi di accostare a quelle stoffe preziose i loro piedi sporchi di
terra, anche se, per la circostanza, infilati nelle scarpe della festa…
…La morte dei poveri era una cosa ben diversa e, anche se urlava come
una bestia, aveva volto e fiato umani. Le salme, adagiate basse sulla “matthrabbanca”(madia, tavolo), non erano isole irraggiungibili, ma lembi di
carne mantenuta umida dalle lacrime. Nelle loro mani il crocefisso non era
soltanto l’asta della misericordia che promette perdono, ma la radice sublimata di un credo trascendentale la quale, sovrapponendosi al momento temporale del trapasso, stabiliva una convivenza quasi sacrale fra il ricordo dei viventi
e l’essenza purificata dei trapassati. Le persone in visita di lutto vedevano in
quel crocefisso il tramite insostituibile dei loro sentimenti, ossia il filo conduttore di un dialogo che intendevano stabilire con l’aldilà: baciandolo erano
sicure di ottenere da Dio il permesso di affidare all’anima della salma in esposizione saluti e messaggi da portare alle anime dei loro cari. Un vero e proprio
ufficio postale, anomalo nella sua equivalenza di fede, ma tragicamente reale
nello sfogo delle pene individuali: appelli di aiuto, richieste di consiglio, sollecitazioni di sogni rivelatori, comunicazioni di mutamenti drammatici, o
notizie rassicuranti per l’anima partita in travaglio. Una ridda di voci che
trovava la sua espressione più colorita negli interventi delle donne, sempre
prime ad accorrere sui luoghi del dolore: convinte che una rappresentazione
visiva dei loro affanni servisse a rendere più efficaci le parole e quindi, a
meglio esprimere i loro sentimenti, non esitavano a strapparsi i capelli, a graffiarsi il viso, o comunque ad agitare le mani in una mimica di disperazione
che sembrava racchiudere l’essenza stessa del dolore.
Scansioni di tragedia che toccavano il vertice quando, con incedere assorto da statua dell’Addolorata, si faceva largo una giovane vedova seguita
dal grappolo dei suoi orfani. Sulla bocca dell’innocenza, morte e miseria trovavano commistione in un unico boccone amaro e non a torto il coro delle
donne si dava a chiedere:«Pane!... Pane!... Pane!.. ». Un’invocazione che di
proposito si faceva echeggiare forte, poiché, oltre ad essere una preghiera rivolta
al Cielo, intendeva imporsi come appello rivolto ai vivi: un grido che nasceva
sì in nome della pietà, ma che, sfruttando l’impunibilità del momento, vibrava come rabbiosa pietrata sui portoni dei ricchi, rappresentando, sia pure in
modo coatto, un fermento di ribellione sociale.
Più silenzioso, forse più struggente, il pellegrinaggio dei vecchi. Entravano
nelle case in lutto in punta di piedi, rigirando tra le mani la coppola nera
come fossero intenti a raggomitolare i fili di un’esistenza che l’età tarda confinava nell’amarezza dei consuntivi. Fasciati da una solitudine visibile come
un’amputazione, si presentavano con timidezza, quasi che l’essere ancora vivi
fosse un torto da farsi perdonare, ma il loro faticoso curvarsi sul crocefisso
acquistava il significato di un’espiazione collettiva, una mortificazione antica
che non era soltanto loro ma stillava l’amaro di un’infinità di radici forse nate
nell’alba del mondo.
Anche la loro voce aveva sapore di lontananza mentre sussurravano parole spezzettate dalla commozione: si rivolgevano all’anima della moglie (non
aveva importanza se morta un giorno o dieci anni prima) per farle sapere che
la vita senza di lei non aveva senso, che erano stanchi e aspettavano la sua
chiamata. Un monologo che finiva col franare in una vera e propria commemorazione, tirando in campo le virtù di quell’anima benedetta che tanto
aveva lavorato e sofferto nel portare avanti una famiglia… Sentendosene investite, come protagoniste di un ruolo che misconosciuto in vita trovava giusto
apprezzamento solo dopo la morte, … intervenivano a coro per rafforzare
108
109
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
i termini della valutazione femminile… Del resto erano sempre le donne a
essere le vere protagoniste delle veglie funebri e la loro presenza… sapeva di
padronanza come se presiedere agli uffici della morte fosse un loro naturale
diritto, derivato dal fatto che erano loro a partorire la vita. Solo nel messaggio
di richiesta di perdono non osavano intervenire… La persona che, a cancellazione di un odio o rimorso, andava a chiedere perdono ad un’anima offesa
in vita e con la quale non era riuscita a rappacificarsi prima della morte,
non doveva avvalersi di interventi estranei… Uno dei doveri delle vecchie era
quello di procurare il crocefisso del bacio… Non potendo i poveri permettersi
un crocefisso da dedicare alla morte, erano loro ad andare a chiederlo in prestito alle famiglie ricche e, affinché l’atto di carità fosse più valevole, usavano
rivolgersi alla famiglia meno amica… Il crocefisso del bacio non si negava a
nessuno, e non solo per rispetto verso la morte, ma per timore di attirare la disgrazia sulla casa… Giacché ai signori dispiaceva prestare il proprio crocefisso,
ne tenevano un altro dedicato alle richieste del popolo… Quello di famiglia si
conservava in uno dei nascondigli più segreti della casa… A prelevarlo doveva
essere il più giovane e doveva farlo quando la salma era già composta “sobbr’a lla castellana”… Prima di prendere il crocefisso doveva segnarsi tre volte
e attendere che le donne gli appendessero al braccio un asciugamano usato
in occasione di un battesimo… Il concetto di un’esistenza da scompitare col
travaglio della fine scattava dopo, a veglia funebre conclusa, cioè quando immediatamente prima dei funerali, il crocefisso doveva essere tolto dalle mani
del morto. Un compito che spettava al più anziano della famiglia il quale si
sentiva in dovere di autoindicarsi come il più stanco della vita, facendo valere
il rispetto per quella legge di naturali successioni che la morte non doveva
assolutamente incrinare con mietiture fuori stagione.
110
Sezione documentariaù
I funerali dei “Signori” di un tempo in Puglia…
Emilio Rubino, nella bella rivista salentina, “Aracne”
(2008), descrive con una vena sottile di amara ironia, i fastosi riti funebri dedicati ai signori della sua città, Nardò; essi
avvengono in una realtà agraria fatta di alterigia e di soprusi
nei confronti dei sottoposti considerati solo un poco meglio di
quei lavoratori agricoli dell’antica Roma che il poligrafo latino
Varrone definisce instrumentum vocale “attrezzatura parlante”
per distinguerli dall’instrumentum semivocale, cioè gli animali:
In passato anche l’avvenimento legato alla morte era per i ricchi del paese
l’occasione per ostentare tutta la notorietà e la stima che il defunto e la sua
famiglia riscuotevano nell’ambito della comunità cittadina. Più che momenti
di dolore… erano invece ore di concitazione generale per organizzare nel migliore dei modi la cerimonia funebre… Per comprendere meglio quanto fosse
minuzioso e vasto l’apparato dimostrativo che con il decesso del signore si metteva in moto, basta pensare all’enorme nugolo di “famigli” legati alla figura
dello scomparso e cioè tutte quelle persone che avevano un rapporto di servitù e
di collaborazione con la famiglia del defunto. Convocati sotto a “llu palazzu”,
i famigli avevano il compito di avvisare amici e conoscenti del luttuoso evento,
di farsi carico dei servizi più impellenti o, semplicemente, di sostare nei vari
ambienti del palazzo come atto dimostrativo dell’importanza del defunto.
Della privilegiata schiera dei famigli facevano parte il fattore che rappresentava la longa manus del padrone, i “fatturieddhri”, persone delegate a
tutelare gli interessi del signore in ogni singolo podere, i massari, i coloni, i
fittuari, i contadini della casa etc … Quando, pertanto, nella vecchia Nardò
veniva a mancare un tal ricco signore, la complessa ma snella macchina umana si metteva subito in moto, tanto che la vita dell’intera città ne risentiva in
proporzione dell’importanza sociale ed economica del “signore”. Di pari passo,
tutte quante le attività legate direttamente o indirettamente al defunto erano
bloccate per alcuni giorni…
111
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
Sezione documentariaù
Faceva parte del cerimoniale funebre un gruppo di 16 o 24 uomini scelti
tra i più prestanti fisicamente dei famigli i quali, senza alcun compenso e in
gruppi di otto, facevano con fervoroso zelo la veglia funebre e, all’indomani,
la guardia d’onore della salma. Per facilitare un buon flusso e deflusso dei
visitatori, la bara era collocata nell’ambiente più spazioso e meglio arredato
del palazzo. L’evento rappresentava anche una buona occasione per l’incontro
quasi mondano delle famiglie benestanti del paese.
Nel pomeriggio del giorno successivo al decesso, si organizzava in pompa
magna il corteo funebre… Innanzi a tutti vi era “lu focalaru” che ogni tanto
segnalava con lo sparo di mortaretti, la presenza del corteo funebre. Subito
dopo sfilava l’apparato delle corone floreali, portate da coppie di contadini,
fittavoli e coloni, lungo le principali vie del paese… Seguiva, poi, il gruppo
sacerdotale costituito da dodici preti che, lungo il tragitto, pregavano per l’anima del defunto. Dopo veniva la bara poggiata su una struttura a tre assi
chiamata “condula”. Il tutto era sostenuto a spalla da sei persone molto robuste
che, di tanto in tanto, erano sostituite da altre che si trovavano ai lati. Dietro
al catafalco si snodava, finalmente, il corteo dei personaggi più in vista e poi, a
seguire, la lunga fila dei famigli. Tutti portavano un cero acceso fornito dalla
famiglia alla quale doveva poi essere restituito. Dal momento in cui la salma
lasciava la propria casa, le campane di tutte le chiese cittadine suonavano a
“murtoru”, cioè con rintocchi lenti.
Una volta giunto in chiesa, il feretro veniva issato, grazie all’aiuto di scale e
quant’altro, sulla cosiddetta castillana, una grande impalcatura alta alcuni metri
intorno alla quale erano accesi dei ceri e deposti i fiori. Accanto a questo mausoleo
sostavano per tutta la notte le guardie d’onore scelte sempre tra i famigli. Il giorno
successivo si ricomponeva il corteo e il feretro era trasportato al camposanto. Anche
qui ad aprire la lunga fila era il “fucalaru” il quale sparava in continuazione
mortaretti sino all’ingresso del cimitero. Prima di andare via, faceva scoppiare il
petardo più grosso, il cosiddetto “corpu a cannone”, l’ultimo omaggio della gente
al defunto. All’indomani la bara era riposta nel sito definitivo.
Solo da allora cessava per tutti lo stato di lutto e ognuno poteva tornare
liberamente alle proprie occupazioni. Del sontuoso apparato funerario non
restava più nulla, forse neppure il dolore; l’unico segno di lutto era rappresentato da una piccola banda nera intorno alla manica dell’abito maschile e
la veste e il velo neri indossati dalle donne. La vita ricominciava con il solito
tran-tran degli ordini impartiti dalla vedova (“la signura”) alle domestiche e
al personale di casa e dal figlio (“lu signurinu”) al fattore.
Della fastosità della pompa funebre si parlava per diverso tempo con ammirata valutazione… mentre per i famigli, per coloro cioè che avevano sudato e dedicato per una vita le migliori energie al padrone, per quelli non vi
era nulla dopo la morte, nemmeno una breve considerazione. Morivano in
silenzio, lasciando i familiari nel dolore (intenso) e tra tante lacrime (vere).
Il loro funerale doveva essere “sbrigato” in tutta fretta per non ostacolare più
di tanto la normale vita del paese. La salma, dopo un breve passaggio in
chiesa, era condotta frettolosamente al cimitero sul cosiddetto “carru fuci fuci”,
carretto dal quale la bara, durante il veloce spostamento, rischiava di cadere
non essendo stata quasi mai imbracata opportunamente. Sono proprio questi
uomini, cioè i famigli, a ricevere oggi la nostra stima e, se permettete, la nostra
ammirazione. Gli altri, i “signori”, hanno già ricevuto elogi e lodi in gran
quantità: ora è bene lasciarli riposare per l’eternità nel freddo silenzio della
loro tomba.
112
113
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
…e quelli di un bambino a Napoli
Nel suo “Viaggio in Italia” J. W. Goethe esaltando la predilezione dei napoletani per i colori sgargianti, colori presenti
come nella vita anche nella morte, si sofferma brevemente nella descrizione del funerale di un bambino:
E come vivono, così seppelliscono anche i loro morti; nessun corteo lento e
lugubre interrompe l’armonia di questo giocondo paese.
Ho visto le esequie d’un bambino. Un grande tappeto di velluto rosso,
tutto a ricami d’oro, avvolgeva un ampio feretro sopra il quale era posta una
piccola bara cesellata, carica di fregi d’oro e di argento; in questa giaceva il
morticino vestito di bianco e come soffocato fra i nastri rosa. Ai quattro lati
della bara erano quattro angeli, alti ognuno due piedi circa, che tenevano
dei grandi fasci di fiori intorno al bimbo addormentato e che, sospesi a dei
semplici fili di ferro, dondolavano qua e là ad ogni scossa del carro come se
spargessero dolcemente intorno dei profumi rianimanti; e tanto più si dondolavano, quanto più il corteo procedeva per la via con grande celerità e i preti e
tutti gli altri con le torce, più che al passo, andavano di corsa141.
141
Sezione documentariaù
Il mito di Protesilao e Laodamia
Catullo Carmina 68 A
Laodamia (“Domatrice del popolo”) sposa l’eroe tessalo,
Protesilao, senza avere offerto i doni e compiuto i riti dovuti
agli dei. Lo sposo, partito per la guerra di Troia, appena per
primo sbarca in terra nemica, cade ucciso. Egli ottiene dagli
dei inferi di potere ritornare per breve tempo dalla sposa. Varca, dunque, accompagnato da Mercurio, la porta degli Inferi. Allo scadere delle ore concesse, quando Protesilao si avvia
verso il regno dei morti, la moglie si uccide. Il mito famoso è
rappresentato spesso, per sottolineare la fedeltà coniugale, su
sarcofagi uno dei quali è collocato nella nona cappella a sinistra
della chiesa di S. Chiara a Napoli.
Nel Carme 68 Catullo accosta la figura di Laodamia a quella di Lesbia che, come lei, non ha rispettato le regole divine:
…così un giorno ardente d’amore / venne Laodamia nella casa di Protesilao / inutilmente iniziata non avendo la vittima / placato col sangue sacrificale i padroni del cielo…
… Quanto l’ara assetata desideri il sangue del sacrificio / ne fece esperienza, perso il marito, Laodamia / costretta a staccarsi dal collo dello sposo
novello / prima che un inverno e un altro ancora / avessero saziato nelle lunghe notti l’avido amore / così che potesse vivere ancora malgrado la perdita: /
le Parche ben sapevano che in breve tempo sarebbe morto / se fosse andato
soldato alle mura di Ilio…
J. W. Goethe, Viaggio in Italia, Firenze 1948, vol. II, p. 192.
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Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
La tovaglia
G. Pascoli, I Canti di Castel Vecchio
Sulla scia delle usanze funebri appartenenti soprattutto alla
società agricola di un tempo, Pascoli descrive, rivolgendosi ad
una bambina immaginaria del suo tempo, l’usanza di lasciare
apparecchiata la mensa, nella sera della loro festa, ai morti che,
tornati nelle proprie case affaticati e tristi, si siedono e nel ricordo, piangono lacrime amare.
Le dicevano: «Bambina!
Che tu non lasci mai stesa,
dalla sera alla mattina,
ma porta dove l’hai presa,
la tovaglia bianca, appena
ch’è terminata la cena!
Bada, che vengono i morti!
i tristi, i pallidi morti!
Entrano, ansimano muti.
Ognuno è tanto mai stanco!
E si fermano seduti
la notte intorno a quel bianco.
Stanno li sino a domani,
col capo tra le due mani,
senza che nulla si senta,
sotto la lampada spenta».
È già grande la bambina:
la casa regge, e lavora:
fa il bucato e la cucina,
fa tutto al modo d’allora.
Pensa a tutto, ma non pensa
a sparecchiare la mensa.
116
Sezione documentariaù
Lascia che vengano i morti,
i buoni, i poveri morti.
Oh! la notte nera nera,
di vento, d’acqua, di neve,
lascia che entrino da sera,
col loro anelito lieve;
che alla mensa torno torno
riposino fino a giorno,
cercando fatti lontani
col capo tra le due mani.
Dalla sera alla mattina,
cercando cose lontane,
stanno fissi, a fronte china,
su qualche bricia di pane,
e volendo ricordare,
bevono lacrime amare.
Oh! non ricordano i morti,
i cari, i cari suoi morti!
«Pane, sì… pane si chiama,
che noi spezzammo concordi:
ricordate?... È tela, a dama:
ce n’era tanta: ricordi?...
Queste?... Queste sono due,
come le vostre e le tue,
due nostre lacrime amare
cadute nel ricordare!»
117
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
Usanze che si perpetuano
Agostino, Confessioni, VI II 2
I riti funebri pagani non furono cancellati dall’avvento della
religione cristiana e dal suo progressivo diffondersi ma continuarono ad persistere anche se chi li praticava spesso non ne
percepiva più la causa.
Parlando della gratitudine di Monica nei confronti di Ambrogio per il contributo dato alla conversione del figlio, Agostino ricorda l’usanza di lei di portare cibo alle tombe dei Santi
e la sua pronta adesione al divieto del vescovo di Milano di
farlo. Sant’Agostino sottolinea come l’uso di banchettare sulle
tombe quasi a coinvolgerne i morti, era il prolungamento in
senso cristiano della ricorrenza dei “parentalia”.
Sezione documentariaù
ingurgitare e perché quella specie di “parentali” si avvicinavano molto ai riti
superstiziosi dei pagani, se ne astenne molto volentieri e, al posto di un canestro colmo di frutti della terra, imparò a portare sulle tombe dei martiri un
cuore pieno di voti più puri in modo che potesse donare qualcosa ai bisognosi
e lì si celebrasse la comunione del Corpo del Signore a imitazione della cui
passione erano stati immolati e incoronati i martiri…
Così, avendo recato un giorno, com’era solita fare in Africa, una farinata,
del pane e del vino alle tombe dei santi, ed essendole stato vietato dal portinaio, quando seppe che il divieto veniva dal vescovo, l’accettò con tanta pietà e
obbedienza che io stesso mi stupii quanto facilmente si fosse fatta accusatrice
della sua consuetudine piuttosto che contestatrice di quella proibizione. Infatti non assediava il suo spirito l’ubriachezza né la induceva all’odio del vero
l’amore per il vino come la maggior parte degli uomini e delle donne che alla
predica della sobrietà provano nausea come i beoni dinanzi ad una bevanda
innacquata: ma ella, quando portava il canestro con le vivande rituali da
gustare e da distribuire, serviva non più di un piccolo bicchiere di vino diluito
a misura del suo palato alquanto sobrio e, se le tombe dei defunti da onorare
in tal modo erano molte, portava intorno quello stesso bicchierino di vino
non solo innacquatissimo ma addirittura tiepidissimo che poneva dovunque
da spartire a piccoli sorsi con i suoi confratelli presenti poiché lì cercava la
pietà non il piacere. Dunque, quando scoprì che il divieto era stato impartito
dall’illustre predicatore e maestro di pietà anche a quelli che l’avessero compiuto con sobrietà affinché non fosse offerta alcuna occasione agli ubriaconi di
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Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
Sezione documentariaù
La festa dei Lemuria
Ovidio, I Fasti, V, vv. 419-444
Esistono i fantasmi o nascono dai nostri timori?
Plinio il Giovane, Epistulae, 7 27
Ovidio descrive qui i particolari della festa celebrata nei
giorni 9, 11, 13 di maggio, quando l’anno era ancora di dieci mesi, per placare i Lemures, spiriti molesti dei morti e per
espellerli dalle case: il pater familias, di notte e a piedi scalzi
giacché nulla deve essere legato durante i riti, stando di spalle,
getta dietro di sé fave nere. Fa parte della cerimonia la purificazione delle mani, la esortazione alle ombre di uscire dalla casa
ripetuta per nove volte (il nove è un numero apotropaico), la
percussione dei bacili bronzei efficace per allontanare gli spiriti, sostituita, con l’avvento del Cristianesimo, dal suono triste
delle campane:
In Grecia e a Roma abbondano le descrizioni di apparizioni
oniriche di defunti, soprattutto di quelli spenti da una morte
violenta e quindi funesti, spesso privati di una giusta sepoltura; per essi si devono adempiere rituali che plachino le anime
inquiete perché non turbino il mondo dei vivi.
Plinio il Giovane, rivolgendosi all’amico Sura, gli chiede
se reputi che esistano veramente i fantasmi o se invece siano
frutto della nostra mente turbata. La domanda è puramente
retorica perché subito dopo lo scrittore offre tre esempi della
loro esistenza, il secondo dei quali è il più terrificante e coinvolge, come gli altri, la vista e l’udito. Lo spirito, chiamato con
termini greci eidolon o phantasma o con termini latini, effigies,
imago, come di prammatica, trascina catene che forse potrebbero simboleggiare il legame che unisce il mondo dei morti a
quello dei vivi oppure, in questo caso, potrebbero identificare
lo spirito con quello di uno schiavo.
Quando è mezzanotte e il silenzio favorisce il sonno, e / voi, cani e i uccelli
tacete, / colui che è memore degli antichi riti, e teme gli dei / si alza; ambedue
i piedi sono privi di calzature / dà segni della sua presenza facendo schioccare
il dito medio col pollice /affinché le lievi ombre non gli vadano incontro se lui
sta in silenzio. / Quando si è lavato le mani in acqua corrente per renderle
pure,/ si volta e mette prima in bocca fave nere, /e, stando di spalle, le getta
dietro di sé. / E dice mentre le getta, «queste io getto, / con queste, dice, libero
me e i miei!» / Ripete questo per nove volte, e non guarda indietro. Si pensa
che le ombre / le raccolgano e, senza essere viste, lo seguano. / Per la seconda
volta immerge le mani nell’acqua e fa risuonare i bronzi di Temesa /e chiede
che le ombre escano dalla sua casa./ Dopo aver detto per nove volte «Uscite o
Mani paterni», / si volta a guardare e reputa di avere debitamente compiuto
i riti.
120
C’era in Atene una casa spaziosa e comoda ma malfamata e funesta. Nel
silenzio della notte si faceva sentire un rumore di ferraglia e, se si fosse teso
l’orecchio con maggiore attenzione, si sarebbe potuto udire un forte rumore
di catene proveniente prima da più lontano poi da più vicino; subito dopo
appariva un fantasma, un vecchio emaciato e cencioso, con la barba lunga,
i capelli ispidi che portava, scuotendoli, i ceppi che gli avvincevano mani e
piedi. Per questo notti angosciose e terribili erano trascorse in una veglia di
terrore dagli abitanti: alle veglie subentrava uno stato di malattia e, col crescere della paura, la morte. Difatti, anche di giorno, malgrado il fantasma si
dileguasse, il ricordo di lui rimaneva fisso negli occhi e il terrore durava più
a lungo di ciò che lo aveva causato. La casa fu abbandonata alla solitudine
e lasciata completamente in balia della terrificante apparizione. Tuttavia si
121
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
offriva in vendita a chi, ignaro di un così grave inconveniente, avesse voluto
comprarla o prenderla in fitto.
Ora venne ad Atene il filosofo Atenodoro, lesse il cartello e, saputo il prezzo, poiché esso così basso faceva sorgere sospetti, indagando, fu informato su
tutto ma nondimeno, anzi tanto più invogliato, prese la casa in affitto. Come
cominciò ad annottare, ordinò che gli si preparasse il letto nella parte anteriore dell’abitazione, chiese le tavolette, la penna, la lucerna; mandò i suoi
familiari nella parte più interna della casa e predispose a scrivere l’intelletto,
gli occhi, la mano affinché la mente, se fosse stata libera da impegni, non si
creasse fantasmi e terrori immotivati. All’inizio cadde, come dovunque, il silenzio della notte poi si udì rumore di ferraglia e di catene scosse. Egli non alzò
gli occhi, non abbandonò la penna ma continuò a concentrare l’attenzione
(sul suo lavoro) e ad opporla alle percezioni uditive. Allora il rumore crebbe,
continuò ad avvicinarsi e si udì, ora come se fosse sul limitare, ora all’interno. (Atenodoro) si voltò, vide e riconobbe l’apparizione di cui gli avevano
parlato. Stava immobile e faceva segno col dito a mo’ di richiamo. Il filosofo,
a sua volta, gli fece capire con il gesto della mano di attendere un poco e di
nuovo si applicò alla scrittura. Il fantasma faceva risuonare le catene sul capo
dello scrivente. Ed egli si voltò a guardare lo spirito che faceva lo stesso gesto di
prima e senza più indugi prese la lucerna e lo seguì. Si trascinava il fantasma
con lenta andatura come appesantito dalle catene. Dopo aver svoltato verso il
cortile della casa, si dileguò all’improvviso lasciando solo il compagno che con
erbe e foglie raccolte lasciò un segno sul luogo.
Il giorno dopo (Atenodoro) andò dal magistrato e lo consigliò di fare scavare in quel posto. Vi furono trovate ossa avviluppate da catene e mescolate
con esse, ossa che il corpo, putrefatto dal passare del tempo e dal contatto con
il terreno, aveva lasciato nude e corrose dalle catene. Esse furono raccolte e
seppellite a spese dello Stato. La casa, in seguito, seppellito il morto secondo il
giusto rito, fu abbandonata dal suo spirito.
122
Sezione documentariaù
Il ritorno dei morti
La muta della Morte
Mary Webb, Tornata alla terra, Mondadori 1949 p.72
In ogni epoca il timore degli spiriti e del loro ritorno ha
assillato i superstiti: apparizioni terrificanti che turbano i sogni
ma anche la veglia, chiamati con termine latino da qualche
abitante dell’odierna Sabina “immagini” oppure genericamente “fantasmi” dal greco phaino “appaio”. Tra i racconti di ritorni ai vivi di singoli spiriti si inseriscono, specie nel Medioevo,
quelli di apparizioni orribili di torme di defunti che, a cavallo
e circondati da una muta di cani latranti, puniscono severamente, o ammoniscono i peccatori, o partecipano, davanti a
viandanti terrorizzati, nel buio della notte, a lugubri messe.
Nel seguente brano è la protagonista, una strana e sfortunata creatura, ad avere la percezione di suoni diabolici che riempiono il bosco.
Il bosco del Cacciatore… era un luogo deserto e silenzioso, avvolto di antiche leggende. Qui il Cacciatore Nero rinchiudeva il suo destriero, e la Muta
della Morte tornava dalla caccia per i colli, nei suoi recinti. Qui, nei crepuscoli novembrini, quando gli uccelli muti si appollaiavano sui pini scuri, si
udiva un corno che dalla cima scandiva una diabolica musica accompagnata
da un disordinato latrare che era come lo stridore degli alberi segati; e poi
l’agghiacciante tumulto della muta al momento del pasto… All’improvviso
Hazel si guardò intorno con aria spaventata: «È troppo tardi per rimanere
ancora qui» disse… capita male a rimanerci quando fa tardi. Dicono che la
Muta della Morte va attorno la sera ».
123
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
Il giusto rito funebre per coloro che ne furono privi,
nel mondo antico…
Preghiera di un insepolto
Omero, Odissea XI, vv.60-76
Dopo essere disceso nell’oltretomba e avere fatto i sacrifici
che richiamano una folla di anime evanescenti, Odisseo riconosce Elpenore la cui morte, causata da una caduta, ignorava. Costui, dopo avere narrato le modalità della disgrazia, lo implora
di fermarsi sulla strada del ritorno dall’Ade per dargli la sepoltura di cui è ancora privo; solo così l’eroe eviterà l’ira degli dei.
Divino figlio di Laerte, ingegnoso Odisseo, la volontà funesta di un dio
mi rovinò e troppo vino. Sdraiato sul tetto di Circe non pensai di scendere
tornando alla lunga scala e precipitai a capofitto dal tetto; mi si spezzarono
le vertebre del collo e l’anima scese nell’Ade… so che partendo da qui, dalla
dimora di Ade, fermerai la tua ben costrutta nave all’isola Eea. Là ti scongiuro, ricordati di me. Non lasciarmi, partendo, illacrimato e insepolto affinché
io non divenga per te causa di ira divina; bruciami con le mie armi e sulla
riva dello spumeggiante mare innalza un tumulo ricordo di un uomo infelice
anche per coloro che verranno. Questo compi per me e infiggi sulla mia tomba
il remo con i quale quando ero vivo remavo con i compagni.
124
Sezione documentariaù
… e nel mondo contemporaneo
Nel luglio de 1943 e ancora nel 1944 si susseguirono su
Roma incursioni aeree che spianarono soprattutto la zona del
Tiburtino lasciando un orribile vuoto di case e di vite. Per giorni si aggirarono negli ospedali e nel grande cimitero del Verano
i parenti alla ricerca dei morti. Molti non furono trovati perché
dissolti dalle bombe al fosforo, per molti non fu possibile il
riconoscimento. Per questo l’autrice, il cui padre non poté avere le giuste esequie, per anni non riuscì ad elaborare del tutto
il lutto fermandosi alla fase inconscia della “negazione della
perdita”. Con altri parenti combatté affinché almeno i nomi
dei dispersi fossero ricordati. Si vinse la battaglia agli inizi del
2000, quando nel Parco dei Caduti del Tiburtino il Comune
di Roma pose una lunga stele con incisi i nomi di coloro che
non ebbero sepoltura o che, se la ebbero, restarono ignoti.
Forse quella cerimonia attutì l’angoscia per il mancato ritrovamento ma non la eliminò tanto che, ancora a distanza di
lunghi anni, sogni di ritorno e di rinnovata morte turbano la
quiete del sonno.
Abbiamo combattuto per anni con lettere ai quotidiani, in ogni ricorrenza di
quel giorno, perché il nome dei morti dispersi rimanesse scolpito in qualche posto
ed ora sfiliamo in silenzio, tutti ormai vecchi, con la testa china a cercarlo sulle lastre coperte di vetro, che emergono di poco dalla terra quasi a simboleggiare l’altra
ricerca tra le macerie. Il nome Agostino Pasquali Coluzzi può servire a qualcosa
dato che non indica il luogo di sepoltura? Misi papà in un canto in una lunghissima aspettazione. Un elicottero, nell’ora esatta del bombardamento, ha fatto
piovere sul parco lievi, patetici petali di rosa quasi a sostituire quel peso mortale
degli ordigni, a riparare con un atto gentile un seguito infinito di azioni infami.
Ora in questa mia vecchiaia appannata di tristezza e di rimpianti, ho
ripreso a vedere mio padre nei sogni ma in quale stato, quanto cambiato da
125
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
quello che avevo conosciuto! Torna per poi morire subito dopo. Il suo corpo
senza vita è o in un ripiano della credenza floreale da lui comprata ad un’asta
principesca, o in una cassa aperta, ai piedi del letto. Mi rammarico per il fatto
che ci sia stato concesso di riaverlo per così poco tempo, sento l’urgenza di seppellirlo e faccio uscire i bambini dalla stanza affinché non siano contaminati
dalla morte e non la contamino con la loro allegria o chiedo a mio marito
di accertarsi se non si tratti di morte apparente. Forse, senza accorgermene,
porto dentro la ferita per l’immeritata privazione delle esequie da lui subita
(anche se allora forse mi andò bene così) e per una sua conseguente sofferenza
nel mondo dell’aldilà dovuta all’intensa pietas che aveva per i morti. Questo
sentimento sulla necessità di una sepoltura che ci giunge dalla più lontana
antichità, viene espresso anche nei poemi classici attraverso l’episodio omerico
del vecchio Priamo che va a riscattare il corpo del figlio o attraverso quello virgiliano del giovane nocchiero Palinuro che prega Enea di gettare sul suo corpo
insepolto la terra o del compagno di Ulisse, Elpenore, che supplica l’eroe di
dargli sepoltura. Una qualche consolazione è venuta da un passo de “Le Confessioni” di Agostino, quello in cui parla della morte della madre: Monica,
agli amici «che le chiedevano se non avesse paura di lasciare il suo corpo così
lontano dalla patria, aveva risposto: “Nulla è lontano da Dio e non c’è da temere che Egli, alla fine dei tempi, non riconosca il luogo da cui resuscitarmi”.
126
Sezione documentariaù
Offerte funebri per un fratello morto lontano
Catullo, Carmina 101
Tornando dalla Bitinia nel 56 a.C., Catullo visita la tomba
del fratello per portare agli dei Mani, secondo il costume dei
padri, le offerte rituali di libagioni – inferias da inferre “portare” – grondanti di molto pianto fraterno e per parlare col suo
cenere muto. Si è preferito riportare il carme che ha ispirato
Foscolo nella lingua originale evitando di banalizzarlo con una
versione poco consona.
Multas per gentes et multa per aequora vectus
advenio has miseras, frater, ad inferias,
ut te postremo donarem munere mortis
et mutam nequiquam alloquerer cinerem,
quandoquidem fortuna mihi tete abstulit ipsum
heu miser indigne frater adempte mihi!
Nunc tamen interea haec, prisco quae more parentum
tradita sunt tristi munere ad inferias,
accipe fraterno multum manantia fletu,
atque in perpetuum, frater, ave atque vale!
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Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
Simulacra luce carentum
Lucrezio, De rerum natura IV 39- 41
«Cosa fossero i sogni e quale significato avessero fu non solo
una questione che appassionò la cultura antica, ma un tema
costante nel rapporto dei vivi coi morti: simulacra li definì Lucrezio, ma pur sempre realtà dotate di un minimo di consistenza, leggere membrane che si staccano dai corpi e volteggiano
nell’aria. Non fu certo un caso se Tertulliano ricorse alle visioni
che si hanno in sogno per fondare la sua dottrina sull’anima.
Cristianizzando dottrine platoniche e stoiche, sostenne che il
sogno ispirato era un mezzo usato da Dio per rivelare la sua
volontà e una sicura prova dell’immortalità dell’anima»142.
Di queste strane apparizioni così parla Lucrezio:
…mi accingo a parlarti di cose / che a questi argomenti strettamente attengono / cioè di quelle, simulacri di esse chiamati, / che, quasi membrane
staccate dalla superficie del corpo, /se ne vanno volando qua e là per l’aria; /
esse, venendoci incontro da svegli o in sonno, / ci atterriscono. Fantasmi strani vediamo / o simulacri di estinti che spesso / terribilmente ci scuotono nel
languore del sonno. (Te lo dico) affinché non si creda che dall’Ade fuggano
gli spiriti /o che le ombre tra i vivi si aggirino / e che qualcosa rimanga di
noi dopo la morte /quando il corpo e l’anima insieme / siano stati distrutti,
disciolti nei propri elementi.
142
A. Prosperi, op. cit., p. 223.
Sezione documentariaù
I giusti riti funebri per l’ingresso nell’Aldilà nell’Iliade…
Lo stretto legame tra gli onori resi alle spoglie e l’ingresso delle anime nell’Aldilà è documentato già nei grandi poemi antichi.
Anche lì è testimoniata la necessità che ai morti, affinché le loro
anime possano accedere al regno che loro compete, siano resi gli
onori funebri (sepoltura o cremazione, giochi, sacrifici agli dei
a seconda dello status sociale di ognuno o delle circostanze in
cui ha perso la vita). A tale proposito ricordiamo l’episodio della
morte di Ettore nell’Iliade e quello di Palinuro nell’Eneide.
Nel primo, Achille, per vendicare Patroclo, affronta l’eroe troiano
e, dopo averlo sconfitto, ne strazia le spoglie trascinandole col carro
nella polvere. Sarà Priamo, affranto per le sorti del corpo e per quelle
dell’anima del figlio, ad implorare Achille di restituirgli il cadavere per
offrirgli gli onori necessari all’ingresso nel regno dei morti. Ne avrà
una risposta ferocemente negativa cui seguirà la pietà del vincitore:
Gli rispose senza più forze, Ettore, l’eroe dall’elmo splendente:/«Per la tua
vita, per i tuoi ginocchi, per i genitori ti supplico: /non lasciare che mi divorino i cani presso le navi dei Greci, / ma accetta in abbondanza oro e bronzo,
/ il riscatto che ti daranno mio padre e la mia nobile madre, / e restituisci il
mio corpo a casa, perché i Troiani e le spose / troiane mi concedano l’onore del
rogo». / Lo guardò di traverso e gli rispose il veloce Achille: / «Cane, non mi
pregare per i tuoi ginocchi né per i genitori: / vorrei che mi bastasse l’animo e
il furore / a tagliare il tuo corpo e a mangiarlo crudo per quel che mi hai fatto,
/ com’è vero che nessuno allontanerà i cani dalla tua testa, / neanche se mi
portassero un riscatto di dieci o venti / volte più grande e ne promettessero ancora, / neanche se Priamo discendente di Dardano ti ripagasse / a peso d’oro;
neanche così la tua nobile madre / che ti ha partorito ti metterà sopra un letto
funebre / e ti piangerà: ti sbraneranno tutto i cani e gli uccelli»143.
143
128
Iliade, XXII 337-354. Trad. di Guido Paduano.
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Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
…e nell’Eneide
Davanti alla turba degli insepolti cui non è concesso, se non
dopo un lungo tempo, di entrare nell’Ade, si ferma pietoso
Enea che, accompagnato dalla Sibilla Cumana, è sceso nell’oltretomba. Gli si avvicina il nocchiero Palinuro, caduto in mare
e il cui corpo non ha avuto gli onori dovuti e così lo prega:
Per tuo padre ti prego, per la speranza riposta nel futuro di Iulo / strappami, o invitto, alla sventura, getta sul mio corpo la terra / dopo avermi cercato
sulle spiagge di Velia (lo puoi) / … Porgi la destra a questo infelice e portami
teco attraverso le acque / affinché, almeno da morto riposi in sedi serene…144.
Sezione documentariaù
Preghiere e sacrifici per i morti
Libro dei Maccabei, capitolo 12, versetti 38-45
Il secondo libro dei Maccabei, scritto in greco alla fine del
II secolo a. C., appartiene, come il primo, ai libri storici della
Bibbia cristiana. Esso espone gli avvenimenti della lotta dei
giudei, capeggiati dalla famiglia dei Maccabei145, contro i sovrani seleucidi di Siria, in difesa della propria indipendenza e
religione. Nel libro si sottolinea la grande importanza dell’intercessione dei santi e della resurrezione e, nel capitolo in questione, quella dell’aiuto che la preghiera e i sacrifici espiatori
possono offrire alle anime dei defunti. Viene anticipato, così,
il concetto cristiano della possibile salvazione delle anime attraverso un luogo purgatoriale.
Giuda poi radunò l’esercito e venne alla città di Odollam: poiché si compiva la settimana, si purificarono secondo l’usanza e trascorsero là il sabato.
Il giorno dopo, quando la cosa divenne indispensabile, i Giudei andarono a
raccogliere i corpi per deporli nelle tombe di famiglia con i loro parenti. Trovarono sotto la tunica di ognuno di loro oggetti sacri agli idoli che la legge giudaica proibisce; fu perciò a tutti chiara la causa per cui erano caduti. Quindi
tutti, benedicendo l’operato di Dio, giudice giusto che rivela le cose occulte,
ricorsero alla preghiera, supplicando che il peccato commesso fosse completamente perdonato. Il nobile Giuda esortò tutto il popolo a conservarsi senza
peccato dal momento che si era visto quello che era avvenuto per il peccato
dei caduti. Poi, fatta una colletta con tanto a testa per circa duemila dracme
d’argento le inviò a Gerusalemme perché fosse offerto un sacrificio espiatorio,
agendo così in modo nobile, suggerito dal pensiero della resurrezione. Infatti,
se non avesse avuto ferma fede che i caduti sarebbero resuscitati, sarebbe stato
144
145
I Maccabei (“martellatori”) appartenevano ad una famiglia ebraica. Sette di loro, fratelli, furono martirizzati con la loro madre dai nemici. La Chiesa
cattolica li ricorda il primo agosto.
Virgilio, Eneide VI 364-371.
130
131
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
vano pregare per loro. Se egli, invece, considerava il bel premio riservato a
coloro che si addormentano nella morte con sentimenti di pietà, il suo agire
era santo e devoto. Per questo, perché fossero assolti dal peccato, fece offrire il
sacrificio espiatorio.
Sezione documentariaù
Premio e pena nel vangelo secondo Luca
Luca, 16, 19-31
Exemplum, e non parabola, viene definito già dal XII secolo questo passo del vangelo di Luca che, secondo Le Goff,
«arreca tre precisazioni: L’Inferno (Ade) e il luogo di attesa dei
giusti (seno di Abramo) sono vicini, stante che ci si può vedere
dall’uno all’altro, ma sono separati da un abisso invalicabile;
nell’Inferno regna quella caratteristica sete che Mircea Eliade
ha chiamato “sete del defunto” e che si ritroverà alla base del
concetto di refrigerium; infine il luogo di attesa dei giusti è
designato come “il seno di Abramo…».146
Vi era un ricco che vestiva di porpora e bisso e dava tutti i giorni lauti banchetti.
Vi era anche un poveretto chiamato Lazzaro il quale, coperto di piaghe, giaceva
presso la porta del ricco desideroso di sfamarsi anche delle sole briciole che cadevano
dalla tavola del ricco ma nessuno gliene dava, solo i cani venivano a leccargli le
piaghe. Avvenne ora che il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo;
morì anche il ricco e fu sepolto nell’inferno. Alzando egli gli occhi mentre era fra i
tormenti, e vedendo da lontano Abramo e nel seno di lui Lazzaro, esclamò: «Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro ad intingere la punta del suo dito
nell’acqua per rinfrescarmi la lingua perché io soffro tra queste fiamme. Ma Abramo
gli disse:«Figlio, ricordati dei beni da te ricevuti in vita e dei mali di Lazzaro; ora
questi è beato e tu sei tormentato. Inoltre una grande voragine si interpone tra noi e
voi cosicché chi volesse passare da qui a voi non può né da costà si può giungere a noi».
Quegli soggiunse:«Ti supplico, allora, padre, di inviarlo alla mia casa paterna dove
ho cinque fratelli affinché non debbano anch’essi venire in questo luogo di tormenti». Rispose Abramo:«Hanno Mosè e i Profeti, ascoltino quelli». Replicò l’altro:«No,
Padre Abramo, ma se uno dalla morte andrà a loro faranno penitenza». Ed egli:«Se
non ascoltano Mosè e i Profeti, non crederanno neppure ad un morto resuscitato».
146
132
Jacques Le Goff, La nascita del Purgatorio, Torino 1996 pp.52-53.
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Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
Le sedi dei morti
Platone, Fedone, LXII 114
Socrate, nel dialogo platonico Fedone, si avvicina in certo
qual modo alla tripartizione cristiana dell’oltretomba. Le sedi
in cui abiteranno le anime dopo la morte sono costituite dalla
palude Acherusia, dal Tartaro e da “una pura dimora” chiamata
“la vera terra”.
Sezione documentariaù
portarono offesa: questo, infatti, è il castigo inflittogli dai giudici. Quelli che
invece si sono distinti per la santità della vita, si trovano sicuramente liberi
e sciolti da questi luoghi terreni come da prigioni e pervengono in alto nella
pura dimora abitando sulla vera terra. E vi sono tra questi coloro che, resi puri
dalla filosofia, vivono il resto della vita liberi da legami corporei e arrivano a
dimore anche più belle di queste che non facilmente ora potremmo descrivere
per mancanza di tempo…
Ora, quando i morti giungono al luogo dove ciascuno è condotto dal suo
demone, per prima cosa si sottopongono al giudizio e vengono distinti coloro che hanno vissuto bene da quelli che non l’hanno fatto. Coloro ai quali
si riconosca che hanno tenuto una via di mezzo nella vita, giunti alle rive
dell’Acheronte, si imbarcano su navicelle che sono là per loro e arrivano alla
palude Acherusia e qui si soffermano e, …..si purificano dalle colpe se per
caso ne hanno commesse e ricevono premi ciascuno secondo i meriti. E quelli
i cui peccati siano inespiabili per la loro gravità, come chi abbia commesso
sacrilegi in grande numero e gravi e ingiuste uccisioni in contrasto con le leggi
o simili misfatti, un meritato castigo li butta nel Tartaro donde non escono
mai più. Quelli, invece, che abbiano commesso colpe espiabili ma gravi come
per esempio fare violenza al padre o alla madre in un impeto di ira, per poi
pentirsene e vivere così il resto della vita o chi sia divenuto omicida per un
altro simile motivo e similmente se ne sia pentito, questi devono precipitare
nel Tartaro ma poi, trascorso un anno dalla caduta, vengono ricacciati dalla
marea fuori, gli omicidi lungo il Cocito, i percotitori del padre e della madre
lungo il Piriflegetonte, e, quando, trasportati da queste correnti, giungono
presso la palude Acherusia, qui gridano e supplicano gli uni quelli che uccisero, gli altri quelli contro cui fecero violenza e, chiamandoli per nome, pregano
che gli permettano di uscire fuori e che li accolgano; se riescono a convincerli,
escono fuori e così hanno pace ai loro mali; altrimenti di nuovo sono riportati
indietro nel Tartaro e ancora da esso vengono ributtati nei fiumi e mai cessano di patire questa alterna sorte se prima non abbiano convinto coloro cui
134
135
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Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
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138
139
Indice
Prefazione
7
Introduzione
La morte come frattura nel tessuto familiare e sociale
9
Capitolo I – L’ultima lotta. Il viaggio
13
Capitolo II – La morte
Preparazione al passaggio
Per l’Aldilà le più care cose
Simbolismo del cibo
I segni del lutto, i simboli della morte
21
21
30
34
37
Capitolo III – Il ritorno
La festa dei morti
Pane e acqua per i morti che tornano
Sunt aliquid Manes
I morti tornano in sogno
45
45
49
53
60
Capitolo IV – La sepoltura
I modi di sepoltura. La relazione
tra i vivi e i morti: dagli onori alle intercessioni
65
141
65
Il Viaggio. Usi e riti della morte in Campania e altrove
Indice
“Centum errant annos”
Seppellire i morti
“Sed plena errorum sunt omnia”
72
74
79
Capitolo V – Il lutto tra folklore e psicologia
81
Capitolo VI – I regni dell’Aldilà
L’Aldilà nel mondo antico…
… e in quello medievale. Il Limbo
Il Purgatorio
95
95
97
99
Sezione documentaria
In Sardegna la nera professionista
dell’eutanasia: l’accabadora
Le orribili streghe all’attacco dei morti
Lu crucifissu ti lu asu
I funerali dei “Signori” di un tempo in Puglia …
…e quello di un bambino a Napoli
Il mito di Protesilao e Laodamia
La tovaglia
Usanze che si perpetuano
La festa dei Lemuria
Esistono i fantasmi o nascono dai nostri timori?
Il ritorno dei morti
Il giusto rito funebre per coloro
che ne furono privi nel mondo antico…
… e nel mondo contemporaneo
Offerte funebri per un fratello morto lontano
“Simulacra luce carentum”
I giusti riti funebri per l’ingresso
nell’Aldilà nell’Iliade …
142
…e nell’Eneide
Preghiere e sacrifici per i morti
Premio e pena nel vangelo secondo Luca
La sede dei morti
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105
106
107
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