Sant` Alessandro di Sicilia Martire mercedario San Francesco da

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Sant` Alessandro di Sicilia Martire mercedario San Francesco da
Santi del mese di Aprile
Sant' Alessandro di Sicilia Martire mercedario
1 aprile
Originario di Sicilia come il suo nome ci indica, Sant’Alessandro entrò nel convento Mercedario di
Palermo, trasferito successivamente al convento di Bonaria (Cagliari). Inviato in missione di redenzione in
terra africana, venne accusato ingiustamente da uno schiavo rinnegato, poi bruciato vivo a Tunisi dai
maomettani, davanti al palazzo di Re Muley Maomet, perchè servisse di divertimento al popolo; era
l’anno 1317. S. Alessandro è il primo martire del convento di Bonaria.
L’Ordine lo festeggia il 1° aprile.
San Francesco da Paola Eremita e fondatore
2 aprile
La sua vita fu uno stupore continuo sin dalla nascita, infatti Francesco nacque il 27 marzo 1416 da una
coppia di genitori già avanti negli anni, il padre Giacomo Alessio detto “Martolilla” e la madre Vienna di
Fuscaldo, durante i quindici anni di matrimonio già trascorsi, avevano atteso invano la nascita di un figlio,
per questo pregavano s. Francesco, il ‘Poverello’ di Assisi, di intercedere per loro e inaspettatamente alla
fine il figlio arrivò. Riconoscenti i giubilanti genitori lo chiamarono Francesco; il santo di Assisi intervenne
ancora nella vita di quel bimbo nato a Paola, cittadina calabrese sul Mar Tirreno in provincia di Cosenza;
dopo appena un mese si scoprì che era affetto da un ascesso all’occhio sinistro che si estese fino alla
cornea, i medici disperavano di salvare l’occhio. La madre fece un voto a s. Francesco, di tenere il figlio in
un convento di Frati Minori per un intero anno, vestendolo dell’abito proprio dei Francescani, il voto
dell’abito è usanza ancora esistente nell’Italia Meridionale. Dopo qualche giorno l’ascesso scomparve
completamente. Fu allevato senza agi, ma non mancò mai il necessario; imparò a leggere e scrivere
verso i 13 anni, quando i genitori volendo esaudire il voto fatto a s. Francesco, lo portarono al convento
dei Francescani di San Marco Argentano, a nord di Cosenza. In quell’anno l’adolescente rivelò subito doti
eccezionali, stupiva i frati dormendo per terra, con continui digiuni e preghiera intensa e già si cominciava
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a raccontare di prodigi straordinari, come quando assorto in preghiera in chiesa, si era dimenticato di
accendere il fuoco sotto la pentola dei legumi per il pranzo dei frati, allora tutto confuso corse in cucina,
dove con un segno di croce accese il fuoco di legna e dopo pochi istanti i legumi furono subito cotti.
Un’altra volta dimenticò di mettere le carbonelle accese nel turibolo dell’incenso, alle rimostranze del
sacrestano andò a prenderle ma senza un recipiente adatto, allora le depose nel lembo della tonaca senza
che la stoffa si bruciasse. Trascorso l’anno del voto, Francesco volle tornare a Paola fra il dispiacere dei
frati e d’accordo con i genitori intrapresero insieme un pellegrinaggio ad Assisi alla tomba di s. Francesco,
era convinto che quel viaggio gli avrebbe permesso d’individuare la strada da seguire nel futuro. Fecero
tappe a Loreto, Montecassino, Monteluco e Roma, nella ‘Città eterna’ mentre camminava per una strada,
incrociò una sfarzosa carrozza che trasportava un cardinale pomposamente vestito, il giovanetto non
esitò e avvicinatosi rimproverò il cardinale dello sfarzo ostentato; il porporato stupito cercò di spiegare
che era necessario per conservare la stima e il prestigio della Chiesa agli occhi degli uomini.
Nella tappa di Monteluco, Francesco poté conoscere in quell’eremo fondato nel 528 da s. Isacco, un
monaco siriano fuggito in Occidente, gli eremiti che occupavano le celle sparse per la montagna; fu molto
colpito dal loro stile di vita, al punto che tornato a Paola, appena tredicenne e in netta opposizione al dire
del cardinale romano, si ritirò a vita eremitica in un campo che apparteneva al padre, a quasi un
chilometro dal paese, era il 1429. Si riparò prima in una capanna di frasche e poi spostandosi in altro
luogo in una grotta, che egli stesso allargò scavando il tufo con una zappa; detta grotta è oggi conservata
all’interno del Santuario di Paola; in questo luogo visse altri cinque anni in penitenza e contemplazione.
La fama del giovane eremita si sparse nella zona e tanti cominciarono a raggiungerlo per chiedere
consigli e conforto; lo spazio era poco per questo via vai, per cui Francesco si spostò di nuovo più a valle
costruendo una cella su un terreno del padre; dopo poco tempo alcuni giovani dopo più visite, gli chiesero
di poter vivere come lui nella preghiera e solitudine. Così nel 1436, con una cappella e tre celle, si costituì
il primo nucleo del futuro Ordine dei Minimi; la piccola Comunità si chiamò “Eremiti di frate Francesco”.
Prima di accoglierli, Francesco chiese il permesso al suo vescovo di Cosenza mons. Bernardino Caracciolo,
il quale avendo conosciuto il carisma del giovane eremita acconsentì; per qualche anno il gruppo visse
alimentandosi con un cibo di tipo quaresimale, pane, legumi, erbe e qualche pesce, offerti come
elemosine dai fedeli; non erano ancora una vera comunità ma pregavano insieme nella cappella a
determinate ore. Fu in seguito necessario allargare gli edifici e nel 1452 Francesco cominciò a costruire la
seconda chiesa e un piccolo convento intorno ad un chiostro, tuttora conservati nel complesso del
Santuario. Durante i lavori di costruzione Francesco operò altri prodigi, un grosso masso che stava
rotolando sugli edifici venne fermato con un gesto del santo e ancora oggi esiste sotto la strada del
Santuario; entrò nella fornace per la calce a ripararne il tetto, passando fra le fiamme e rimanendo illeso;
inoltre fece sgorgare una fonte con un tocco del bastone, per dissetare gli operai, oggi è chiamata
“l’acqua della cucchiarella”, perché i pellegrini usano attingerne con un cucchiaio. Ormai la fama di
taumaturgo si estendeva sempre più e il papa Paolo II (1464-1471), inviò nel 1470 un prelato a
verificare; giunto a Paola fu accolto da Francesco che aveva fatto portare un braciere per scaldare
l’ambiente; il prelato lo rimproverò per l’eccessivo rigore che professava insieme ai suoi seguaci e allora
Francesco prese dal braciere con le mani nude, i carboni accesi senza scottarsi, volendo così significare se
con l’aiuto di Dio si poteva fare ciò, tanto più si poteva accettare il rigore di vita. La morte improvvisa del
papa nel 1471, impedì il riconoscimento pontificio della Comunità, che intanto era stata approvata dal
vescovo di Cosenza Pirro Caracciolo; il consenso pontificio arrivò comunque tre anni più tardi ad opera del
nuovo papa Sisto IV (1471-1484). Secondo la tradizione, uno Spirito celeste, forse l’arcangelo Michele, gli
apparve mentre pregava, tenendo fra le mani uno scudo luminoso su cui si leggeva la parola “Charitas” e
porgendoglielo disse: “Questo sarà lo stemma del tuo Ordine”. La fama di questo monaco dalla grossa
corporatura, con barba e capelli lunghi che non tagliava mai, si diffondeva in tutto il Sud, per cui fu
costretto a muoversi da Paola per fondare altri conventi in varie località della Calabria. Gli fu chiesto di
avviare una comunità anche a Milazzo in Sicilia, pertanto con due confratelli si accinse ad attraversare lo
Stretto di Messina, qui chiese ad un pescatore se per amor di Dio l’avesse traghettato all’altra sponda,
ma questi rifiutò visto che non potevano pagarlo; senza scomporsi Francesco legò un bordo del mantello
al bastone, vi salì sopra con i due frati e attraversò lo Stretto con quella barca a vela improvvisata. Il
miracolo fra i più clamorosi di quelli operati da Francesco, fu in seguito confermato da testimoni oculari,
compreso il pescatore Pietro Colosa di Catona, piccolo porto della costa calabra, che si rammaricava e
non si dava pace per il suo rifiuto. Risanava gli infermi, aiutava i bisognosi, ‘risuscitò’ il suo nipote Nicola,
giovane figlio della sorella Brigida, anche suo padre Giacomo Alessio, rimasto vedovo entrò a far parte
degli eremiti, diventando discepolo di suo figlio fino alla morte. Francesco alzava spesso la voce contro i
potenti in favore degli oppressi, le sue prediche e invettive erano violente, per cui fu ritenuto pericoloso e
sovversivo dal re di Napoli Ferdinando I (detto Ferrante) d’Aragona, che mandò i suoi soldati per farlo
zittire, ma essi non poterono fare niente, perché il santo eremita si rendeva invisibile ai loro occhi; il re
alla fine si calmò, diede disposizione che Francesco poteva aprire quanti conventi volesse, anzi lo invitò
ad aprirne uno a Napoli (un’altro era stato già aperto nel 1480 a Castellammare di Stabia. A Napoli
giunsero due fraticelli che si sistemarono in una cappella campestre, là dove poi nel 1846 venne costruita
la grande, scenografica, reale Basilica di S. Francesco da Paola, nella celebre Piazza del Plebiscito. Intanto
si approssimava una grande, imprevista, né desiderata svolta della sua vita; nel 1482 un mercante
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italiano, di passaggio a Plessis-les-Tours in Francia, dove risiedeva in quel periodo il re Luigi XI (14231482), gravemente ammalato, ne parlò ad uno scudiero reale, che informò il sovrano.
Il re inviò subito un suo maggiordomo in Calabria ad invitare il santo eremita, affinché si recasse in
Francia per aiutarlo, ma Francesco rifiutò, nonostante che anche il re di Napoli Ferrante appoggiasse la
richiesta. Allora il re francese si rivolse al papa Sisto IV, il quale per motivi politici ed economici, non
voleva scontentare il sovrano e allora ordinò all’eremita di partire per la Francia, con grande sgomento e
dolore di Francesco, costretto a lasciare la sua terra e i suoi eremiti ad un’età avanzata, aveva 67 anni e
malandato in salute. Nella sua tappa a Napoli, fu ricevuto con tutti gli onori da re Ferrante I, incuriosito di
conoscere quel frate che aveva osato opporsi a lui; il sovrano assisté non visto ad una levitazione da
terra di Francesco, assorto in preghiera nella sua stanza; poi cercò di conquistarne l’amicizia offrendogli
un piatto di monete d’oro, da utilizzare per la costruzione di un convento a Napoli. Si narra che Francesco
presone una la spezzò e ne uscì del sangue e rivolto al re disse: “Sire questo è il sangue dei tuoi sudditi
che opprimi e che grida vendetta al cospetto di Dio”, predicendogli anche la fine della monarchia
aragonese, che avvenne puntualmente nei primi anni del 1500. Sempre vestito del suo consunto saio e
con in mano il rustico bastone, fu ripreso di nascosto da un pittore, incaricato dal re di fargli un ritratto,
che è conservato nella Chiesa dell’Annunziata a Napoli, mentre una copia è nella Chiesa di S. Francesco
da Paola ai Monti in Roma; si ritiene che sia il dipinto più somigliante quando Francesco aveva 67 anni.
Passando per Roma andò a visitare il pontefice Sisto IV (1471-1484), che lo accolse cordialmente; nel
maggio 1489 arrivò al castello di Plessis-du-Parc, dov’era ammalato il re Luigi XI, nel suo passaggio in
terra francese liberò Bormes e Frejus da un’epidemia. A Corte fu accolto con grande rispetto, col re ebbe
numerosi colloqui, per lo più miranti a far accettare al sovrano l’ineluttabilità della condizione umana,
uguale per tutti e per quante insistenze facesse il re di fare qualcosa per guarirlo, Francesco rimase
coerentemente sulla sua posizione, giungendo alla fine a convincerlo ad accettare la morte imminente,
che avvenne nel 1482, dopo aver risolto le divergenze in corso con la Chiesa. Dopo la morte di Luigi XI, il
frate che viveva in una misera cella, chiese di poter ritornare in Calabria, ma la reggente Anna di Beaujeu
e poi anche il re Carlo VIII (1470-1498) si opposero; considerandolo loro consigliere e direttore spirituale.
Giocoforza dovette accettare quest’ultimo sacrificio di vivere il resto della sua vita in Francia, qui
promosse la diffusione del suo Ordine, perfezionò la Regola dei suoi frati “Minimi”, approvata
definitivamente nel 1496 da papa Alessandro VI, fondò il Secondo Ordine e il Terzo riservato ai laici,
iniziò la devozione dei Tredici Venerdì consecutivi. Francesco morì il 2 aprile 1507 a Plessis-les-Tours,
vicino Tours dove fu sepolto, era un Venerdì Santo ed aveva 91 anni e sei giorni. Già sei anni dopo papa
Leone X nel 1513 lo proclamò beato e nel 1519 lo canonizzò; la sua tomba diventò meta di pellegrinaggi,
finché nel 1562 fu profanata dagli Ugonotti che bruciarono il corpo; rimasero solo le ceneri e qualche
pezzo d’osso. Queste reliquie subirono oltraggi anche durante la Rivoluzione Francese; nel 1803 fu
ripristinato il culto. Dopo altre ripartizioni in varie chiese e conventi, esse furono riunite e dal 1935 e
1955 si trovano nel Santuario di Paola; dopo quasi cinque secoli il santo eremita ritornò nella sua Calabria
di cui è patrono, come lo è di Paola e Cosenza. Nel 1943 papa Pio XII, in memoria della traversata dello
Stretto, lo nominò protettore della gente di mare italiana. Quasi subito dopo la sua canonizzazione,
furono erette in suo onore basiliche reali a Parigi, Torino, Palermo e Napoli e il suo culto si diffuse
rapidamente nell’Italia Meridionale, ne è testimonianza l’afflusso continuo di pellegrini al suo Santuario,
eretto fra i monti della costa calabra che sovrastano Paola, sui primi angusti e suggestivi ambienti in cui
visse e dove si sviluppò il suo Ordine dei ‘Minimi’
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Domenica della Divina Misericordia
Seconda domenica di Pasqua
3 aprile
E' la più importante di tutte le forme di devozione alla Divina Misericordia. Gesù parlò per la prima volta
del desiderio di istituire questa festa a suor Faustina a Płock nel 1931, quando le trasmetteva la sua
volontà per quanto riguardava il quadro: "Io desidero che vi sia una festa della Misericordia. Voglio che
l'immagine, che dipingerai con il pennello, venga solennemente benedetta nella prima domenica dopo
Pasqua; questa domenica deve essere la festa della Misericordia". Negli anni successivi - secondo gli studi
di don I. Rozycki - Gesù è ritornato a fare questa richiesta addirittura in 14 apparizioni definendo con
precisione il giorno della festa nel calendario liturgico della Chiesa, la causa e lo scopo della sua
istituzione, il modo di prepararla e di celebrarla come pure le grazie ad essa legate. La scelta della prima
domenica dopo Pasqua ha un suo profondo senso teologico: indica lo stretto legame tra il mistero
pasquale della Redenzione e la festa della Misericordia, cosa che ha notato anche suor Faustina: "Ora
vedo che l'opera della Redenzione è collegata con l'opera della Misericordia richiesta dal Signore". Questo
legame è sottolineato ulteriormente dalla novena che precede la festa e che inizia il Venerdì Santo.
Gesù ha spiegato la ragione per cui ha chiesto l'istituzione della festa: "Le anime periscono, nonostante la
Mia dolorosa Passione (...). Se non adoreranno la Mia misericordia, periranno per sempre".
La preparazione alla festa deve essere una novena, che consiste nella recita, cominciando dal Venerdì
Santo, della coroncina alla Divina Misericordia. Questa novena è stata desiderata da Gesù ed Egli ha detto
a proposito di essa che "elargirà grazie di ogni genere". Per quanto riguarda il modo di celebrare la festa
Gesù ha espresso due desideri:
- che il quadro della Misericordia sia quel giorno solennemente benedetto e pubblicamente, cioè
liturgicamente, venerato;
- che i sacerdoti parlino alle anime di questa grande e insondabile misericordia Divina e in tal modo
risveglino nei fedeli la fiducia.
"Sì, - ha detto Gesù - la prima domenica dopo Pasqua è la festa della Misericordia, ma deve esserci anche
l'azione ed esigo il culto della Mia misericordia con la solenne celebrazione di questa festa e col culto
all'immagine che è stata dipinta". La grandezza di questa festa è dimostrata dalle promesse:
- "In quel giorno, chi si accosterà alla sorgente della vita questi conseguirà la remissione totale delle
colpe e delle pene" - ha detto Gesù. Una particolare grazia è legata alla Comunione ricevuta quel giorno
in modo degno: "la remissione totale delle colpe e castighi". Questa grazia - spiega don I. Rozycki - "è
qualcosa di decisamente più grande che la indulgenza plenaria. Quest'ultima consiste infatti solo nel
rimettere le pene temporali, meritate per i peccati commessi (...). E' essenzialmente più grande anche
delle grazie dei sei sacramenti, tranne il sacramento del battesimo, poiché la remissione delle colpe e dei
castighi è solo una grazia sacramentale del santo battesimo. Invece nelle promesse riportate Cristo ha
legato la remissione dei peccati e dei castighi con la Comunione ricevuta nella festa della Misericordia,
ossia da questo punto di vista l'ha innalzata al rango di "secondo battesimo". E' chiaro che la Comunione
ricevuta nella festa della Misericordia deve essere non solo degna, ma anche adempiere alle fondamentali
esigenze della devozione alla Divina Misericordia". La comunione deve essere ricevuta il giorno della festa
della Misericordia, invece la confessione - come dice don I. Rozycki - può essere fatta prima (anche
qualche giorno). L'importante è non avere alcun peccato.
Gesù non ha limitato la sua generosità solo a questa, anche se eccezionale, grazia. Infatti ha detto che
"riverserà tutto un mare di grazie sulle anime che si avvicinano alla sorgente della Mia misericordia",
poiché‚ "in quel giorno sono aperti tutti i canali attraverso i quali scorrono le grazie divine. Nessuna anima
abbia paura di accostarsi a Me anche se i suoi peccati fossero come lo scarlatto". Don I. Rozycki scrive
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che una incomparabile grandezza delle grazie legate a questa festa si manifesta in tre modi:
- tutte le persone, anche quelle che prima non nutrivano devozione alla Divina Misericordia e persino i
peccatori che solo quel giorno si convertissero, possono partecipare alle grazie che Gesù ha preparato per
la festa;
- Gesù vuole in quel giorno regalare agli uomini non solo le grazie salvificanti, ma anche benefici terreni sia alle singole persone sia ad intere comunità;
- tutte le grazie e benefici sono in quel giorno accessibili per tutti, a patto che siano chieste con grande
fiducia.
Questa grande ricchezza di grazie e benefici non è stata da Cristo legata ad alcuna altra forma di
devozione alla Divina Misericordia.
Numerosi sono stati gli sforzi di don M. Sopocko affinché questa festa fosse istituita nella Chiesa. Egli non
ne ha vissuto però l'introduzione. Dieci anni dopo la sua morte, il card. Franciszek Macharski con la
Lettera Pastorale per la Quaresima (1985) ha introdotto la festa nella diocesi di Cracovia e seguendo il
suo esempio, negli anni successivi, lo hanno fatto i vescovi di altre diocesi in Polonia.
Il culto della Divina Misericordia nella prima domenica dopo Pasqua nel santuario di Cracovia
- Lagiewniki era già presente nel 1944. La partecipazione alle funzioni era così numerosa che la
Congregazione ha ottenuto l'indulgenza plenaria, concessa nel 1951 per sette anni dal card. Adam
Sapieha. Dalle pagine del Diario sappiamo che suor Faustina fu la prima a celebrare individualmente
questa festa, con il permesso del confessore.
Annunciazione del Signore
4 aprile
Per la festa dell’Annunciazione invito a leggere due brani del Trattato della Vera Devozione alla Santa
Vergine Maria di San Luigi Maria Grignion de Montfort (1673-1716). Primo brano: i veri devoti della Santa
Vergine “avranno una singolare devozione per il grande mistero dell'Incarnazione del Verbo, il 25 marzo,
che è il mistero proprio di questa devozione, perché questa devozione è stata ispirata dallo Spirito Santo:
1) per onorare e imitare la dipendenza ineffabile che Dio Figlio ha voluto avere da Maria, per la gloria di
Dio Padre e per la nostra salvezza, dipendenza che appare particolarmente in questo mistero in cui Gesù
Cristo è prigioniero e schiavo nel seno della divina Maria e in cui dipende da lei in tutte le cose; 2) per
ringraziare Dio delle grazie incomparabili che ha fatto a Maria e particolarmente di averla scelta come sua
degnissima Madre, scelta che è stata fatta in questo mistero” (cap. VIII). Secondo brano: “Poiché il
tempo non mi permette di fermarmi a spiegare le eccellenze e le grandezze del mistero di Gesù vivente e
regnante in Maria, o dell'Incarnazione del Verbo, mi limiterò a dire in poche parole che abbiamo qui il
primo mistero di Gesù Cristo, il più nascosto, il più elevato e il meno conosciuto; che è in questo mistero
che Gesù, d'accordo con Maria, nel suo seno, che è per questo chiamato dai santi «la sala dei segreti di
Dio», ha scelto tutti gli eletti; che è in questo mistero che ha operato tutti i misteri della sua vita che
sono seguiti, per l'accettazione che ne ha fatto: «Entrando nel mondo Cristo dice: Ecco, io vengo per fare
la tua volontà» (Eb 10,5.7); e, di conseguenza, che questo mistero è un compendio di tutti i misteri, che
contiene la volontà e la grazia di tutti; infine, che questo mistero è il trono della misericordia, della
liberalità e della gloria di Dio” (cap. VIII). I due testi sono collegati tra loro. In primo luogo San Luigi
Maria afferma che il mistero dell’Incarnazione è il primo mistero cui i veri devoti della Santa Vergine
devono rivolgere la loro attenzione. In secondo luogo, sostiene che il mistero della vita segreta di Gesù in
Maria è il mistero che contiene tutti gli altri misteri, il punto di partenza per tutte le meraviglie della sua
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vita. Analizziamo il primo testo e quindi il secondo. Il Trattato della Vera Devozione alla Santa Vergine
secondo me è un testo profetico per quanto afferma sui misteri e sulla devozione a Nostra Signora.
Annuncia verità profonde che saranno approfondite solo in un’epoca futura di fioritura della Chiesa e
quindi della teologia, che lo stesso santo chiama “Regno di Maria”. Oggi il significato delle sue parole non
può ancora essere pienamente compreso. Per esempio, chi oserà dire di aver capito l’affermazione
secondo cui Gesù Cristo, Dio stesso, fu per un tempo “schiavo di Maria” quando viveva nel suo seno?
Dopo l’Annunciazione e il sì di Maria, Nostro Signore si fece carne nel suo seno. Da allora ebbe perfetta
conoscenza di sua Madre. Viveva in lei come in un monastero di clausura, in contatto esclusivo e in
completa dipendenza umana dalla Madonna: la più perfetta dipendenza che si possa dare sulla Terra. Il
Verbo Incarnato, completamente consapevole fin dal primo momento della sua incarnazione, scelse di
vivere all’interno di una creatura. Per sua scelta visse all’interno di questo tempio e di questo palazzo, in
misteriosa relazione con Nostra Signora. Dio manifesta la sua onnipotenza nell’Incarnazione. La manifesta
anche mantenendo vergine la Madonna prima, durante e dopo il parto. L’Incarnazione è un evento così
straordinario che Dio avrebbe potuto disporre perché Nostro Signore nascesse pochi giorni dopo il
concepimento. Ma non lo fece. Il Signore scelse di vivere per nove mesi nel seno di Maria. Volle stabilire
questa forma speciale di dipendenza da lei. Scelse di avere con lei questa profonda e misteriosa relazione
dell’anima. San Luigi Maria dice che scelse di diventare suo “schiavo”: un’espressione centrale in tutta la
teologia mariana del santo, che può lasciarci perplessi specialmente se la riferiamo a Gesù Cristo ma che
per il santo è essenziale e che dobbiamo comprendere a fondo. Schiavo? Sì. Anzi, uno schiavo ha la sua
vita, respira da solo, ha almeno libertà di movimento. Gesù volle farsi più che schiavo: accettò di
dipendere interamente da Nostra Signora. Che tipo di relazione fra le anime di Gesù e della Madonna si
stabilì in quel periodo? Che tipo di unione? Di per sé, il mistero è impenetrabile. Ma, almeno per avere un
punto di partenza, possiamo considerare che nel mistero dell’Incarnazione Nostro Signore assume
interamente la natura umana. Vero Dio, diventa anche vero uomo. Ha un’anima e un corpo come li
abbiamo noi. Nella sua umanità discende da Adamo ed Eva come noi. Ma nello stesso tempo la sua anima
umana aveva – anzi ha – un’unione con Dio così stretta che Gesù Cristo è e resta una persona della
Santissima Trinità. C’è una sola persona di Cristo, non due, anche dopo l’Incarnazione. Com’è possible
tutto questo? È un mistero. I teologi si diffondono sulla nozione di unione ipostatica, ma non sciolgono
veramente il mistero. Considerando la sua natura divina e umana, come spiegare il grido di Gesù sulla
croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. In quel momento certamente Gesù continuava a
essere Dio, eppure aveva scelto di soffrire nella sua umanità un abbandono e un isolamento totale. Si
sentiva completamente abbandonato nella sua umanità mentre rimaneva unito a Dio Padre e allo Spirito
Santo nella sua divinità. Di nuovo, non possiamo spiegare tutto: è un mistero. L’unione di Nostro Signore
con Maria quando era nel suo seno non è naturalmente l’unione ipostatica, eppure quest’ultima ci aiuta in
via analogica a capire. Se nella sua umanità Gesù poteva sentirsi abbandonato sulla croce senza
compromettere la sua divinità, poteva essere come dice San Luigi Maria “schiavo” di Nostra Signora nel
suo seno – s’intende, anche qui nella sua umanità. Ma rimangono molti aspetti misteriosi, su cui penso
che getterà luce una teologia nuovamente capace di fiorire nel Regno di Maria, per la maggior gloria di
Dio e delle anime. Anche nell’unione mistica di Nostra Signora con ciascuno dei suoi devoti, che San Luigi
Maria chiama “schiavi”, ci sono punti non ancora interamente chiariti. Eppure si tratta di qualche cosa di
molto più semplice dei divini misteri dell’unione di Maria con Gesù.Se sono misteri, nessuna spiegazione li
esaurisce. Possiamo dire però che la contemplazione del mistero dell’Incarnazione ci aiuta a combattere
due delle principali dottrine della Rivoluzione: il panteismo e il soggettivismo. Secondo il panteismo, tutto
è uno e tutto è buono; una cosa non si distingue essenzialmente da un’altra. Tutte le creature formano
una sola grande persona cosmica e collettiva. Il soggettivismo afferma che ogni persona umana è
assolutamente autonoma e non ha veramente bisogno di essere unita ad altre. La Chiesa Cattolica
condanna entrambi questi errori. Afferma che ogni persona è autonoma e distinta in quanto individuo, ma
che l’apertura agli altri è costitutiva e necessaria. La teologia e la filosofia spiegano come per
approfondire la nozione di persona ultimamente è necessario considerare la sua relazione con Dio.
Quando la relazione di Gesù Cristo con Nostra Signora nell’Incarnazione sarà meglio compresa, si
comprenderà qualcosa di più anche le pagine più misteriose dell’“Apocalisse”. È del tutto lecito pregare e
sperare che un giorno sorga una nuova alba in cui gli orizzonti della teologia possano espandersi e I
legami fra molti misteri, per quanto umanamente possibili, possano chiarirsi. San Luigi Maria afferma che
il mistero dell’Incarnazione contiene tutti gli altri. Sappiamo che ogni giorno di festa della Chiesa porta
con sé una grazia speciale. Nella giornata di oggi la prima misteriosa unione di Nostro Signore con Nostra
Signore viene a noi, per così dire, con un profumo speciale. Dobbiamo affidarci con speciale forza alla
Madonna in questo giorno di festa, e chiederle la grazia di diventare i suoi umili soggetti e “schiavi”, come
fece lo stesso Bambino Gesù quando viveva nel suo seno.
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San Vincenzo Ferrer Sacerdote
5 aprile
Due mesi dopo il suo ritorno definitivo da Avignone a Roma, papa Gregorio XI muore nel marzo 1378. E
nell’Urbe tumultuante ("Vogliamo un papa romano, o almeno italiano"), i cardinali, in maggioranza
francesi, eleggono il napoletano Bartolomeo Prignano (Urbano VI). Ma questi si scontra subito con i suoi
elettori, e la crisi porta a un controconclave in settembre, nel quale gli stessi cardinali fanno Papa un
altro: Roberto di Ginevra (Clemente VII) che tornerà ad Avignone. Così comincia lo scisma d’Occidente,
che durerà 39 anni. La Chiesa è spaccata, i regni d’Europa stanno chi con Urbano e chi con Clemente.
Sono divisi anche i futuri santi: Caterina da Siena (che ha scritto ai cardinali: "Oh, come siete matti!") è
col Papa di Roma. E l’aragonese Vincenzo Ferrer (chiamato anche Ferreri in Italia) sta con quello di
Avignone, al quale ha aderito il suo re. Vincenzo è un dotto frate domenicano, insegnante di teologia e
filosofia a Lérida e a Valencia, autore poi di un trattato di vita spirituale ammiratissimo nel suo Ordine.
Nei primi anni dello scisma lo vediamo collaboratore del cardinale aragonese Pedro de Luna, che è il
braccio destro del Papa di Avignone, e che addirittura nel 1394 gli succede, diventando Benedetto XIII,
vero Papa per gli uni, antipapa per gli altri. E si prende anche come confessore Vincenzo Ferrer, che
diventa uno dei più autorevoli personaggi del mondo avignonese. Autorevole, ma sempre più inquieto,
per la divisione della Chiesa. A un certo punto ci si trova con tre Papi, ai quali il Concilio riunito a
Costanza, in Germania, dal novembre 1414, chiede di dimettersi tutti insieme, aprendo la via all’elezione
del Papa unico. Ma uno dei tre resta irremovibile: Benedetto XIII, appunto. Allora, dopo tante esortazioni
e preghiere inascoltate, viene per Vincenzo la prova più dura: annunciare a quell’uomo irriducibile, che
pure gli è amico: "Il regno d’Aragona non ti riconosce più come Papa". Doloroso momento per lui, passo
importante per la riunificazione, che avverrà nel 1417. E’ uno dei restauratori dell’unità, ma non solo dai
vertici. Anzi, Spagna, Savoia, Delfinato, Bretagna, Piemonte lo ricorderanno a lungo come vigoroso
predicatore in chiese e piazze. Mentre le gerarchie si combattevano, lui manteneva l’unità tra i fedeli.
Vent’anni di predicazione, milioni di ascoltatori raggiunti dalla sua parola viva, che mescolava il sermone
alla battuta, l’invettiva contro la rapacità laica ed ecclesiastica e l’aneddoto divertente, la descrizione di
usanze singolari conosciute nel suo viaggiare... E non mancavano, nelle prediche sul Giudizio Universale, i
tremendi annunci di castighi, con momenti di fortissima tensione emotiva. Andò camminando e
predicando così per una ventina d’anni, e la morte non poteva che coglierlo in viaggio: a Vannes, in
Bretagna. Fu proclamato santo nel 1458 da papa Callisto III, suo compatriota.
La sua data di culto è il 5 aprile, mentre l'Ordine Domenicano lo ricorda il 5 maggio.
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Santa Galla di Roma Vedova
6 aprile
Figlia di Q. Aurelio Memmio Simmaco, princeps senatus, per molti anni consigliere del re Teodorico, che
però lo fece uccidere in Ravenna (525) per infondati sospetti di tradimento, fu data in sposa ad un
giovane patrizio, di cui non si conosce il nome. Rimasta vedova dopo un anno, quantunque stimolata dai
parenti e dai medici a nuove nozze, preferí consacrarsi a Dio dapprima nell'esercizio delle opere di
misericordia e poi ritirandosi in un monastero nei pressi della basilica vaticana. Qui visse, afferma s.
Gregorio, molti anni "nella semplicità del cuore, dedita all'orazione, distribuendo larghe elemosine ai
poveri". La decisione della giovane suscitò in Roma una salutare impressione, la cui eco si diffuse lontano.
Dalla Sardegna, dove per la seconda volta si trovava in esilio, s. Fulgenzio di Ruspe (che forse in Roma
aveva avuto occasione di conoscere la famiglia della santa) le indirizzò una bellissima lettera, quasi un
trattatello in ventuno capitoli, in cui la conferma nella decisione presa e le impartisce consigli ascetici.
Prima di morire la santa ebbe una visione dell'apostolo s. Pietro che la invitava al cielo ed è questa la
ragione per cui s. Gregorio ne parla nei suoi Dialogi, al libro IV, che ha lo scopo di dimostrare
l'immortalità dell'anima attraverso apparizioni o visioni avute da anime elette. Secondo la tradizione le
sarebbe apparsa la Vergine mentre ella attendeva alle consuete opere di carità. Il miracoloso
avvenimento è ricordato da una pregevole opera a niello del sec. XI nella chiesa di S. Maria in Portico in
Campitelli. La festa commemorativa di tale apparizione, per concessione della Congregazione dei Riti, si
celebra in Roma il 17 luglio, mentre s. Galla nel Martirologio Romano è commemorata il 5 ottobre. Verso
la metà del sec. XVII sorse in Roma, per opera di M. A. Anastasio Odescalchi, cugino del b. Innocenzo XI,
un ospizio di carità intitolato alla santa, in cui s. Giovanni B. De Rossi svolse molti anni di attività e
raggruppò in speciale associazione i sacerdoti dediti ad opere di apostolato tra le classi più umili. Dal
1940 alla santa è dedicata in Roma una chiesa parrocchiale.
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San Giovanni Battista de La Salle Sacerdote
7 aprile
Combatte l’ignoranza per tutta la vita, e molti combattono lui. Nato da genitori nobili, ma non ricchi, e
con dieci figli, Giovanni Battista si laurea in lettere e filosofia; è sacerdote nel 1678, e a Reims assume
vari incarichi, collaborando anche all’attività delle scuole fondate da Adriano Nyel, un laico votato
all’istruzione popolare. Scuole che vanno male, però, soprattutto perché hanno maestri ignoranti e senza
stimoli. E di qui parte lui. Dai maestri. Riunisce quelli di Nyel in una casa comune, vive con loro, studia e
li fa studiare, osserva metodi e organizzazione di altre scuole... Comunica a questi giovani raccogliticci la
gioia dell’insegnamento, dell’aprire scuole; li appassiona a un metodo che da “ripetitori” li fa veri
“insegnanti”, abolendo le lezioni in latino, e introducendo in ogni disciplina la viva lingua francese.
Da quel primo nucleo ecco svilupparsi nel 1680 la comunità dei “Fratelli delle Scuole Cristiane”: il
sodalizio degli educatori. In genere non sono preti (lui li vuole laici, vicini al mondo che devono istruire
nella fede, nel sapere, nelle professioni); vestono una tonaca nera con pettorina bianca, con un mantello
contadino e gli zoccoli, e sotto la guida del La Salle aprono altre scuole. Nel 1687 hanno già un loro
noviziato. Nel 1688 sono chiamati a insegnare a Parigi dove in un solo anno i loro allievi superano il
migliaio. Poi cominciano le battaglie, e tutto sembra crollare. Il fondatore si trova via via attaccato
dall’alto clero di Parigi, da vari parroci e dall’autorità civile, dai cattolici integrali e dai giansenisti,
abbandonato da gente che credeva fedele, e più tardi anche esautorato. Lui in quei momenti si immerge
– si inabissa, potremmo dire – nell’isolamento penitenziale, nella meditazione. Studia e si studia. Ma
resiste, con la sua mitezza irreducibile. Da Parigi dovrà portare la sua comunità nel paesino di Saint-Yon,
presso Rouen. Però la semina continua a dare frutti: nascono le scuole per adulti, le scuole per maestri,
gli istituti d’istruzione nelle carceri, i collegi “di istruzione civile a pagamento”: e i suoi libri, trattati e
sillabari pilotano l’opera dei maestri. Nei momenti più desolati giunge a dubitare della propria vocazione
per la scuola e si accusa di nuocere alla stessa opera. Ma intanto le dedica ogni energia, scrivendo e
insegnando per il futuro dei Fratelli, che la fine del XX secolo troverà presenti e attivi ben oltre i confini
della Francia e dell’Europa. Quando muore nel piccolo centro di Saint-Yon, le sue case sono 23 e gli allievi
diecimila. Ma per i funerali accade l’imprevedibile: trentamila persone si riversano nel paese per dargli
l’ultimo saluto. Trentamila risposte a persecuzioni e tradimenti. Papa Leone XIII lo canonizzerà nell’anno
1900. E, cinquant’anni dopo, Pio XII lo proclamerà "patrono celeste presso Dio di tutti gli insegnanti".
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San Dionigi di Corinto Vescovo
8 aprile
E' noto dalle brevi notizie di san Girolamo (De viris illustribus, XXVII) e, soprattutto, di Eusebio di
Cesarea (Hist. Ecci., lI, 25,8), che ne loda lo zelo apostolico e ci ha conservato importanti frammenti di
otto sue lettere inviate alle Chiese di Atene, di cui era vescovo Publio, ucciso per la fede all'inizio
dell'impero di Marco Aurelio, di Lacedemone, di Nicomedia, di Gortina in Creta (oggi Gerópotamos), di
Amastri nel Ponto, di Cnosso in Creta, il cui vescovo Pinito rispose in termini di somma deferenza, e di
Roma. Un'altra fu indirizzata a certa Crisofora, una buona cristiana peraltro ignota. Questi frammenti
danno notizie preziose sulle condizioni religiose di alcune città e regioni durante il pontificato di san
Sotero (166-75). Degno di nota è un frammento della lettera ai fedeli di Roma: «Vobis consuetudo est,
jam inde ab ipso religionis exordio, ut fratres omnes vario beneficiorum genere affìciatis, et Ecclesiis
quam plurimis, quae in singulis urbibus constitutae sunt, necessaria vitae subsidia transmittatis. Et hac
ratione tum egentium inopiam sublevatis, turn fratribus, qui in metallis opus faciunt, necessaria
suppeditatis: per haec quae ab initio transmittere consuevistis munera, morem institutumque
Romanorum, a maioribus vestris acceptum, Romani retinentes. Atque hunc morem beatus Episcopus
vester Soter, non servavit solum, verum etiam adauxit, turn munera sanctis destinata copiose
subministrans, turn fratres peregre advenientes, tamquam liberos suos pater amantissimus, beatis
sermonibus consolando ». Il Sinassario Costantinopolitano (col. 266) lo ricorda il 29 novembre come
martire, benché non si conosca nulla di certo sulla sua morte. In Occidente per primo Usuardo lo
introdusse nel suo Martirologio (PL, CXXIII, col. 915), donde passò nel Martirologio Romano all'8 aprile.
L'elogio di questo è formato in gran parte dalle parole di san Girolamo (op. cit.). Il suo corpo, trasferito a
Roma, fu dato da Innocenzo III (1198-1216) ad Emerico, priore del monastero di San Dionigi in agro
parisiensi.
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Beato Ubaldo da Borgo San Sepolcro (Ubaldo Adimari) Frate Servita
9 aprile
E' un frate dei Servi di Maria dei primi tempi; contemporaneo del priore generale s. Filippo Benizi (12331285) che appartenne alla seconda generazione dei Servi, dopo il tempo dei Santi Sette Fondatori.
Ubaldo della nobile famiglia fiorentina Adimari, nacque verso il 1245 a Firenze e trascorse la sua gioventù
fra le turbolenze di quel tempo, che vedevano contrapposti i guelfi favorevoli al Papato e i ghibellini,
favorevoli all’imperatore di Germania. Fu dapprima un sostenitore e poi capo della fazione ghibellina a
Firenze, operando soprusi e disordini di ogni genere; finché giunse nel capoluogo fiorentino il priore
generale servita s. Filippo Benizi, il quale era venuto per riportare la pace, accompagnato dal beato
Bonaventura da Pistoia e al seguito del Legato pontificio, Latino Orsini. Si era nei primi mesi del 1280,
quando Ubaldo Adimari incontrò s. Filippo Benizi, che riuscì a convertirlo, vestì l’abito dei Servi di Maria e
con la grazia di Dio riconquistata, si ritirò in una durissima penitenza e preghiera sul Monte Senario
(Firenze), culla dal 1240 della Fondazione dell’Ordine, situato a circa 18 km da Firenze. Con la saggia
guida spirituale del suo santo Priore, Ubaldo divenne un’anima mite ed umile, sì da operare anche
prodigi, come quello di trasportare dell’acqua dal pozzo al convento, con i propri abiti, essendosi rotta la
brocca nel tragitto Fu ordinato sacerdote e dal 1282 al 1285, seguì s. Filippo nelle sue mansioni in giro
per le varie Case dell’Ordine, che sorgevano un po’ dovunque; e il 22 aprile 1285 assisté nel convento di
Todi al trapasso del suo Generale, dandogli conforto con la sua presenza. Ritornato nel convento del
Monte Senario, continuò la sua edificante vita di penitente e religioso, allietato da tanti prodigi, finché
morì il 9 aprile 1315 e sepolto nella chiesa dello stesso convento, accanto ai Santi Sette Fondatori. Da
una ricognizione delle reliquie del 1717, i suoi resti risultarono quelli di una persona di grande statura. Il
suo culto come beato, fu confermato da papa Pio VII il 3 aprile 1821.
Santa Maddalena di Canossa Vergine
10 aprile
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Discende alla lunga dalla famosa Matilde di Toscana, signora di Canossa. La sua famiglia è tra le più
illustri nell’Italia del tempo, ma poco fortunata: Maddalena e i suoi quattro fratelli perdono il padre da
piccoli, la madre si risposa e li lascia; lei, a 5 anni, viene affidata a un’istitutrice che detesta; poi si
ammala varie volte. A 17 anni la troviamo nel Carmelo di Trento contro la volontà dei parenti, poi per
brevi giorni in quello di Conegliano (Treviso), ma questa non è vita per lei.
Tornata a casa, stupisce tutti per il suo talento di amministratrice. Ma di nozze non si parla. E nel 1801
compaiono a palazzo Canossa due povere ragazze, che lei raccoglie: questa è la novità rivelatrice della
sua vocazione. Non “regnerà” nel palazzo di famiglia, che ospita Napoleone e Alessandro I di Russia. La
sua vocazione sono i poveri. L’accoglienza alle due ragazze era solo pronto soccorso, ma lei non vuole
tenerle lì estranee, sempre inferiori. Devono avere casa propria (loro due e tantissime altre come loro)
dove sentirsi padrone, istruirsi e realizzarsi al fianco delle maestre; e accanto a lei, la fondatrice, che nel
1808 otterrà da Napoleone l’ex convento delle Agostiniane veronesi, iniziandovi la vita comune.
Nascono le Figlie della Carità: le suore educatrici dei poveri. Maddalena ne scrive le regole nel 1812, a
Venezia: ve l’hanno chiamata Antonangelo e Marcantonio Cavanis (due fratelli patrizi, entrambi sacerdoti)
per fondare un’altra casa d’istruzione per ragazze, mentre loro hanno creato le scuole gratuite maschili.
Maddalena ottiene l’iniziale assenso pontificio per la sua opera da Pio VII, poco dopo la caduta di
Napoleone. Ora sul Lombardo-Veneto regna l’imperatore Francesco I d’Asburgo, che nel 1816 visita
Verona con la terza moglie, Maria Ludovica d’Este. Proprio a Verona la sovrana si ammala e muore: la
sua camera ardente sarà apprestata in una sala di palazzo Canossa. Nel palazzo, però, Maddalena non
compare più tanto spesso. Passa da Venezia a Milano e poi a Bergamo e a Trento, per fondare nuove sedi
e scuole. La sua residenza patrizia in Verona ha accolto una sovrana, e le case che lei va creando
accolgono le figlie dei sudditi più poveri, strappate alla miseria per renderle protagoniste della loro vita.
Lei intanto lavora all’annoso iter per l’approvazione definitiva del suo istituto, e prepara l’apertura di altre
sedi a Brescia e a Cremona. Ma la morte la coglie nella sua Verona a 61 anni: già "in concetto di santità",
così dicono le cronache del tempo, definendo Maddalena "beneficientissima fino alla prodigalità". Ma
soprattutto ha dato tutta sé stessa, consumandosi per l’opera, che crescerà ancora dopo la sua morte.
Alla fine del XX secolo avrà oltre 2.600 religiose, operanti in tutto il mondo.
Giovanni Paolo II l'ha proclamata santa il 2 ottobre 1988.
La data del culto per la Chiesa Universale è il 10 aprile, mentre l'8 maggio viene ricordata dall'Istituto
delle Figlie della Carità - dette Canossiane - dai Figli della Carità e dai Laici Canossiani, perchè l'8 maggio
1808 è la data ufficiale dell'inizio dell'Istituto Canossiano. All'8 maggio si celebra la sua memoria anche
nella diocesi di Bergamo, mentre quella di Milano la ricorda il 9 maggio.
Beata Elena Guerra Vergine
11 aprile
Scrittrice, teologa, apostola, santa, dice di lei il suo biografo padre Domenico Abbrescia. Ha studiato in
casa italiano, francese, musica, pittura, ricamo e, di nascosto, anche latino. A 19 anni è infermiera tra i
colerosi di Lucca e a 22 l’aggredisce un male che la terrà per quasi otto anni a letto. E lei studia i Padri
della Chiesa, crea un gruppo di “Amicizie spirituali” tra le sue visitatrici, progetta forme di vita
contemplativa. Guarita, studia e viaggia: nel 1870 assiste in Roma a una seduta del concilio Vaticano I; e
a Lucca, dopo prove e insuccessi, nasce infine per opera sua una comunità femminile, ma di vita attiva,
dedita all’educazione delle ragazze e intitolata a santa Zita, patrona della città. E’ una comunità senza
voti, un sodalizio di volontarie dell’insegnamento, pilotata da lei anche con gli scritti: i suoi agili “librini”,
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efficaci guide all’approfondimento della fede. Qui è accolta per qualche tempo, e fa la prima comunione
nel 1887, la futura santa Gemma Galgani. Più tardi, l’istituto verrà riconosciuto dalla Chiesa come
congregazione religiosa.Con la sua comunità, lei ha già problemi e anche conflitti. Ma ora decide pure di
lanciarsi in un’impresa che va oltre la congregazione, oltre Lucca e l’Italia, per investire l’intera Chiesa. Ci
ha pensato in segreto per anni e ora parte: bisogna ricondurre tutti i fedeli verso la conoscenza e l’amore
per lo Spirito Santo, del quale Cristo ci ha detto: "Egli vi guiderà alla verità tutta intera" (Gv 16,13). I
cristiani sono troppo fiaccamente consapevoli della prospettiva gloriosa che ci attende col “rovescio di
Babele” (come scriverà nel 1987 Severino Dianich), rinnovando l’evento della Pentecoste di
Gerusalemme. E' tempo di agire, e nessuno la ferma: scrive al papa Leone XIII, insiste, riscrive, andrà
anche in udienza: chiede forti spinte per un “ritorno allo Spirito”, che nel secolo successivo sarà così
vivacemente annunciato da movimenti e gruppi. Tre documenti pontifici, fra il 1895 e il 1902, invitano a
operare per questo scopo, personalmente caro a Leone XIII; e il vecchio Papa dà alle suore di Elena il
nome di Oblate dello Spirito Santo. Chiarissimo segno che è stata capita.L’hanno capita a Roma. Ma a
Lucca, in casa sua, c’è chi le si mette contro: suore, figlie spirituali sue. E si arriva alle dimissioni di lei da
Madre generale, ma con accompagnamento di inique umiliazioni. Elena sa accettare anche questo,
sostenuta dalle consorelle fedeli e dalla sua limpida visione dell’esempio di amore che bisogna sempre
saper offrire. E’ il suo momento più alto. E si chiude al mattino di un Sabato santo, sùbito dopo che lei ha
indossato l’abito di Oblata dello Spirito Santo. Il suo corpo è sepolto a Lucca nella chiesa di Sant’Agostino.
Nel 1959, papa Giovanni XXIII l’ha proclamata beata.
La data di culto indicata nel Martyrologium Romanum è l'11 aprile. Mentre nella diocesi di Lucca viene
ricordata il 23 maggio.
San Zeno (Zenone) di Verona Vescovo
12 aprile
La città di Verona, ha per il suo santo patrono, una devozione “affettuosa e brusca”, che dura ininterrotta
da sedici secoli; per il santo vescovo “moro e pescatore”, i veronesi eressero nel tempo una magnifica
Basilica, più volte ricostruita e centro del suo culto. San Zeno o Zenone, secondo la “Cronaca”, leggenda
medioevale di Coronato, un notaio veronese vissuto sulla fine del VII secolo, era originario dell’Africa
settentrionale, più precisamente della Mauritania. Tale provenienza, mancando una documentazione
certa, è stata confermata dal tenore dei suoi scritti, che rispecchiano lo stile e la sostanza di tanti altri
celebri autori, dell’effervescente Africa dell’epoca, come Apuleio di Madaura, Tertulliano, Cipriano e
Lattanzio. Non si sa, se egli giunse a Verona con la famiglia, né il motivo del trasferimento; d’altra parte
bisogna considerare che nel IV secolo, dopo la fine delle grandi persecuzioni contro i cristiani, la Chiesa
prese davvero un respiro universale, con scambio, viaggi e trasferimenti, di personaggi di grande dottrina
e santità, si ricorda che africani erano s. Venanziano († 367) vescovo di Aquileia, Donato prete in Milano,
il grande sant’Agostino, Fortunaziano, ecc. Si è ipotizzato che Zeno fosse figlio d’un impiegato statale
finito in Italia settentrionale, a seguito delle riforme burocratiche volute dall’imperatore Costantino; altra
ipotesi è che Zeno si trovava al seguito del patriarca d’Alessandria, Atanasio, esule e in visita a Verona
nel 340. Rimasto nella bella città veneta, Zeno (Zenone il suo nome originario), avrebbe fatto vita
monastica, fino a quando nel 362, fu eletto successore del defunto vescovo Cricino, divenendo così
l’ottavo vescovo di Verona, il suo episcopato durò una decina d’anni, perché morì il 12 aprile del 372 ca.;
la prima testimonianza su di lui si trova in una lettera di sant’Ambrogio al vescovo Siagro, terzo
successore di san Zeno, che lo nomina come un presule “di santa memoria”; qualche anno dopo Petronio,
vescovo di Verona fra il 412 e il 429, ne ricorda le grandi virtù e conferma la venerazione che gli era già
tributata. La conferma del culto di s. Zeno o Zenone, si ha anche da un antico documento, il “Rhytmus
Pipinianus” o “Versus de Verona”, un elogio in versi della città, scritto fra il 781 e l’810, in cui si afferma
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che Zeno fu l’ottavo vescovo di Verona e poi c’è il cosiddetto “Velo di Classe”, dell’ottavo secolo, una
preziosa tovaglia conservata a Ravenna, in cui sono ricamati i ritratti dei vescovi veronesi, fra i quali s.
Zeno. Anche il papa s. Gregorio Magno, alla fine del VI secolo raccontò un prodigio avvenuto in città,
attribuito alla potente intercessione del santo; verso il 485 una piena del fiume Adige, sommerse Verona,
giungendo fino alla chiesa dedicata a san Zeno, che aveva le porte aperte; benché l’acqua del fiume
avesse raggiunto l’altezza delle finestre, non penetrò attraverso la porta aperta, quasi come se avesse
incontrato una solida parete ad arginarla. Ciò che maggiormente testimonia l’origine africana del santo,
sono i suoi 93 “Sermones” o trattati, di cui 16 lunghi e 77 brevi, con la cui stesura, a detta degli studiosi,
Zeno aprì la grande schiera degli scrittori cattolici, fu il primo dei grandi Padri latini e meriterebbe quindi
di essere collocato fra i Dottori della Chiesa, per la scienza testimoniata con i suoi scritti. I temi dei
‘Sermoni’ sono quelli affrontati nella predicazione: la genuinità della dottrina trinitaria, la mariologia,
l’iniziazione sacramentale (l’Eucaristia e il Battesimo, con cui egli ammetteva i pagani solo dopo
un’adeguata preparazione e un severo esame), la liturgia pasquale, le virtù cristiane della povertà,
umiltà, carità e l’aiuto ai poveri e sofferenti. Gli argomenti dogmatici, morali, cristologici, biblici e gli
episodi cui fa riferimento, sono espressi dal santo con uno stile che ne testimonia l’origine; dicono gli
esperti che il suo latino è “caldo e conciso”, ricorda quello degli scrittori africani “abituati a tormentare le
frasi e a coniare nuovi vocaboli, per scolpire in tutta la sua luminosa bellezza l’idea”. Lo stile africano è
ricordato anche in quel “procedere sentenzioso, nei giochi di parole e di immagini, in quei larghi sviluppi
oratori, nei quali l’anima del Santo trasfonde tutta l’irruenza dell’entusiasmo e dello sdegno …” (Mons.
Guglielmo Ederle, per lunghi anni abate della Basilica). L’eleganza dello stile, accomunata alle espressioni
sovrabbondanti e all’improvvisa mescolanza di lingua letteraria e di volgare, fece si che san Zeno fosse
definito il “Cicerone cristiano”. Condusse con le sue predicazioni, trascritte da qualche suo discepolo nei
“Sermones”, vivaci battaglie contro i Fotiniani (ariani) e la rinascita nelle campagne, del paganesimo
(dovuta soprattutto all’apostasia di Giuliano); le sue prediche erano affollate da neoconvertiti ma anche
da pagani, attratti dalla sua abile oratoria. Dal panegirico pronunciato da s. Petronio vescovo di Bologna,
nella prima metà del V secolo, nella chiesa dove riposavano i resti del santo, si apprende che Zeno fu
vescovo insigne per carità, umiltà, povertà, liberalità verso i poveri; sollecitava con forza clero e fedeli
alla pratica delle virtù cristiane, dando loro l’esempio. Costruì a Verona la prima chiesa, che si trovava
probabilmente nella zona dell’attuale Duomo, dove si riconoscono le tracce dei primi edifici cristiani; si
tratta della chiesa già citata, che prodigiosamente non fu allagata dalla piena del fiume Adige nel 588, e
per questo fu donata a Teodolinda, moglie di re Autari, che fu testimone oculare dell’avvenuto
prodigio. Quella chiesa fu rifatta ai tempi di re Teodorico e nell’804 venne danneggiata, insieme al vicino
monastero, da ‘uomini infedeli’, probabilmente dagli Unni e anche dagli Avari. Il vescovo Rotaldo la volle
ricostruire, commissionando il nuovo progetto all’insigne arcidiacono Pacifico; l’8 dicembre 806, il nuovo
tempio fu consacrato e dal romitaggio sul Monte Baldo sopra Malcesine, scesero gli eremiti Benigno e
Caro, ritenuti degni di trasportare le reliquie del santo nel nuovo tempio, dove furono poste in un
basamento di marmi levigati, nella cripta sorretta da colonne. Alla consacrazione furono presenti, il re
Pipino, figlio di Carlo Magno, il vescovo di Verona, quelli di Cremona e Salisburgo, più una folla
immensa. Ma dal Nord Europa, ancora una volta calarono eserciti barbari, giungendo nell’antichissima e
celebre città a cavallo dell’Adige; Verona è stata nei secoli la prima tappa dei popoli germanici e dell’Est
europeo, che varcavano le Alpi per invadere e conquistare la Penisola e verso la fine del IX secolo, gli
Ungheri assalirono Verona e saccheggiarono le chiese dei sobborghi. Ma le reliquie di san Zeno erano
state messe in salvo in cattedrale e solo nel 921, poterono tornare nella cripta della chiesa a lui dedicata.
Per mettere al sicuro definitivamente le reliquie del santo e la tranquillità del culto per il Patrono, in
quegli anni si decise di costruire una grande basilica, più vasta e più protetta. Non fu impresa facile; per
la nuova basilica romanica, giunsero aiuti finanziari e tecnici dai re d’Italia Rodolfo e Ugo; lo stesso
imperatore Ottone I, lasciando Verona nel 967, donò una cospicua somma al vescovo realizzatore
Raterio. La basilica, nel 1120, 1138, 1356, ebbe altre ristrutturazioni, modifiche e ampliamenti, specie
all’interno, mentre il campanile fu eretto nel 1045 per iniziativa dell’abate Alberico; attualmente la vicina
Torre merlata, è quanto resta della ricca abbazia benedettina, in cui furono ospitati, re, imperatori,
cardinali. Il portale bronzeo della Basilica, è da tempo chiamato, ‘il libro di bronzo’ e la ‘Bibbia dei poveri’;
esso racconta in successive 48 formelle, episodi biblici e della vita di Gesù, oltre ai miracoli di San Zeno. I
miracoli raffigurati, furono tratti dai racconti del già citato notaio veronese Coronato, e dalle formelle si
può apprendere quelli più eclatanti; quando san Zeno fu eletto vescovo di Verona, prese ad abitare con
dei monaci, in un luogo solitario verso la riva dell’Adige e giacché viveva povero, era solito pescare nel
fiume per cibarsi; e un giorno mentre stava pescando, vide più in là un contadino trascinato nella
corrente del fiume, insieme al suo carro, dai buoi stranamente imbizzarriti. Avendo intuito che si trattava
di un’opera del demonio, fece un segno di croce, che ebbe l’effetto di far calmare i buoi, che riportarono
così il carro sulla riva. È uno dei tanti episodi di lotta con i demoni, che il santo vescovo, dovette
affrontare lungo tutto il suo episcopato; poiché diverse volte lo disturbavano e tante volte san Zeno li
scacciava adeguatamente; infatti nell’affresco della lunetta del protiro della basilica e nei bassorilievi di
marmo che le fanno da base, s. Zeno è raffigurato fra l’altro mentre calpesta il demonio. In un’altra
formella del portale, si vede il demonio scacciato dai buoi nel fiume, che indispettito si trasferisce nel
corpo della figlia di Gallieno, che doveva essere un nobile locale, ma poi individuato erroneamente come
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l’imperatore, in tal caso le date non corrispondono. Gallieno, saputo del vescovo Zeno, che combatteva
efficacemente i demoni, lo mandò a chiamare e così l’unica sua figlia fu liberata; per riconoscenza
Gallieno gli concesse piena libertà di edificare chiese e predicare il cristianesimo, donandogli anche il suo
prezioso diadema, che s. Zeno divise tra i poveri. Nella basilica esiste una bella vasca di porfido,
pesantissima, che la tradizione vuole regalata da Gallieno al vescovo, il quale volendo punire
l’impertinente demonio, gli ordinò di trasportarla fino a Verona; il demonio obbedì, ma con tanta rabbia,
tanto da lasciare sulla vasca l’impronta delle sue unghiate; al di là della tradizione, la vasca può essere
un importante reperto archeologico, delle antiche terme romane della città. Decine sono gli episodi
miracolosi e i prodigi, che la tradizione e la leggenda, attribuiscono a san Zeno, sempre in lotta con i
diavoli, perlopiù dispettosi, che cercavano sempre di ostacolarlo nella predicazione e nel suo ministero
episcopale; si tratta di una particolare lotta del santo, che secondo alcune leggende avrebbe visto e
scacciato il demonio, sin da quando era un chierico, mentre era in compagnia di s. Ambrogio. Infine non
si può soprassedere sull’ipotesi, che san Zeno fosse un uomo oltre che istruito e saggio, anche bonario e
gioviale; lo attestano due importanti opere, un’anta dell’antico organo, ora custodita nella chiesa di San
Procolo, e la grande statua in marmo colorato, della metà del XIII secolo, nella basilica, che lo raffigurano
entrambe sorridente fra i baffi; la statua raffigura san Zeno seduto, vestito dai paramenti vescovili, con il
viso scuro per le sue origini nord africane, che sorride e benedice con la mano destra, mentre con la
sinistra sorregge il pastorale, a cui è appeso ad un amo un pesce, a ricordo della sua necessità di pescare
nell’Adige per i suoi pasti frugali. I veronesi indicano questa statua, come “San Zen che ride”; il santo è
patrono dei pescatori d’acque dolci, il grosso sasso lustrato su cui, secondo la tradizione, sedeva mentre
pescava nel fiume, è conservato in una piccola chiesetta denominata San Zeno in Oratorio, non lontano
dalla millenaria basilica veronese, in cui riposa il santo Patrono. La festa liturgica di san Zeno è il 12
aprile; nella diocesi di Verona, però, la ricorrenza è stata spostata al 21 maggio, a ricordo del giorno della
traslazione delle reliquie nella basilica, avvenuta il 21 maggio 807.
San Martino I Papa e martire
13 aprile
Originario di Todi e diacono della Chiesa romana, Martino fu eletto al soglio pontificio dopo la morte di
papa Teodoro (13 maggio 649) e mostrò subito una mano molto rma nel reggere il timone della barca di
Pietro. Non domandò né attese infatti il consenso alla sua elezione dell'imperatore bizantino Costante II
che l'anno precedente aveva promulgato il Tipo, un documento in difesa della tesi eretica dei monoteliti.
Per arginare la diffusione di questa eresia, tre mesi dopo la sua elezione, papa Martino indisse nella
basilica lateranense un grande concilio, al quale furono invitati tutti i vescovi dell'Occidente.
La condanna di tutti gli scritti monoteliti, sancita nelle cinque solenni sessioni conciliari, provocò la
rabbiosa reazione della corte bizantino. L'imperatore ordinò all'esarca di Ravenna, Olimpio, di recarsi a
Roma per arrestare il papa. Olimpio volle assecondare oltre misura gli ordini imperiali e tentò di fare
assassinare il papa dal suo scudiero, durante la celebrazione della Messa a S. Maria Maggiore. Nel
momento di ricevere l'ostia consacrata dalle mani del pontefice, il vile sicario estrasse il pugnale, ma fu
colpito da improvvisa cecità.
Probabilmente questo fatto convinse Olimpio a mutare atteggiamento e a riconciliarsi col santo pontefice
e a progettare una lotta armata contro Costantinopoli. Nel 653, morto Olimpio di peste, l'imperatore poté
compiere la sua vendetta, facendo arrestare il papa dal nuovo esarca di Ravenna, Teodoro Calliopa.
Martino, sotto l'accusa di essersi impossessato illegalmente dell'alta carica pontificia e di aver tramato
con Olimpio contro Costantinopoli, venne tradotto via mare nella città del Bosforo. Il lungo viaggio,
durato quindici mesi, fu l'inizio di un crudele martirio. Durante i numerosi scali, a nessuno dei tanti fedeli
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accorsi a incontrare il papa fu concesso di avvicinarlo. Al prigioniero non era data neppure l'acqua per
lavarsi. Giunto il 17 settembre 654 a Costantinopoli, il papa, steso sul suo giaciglio sulla pubblica via,
venne esposto per un giorno intero agli insulti del popolo, prima di venire rinchiuso per tre mesi in
prigione. Poi iniziò il lungo ed estenuante processo, durante il quale furono tali le sevizie da far
mormorare all'imputato: "Fate di me ciò che volete; qualunque morte mi sarà un beneficio".
Degradato pubblicamente, denudato ed esposto ai rigori del freddo, carico di catene, venne rinchiuso
nella cella riservata ai condannati a morte. Il 26 marzo 655 fu fatto partire segretamente per l'esilio a
Chersonea in Crimea. Patì la fame e languì nell'abbandono più assoluto per altri quattro mesi, finché la
morte lo colse, fiaccato nel corpo ma non nella volontà, il 16 settembre 655.
San Valeriano Martire, venerato a Cumiana
14 aprile
La figura del martire San Valeriano non va assolutamente confusa con quella dell'omonimo presunto
promesso sposo della martire romana Santa Cecilia, anche se il loro ricordo si celebra nel medesimo
giorno. San Valeriano venerato a Cumiana ed in altre località del Piemonte, rientra nel folto gruppo dei
martiri appartenenti alla famosa Legione Tebea, capitanata da San Maurizio, e sterminata nel Vallese nei
pressi dell'antica Agaunum, ove oggi sorge il centro di Sainte Maurice.
Secondo una tradizione molto consolidata nei territori dell'arco alpino nord occidentale, non tutti i soldati
furono uccisi sulle rive del Rodano, molti riuscirono a fuggire e a raggiungere le vallate della Valle
d'Aosta, del Piemonte e della Lombardia. In questi luoghi svolsero opera di evangelizzazione presso le
popolazioni ancora pagane e testimoniarono col sacrificio della vita la loro fede, o perché raggiunti da altri
soldati mandati al loro inseguimento, o uccisi per mano di persecutori locali.
La critica agiografica, che molto si è occupata del caso della Legione Tebea, ha tentato di far luce anche
su queste altre figure, giungendo a differenti risultati, tra loro spesso in contrasto. Da chi respinge
totalmente le varie tradizioni locali di questi tebei fuggitivi, a chi accetta acriticamente ogni particolare
delle loro leggende. Non è ovviamente possibile giungere ad una conclusione definitiva od univoca della
problematica, dovendo ogni caso essere studiato ed analizzato singolarmente e solo successivamente
confrontato con gli altri.
E' oggi opinione comune che santi o martiri locali, di cui per i più diversi motivi si perse memoria della
loro reale identità, siano stati legati, per motivi agiografici e di necessità cultuale, agli autentici martiri
tebei. Il loro numero fu ulteriormente accresciuto dalla traslazione di reliquie, dallo sdoppiamento di
personaggi o anche semplicemente per motivi iconografici: bastava, infatti, che un santo fosse ritratto in
abiti militari, per essere assimilato ai compagni di San Maurizio.
Valeriano dunque, secondo la tradizione, avrebbe raggiunto il territorio di Cumiana e lì si sarebbe
dedicato alla diffusione della buona novella presso gli abitanti del luogo. Venne decapitato da un drappello
di soldati che scoprirono il suo nascondiglio: il santo, prima di morire si inginocchiò e sulla pietra rimasero
impresse le impronte delle sue ginocchia. Sul luogo del martirio, a circa un chilometro dalla frazione di
Tavernette, alle pendici del monte Piuerne, venne poi innalzata una cappella votiva, ancor oggi esistente
anche se in una più recente riedificazione, in cui è visibile il sasso del prodigio. E' molto probabile che
questa tradizione sia da ricollegarsi all'esigenza di sacralizzare un luogo di culto pagano, dove si
praticavano particolari riti litici, un fenomeno documentato per numerosi altri santuari dell'arco alpino e
non.
Poco distante dalla cappella sorge il santuario vero e proprio. L'attuale costruzione venne terminata nel
1787, ma già dal 1454 è documentata la concessione, da parte del vescovo di Torino, di particolari
indulgenze a chi avrebbe contribuito, con offerte o prestando manodopera, all'edificazione dell'oratorio in
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prossimità del sasso, venerato già in precedenza. Dietro l'altare maggiore dell'odierno santuario vi
sarebbero ancora delle tracce di affreschi risalenti, molto probabilmente, a questa prima fase edilizia
documentata.
Purtroppo i tre quadri che ornavano l'interno della chiesa e che rappresentavano altrettanti episodi della
vita di San Valeriano, furono rubati negli scorsi decenni, insieme al reliquario in cui era conservata
un'insigne reliquia del martire.
La festa annuale di San Valeriano si celebra il lunedì dell'Angelo; infatti, non essendo riportato dalla
tradizione un dies natalis del santo, il suo nome venne segnato nei calendari al 14 di aprile, giorno in cui
è commemorato, come si è detto, l'omonimo martire romano. Poiché tale giorno cade frequentemente in
quaresima o nella Settimana Santa, la celebrazione venne fissata al giorno successivo la Pasqua, una
giornata festiva che favorisce la partecipazione dei fedeli alla processione fino al pianoro sottostante il
santuario e alla successiva celebrazione eucaristica.
Il santo, raffigurato nell'arte come un soldato romano, è anche venerato nella località che da lui prende il
nome a Borgone di Susa, ove un oratorio, la cui costruzione presenta tracce di una fase romanica, venne
edificato in prossimità della grotta in cui Valeriano avrebbe vissuto. forse anche in questo caso il culto del
presunto martire tebeo fu una sacralizzazione di un più antico luogo di culto pagano.
Sante Anastasia e Basilissa Martiri
15 aprile
Le sante Anastasia e Basilissa, nobili matrone romane, furono discepole dei Santi apostoli Pietro e Paolo,
dei quali ebbero il singolare incarico e privilegio di seppellirne i corpi martoriati.
Persistettero costanti nella professione della loro fede e, dopo esser stata loro tagliata la lingua ed essere
state percosse con la spada, conseguirono anch’esse la corona del martirio sotto l’imperatore Nerone,
attorno all’anno 68.
I resti delle due gloriose martiri, secondo il Diario Romano del 1926, sarebbero ancora oggi custoditi in
Santa Maria della Pace.
Il Martyrologium Romanum nelle passate edizioni ricordava le sante Anastasia e Basilissa al 15 aprile, ma
le ultime riforme in materia hanno accomunato tutti i primi martiri cristiani di Roma in un’unica
commemorazione posta al 30 giugno.
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Santa Bernardetta Soubirous Vergine
16 aprile
Per tutta la vita santa Bernadette Soubirous cercò di assomigliare il più possibile alla Vergine Immacolata,
che lei vide, ascoltò, amò. Fin dall’inizio delle apparizioni ella si trova implicata in una situazione del tutto
paradossale: lei, che non sa né leggere, né scrivere e comprende soltanto il patois, si fa portavoce di un
avvenimento soprannaturale, che fa eco in tutto il mondo. Bernadette che, dall’11 febbraio al 16 luglio
1858, aveva assistito a 18 apparizioni dell’Immacolata Concezione nella grotta di Massabielle, riesce a
sbaragliare tutti: subisce numerosi interrogatori ufficiali perché è sospettata di impostura.
Vogliono farla crollare, affinché cessi quell’incontrollato flusso di persone alla grotta delle guarigioni … Ma
sono tutti sconcertati dalla sua limpidezza. Le sue risposte alla santa Giovanna d’Arco schivano tutte le
trappole: non si confonde mai e non si contraddice. Scriverà di lei Monsignor Bertrand-Sévère Laurence,
Vescovo di Tarbes, nella Lettera pastorale del 18 gennaio 1862: «Chi non ammira, avvicinandola, la
semplicità, il candore, la modestia (…)? Mentre tutti parlano delle meraviglie che le sono state rivelate,
solo lei mantiene il silenzio; parla soltanto quando viene interrogata (…) alle numerose domande che le
vengono poste, dà, senza esitare, risposte nette, precise, pertinenti e piene di convinzione. (…) Sempre
coerente, nei vari interrogatori a cui è stata sottoposta, ha mantenuto tutte le volte la stessa versione,
senza togliere o aggiungere nulla».
È semplice e mite, ma risoluta nella sua posizione e non è disposta a patteggiare con nessuno, così come
non rinuncia al suo Rosario da quattro soldi: rifiuta a Monsignor Thibault, Vescovo di Montpellier, di
scambiarlo con uno in oro e benedetto dal Papa. Di fronte agli scettici irriducibili si limita a dire: «Non
sono stata incaricata di farvi credere. Sono stata incaricata di riferire». Fin dai tempi delle apparizioni
esprime la volontà di farsi suora, senza che questo riguardi i tre segreti che la Vergine le aveva confidato
e che lei non ha mai rivelato.
Dove avrebbe potuto, meglio che nella vita religiosa, mettere in pratica quelle consegne di «preghiera» e
di «penitenza per la conversione dei peccatori» che aveva ricevuto? Diventa suora della Carità e
dell’Istruzione cristiana di Nevers. Fin dai tempi del noviziato Bernadette è stata una presenza costante in
infermeria, malata al punto da essere ammessa a fare la professione in Articulo mortis, il 25 ottobre
1866.
Nonostante le sue sofferenze, il rumore assordante, intorno a lei, non cessa, anzi. Con frequenza
incessante è chiamata in parlatorio per incontri e domande. A suo avviso i circa cinquanta vescovi che
sono andati a trovarla avrebbero fatto meglio a «restare nelle loro diocesi». Impara a leggere e a
scrivere. Ha una buona mano per cucire e ricamare e poi è bravissima ad animare i giochi dei bambini.
Vivace, disapprova ogni ipocrisia, ogni menzogna, ogni ingiustizia. Ha il carattere fiero, serio, onesto della
sua gente, per cui ogni promessa è sacra. Si è fatta religiosa per nascondersi in Dio e invece, per
obbedienza, deve essere in prima linea perché è sulla bocca di tutti. Questo problema viene da lei risolto
nell’ottobre del 1873 ed è una specie di patto che si rifà alle parole dell’Immacolata: «Mi recherò con
gioia in parlatorio (…). Dirò a Dio: sì, ci vado, a condizione che un’anima esca dal purgatorio o che
convertiate un peccatore».
La Madonna a Lourdes lasciò il dono dell’acqua miracolosa. Non parlò, però, dei malati fisici, bensì dei
malati nell’anima e per essi Bernadette diede la sua giovane vita. Il peccato è il principale nemico
dell’uomo, quello che corrompe e allontana da Dio sia spiritualmente che fisicamente. La salma incorrotta
della bellissima santa Bernadette Soubirous è ancora lì, nella cappella del convento di Saint-Gildard, a
testimoniare che la guarigione dell’anima è più importante della guarigione del corpo.
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Beata Chiara Gambacorti Domenicana
17 aprile
Forse il suo nome originario è Teodora oppure Vittoria. Ma tutti la chiamano Tora. È nata nel potente
casato mercantile dei Gambacorti o Gambacorta, che nel Trecento sono diventati per due volte signori in
Pisa; poi, per due volte, hanno perduto la signoria, e alcuni anche la vita. Altri sono stati banditi per anni
dalla città, e tra essi c’era Pietro Gambacorti, padre di Tora, nata nel 1362 forse a Firenze. Ma non
sappiamo con certezza dove si trovasse in quel momento la famiglia; o se fosse già ritornata a Pisa, dove
nel 1369 Pietro si sarebbe impadronito del potere.
Già da bambina, Tora viene inclusa nei progetti politici e finanziari del padre, che nel 1374 la dà in sposa
a un giovane di famiglia importante, Simone Massa: e lei ha dodici anni. Ma Simone muore tre anni dopo,
sicché in casa Gambacorti c’è ora una vedova quindicenne. La quale però si nega risolutamente a ogni
altro disegno matrimoniale del padre, perché vuole scegliersi un futuro seguendo i consigli di Caterina da
Siena. L’ha incontrata a Pisa nel 1375, in primavera e poi in autunno. Più tardi, dopo la morte del marito,
riceve sue lettere che la spingono a farsi suora; e, anzi, già le danno suggerimenti pratici di
comportamento quotidiano come religiosa: «E guarda che tu non perda il tempo tuo (...), ma sempre
esercita il tempo o coll’orazione o colla lezione [lettura] o con fare alcuna cosa manuale, acciocché tu non
cada nell’ozio». Su questa spinta, Tora decide di ritirarsi presso le monache Clarisse, ma non è ancora
una di loro.
E non lo diventerà, perché la famiglia reagisce duramente alla sua iniziativa: i fratelli la portano via con la
forza dal monastero, e per alcuni mesi la tengono in una sorta di prigionia domestica. Ma non serve. Ha
deciso, e i suoi si rassegnano a vederla entrare nel monastero domenicano di Santa Croce. Qui Tora veste
l’abito religioso e prende il nome di suor Chiara.
È il tempo in cui papa Gregorio XI, tallonato da Caterina, lascia Avignone per ritornare stabilmente in
Roma (gennaio1377). Pietro Gambacorti, padrone di Pisa, lo accoglie solennemente durante la sosta a
Livorno. E intanto fa costruire in Pisa un monastero nuovo per la figlia, che sarà dedicato a san
Domenico. Non solo: vorrebbe anche poter ricevere un’altra volta in città Caterina da Siena. Lei non può
più accettare, è ammalata; ma trova il tempo di scrivergli, con belle parole di gratitudine. E con un avviso
bene in chiaro: sappia il signore di Pisa che è tempo per lui di “correggere” vita e comportamenti: «Non
indugiate, che il tempo è breve e il punto della morte ne viene, che non ce n’avvediamo».
Caterina muore nel 1380. Dodici anni dopo c’è in Pisa un’altra congiura contro i Gambacorti, appoggiata
dai Visconti di Milano: e Pietro viene assassinato con i figli Benedetto e Lorenzo.
Nel monastero, suor Chiara diventa madre abbadessa, e fa della sua comunità domenicana un centro di
diffusione del movimento riformatore nell’Ordine. I beni dei Gambacorti le servono per farne anche un
centro di accoglienza per ogni sorta di poveri. E un giorno battono alla sua porta la moglie e le figlie
dell’uomo che ha ucciso suo padre e i suoi fratelli. E da quel momento il monastero di Chiara diventa
anche la loro casa.
Per le sue monache, Chiara è già santa da viva. E nel giorno della morte, invece del Requiem, le loro voci
intonano il Gloria. Il suo corpo si trova ancora nel suo monastero. Nel 1830, il pontefice Pio VIII ne ha
confermato il culto come beata.
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Beato Andrea da Montereale
18 aprile
Nato a Mascioni (L'Aquila) da una modesta famiglia intorno al 1402/04, a quattordici anni entrò nel vicino
monastero degli agostiniani di Montereale. Nel 1431 fu studente di teologia a Rimini, e negli anni
successivi a Padova e Ferrara, ottenendo i gradi scolastici di lettore e baccelliere. Nel 1438 fu inviato in
studio et universitate Senensi per spiegare i libri delle Senteme, e in seguito gli fu concesso il titolo di
maestro in sacra teologia.
Nel 1453 e nel 1471 fu eletto provinciale dell'Umbria. Unitamente ai suoi impegni di governo e
d'insegnamento dovette svolgere altri delicati compiti, giacché per la sua comprovata rettitudine in più
occasioni il Padre Generale dell’Ordine lo nominò suo vicario per ristabilire l’osservanza nei conventi di
Norcia, di Amatrice e di Cerreto di Spoleto. L'esercizio di questo incarico di riformatore gli cagionò non
poche sofferenze e incomprensioni.
Essendo priore e reggente dello studio di Siena, rinunziò ai due uffici probabilmente a causa delle accuse
che alcuni religiosi inviarono a Roma contro di lui. Ignoriamo il risultato della verifica che seguì, ma ci è
pervenuto il giudizio del Padre Generale Massari da Cori, Preside nel 1463 dello Studio di Perugia, il quale
scrisse che Andrea sopportando le ingiustizie e mostrando sempre pazienza “maximum ostendit
exemplum sanctitatis”. I fatti posteriori confermano questo elogio giacché, nel 1471 fu eletto di nuovo
Provinciale e mantenne la stima e la fiducia dei superiori maggiori dell'Ordine, che continuarono a servirsi
di lui per promuovere la regolare osservanza.
Trascorse gli ultimi anni della sua vita nel convento di Montereale, dove morì nell’aprile del 1479 e dove,
nella chiesa che fu dell'Ordine, si venerano le sue spoglie mortali. Tra le festività locali legate alla sua
memoria spicca tuttora quella celebrata il 13 di settembre, giorno in cui nel 1691 elevò la destra dalla
tomba a protezione del paese dal terremoto.
Il suo culto fu approvato da Clemente XIII l’ 11 maggio 1764.
La sua memoria liturgica ricorre il 18 aprile.
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San Giorgio d'Antiochia Vescovo
19 aprile
Notizie alquanto scarne ci sono pervenute circa questo santo, tanto che neppure l’autorevole Bibliotheca
Sanctorum può essere d’aiuto per redigere una completa scheda agiografica di questo omonimo del
grande San Giorgio martire. Il Giorgio di oggi fu vescovo di Antiochia in Pisidia e nel 787 prese parte al
secondo concilio di Nicea, che ristabilì il culto delle sacre icone, sottoscrivendone gli atti. Nell’815
l’imperatore Leone V l’Armeno tentò di abolirne il culto almeno in Oriente, ma il santo vescovo
antiochieno rifiutò fermamente di eseguirne gli ordini e fu perciò condannato all’esilio. Ben presto morì e
l’eroicità dimostrata nella difesa della fede gli meritò l’aureola della santità.
I sinassari bizantini hanno posto la sua festa al 18, 19 o 20 aprile.
Sant' Eliena (Eilena, Elena) di Laurino Solitaria
20 aprile
S. Elena nacque a Laurino (SA) all’inizio del VI secolo. Fanciulla, si nascose in una grotta ad 8 km dalla
città natale in una grotta nella località Pruno. Morì dopo 21 anni di vita eremitica, nel 530. Il suo corpo fu
dapprima trasportato a Pesto, poi passò a Margherita, moglie di re Carlo II d’Angiò. Margherita donò il
corpo della santa a S. Eleazario de’ Sabran, il conte di Ariano, che, a sua volta, lo donò alla Cattedrale di
Ariano Irpino (AV). Infatti qui, fino al 1622, il suo corpo era sepolto sotto l’altar maggiore della
Cattedrale, in un urna di legno nero. La maggior parte delle reliquie furono donate, dal vescovo di Ariano
Trotta. nel 1882, a Laurino, la città natale di S. Elena, dove la santa è molto venerata. La città di Laurino,
in provincia di Salerno, festeggia la sua santa il 22 maggio, il 18 agosto e il 29 giugno. Lì dov’era la casa
natale, fu eretta la chiesa urbana dedicata alla santa.
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Sant' Anselmo d'Aosta Vescovo e dottore della Chiesa
21 aprile
Il celeberrimo Sant'Anselmo è una tra le più grandi glorie del Piemonte e della Valle d'Aosta, essendo
nato verso il 1033 ad Aosta da madre piemontese. I suoi genitori erano nobili e ricchi: sua madre
Ermemberga era una perfetta madre di famiglia, mentre suo padre Gandolfo viveva immerso nei suoi
impegni secolari. Anselmo sin dalla sua infanzia sognò di poter raggiungere Dio e nella sua semplicità
ipotizzava che risiedesse sulla sommità delle montagne. Già avido di sapere, fu affidato ad un parente per
un'accurata educazione, ma non essendo stato compreso dal brutale maestro cadde in una terribile crisi
d'ipocondria. Per guarirlo occorsero tutto il tatto e l'amorevolezza della mamma, la quale finalmente lo
affidò poi ai benedettini d'Aosta. All'età di quindici anni Anselmo iniziò a sentire il desiderio di farsi
monaco, ma il padre non ne volle sapere preferendo farlo erede dei suoi averi. Le attrattive del mondo e
le passioni prevalsero allora sul giovane, specialmente dopo la morte della madre. Il padre, che morì poi
monaco, lo prese in tale avversione che Anselmo decise di abbandonare la famiglia e la patria in
compagnia di un servo.
Dopo tre anni trascorsi tra la Borgogna e la Francia centrale, Anselmo si recò ad Avranches, in
Normandia, ove venne a conoscenza dell'abbazia del Bec e della sua scuola, fondata nel 1034. Vi si recò
per conoscere il priore, Lanfranco di Pavia, e restare presso di lui, come tanti altri chierici attratti dalla
fama del suo sapere. I progressi nello studio furono tanto sorprendenti che lo stesso Lanfranco prese a
prediligerlo ed addirittura a farsi coadiuvare da lui nell'insegnamento. In tale contesto Anselmo sentì
rinascere in sé il desiderio di vestire l'abito monacale. Avrebbe però altri posti dove poter sfoggiare la sua
sapienza senza dover competere con il maestro Lanfranco, ma non trovando valide alternative nel 1060
entrò nel seminario benedettino del Bec. Dopo soli tre anni di regolare osservanza meritò di succedere a
Lanfranco nella carica di priore e di direttore della scuola, visto che quest'ultimo era stato destinato a
governare l'abbazia di Saint'Etienne-de-Caen. Nonostante il moltiplicarsi delle responsabilità, Anselmo
non trascurò di dedicarsi sempre più a Dio ed allo studio, preparandosi così a risolvere le più oscure
questioni rimaste sino ad allora insolute. Non bastandogli le ore diurne per approfondire le Scritture ed i
Padri della Chiesa, egli soleva trascorrere parte della notte in preghiera e correggendo manoscritti. Ci si
può fare un'idea del suo insegnamento leggendo gli opuscoli ed i dialoghi da lui lasciati, alcuni dei quali
sono veri e propri piccoli capolavori pedagogici e dogmatici.
Sant'Anselmo fu indubbiamente un grande speculativo, ma anche un grande direttore di anime. La fama
del suo monastero si sparse ovunque ed attirò un'élite avida di scienza e di perfezione religiosa. Egli se
ne occupava in prima persona con cura speciale. Molte delle sue 447 lettere mostrano l'arte che
possedeva per guadagnare i cuori, adattandosi all'età di ciascuno e puntando sull'affabilità dei modi. Alla
morte dell'abate Herluin, il 26 agosto 1078 i confratelli all'unanimità designarono Anselmo a succedergli.
L'acutezza dell'intelligenza, la straordinaria dolcezza di carattere e la santità della vita gli meritarono un
immenso ascendente tanto nel monastero quanto fuori. Intraprese relazioni con il maestro Lanfranco,
nominato arcivescovo di Canterbury nel 1070, e collaborò all'organizzazione di alcuni monasteri inglesi:
ciò gli permise inoltre di farsi conoscere dalla nobiltà del paese ed apprezzare dalla corte di Londra.
Nel 1076 Anselmo pubblicò il “Monologion” per soddisfare il desiderio dei monaci di meditare sull'essenza
divina. Questa sua prima opera si rivelò un capolavoro per la densità e lucidità di pensiero circa
l'esistenza di Dio, i suoi attributi e la Trinità. Ad essa seguì il “Proslogion”, più celebre della precedente
per l'assai discusso argomento che escogitò a dimostrazione dell'esistenza dell'Essere supremo, in
sostituzione dei lunghi e noiosi ragionamenti che aveva esposto nel “Monologion”. “Dio è l'essere di cui
non si può pensare il maggiore; il concetto di tale essere è nella nostra mente, ma tale essere deve
esistere anche nella realtà, fuori della nostra mente, perché, se esistesse solo nella mente, se ne
potrebbe pensare un altro maggiore, uno, cioè, che esistesse non solo nella mente, ma anche nella realtà
fuori di essa”.
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La fama di Anselmo si diffuse ancora di più in tutta Europa. Era talmente venerato e amato in Inghilterra
che il 6 marzo 1093, in seguito alle pressioni dei vescovi, dei signori e di tutto il popolo, fu eletto dal re
Guglielmo II il Rosso arcivescovo di Canterbury, sede ormai vacante dalla morte di Lanfranco avvenuta
nel 1089. La sua resistenza fu tenace ma inutile ed in riferimento alle difficoltà d'intesa tra il re e il
primate affermò con i vescovi ed i nobili che l'accompagnavano: “Voi volete soggiogare insieme un toro
non domo e una povera pecora. Il toro trascinerà la pecora tra i rovi e la farà a pezzi senza che sia
servita a nulla. La vostra gioia si muterà in tristezza. Vedrete la chiesa di Canterbury ricadere nella
vedovanza vivente il suo pastore. Nessuno di voi oserà resistere dopo di me e il re vi calpesterà a
piacimento”.
La situazione della Chiesa inglese era effettivamente molto triste in quel periodo a causa della simonia,
della decadenza dei costumi e della violazione della libertà religiosa da parte del re. Sant'Anselmo tentò
di rimediare a tutto ciò, nella scia della riforma adottata da San Gregorio VII. Non destò quindi meraviglia
se, nel 1095, scoppiò tra l'autorità secolare e quella religiosa un aspro conflitto circa il riconoscimento del
pontefice Urbano II. Nulla convinse l'arcivescovo a recedere dal suo proposito e, dopo molte difficoltà, nel
1097 poté recarsi a Roma per consultare il papa stesso. Questi lo ricevette con grandi manifestazioni di
stima e nel 1098 lo invitò al Concilio di Bari, convocato per ricondurre all'unità della Chiesa gli aderenti
allo scisma consumatosi nel 1054 tra Oriente ed Occidente. Nelle questioni discusse Sant'Anselmo
apparve come il teologo dei latini, confutando vittoriosamente le obiezioni degli avversari contro la
processione dello Spirito Santo da parte di entrambe la altre persone della Santissima Trinità. Nel 1099
prese ancora parte al sinodo di Roma, in cui furono ribaditi i decreti contro la simonia, il concubinato dei
chierici e la reinvestitura laica. Partì poi per Lione, ove fu però costretto a trattenersi poiché il re non lo
autorizzava a tornare alla sua sede. In Italia aveva completato il suo grande trattato sui “Motivi
dell'Incarnazione”, mentre a Lione ne ultimò un altro “Sulla nascita verginale di Cristo e il peccato
originale”.
Nel 1110 Enrico Beauclerc successe al fratello Guglielmo sul trono inglese e, desiderando avere
l'arcivescovo di Canterbury tra i suoi sostenitori, lo invitò a ritornare. Il nuovo sovrano non aveva però
alcuna intenzione di rinunciare a spadroneggiare sulla Chiesa, motivo per cui nel 1103 Anselmo,
inflessibile nella difesa dei suoi diritti, dovette una seconda volta andare in esilio a Roma. Dopo lunghe
trattative con il nuovo papa Pasquale II, il sovrano rinunciò infine all'investitura dei feudi ecclesiastici,
accontentandosi solo dell'omaggio. Nel 1106 il primate poté così ritornare nella sua sede e dedicare
all'intenso lavoro pastorale gli ultimi anni della sua vita. Non potendo più camminare, si faceva
quotidianamente trasportare in chiesa per assistere alla Messa. Sul letto di morte provò solo il rimpianto
di non aver avuto tempo sufficiente per poter chiarire il problema dell'origine dell'anima. Sant'Anselmo
morì il 21 aprile 1109 a Canterbury e fu sepolto nella celebre cattedrale. Il pontefice Alessandro III nel
1163 concesse all'arcivescovo Tommaso Becket, di procedere all'“elevazione” del corpo del suo
predecessore, atto che a quel tempo corrispondeva a tutti gli effetti ad un'odierna canonizzazione.
Sant'Anselmo d'Aosta fu infine annoverato tra i Dottori della Chiesa da Clemente XI l'8 febbraio 1720. Il
Martyrologium ROmanum ed il calendario liturgico della Chiesa universale commemorano il santo
nell'anniversario della nascita al cielo. Aosta, sua città natale, ha dedicato la strada principale del centro
storico alla memoria del suo figlio più celebre.
San Leonida Martire, padre di Origene
22 aprile
L'editto di Settimio Severo, come dice Clemente Alessandrino, riempì l'Egitto di martiri: tra questi Eusebio
nomina Leonida che ebbe il capo troncato nel 204, lasciando orfani sette figli, il maggiore dei quali,
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appunto Origene, aveva appena diciassette anni.
Nel narrare la vita di quest'ultimo poi, il medesimo storico si sofferma lungamente a descrivere le cure
con le quali Leonida educò il figlio allo studio della S. Scrittura prima che a quello delle lettere, come
ringraziasse Iddio di aver avuto un figlio cosí precocemente entusiasta di quegli studi, come riconoscesse
la mano di Dio nel fanciullo, e di notte, quando questi dormiva, si soffermasse a baciargli il petto quasi
fosse un sacrario dello Spirito Santo. Lo stesso Eusebio ci ha conservato un frammento della lettera che il
figlio diciassettenne gli inviò in prigione per esortarlo al martirio.
Nella letteratura agiografica greca, il nome di Leonida, padre di Origene, appare in mezzo ad un gruppo di
dieci martiri celebrati il 5 giugno: ma le cose che si raccontano di essi sono frutto piú di immaginazione
che di indagine storica. Chi forgiò quelle tradizioni non immaginò che quel Leonida fosse appunto il padre
di Origene di cui parlava già Eusebio. Il Martirologio Romano, invece, celebra Leonida al 22 aprile,
giacché il Baronio credette di ravvisare il nome del nostro nel Geronimiano a questa data, dove invece è
celebrato l'omonimo martire di Corinto.
San Giorgio Martire di Lydda
23 aprile
Per avere un’idea del diffusissimo culto che il santo cavaliere e martire Giorgio, godé in tutta la
cristianità, si danno alcuni dati. Nella sola Italia vi sono ben 21 Comuni che portano il suo nome; Georgia
è il nome di uno Stato americano degli U.S.A. e di una Repubblica caucasica; sei re di Gran Bretagna e
Irlanda, due re di Grecia e altri dell’Est europeo, portarono il suo nome. È patrono dell’Inghilterra, di
intere Regioni spagnole, del Portogallo, della Lituania; di città come Genova, Campobasso, Ferrara,
Reggio Calabria e di centinaia di altre città e paesi. Forse nessun santo sin dall’antichità ha riscosso tanta
venerazione popolare, sia in Occidente che in Oriente; chiese dedicate a s. Giorgio esistevano a
Gerusalemme, Gerico, Zorava, Beiruth, Egitto, Etiopia, Georgia da dove si riteneva fosse oriundo; a
Magonza e Bamberga vi erano delle basiliche; a Roma vi è la chiesa di S. Giorgio al Velabro che
custodisce la reliquia del cranio del martire palestinese; a Napoli vi è la basilica di S. Giorgio Maggiore; a
Venezia c’è l’isola di S. Giorgio. Vari Ordini cavallereschi portano il suo nome e i suoi simboli, fra i più
conosciuti: l’Ordine di S. Giorgio, detto “della Giarrettiera”; l’Ordine Teutonico, l’Ordine militare di
Calatrava d’Aragona; il Sacro Ordine Costantiniano di S. Giorgio, ecc. È considerato il patrono dei
cavalieri, degli armaioli, dei soldati, degli scouts, degli schermitori, della Cavalleria, degli arcieri, dei
sellai; inoltre è invocato contro la peste, la lebbra e la sifilide, i serpenti velenosi, le malattie della testa, e
particolarmente nei paesi alle pendici del Vesuvio, contro le eruzioni del vulcano. Il suo nome deriva dal
greco ‘gheorgós’ cioè ‘agricoltore’ e lo troviamo già nelle ‘Georgiche’ di Virgilio e fu portato nei secoli da
persone celebri in tutti i campi, oltre a re e principi, come Washington, Orwell, Sand, Hegel, Gagarin, De
Chirico, Morandi, il Giorgione, Danton, Vasari, Byron, Simenon, Bernanos, Bizet, Haendel, ecc. In Italia è
diffuso anche il femminile Giorgia, Giorgina; in Francia è Georges; in Inghilterra e Stati Uniti, George;
Jörg e Jürgens in Germania; Jorge in Spagna e Portogallo; Gheorghe in Romania; Yorick in Danimarca;
Yuri in Russia. La Chiesa Orientale lo chiama il “Megalomartire” (il grande martire). Detto tutto questo, si
può capire come il suo culto così diffuso in tutti i secoli, abbia di fatto superato le perplessità sorte in
seno alla Chiesa, che in mancanza di notizie certe e comprovate sulla sua vita, nel1969 lo declassò nella
liturgia ad una memoria facoltativa; i fedeli di ogni luogo dove è venerato, hanno continuato comunque a
tributargli la loro devozione millenaria. La sua figura è avvolta nel mistero, da secoli infatti gli studiosi
cercano di stabilire chi veramente egli fosse, quando e dove sia vissuto; le poche notizie pervenute sono
nella “Passio Georgii” che il ‘Decretum Gelasianum’ del 496, classifica tra le opere apocrife (supposte, non
autentiche, contraffatte); inoltre in opere letterarie successive, come “De situ terrae sanctae” di Teodoro
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Perigeta del 530 ca., il quale attesta che a Lydda (Diospoli) in Palestina, oggi Lod presso Tel Aviv in
Israele, vi era una basilica costantiniana, sorta sulla tomba di san Giorgio e compagni, martirizzati
verosimilmente nel 303, durante la persecuzione di Diocleziano (detta basilica era già meta di pellegrini
prima delle Crociate, fino a quando il sultano Saladino (1138-1193) la fece abbattere). La notizia viene
confermata anche da Antonino da Piacenza (570 ca.) e da Adamnano (670 ca) e da un’epigrafe greca,
rinvenuta ad Eraclea di Betania datata al 368, che parla della “casa o chiesa dei santi e trionfanti martiri
Giorgio e compagni”. I documenti successivi, che sono nuove elaborazioni della ‘passio’ leggendaria sopra
citata, offrono notizie sul culto, ma sotto l’aspetto agiografico non fanno altro che complicare
maggiormente la leggenda, che solo tardivamente si integra dell’episodio del drago e della fanciulla
salvata da s. Giorgio. La ‘passio’ dal greco, venne tradotta in latino, copto, armeno, etiopico, arabo, ad
uso delle liturgie riservate ai santi; da essa apprendiamo come già detto senza certezze, che Giorgio era
nato in Cappadocia ed era figlio di Geronzio persiano e Policronia cappadoce, che lo educarono
cristianamente; da adulto divenne tribuno dell’armata dell’imperatore di Persia Daciano, ma per alcune
recensioni si tratta dell’armata di Diocleziano (243-313) imperatore dei romani, il quale con l’editto del
303, prese a perseguitare i cristiani in tutto l’impero. Il tribuno Giorgio di Cappadocia allora distribuì i suoi
beni ai poveri e dopo essere stato arrestato per aver strappato l’editto, confessò davanti al tribunale dei
persecutori, la sua fede in Cristo; fu invitato ad abiurare e al suo rifiuto, come da prassi in quei tempi, fu
sottoposto a spettacolari supplizi e poi buttato in carcere. Qui ha la visione del Signore che gli predice
sette anni di tormenti, tre volte la morte e tre volte la resurrezione. E qui la fantasia dei suoi agiografi,
spazia in episodi strabilianti, difficilmente credibili: vince il mago Atanasio che si converte e martirizzato;
viene tagliato in due con una ruota piena di chiodi e spade; risuscita operando la conversione del
‘magister militum’ Anatolio con tutti i suoi soldati che vengono uccisi a fil di spada; entra in un tempio
pagano e con un soffio abbatte gli idoli di pietra; converte l’imperatrice Alessandra che viene
martirizzata; l’imperatore lo condanna alla decapitazione, ma Giorgio prima ottiene che l’imperatore ed i
suoi settantadue dignitari vengono inceneriti; promette protezione a chi onorerà le sue reliquie ed infine
si lascia decapitare. Il culto per il martire iniziò quasi subito, come dimostrano i resti archeologici della
basilica eretta qualche anno dopo la morte (303?) sulla sua tomba nel luogo del martirio (Lydda); la
leggenda del drago comparve molti secoli dopo nel Medioevo, quando il trovatore Wace (1170 ca.) e
soprattutto Jacopo da Varagine († 1293) nella sua “Leggenda Aurea”, fissano la sua figura come cavaliere
eroico, che tanto influenzerà l’ispirazione figurativa degli artisti successivi e la fantasia popolare. Essa
narra che nella città di Silene in Libia, vi era un grande stagno, tale da nascondere un drago, il quale si
avvicinava alla città, e uccideva con il fiato quante persone incontrava. I poveri abitanti gli offrivano per
placarlo, due pecore al giorno e quando queste cominciarono a scarseggiare, offrirono una pecora e un
giovane tirato a sorte. Un giorno fu estratta la giovane figlia del re, il quale terrorizzato offrì il suo
patrimonio e metà del regno, ma il popolo si ribellò, avendo visto morire tanti suoi figli, dopo otto giorni
di tentativi, il re alla fine dovette cedere e la giovane fanciulla piangente si avviò verso il grande stagno.
Passò proprio in quel frangente il giovane cavaliere Giorgio, il quale saputo dell’imminente sacrificio,
tranquillizzò la principessina, promettendole il suo intervento per salvarla e quando il drago uscì dalle
acque, sprizzando fuoco e fumo pestifero dalle narici, Giorgio non si spaventò, salì a cavallo e
affrontandolo lo trafisse con la sua lancia, ferendolo e facendolo cadere a terra. Poi disse alla fanciulla di
non avere paura e di avvolgere la sua cintura al collo del drago; una volta fatto ciò, il drago prese a
seguirla docilmente come un cagnolino, verso la città. Gli abitanti erano atterriti nel vedere il drago
avvicinarsi, ma Giorgio li rassicurò dicendo: ”Non abbiate timore, Iddio mi ha mandato a voi per liberarvi
dal drago: Abbracciate la fede in Cristo, ricevete il battesimo e ucciderò il mostro”. Allora il re e la
popolazione si convertirono e il prode cavaliere uccise il drago facendolo portare fuori dalla città,
trascinato da quattro paia di buoi. La leggenda era sorta al tempo delle Crociate, influenzata da una falsa
interpretazione di un’immagine dell’imperatore cristiano Costantino, trovata a Costantinopoli, dove il
sovrano schiacciava col piede un drago, simbolo del “nemico del genere umano”.
La fantasia popolare e i miti greci di Perseo che uccide il mostro liberando la bella Andromeda, elevarono
l’eroico martire della Cappadocia a simbolo di Cristo, che sconfigge il male (demonio) rappresentato dal
drago. I crociati accelerarono questa trasformazione del martire in un santo guerriero, volendo
simboleggiare l’uccisione del drago come la sconfitta dell’Islam; e con Riccardo Cuor di Leone (11571199) san Giorgio venne invocato come protettore da tutti i combattenti. Con i Normanni il culto del
santo orientale si radicò in modo straordinario in Inghilterra e qualche secolo dopo nel 1348, re Edoardo
III istituì il celebre grido di battaglia “Saint George for England”, istituendo l’Ordine dei Cavalieri di San
Giorgio o della Giarrettiera. In tutto il Medioevo la figura di s. Giorgio, il cui nome aveva tutt’altro
significato, cioè ‘agricoltore’, divenne oggetto di una letteratura epica che gareggiava con i cicli bretone e
carolingio. Nei Paesi slavi assunse la funzione addirittura ‘pagana’ di sconfiggere le tenebre dell’inverno,
simboleggiate dal drago e quindi di favorire la crescita della vegetazione in primavera; una delle tante
metamorfosi leggendarie di quest’umile martire, che volle testimoniare in piena libertà, la sua fede in
Cristo, soffrendo e donando infine la sua giovane vita, come fecero in quei tempi di sofferenza e sangue,
tanti altri martiri di ogni età, condizione sociale e in ogni angolo del vasto impero romano. San Giorgio è
onorato anche dai musulmani, che gli diedero l’appellativo di ‘profeta’. Enrico Pepe sacerdote, nel suo
volume ‘Martiri e Santi del Calendario Romano’, conclude al 23 aprile giorno della celebrazione liturgica di
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s. Giorgio, con questa riflessione: “Forse la funzione storica di questi santi avvolti nella leggenda è di
ricordare al mondo una sola idea, molto semplice ma fondamentale, il bene a lungo andare vince sempre
il male e la persona saggia, nelle scelte fondamentali della vita, non si lascia mai ingannare dalle
apparenze”.
Santa Maria Elisabetta Hesselblad Vergine, Fondatrice
24 aprile
Nacque in Svezia, il 4 giugno 1870, quinta di tredici figli. Di religione luterana, a 18 anni emigrò in
America per aiutare economicamente la sua famiglia. Qui visse lunghi anni (1888-1904) solerte
infermiera nel grande ospedale Roosvelt di New York, dove a contatto con la sofferenza e la malattia
affinò la sua sensibilità umana e spirituale conformandola a quella della sua compatriota Santa Brigida.
Fin dall´adolescenza il suo anelito fu la ricerca dell´Unico Ovile. Così lei descrive questa sua ansia nelle
"Memorie autobiografiche":
"Da bambina, andando a scuola e vedendo che i miei compagni appartenevano a molte chiese diverse,
cominciai a domandarmi quale fosse il vero Ovile, perché avevo letto nel Nuovo Testamento che ci
sarebbe stato "un solo Ovile ed un solo Pastore". Pregai spesso per essere condotta a quell`Ovile e
ricordo di averlo fatto specialmente in un´occasione quando, camminando sotto i grandi pini del mio
paese natio, guardai in special modo verso il cielo e dissi: "Caro Padre, che sei nei cieli, indicami dov´è
l´unico Ovile nel quale Tu ci vuoi tutti riuniti". Mi sembrò che una pace meravigliosa entrasse nella mia
anima e che una voce mi rispondesse: "O, figlia mia, un giorno te lo indicherò. Questa sicurezza mi
accompagnò in tutti gli anni che precedettero la mia entrata nella Chiesa".
Guidata da un dotto Gesuita studiò con passione la dottrina cattolica e, con meditata scelta, l´accettò,
facendosi battezzare sotto condizione il giorno dell´Assunzione della Beata Vergine Maria del 1902 negli
U.S.A. Descrivendo il tempo che precedette questo suo passo nella Chiesa cattolica scrive: "Passarono
alcuni mesi durante i quali la mia anima fu immersa in un´agonia che credetti mi avrebbe tolta la vita.
Ma la luce venne, e con essa la forza. Per tanto tempo avevo pregato: "O Dio, guidami Luce amabile!" ed
effettivamente mi fu concessa una luce benevola e con essa una pace profonda ed una ferma decisione di
fare immediatamente il passo decisivo ed entrare nell´unica vera Chiesa di Dio. Oh! bramavo di essere
esteriormente quella che ero da tanto tempo nell´interno del mio cuore e scrissi subito alla mia amica al
Convento della Visitazione a Washington: "Adesso vedo tutto chiaro, tutti i miei dubbi sono scomparsi,
devo divenire immediatamente figlia della vera Chiesa e tu dovrai farmi da madrina...Prega per me e
ringrazia Dio e la Beata Vergine".
Nella primavera del 1903 Maria Elisabetta si trovava a casa in Svezia e prima di partire per far ritorno in
America scrisse alla nonna i seguenti versi:
"Ti adoro, grande prodigio del cielo,
Che mi dai cibo spirituale in abito terreno!
Tu mi consoli nei miei momenti bui.
Quando ogni altra speranza per me spenta!.
Al Cuore di Gesù presso la balaustra dell´altare
Eternamente in amore sarò legata".
Nel 1904 si recò a Roma e, con uno speciale permesso del Papa S. Pio X, vestì l´abito brigidino nella casa
di Santa Brigida allora occupata dalle Carmelitane. Prima della partenza mandò a sua sorella Eva un
racconto della sua vita sotto forma di preghiera: "Nella mia infanzia Ti vidi nei profondi boschi del mio
paese e udii la Tua voce nel sussurro del piano e dell´abete. Ti vidi nella mia prima infanzia, quando il
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minerale si spezzava risonando dai monti del Norrland...Tu guidasti la mia vita sui grandi oceani...Ti vidi
nel mio nuovo paese: nell´abbandono e nella solitudine del cuore. Mi eri vicino. Eri il mio massimo bene!
Tu accendesti nel mio animo il desiderio del bene, il desiderio di alleviare la sofferenza, il dolore e la
miseria...Camminasti con me nei vicoli stretti e bui dove vivono i Tuoi più piccoli e più dimenticati...Ho
sognato il ritorno al mio paese natale, una "Casa della Pace" nella mia dolce patria, ma la Tua voce mi ha
chiamata all´eterna Roma - alla casa di S. Brigida...La lotta è stata grande e difficile, ma la Tua voce così
esortante. Signore, prendi da me questo calice, che non è mio senza la Tua volontà. Le Tue mani
trapassate hai teso verso di me per esortarmi a seguirTi sul sentiero della Croce fino alla fine della vita.
Ecce ancilla Domini. "Signore, fai di me ciò che vuoi. Mi basta la Tua Grazia".
Dietro ispirazione dello Spirito Santo ricostituì l´Ordine di Santa Brigida (1911), rispondendo alle istanze
e ai segni dei tempi, e rimanendo fedele alla tradizione brigidina per l´indole contemplativa e la
celebrazione solenne della liturgia. Il suo apostolato fu ispirato dal grande ideale "Ut omnes unum sint" e
questo la spinse a dare la sua vita a Dio per unire la Svezia a Roma.
Così scriveva il 4 agosto 1912 in mezzo alle grandi prove degli inizi della sua fondazione: "L´uragano del
nemico è grande ma la mia speranza rimane tanto più ferma che un giorno tutto andrà bene. Per la Croce
alla luce! Quello che si semina nelle lacrime si raccoglie nella gioia. E il nostro caro Signore ha detto:
"Dove due o tre sono riuniti nel Mio nome, io sono in mezzo a loro". Questo diciamo a Lui affinchè Egli
supplisca a quello che manca in noi e attorno a noi per il compimento della vocazione alla quale ci ha,
così indegne come siamo, chiamate.
Con molto coraggio e lungimiranza nel 1923 riportò le figlie di Santa Brigida in Svezia. Le sofferenze
fisiche l´accompagnarono per tutta la vita. La cronaca di questi anni riporta queste sue parole alle Figlie:
"Vedete, il dottore non comprende che io ho una ragione per soffrire e donare le mie pene; desidero, se il
Signore le accetta, offrire tutte le mie sofferenze e pene per questa attività e per la Svezia".
Nel 1936 a una sua Figlia in difficoltà faceva pervenire queste parole: "...La nostra vita è una vita di
sacrificio nel servizio di Dio. Il sacrificio è contro la nostra natura - le attrazioni del mondo con le sue
soddisfazioni ci attirano - ma come tu già sai, la nostra vita è una vita di sacrificio che ci dona non solo
quella pace interiore, ma quella gioia che possiamo trovare nel Signore. Ma per arrivare a questo atto, la
donazione di noi stesse a Dio deve essere completa ed incrollabile. Non solo una parte della mia attività!
Non solo una parte dei miei desideri! Non solo una parte del mio amore! No, Signore, anche un pensiero
che non è per la Tua gloria sia lontano da me, e i battiti del mio cuore siano espressioni del mio amore
per Te; così anche il mio desiderio sia di essere un sacrificio di me stessa, nel tuo servizio per la salvezza
degli uomini, come Tu vuoi, non come mi piace. Così pensa una sposa di Gesù...".
Tutta la sua vita era stata contraddistinta da una continua carità operosa. Durante la seconda guerra
mondiale diede rifugio a molti ebrei perseguitati e trasformò la sua casa in un luogo dove le sue figlie
potevano distribuire viveri e vestiario a quanti si trovavano in necessità. In una lettera a sua sorella Eva
aveva scritto: "...Quaggiù viviamo in condizioni assai difficili, ma la Provvidenza di Dio ci assiste in molti
modi meravigliosi. Abbiamo ancora la casa piena di profughi, in quest´anno di afflizione 1944".
Il 24 aprile 1957 dopo una lunga vita segnata dalla sofferenza e dalla malattia morì nella casa di Santa
Brigida a Roma, lasciando grande fama di santità tra le sue Figlie Spirituali, nel clero e tra la gente
povera e semplice, che la venerò Madre dei poveri e Maestra dello spirito. San Giovanni Paolo II l'ha
beatificata il 9 aprile 2000 e Papa Francesco il 14 dicembre 2015 ha riconosciuto un miracolo attribuito
alla sua intercessione, che apre così la strada alla sua canonizzazione.
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San Marco Evangelista
25 aprile
Discepolo degli Apostoli e martirio
Nel 44 quando Paolo e Barnaba, parente del giovane, ritornarono a Gerusalemme da Antiochia, dove
erano stati mandati dagli Apostoli, furono ospiti in quella casa; Marco il cui vero nome era Giovanni usato
per i suoi connazionali ebrei, mentre il nome Marco lo era per presentarsi nel mondo greco-romano,
ascoltava i racconti di Paolo e Barnaba sulla diffusione del Vangelo ad Antiochia e quando questi vollero
ritornarci, li accompagnò.
Fu con loro nel primo viaggio apostolico fino a Cipro, ma quando questi decisero di raggiungere Antiochia,
attraverso una regione inospitale e paludosa sulle montagna e del Tauro, Giovanni Marco rinunciò
spaventato dalle difficoltà e se ne tornò a Gerusalemme.
Cinque anni dopo, nel 49, Paolo e Barnaba ritornarono a Gerusalemme per difendere i Gentili convertiti,
ai quali i giudei cristiani volevano imporre la legge mosaica, per poter ricevere il battesimo.
Ancora ospitati dalla vedova Maria, rividero Marco, che desideroso di rifarsi della figuraccia, volle seguirli
di nuovo ad Antiochia; quando i due prepararono un nuovo viaggio apostolico, Paolo non fidandosi, non lo
volle con sé e scelse un altro discepolo, Sila e si recò in Asia Minore, mentre Barnaba si spostò a Cipro
con Marco.
In seguito il giovane deve aver conquistato la fiducia degli apostoli, perché nel 60, nella sua prima lettera
da Roma, Pietro salutando i cristiani dell’Asia Minore, invia anche i saluti di Marco; egli divenne anche
fedele collaboratore di Paolo e non esitò di seguirlo a Roma, dove nel 61 risulta che Paolo era prigioniero
in attesa di giudizio, l’apostolo parlò di lui, inviando i suoi saluti e quelli di “Marco, il nipote di Barnaba” ai
Colossesi; e a Timoteo chiese nella sua seconda lettera da Roma, di raggiungerlo portando con sé Marco
“perché mi sarà utile per il ministero”.
Forse Marco giunse in tempo per assistere al martirio di Paolo, ma certamente rimase nella capitale dei
Cesari, al servizio di Pietro, anch’egli presente a Roma. Durante gli anni trascorsi accanto al Principe degli
Apostoli, Marco trascrisse, secondo la tradizione, la narrazione evangelica di Pietro, senza elaborarla o
adattarla a uno schema personale, cosicché il suo Vangelo ha la scioltezza, la vivacità e anche la rudezza
di un racconto popolare.
Affermatosi solidamente la comunità cristiana di Roma, Pietro inviò in un primo momento il suo discepolo
e segretario, ad evangelizzare l’Italia settentrionale; ad Aquileia Marco convertì Ermagora, diventato poi
primo vescovo della città e dopo averlo lasciato, s’imbarcò e fu sorpreso da una tempesta, approdando
sulle isole Rialtine (primo nucleo della futura Venezia), dove si addormentò e sognò un angelo che lo
salutò: “Pax tibi Marce evangelista meus” e gli promise che in quelle isole avrebbe dormito in attesa
dell’ultimo giorno.
Secondo un’antichissima tradizione, Pietro lo mandò poi ad evangelizzare Alessandria d’Egitto, qui Marco
fondò la Chiesa locale diventandone il primo vescovo.
Nella zona di Alessandria subì il martirio: fu torturato, legato con funi e trascinato per le vie del villaggio
di Bucoli, luogo pieno di rocce e asperità; lacerato dalle pietre, il suo corpo era tutta una ferita
sanguinante.
Dopo una notte in carcere, dove venne confortato da un angelo, Marco fu trascinato di nuovo per le
strade, finché morì un 25 aprile verso l’anno 72, secondo gli “Atti di Marco” all’età di 57 anni; ebrei e
pagani volevano bruciarne il corpo, ma un violento uragano li fece disperdere, permettendo così ad alcuni
cristiani, di recuperare il corpo e seppellirlo a Bucoli in una grotta; da lì nel V secolo fu traslato nella zona
del Canopo.
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San Marcellino Papa
26 aprile
Nato a Roma, figlio di "Proietto". Nella liturgia cattolica fu sempre ricordato come una persona molto
devota, pia e casta. La figura di Marcellino fu ampiamente lodata da sant'Agostino, anche se
cronologicamente molto postuma (nda: questo però sta a significare una continua tramandazione degli
atti, delle tradizioni di culto e soprattutto della continuità sia di fede che del potere temporale intrinseco
al movimento cristiano.) Sempre secondo la tradizione, Marcellino fu incoronato "rex cristianorum" e
vescovo di Roma il 30 giugno 296. Gli inizi del suo pontificato furono gratificati dalla "pax" instaurata con
l'imperatore dal suo predecessore Caio Marcellino potè dedicarsi alla comunità nella sua interezza avendo
soprattutto cura delle famiglie più bisognose. Indirizzò l'ecumenismo ed il proselitismo cristiano verso
quegli approdi dettati dalla fede. Nel mentre la questione politica imperiale stava assumendo una
connotazione diversa dal punto di vista politico. Diocleziano materialmente impossibilitato a governare
l'impero per come era stato conquistato, Attraverso il senato fu stabilita una "tretarchia" per la quale, gli
aggravi di governo furono suddivisi in tre diverse funzioni di governo. Diocleziano a capo dell'impero
d'oriente, Galerio governatore di Roma e Massimiano governatore dell' impero nord occidentale. Fu il
tetrarca Galerio, anticristiano per antonomasia, ad iniziare la cosiddetta "nona persecuzione"
anticristiana, con la scusa dell'invadenza cristiana sulle terre imperiali. Dopo l'incontro a Nicomedia (nda:
cittadina situata nel mar di Marmara, nella ex provincia romana di Bitinia- odierna Izmit), Galerio riuscì a
convincere Diocleziano a ritornare al paganesimo e perseguire tutti i dissidenti. Il 23 febbraio 303 fu
incendiata la chiesa di Nicomedia. I cristiani, in risposta incendiarono il palazzo imperiale ed in
conseguenza il pugno di ferro. Le milizie romane distrussero quasi tutto. I beni confiscati e migliaia di
persone furono condannate a morte. Fu addirittura massacrata l'intera "legione tebea", formata
esclusivamente da cristiani (nda: si pensi che all'epoca non vi erano miliardi di individui, ma solo poche
centinaia di migliaia, nel mondo conosciuto). Marcellino fu decapitato per ordine dello stesso imperatore
Diocleziano, il 25 ottobre 304 e le sue spoglie deposte nel cimitero di Priscilla.
San Liberale
27 aprile
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Una leggenda, che secondo R. degli Azzoni Avogari, studioso trevigiano, sarebbe stata composta nel sec.
X, sfruttando anche elementi tolti da leggende d'altri santi, ed è conservata in un ms. della fine del sec.
XIV e in diversi compendi, dei quali alcuni anteriori al ms., racconta che Liberale, nato ad Altino da
famiglia appartenente all'ordo equester, fu educato nella fede cristiana da Eliodoro, primo vescovo della
città. Allo studio della dottrina cristiana, alle preghiere prolungate e alle dure mortificazioni della carne
egli univa l'assistenza ai poveri e agli ammalati e l'azione vigorosa per sostenere il coraggio dei credenti,
convertire i pagani e gli ariani e opporsi alle loro prepotenze. Ogni giorno, assisteva alla s. Messa e ogni
domenica si comunicava e, presso cibo solo in quel giorno, restava completamente digiuno il resto della
settimana. Crescendo l'opposizione dei pagani e degli ariani, Eliodoro affidò la sua sede al vescovo
Ambrogio e si ritirò nelle isole della laguna. Liberale, rimasto sulla breccia, dopo qualche fempo,
preoccupato dell'incapacità di Ambrogio a tener testa a pagani ed eretici, decise d'andare alla ricerca di
Eliodoro, ma volle prima chiedere lumi al Signore. Mentre pregava nella cattedrale s'addormentò e nel
sonno gli apparve il suo angelo custode in forma d'uomo dall'aspetto risplendente, che lo incoraggiò e gli
preannunciò vicina la morte. Liberale, visitate un'ultima volta le chiese della città e dei dintorni, andò a
Castrazone ove era una chiesa dedicata a s. Lorenzo. Non trovando modo di raggiungere l'isola ov'era
Eliodoro, si fermò là conducendo vita eremitica; ma colpito da grave malattia, poco dopo morí, il 27
aprile. Clero e popolo lo seppellirono in quella chiesa entro un'arca marmorea.
Attorno a queste linee essenziali e primitive della leggenda, delle quali però è pur difficile provare
l'attendibilità, s'incrostarono in seguito miracoli ed episodi tolti per lo piú da leggende analoghe. Secondo
R. degli Azzoni Avogari, il corpo di s. Liberale come quello dei martiri Teonisto, Tabra e Tabrata sarebbe
stato portato a Treviso dagli abitanti di Altino, quando, nel 452, sotto la minaccia degli Unni di Attila o piú
tardi sotto quella dei Longobardi, si rifugiarono numerosi in quella città, nella cui diocesi restarono
incorporati definitivamente anche Altino e il suo territorio.
Invece, la sede vescovile nel 639, se non anche piú tardi, passò a Torcello, dove il doge Andrea Dandolo
(m. 1354) e poco dopo il domenicano Pietro Calò affermarono essere stati portati anche i corpi di
Liberale, Teonisto, Tabra e Tabrata, per essere collocati in quella cattedrale. Però la presenza e il culto a
Treviso di quei corpi santi sono attestati, a cominciare dal 1082, da un crescendo di testimonianze
monumentali ed archivistiche man mano che ci si avvicina alla fondazione, nel 1360 o nel 1365 della
Confraternita di S. Liberale da parte del b. Enrico di Treviso.
Fin dal sorgere del libero comune nel sec. XII Liberale, cavaliere di Altino, era stato proclamato patrono di
Treviso, pur restando gli apostoli Pietro e Paolo titolari della cattedrale. E patrono di Castelfranco Veneto
lo vollero fin da principio i cittadini mandati da Treviso nel 1199 a fondare quel castello. La sua tomba a
Treviso è nella cripta della cattedrale e la sua festa è al 27 aprile. La piú antica iconografia lo rappresenta
vestito d'una lunga sottana simile al camice liturgico e d'una sopravveste più corta simile al colobion o
alla tunicella o alla dalmatica. Invece nella figurina, scolpita intorno al sepolcro del b. Enrico di Treviso, è
rivestito della clamide dei soldati. Giorgione nella celebre tela del duomo di Castelfranco lo rappresenta
addirittura rivestito di corazza con in mano la bandiera sella città.
Santa Valeria
28 aprile
Santi VITALE, VALERIA e URSICINO
Vitale e Valeria, genitori dei santi Gervasio e Protasio, anch’essi martiri, sono celebrati insieme il 28
aprile. In particolare s. Vitale ha avuto, una raffigurazione nell’arte molto vasta, a lui sono dedicate la
basilica di S. Vitale in Ravenna, con i suoi magnifici mosaici, la chiesa omonima a Venezia, dove è
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raffigurato vestito da soldato a cavallo che solleva uno stendardo, con lancia, spada e mazza, strumento
del martirio della sua sposa Valeria. Ancora a lui è dedicata la chiesa di S. Vitale a Roma, con gli affreschi
narranti il suo martirio. Le prime notizie che si hanno di Vitale e Valeria provengono da un opuscolo
scritto da Filippo, che si nomina ‘servus Christi’ e a cui sono intitolati i più antichi nuclei di vita cristiana a
Milano, come l’hortus Philippi e la domus Philippi; detto opuscolo fu rinvenuto accanto al capo dei corpi
dei martiri Gervasio e Protasio, ritrovati da s. Ambrogio nel 396. L’opuscolo oltre a narrare il martirio dei
due fratelli, descrive anche quello dei due genitori Vitale e Valeria e del medico ligure, forse operante a
Ravenna Ursicino, vissuti e morti nel III secolo; Vitale è un ufficiale che ha accompagnato il giudice
Paolino da Milano a Ravenna. Scoppiata la persecuzione contro i cristiani, accompagna, incoraggiandolo
Ursicino condannato a morte, il quale durante il tragitto verso il luogo dell’esecuzione, era rimasto
turbato dall’orrore di trovarsi davanti alla morte violenta. Ursicino viene decapitato e decorosamente
sepolto dallo stesso Vitale, dentro la città di Ravenna. Lo stesso Vitale viene arrestato e dopo aver subito
varie torture per farlo apostatare dal cristianesimo, il giudice Paolino ordina che venga gettato in una
fossa profonda e ricoperto di sassi e terra; così anch’egli diventa un martire di Ravenna e il suo sepolcro
nei pressi della città, diviene fonte di grazie. La moglie Valeria avrebbe voluto riprendersi il corpo del
marito, ma i cristiani di Ravenna glielo impediscono, allora cerca di ritornare a Milano, ma durante il
viaggio incontra una banda di villani idolatri, che la invitano a sacrificare con loro al dio Silvano; essa
rifiuta e per questo viene percossa così violentemente, che portata a Milano, muore tre giorni dopo. I
giovani figli Gervasio e Protasio, vendono tutti i loro beni, dandoli ai poveri e si dedicano alle sacre
letture, alla preghiera e dieci anni dopo vengono anch’essi martirizzati; il già citato Filippo ne cura la
sepoltura. Molti studiosi ritengono che la narrazione sia in parte fantasiosa, riconoscendo nei personaggi
citati, altre figure di martiri omonimi venerati sia a Milano che a Ravenna; l’antica chiesa di S. Valeria a
Milano, distrutta nel 1786, per gli studiosi non era che la ‘cella memoriæ’ della primitiva area cimiteriale
milanese, intitolata appunto alla gens Valeria. In ogni modo il racconto leggendario o veritiero è
documentato da celebri monumenti anche di notevole antichità. La basilica ravennate consacrata il 17
maggio 548, è dedicata oltre che a S. Vitale anche ai suoi figli Gervasio e Protasio, le cui immagini sono
poste sotto la lista degli apostoli, mentre un altare laterale è dedicato a s. Ursicino. Nei mosaici di S.
Apollinare Nuovo poi sono rappresentati tutti i cinque personaggi; dall’11° al 14° posto della fila dei santi
vi sono i quattro uomini e al nono posto della fila delle sante c’è Valeria. Numerosi documenti e
Martirologi li nominano durante i secoli, specie s. Vitale e s. Ursicino martiri a Ravenna. A Milano sorsero
le tre chiese che data la loro vicinanza, confermarono la stretta parentela dei martiri, come era uso
costruire allora, la chiesa di S. Vitale, la chiesa di S. Valeria (poi distrutta) e S. Ambrogio dove riposano i
due fratelli gemelli Gervasio e Protasio.
Santa Caterina da Siena Vergine e dottore della Chiesa, patrona d'Italia
29 aprile
Quando si pensa a santa Caterina da Siena vengono in mente tre aspetti di questa mistica nella quale
sono stati stravolti i piani naturali: la sua totale appartenenza a Cristo, la sapienza infusa, il suo coraggio.
I due simboli che caratterizzano l’iconografia cateriniana sono il libro e il giglio, che rappresentano
rispettivamente la dottrina e la purezza. L’insistenza dell’iconografia antica sui simboli dottrinali e
soprattutto il capolavoro de Il Dialogo della Divina Provvidenza (ovvero Libro della Divina Dottrina),
l’eccezionale Epistolario e la raccolta delle Preghiere sono stati decisivi per la proclamazione a Dottore
della Chiesa di santa Caterina, avvenuta il 4 ottobre 1970 per volere di Paolo VI (1897-1978), sette giorni
dopo quella di santa Teresa d’ Avila (1515–1582).
Caterina (dal greco: donna pura) vive in un momento storico e in una terra, la Toscana, di intraprendente
ricchezza spirituale e culturale, la cui scena artistica e letteraria era stata riempita da figure come Giotto
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(1267–1337) e Dante (1265–1321), ma, contemporaneamente, dilaniata da tensioni e lotte fratricide di
carattere politico, dove occupavano spazio preponderante le discordie fra guelfi e ghibellini.
La vita
Nasce a Siena nel rione di Fontebranda (oggi Nobile Contrada dell'Oca) il 25 marzo 1347: è la
ventiquattresima figlia delle venticinque creature che Jacopo Benincasa, tintore, e Lapa di Puccio de’
Piacenti hanno messo al mondo. Giovanna è la sorella gemella, ma morirà neonata. La famiglia
Benincasa, un patronimico, non ancora un cognome, appartiene alla piccola borghesia. Ha solo sei anni
quando le appare Gesù vestito maestosamente, da Sommo Pontefice, con tre corone sul capo ed un
manto rosso, accanto al quale stanno san Pietro, san Giovanni e san Paolo. Il Papa si trovava, a quel
tempo, ad Avignone e la cristianità era minacciata dai movimenti ereticali.
Già a sette anni fece voto di verginità. Preghiere, penitenze e digiuni costellano ormai le sue giornate,
dove non c’è più spazio per il gioco. Della precocissima vocazione parla il suo primo biografo, il beato
Raimondo da Capua (1330-1399), nella Legeda Maior, confessore di santa Caterina e che divenne
superiore generale dell’ordine domenicano; in queste pagine troviamo come la mistica senese abbia
intrapreso, fin da bambina, la via della perfezione cristiana: riduce cibo e sonno; abolisce la carne; si
nutre di erbe crude, di qualche frutto; utilizza il cilicio...
Proprio ai Domenicani la giovanissima Caterina, che aspirava a conquistare anime a Cristo, si rivolse per
rispondere alla impellente chiamata. Ma prima di realizzare la sua aspirazione fu necessario combattere
contro le forti reticenze dei genitori che la volevano coniugare. Aveva solo 12 anni, eppure reagì con
forza: si tagliò i capelli, si coprì il capo con un velo e si serrò in casa. Risolutivo fu poi ciò che un giorno il
padre vide: sorprese una colomba aleggiare sulla figlia in preghiera. Nel 1363 vestì l’abito delle
«mantellate» (dal mantello nero sull'abito bianco dei Domenicani); una scelta anomala quella del
terz’ordine laicale, al quale aderivano soprattutto donne mature o vedove, che continuavano a vivere nel
mondo, ma con l’emissione dei voti di obbedienza, povertà e castità.
Caterina si avvicinò alle letture sacre pur essendo analfabeta: ricevette dal Signore il dono di saper
leggere e imparò anche a scrivere, ma usò comunque e spesso il metodo della dettatura.
Al termine del Carnevale del 1367 si compiono le mistiche nozze: da Gesù riceve un anello adorno di
rubini. Fra Cristo, il bene amato sopra ogni altro bene, e Caterina viene a stabilirsi un rapporto di intimità
particolarissimo e di intensa comunione, tanto da arrivare ad uno scambio fisico di cuore. Cristo, ormai e
in tutti i sensi, vive in lei (Gal 2,20).
Ha inizio l’intensa attività caritatevole a vantaggio dei poveri, degli ammalati, dei carcerati e intanto
soffre indicibilmente per il mondo, che è in balia della disgregazione e del peccato; l’Europa è pervasa
dalle pestilenze, dalle carestie, dalle guerre: «la Francia preda della guerra civile; l’Italia corsa dalle
compagnie di ventura e dilaniata dalle lotte intestine; il regno di Napoli travolto dall’incostanza e dalla
lussuria della regina Giovanna; Gerusalemme in mano agli infedeli, e i turchi che avanzano in Anatolia
mentre i cristiani si facevano guerra tra loro» (F. Cardini, I santi nella storia, San Paolo, Cinisello Balsamo
-MI-, 2006, Vol. IV, p. 120). Fame, malattia, corruzione, sofferenze, sopraffazioni, ingiustizie…
San Mariano Venerato ad Acerenza
30 aprile
San Mariano, giovane diacono della Chiesa Acheruntina al tempo del santo vescovo Marcello, amico di
Laviero di cui imitò il coraggio della predicazione del Vangelo, subì il martirio nell'anno 303, sotto la
terribile persecuzione dell'imperatore Diocleziano.
La seconda cappella del deambulatorio della Cattedrale di Acerenza, titolata a Santa Maria Assunta e a
San Canio patrono della città, è dedicata a San Mariano, martire acheruntino e patrono minore, assieme a
San Laviero.Sotto l'altare si conservano le sue reliquie, ricognite dall'arcivescovo Francesco Zunica nel
1782, e di lui portano il sigillo. Nella nicchia sopra l'altare si trova la statua lignea di San Mariano,
fattaeseguire dall'arcivescovo Giovanni Spilla nel 1613, dopo il ritrovamento delle reliquie, avvenuto il 7
giugno di quell'anno.
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Dopo la ricognizione delle ossa di San Mariano avvenuta il 13 maggio 1613,il 7 giugno dello stesso anno
l'arcivescovo Giovanni Spilla emana un Decreto col quale dispone che le reliquie di San Mariano "siano
venerate e ciascuno possa riverirle ed onorarle in quanto appartenenti al gloriosissimo martire e come
tale considerato dalla Chiesa da circa 1000 anni, come risulta da antichi documenti dell'Archivio...".
San Mariano, giovane diacono della Chiesa Acheruntina al tempo del santo vescovo Marcello, amico di
Laviero di cui imitò il coraggio della predicazione del Vangelo, subì il martirio a Grumentum (l'odierna
Grumento Nova in provincia di Potenza) dove venne decapitato nell'anno 303, sotto la terribile
persecuzione dell'imperatore Diocleziano.
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