Pascoli: guarire con la poesia

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Pascoli: guarire con la poesia
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Le domande di fondo
Pascoli: guarire con la poesia
Un percorso tra filosofia e poesia
Edoardo Simonotti – Dottore di ricerca in filosofia, Genova
La poesia può diventare una profonda fenomenologia
della condizione umana e porsi come strumento esistenzialmente terapeutico
di fronte alle gravose vicissitudini della vita. L’esempio di un classico
che conserva una suggestiva attualità: Giovanni Pascoli.
1. Ormai largamente considerato come termine iniziale della
sensibilità poetica che ha attraversato l’intero Novecento, con tutte le
sue inquietudini e ansie esistenziali, Giovanni Pascoli è stato un efficace interprete della propria epoca
e insieme rimane tra coloro che con
maggiore profondità hanno saputo
sondare domande fondamentali e
universali che interessano l’uomo
di ogni tempo. Questa imponente
figura di letterato ha raccolto nella
sua poesia i fermenti rinnovatori
del tardo Ottocento, ha suggerito
un nuovo modo di porsi del poeta
di fronte al mondo e al linguaggio
e ha così posto le basi di successive
sperimentazioni poetiche. La sua
opera ha incarnato le tensioni decadentiste e simboliste del proprio
tempo, lasciando trasparire un’originale espressività poetica ma anche un meditato messaggio eticosociale in un periodo difficile per la
storia europea1.
Quale emblematica figura di
passaggio verso l’inquieto Novecento letterario, con tutte le sue innovazioni e sperimentazioni linguistiche, Pascoli è senza dubbio “poeta
della crisi” perché si è reso interprete dell’esigenza di una forma poetica nuova e soprattutto capace di farsi sintomatica delle incertezze del
secolo incipiente. Oggi appare ormai superata l’immagine di un Pascoli chiuso nel suo mondo borghese, semplice “poeta delle piccole co-
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se”, ripiegato sulla rievocazione e il
rimpianto delle proprie tristi vicende familiari, del nido perduto. Il
traumatico assassinio del padre, il
mito del nido da ricostruire, la speranza del ritorno all’infanzia felice:
tutto ciò che gravita attorno all’ossessiva rievocazione del proprio
spazio domestico deve cioè essere
visto nella sua funzione e rilevanza
cosmica, deve essere inserito in una
prospettiva che si caratterizza inequivocabilmente come più universale. Entra in gioco non semplicemente la singola esperienza di una
limitata cerchia familiare, ma la
condizione umana tout court che diventa oggetto di incalzanti analisi.
2. Pascoli è poeta che recepisce e
dà voce ad una situazione letteraria
e culturale di “crisi”; è poeta che avverte con lucidità gli esiti filosoficoesistenziali dell’annuncio nietzschiano della“morte di Dio”, intuendo anche le possibili tragiche derive di violenza e di morte intrinseche alla crisi di civiltà in cui si sente pienamente immerso. Riconosce l’inevitabile
vacillare delle certezze offerte dalla
fede in una Trascendenza garante
della storia dell’individuo, ma sa anche vedere come le nuove prospettive aperte dalla scienza moderna non
siano realmente in grado di fornire
all’uomo contemporaneo certezze
rassicuranti: poiché le scienze in realtà ampliano i limiti conoscitivi e
quindi lo spazio dell’ignoto.
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Tutto questo si esplicita in versi capaci di raccontare una società
di egoismo, di lotta di tutti contro
tutti, di ridestata ferinità, e al tempo stesso però di proiettare tale situazione in uno sfondo più inquietante, più filosofico e universale, di
inconsapevolezza esistenziale. La
condizione storico-sociale in cui il
poeta si trova non svela altro che la
profonda ansia di un’umanità che
non è capace – o forse non ha più
l’interesse – di porsi di fronte alle
domande perenni che interrogano
da sempre gli uomini dinanzi al destino inevitabile di annichilimento
che riguarda ogni essere. In altri termini, sembrerebbe che Pascoli “filosofo” riconosca nell’attuale crisi
di civiltà una sorta di falsa via di fuga (e forse di inconscia rimozione)
dagli inquietanti interrogativi posti
dalla morte individuale. Non si dimentichi che Schopenhauer, assieme a Nietzsche, è uno dei più importanti autori di Pascoli, il quale,
proprio sulla scia del filosofo del
Mondo come volontà e rappresentazione, si fa interprete di un tempo
posto di fronte alla crisi radicale del
principium individuationis: dove alla consapevolezza della grandiosità
della natura, dell’infinità dei corpi
astrali, si contrappone la vita del
singolo, condannato ad un morire
che costituisce – nichilisticamente
– una fine senza scampo («E tra un
voletto e un tuffo/vanno le foglie
morte,/e non tornano più»2).
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Vero tormento della poesia pascoliana – nelle sue ossessive rievocazioni del mondo dei morti – è
questa consapevolezza dello smarrimento del principium individuationis, che consegna ogni essere vivente ad un comune destino di annichilimento, un destino del resto
stigmatizzato dalla leopardiana “indifferenza cosmica” che accoglie la
morte di un astro come quella di un
qualsiasi uomo. Chiare sono a tal
proposito le parole della poesia Il
bolide: come svanisce senza mai più
tornare la meteora che improvvisamente attraversa il cielo di notte
(«un lampo, uno scoppio… ecco
scoppiare/e brillare, cadere, esser
caduto,/ dall’infinito tremolìo stellare,/un globo d’oro […]»), così
scompare ogni uomo in un universo lontano e senza alcuna memoria
(«E la Terra sentii nell’Universo./Sentii, fremendo, ch’è del cielo
anch’ella./E mi vidi quaggiù piccolo e sperso/errare, tra le stelle, in
una stella»)3.
La morte è un destino comune
di radicale scomparsa e definitiva
assenza, una caduta, un vano percorso verso il nulla che nemmeno il
ricordo dei vivi riesce a fermare. E
d’altra parte, l’oblio successivo al
morire dell’individuo è totale in
quanto lo stesso mondo dei morti,
nelle visioni fantastico-oniriche
evocate nei versi pascoliani, è caratterizzato da uno stato di dimenticanza. Nella poesia L’or di notte sono proprio le voci dei morti che
giungono dal cimitero a non volere
sapere più nulla della vita: «Non vogliamo saper nulla:/notte? giorno?
verno? state?/Piano, voi, con quella
culla!/che non pianga il bimbo…
Fate/piano! piano! piano! piano!/Non vogliamo ricordare/vino e
grano, monte e piano,/la capanna,
il focolare,/mamma, bimbi… Fate
piano!/piano! piano! piano! piano!»4.
Anche nella lirica La tovaglia
viene data una rappresentazione
del desolato squallore dell’oltretomba, contraddistinto dallo smarrimento d’ogni ricordo e d’ogni
consistere, perciò dallo svanire del-
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la persona stessa vista come individualità. Così Pascoli descrive i morti che, secondo una tradizione popolare, tornano nel mondo dei vivi
qualora la sera dopo cena si lasci la
tovaglia sulla tavola: «Dalla sera alla mattina,/cercando cose lontane,/stanno fissi, a fronte china,/su
qualche bricia di pane,/e volendo
ricordare,/bevono lagrime amare./Oh! non ricordano i morti,/i cari, i cari suoi morti!”»5.
Ora: i morti di Pascoli non possono o non vogliono ricordare, eppure è chiaro che di fatto non sono
totalmente dimentichi di ciò che è
stato e assumono un atteggiamento di attaccamento/repulsione alla
vita che riflette l’ossessione pascoliana della morte, avvertita, ma non
accettata, come esclusione definitiva del singolo dalla vita perenne che
rinasce («e l’acqua fruscia, ed è già
notte oscura,/e quello ch’era non
sarà mai più»6).
La poesia di Pascoli esprime
un’autentica meditatio mortis, dove
– usando le parole di uno dei suoi
maggiori interpreti – è l’esistenza
stessa dell’individuo che «nasce e
cresce insieme con la morte»7. Con
linguaggio esistenzialista, e in particolare consonanza con il filosofo
tedesco Martin Heidegger, Pascoli
pare descrivere la vita stessa come
un “essere per la morte”, in cui la
morte diventa, attraverso le sue infinite “anticipazioni”, principio che
getta nell’incertezza, nella crisi radicale del significato e della presenza dell’io. La morte come limite diventa il punto focale del pensiero
poetico di Pascoli, arrivando a suscitare – ancora in piena corrispondenza con la filosofia esistenzialista
del Novecento – un sentimento di
soffocante angoscia del nulla.
In quest’ottica è stata opportunamente riconosciuta nell’opera di
Pascoli l’idea costante di una «non
congruenza dell’essere»8, ovvero del
drammatico contrasto esistente tra
il principium individuationis, l’io
individuale che anela ad esistere oltre se stesso («questa anima fanciulla/che non ci vuole, non ci sa morire!»9), e la perenne metamorfosi coN. 76/11
smica, che anela invece soltanto a
riprodursi, incurante delle ragioni
dei singoli. Il morire diventa presenza ossessiva proprio perché innestato nel pensiero di questa “triste” incongruenza tra la vita della
natura, in cui si ripropone perennemente un percorso di rinascita, e
l’esistenza dell’uomo come individuo, a cui è negata qualsiasi forma
di sopravvivenza. Nella poesia intitolata Commiato Pascoli parla, inoltre, per bocca della madre di un vero e proprio «male al cuore» che
colpisce l’uomo posto di fronte alla
realtà della morte: un male che in
questo contesto si esplicita non tanto come paura della propria morte
individuale, ma soprattutto come
nostalgia inconsolabile per la morte delle persone care, come paura
traumatica della scomparsa di chi
si ama: «Quel male l’ebbi anch’io,
Zvanî!/È un male che non fa dormire;/ma che alfine poi fa morire»10.
In Pascoli si avverte un’idea dinamica e problematica della realtà:
il mondo nel suo insieme diventa
per il singolo uomo un terreno disorganico e inquietante, dominato
dall’imprevedibilità e dall’instabilità, dove il destino diventa incerto e
incomprensibile. E la poesia pascoliana si nutre di queste contraddizioni, diventando espressione di
una radicale «fedeltà all’effimero»11.
3. Ma pur restando fedele all’idea secondo cui l’unica fonte della poesia non può che essere la realtà dinamica e fuggevole, oscura e
imprevedibile, anzi proprio a partire dalla convinzione dell’ineliminabile compresenza della morte alla vita, Pascoli scorgerà nella poesia
stessa, nell’iniziativa poetica in
quanto tale, un possibile, anche se
provvisorio, riscatto per l’umano, o
forse semplicemente un possibile
attimo di “conforto” lungo il travagliato percorso dell’esistenza.
In questa prospettiva è da interpretare la sua nota “poetica del
fanciullino” che, oltre ad avere il dichiarato intento di riflessione este-
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tica e metapoietica, manifesta un
ulteriore e più generale messaggio
etico-esistenziale. La “poetica del
fanciullino” si esplicita cioè come
appello rivolto ai poeti affinché restituiscano all’uomo il significato
del suo “essere per la morte”, svelandogli il senso del suo trovarsi “gettato” in un universo infinito e apparentemente alieno da ogni motivazione. Pascoli sembra istituire il
poeta di un compito, non certo di
vate dannunziano, però senza dubbio di attento e sensibile interprete
dei frammenti semplici e occasionali, delle rivelazioni improvvise
che fuoriescono dalle cose nel loro
emergere alla vita. In un certo senso – come negli antichi “esercizi spirituali” di “preparazione alla morte” – il poeta già muore e, con una
sorta di “nuova nascita”, ricomincia
a nominare le cose, mette un nome
al metamorfico fluire del reale, traducendo in verso e in parola ciò che
appariva come intraducibile.
Il ritorno all’infanzia, la riconquista di un cuore da fanciullo è da
intendersi come un effettivo momento di “maturazione esistenziale” – e non di regressione infantile
– da parte del poeta. Quest’ultimo
infatti è colui che sa meglio decifrare e per così dire semantizzare il
messaggio celato nelle cose, quel
contenuto inconoscibile della realtà che si accampa dietro le singole
rappresentazioni oggettuali. Lo fa
però a modo suo: «fanciullo che
non sai ragionare se non a modo
tuo, un modo fanciullesco che si
chiama profondo, perché d’un tratto, senza farci scendere uno a uno i
gradini del pensiero, ci trasporta
nell’abisso della verità»12. Il poetafanciullo è colui che compartecipa
al ritmo dell’essere e della natura,
aprendosi al fluire della vita con virtù autenticamente filosofiche, con
meraviglia – come fosse per la prima volta – e con volontà di penetrare al cuore delle cose stesse13. E
come si legge nel saggio Il Sabato, il
poeta opera un autentico ritrovamento delle «parvenze velate» e delle «essenze celate» delle cose stesse14.
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Di fronte al travaglio intellettuale e morale dell’uomo contemporaneo, la poesia deve acquisire
così un vero e proprio primato etico e conoscitivo, deve andare alla riscoperta del mondo, tornare al momento della fondazione della coscienza umana e quindi alle origini
del mondo stesso per vedere (nominare) le cose per come esse veramente sono. La poesia diventa un
“percorso di ritorno”, di traduzione, di semantizzazione dell’Inconscio già segretamente nascosto nei
miti che sono all’origine della storia dell’uomo. Il linguaggio poetico ha un carattere originario e fondativi: il suo compito è quello di recuperare il sostrato “mitico” della
realtà e ritornare così ad essere
espressione della «psiche primordiale e perenne»15, ovvero di quell’anima o mentalità primitiva e mitopoietica attraverso cui i primi
poeti hanno nominato per la prima
volta le cose e quindi le hanno create attraverso parole e immagini. «E
tu, o fanciullo vorresti fare quello
che fecero quei primi, col compenso che quei primi n’ebbero; compenso che tu reputi grande, perché,
sebbene non nominati, i veri poeti
vivono nelle cose, le quali, per noi,
fecero essi»16.
Il poeta, fanciullino-musico
torna dunque al mito. Abbandona
il linguaggio d’uso quotidiano, convenzionale, conformistico e fondato su un’astratta razionalizzazione
dell’esistente, per utilizzare un linguaggio fatto di creatività, di sforzo metaforico e al tempo stesso dotato di una spinta a costruire il
mondo. La poesia si configura come impegno etico-gnoseologico finalizzato alla realizzazione di una
vera e propria rinascita del mondo
attraverso archètipi, simboli che
rendono possibile il manifestarsi
della natura-vita. Tuttavia la capacità di tornare fanciullo, per ridonare senso al mondo, per imparare
a vivere e sentire umanamente la realtà, non è dote esclusiva del poeta
eccelso, ma anzitutto di colui che
resta fedele alla sua origine psichica, restando saldamente legato a
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quell’anima primitiva che nelle vicende delle mitiche origini ha saputo nominare le cose.
4. Emerge così un messaggio che
va nella direzione di un percorso antropologico-esistenziale, e non esclusivamente poetico-letterario. La poesia non è frutto solamente di ispirazione estetica ma implica un processo di riconquista dell’anima fanciulla, implica esercizio per giungere all’interiorità autentica, presuppone
forse addirittura un percorso di “cura dell’anima”, di coltivazione di ciò
che di più gentile, onesto e buono è
nell’animo umano. Per il poeta che
aspira a liberarsi dal male che segretamente lo abita («Te rode una cura
segreta;/tu cerchi l’oblìo de’ tuoi mali»17), la poesia diventa uno strumento di possibile salvezza, di redenzione tutta terrena, diventa rimedio pur
arduo e fragile di fronte all’apparente inconsistenza dell’esistere.
Se la poesia pascoliana sembra
spesso nascere dallo sgomento generato davanti all’immensità degli spazi cosmici e all’apparente assenza di
risposte ad ogni possibile invocazione di senso, tuttavia resta aperta ad
uno slancio, ad un impegno fantastico-poetico che può portare ad intravedere un bagliore di verità. Il mondo del poeta viene suggestivamente
accostato a quello del dormiveglia,
del sogno, o meglio ancora di un sogno-rivelatore, in cui pare riaffiorare qualcosa che sembrava smarrito,
«quel vecchio qualcosa»18 che coincide con la perenne infanzia dell’animo, ovvero con il desiderio di una
più intima unione con la natura e
con il cosmo. In questa dimensione
di sogno poetico è possibile trovare
una verità che contrasta con le desolanti certezze che emergono dalla
storia e dal trascorrere del tempo,
dalla precarietà di una vita che percorre il suo cammino di inesorabile
declino.
In tal senso l’intuizione poetica
del fanciullino si assume addirittura
un impegno consolatorio, consentendo una più rasserenata compartecipazione al mondo e alla costante
metamorfosi del reale. E può realiz-
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zare tale intento – scrive Pascoli con
toni autobiografici – anche qualora
il poeta «consolatore» sia in realtà
qualcuno «cui niuno consolò»19. La
poesia trasforma le vicende usuali del
vivere, una giornata «lunga, scialba,
stridula, infinita», in occasione di
canto: «cantavano [gli uccelli] come
non sanno/cantare che i sogni nel
cuore/che cantano forte e non fanno/rumore»20. Come conferma inoltre la lirica intitolata La poesia, la
poesia è per se stessa consolatrice, è
luce che dà sostegno e conforto, è una
lampada ardente che trasforma in
gioia di canto il dolore con cui il
viandante percorre la via della vita21.
Essa si assume in ultima analisi l’impegno di “curare” quella gravosa
“malattia dell’anima” che perennemente affligge l’uomo, ovvero la sua
angosciosa paura della morte. La parola poetica (lo stesso atto poetico)
ha per così dire una vis terapeutica,
perché riavvicina l’uomo alla vita, restituendogli la comunione con essa,
al di là di ogni sconfitta esistenziale.
Il poeta ridona all’uomo il senso concreto del suo essere per la morte, in
quanto l’esercizio della parola poetica (operato da chi scrive ma anche
dal lettore che compartecipa alla
creazione artistica) è un percorso di
costruzione di senso che permette di
riscoprire l’autenticità del mondo e
di sé. La poesia diventa allora strumento di vita, nel senso di quell’antica “terapia dell’anima” che non solo aiuta a vivere bene ma anche a
compiere un percorso di effettiva
maturazione personale.
La poesia autentica, pur nascendo dal dolore, dalla sofferenza esistenziale di chi è posto di fronte alla
nullità e all’inconsistenza delle cose,
trova dunque una via di salvezza in
se stessa, nella sua forza creatrice e
nella sua inesausta ricerca di un’armonica coerenza dell’essere. La poesia “guarisce” chi, nonostante tutte le
vicissitudini della vita, mantiene nel
fondo del cuore un insoddisfatto desiderio di felicità. E proprio la diffusione del sentimento poetico – così
parrebbe concludersi la meditazione
pascoliana – potrebbe valere come
efficace rimedio per la guarigione
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dell’uomo contemporaneo, potrebbe essere cosa più utile «di qualunque trovatore di comodità e medicine», potrebbe aiutare ad imparare a
vivere bene molto più della diffusa e
affannosa «corsa verso l’impossibile
felicità»22 promessa da tanti falsi profeti del nostro tempo.
NOTE
1 Cfr. la fondamentale monografia di
M. PAZZAGLIA, Pascoli, Salerno Editrice,
Roma 2002, p. 12, lavoro di cui si è tenuto
ampiamente conto nella stesura del presente articolo.
2 Cfr. la poesia intitolata Foglie morte
in G. PASCOLI, Canti di Castelvecchio, introduzione e note di G. Nava, Rizzoli, Milano 1983, p. 195.
3 Ivi, p. 397.
4 Ivi, p. 107.
5 Ivi, pp. 179 s.
6 Cfr. la poesia intitolata In ritardo in
ivi, p. 360.
7 M. PAZZAGLIA, op. cit., p. 19.
8 Ivi, p. 17.
9 Cfr. la lirica Il ciocco in G. PASCOLI,
Canti di Castelvecchio, cit., p. 159.
10 Ivi, p. 388.
11 M. PAZZAGLIA, op. cit., p. 116.
12 G. PASCOLI, Il fanciullino, in Prose.
I. Pensieri di varia umanità, Mondadori,
Milano 1971, p. 14.
13 Cfr. ivi, p. 17.
14 G. PASCOLI, Il sabato, in Prose, cit.,
p. 58.
15 G. PASCOLI, Il fanciullino, cit., p. 36.
16 Ivi, pp. 55 s.
17 Cfr. la poesia intitolata «The Hammerless Gun» in G. PASCOLI, Canti di Castelvecchio, cit., p. 90.
18 Cfr. la poesia intitolata Il Sonnellino in ivi, cit., p. 211.
19 Cfr. la poesia intitolata Tra San
Mauro e Savignano in ivi, cit., p. 404.
20 Ivi, p. 211.
21 Cfr. ivi, p. 65.
22 G. PASCOLI, Il fanciullino, cit., pp.
23 s.
FOSSA: GENTILE DA ROCCA, Madonna del latte, chiesa di S. Maria ad Cryptas
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