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4 AGOSTO 2016 - MIGRAZIONI, I TEMI "CALDI" E TUTTORA IRRISOLTI. IL PUNTO DELLA SITUAZIONE Durante l’incontro di Pozzallo del giugno scorso sono emersi numerosi problemi irrisolti a livello nazionale ed europeo. Gli Stati si stanno muovendo in questi ultimi mesi con fatica e alcune decisioni non stanno portando gli effetti sperati. Inoltre, le migrazioni sono in aumento e gli spostamenti “si adattano” proprio in base alle misure restrittive, ai “muri” e ai divieti che hanno valore solo sulla carta. Lo sappiamo bene a Como dove – da alcune settimane – viviamo una crisi provocata dalla presenza di centinaia di migranti diretti in Germania, attraverso la Svizzera, che restano bloccati al confine. Una “rotta” che è cresciuta a seguito degli aumenti dei controlli al Brennero e Ventimiglia. Una situazione che dimostra il fallimento delle azioni messe in atto fino ad oggi dall’Unione europea nel tentativo di arrivare ad una gestione realmente europea dei flussi migratori. Ecco perché, in questa scheda, sono posti in evidenza i temi caldi di una situazione ben lungi dall’essere risolta. Anzi. Ma andiamo con ordine. Relocation Nell’ambito di una serie di piani discussi all’interno del Consiglio europeo nel corso del 2015 si è deciso di alleggerire la pressione migratoria su Italia e Grecia - Paesi di primo arrivo e quindi depositari, secondo gli accordi di Dublino, dell’onere dell’identificazione e della presa in carico delle pratiche per il riconoscimento della protezione internazionale - tramite il “ricollocamento” di alcuni dei migranti arrivati verso Paesi terzi del sistema “Dublino” ovvero i Paesi Ue più la Svizzera. Il programma prevede il trasferimento di 160 mila persone entro settembre 2017, ma la gestione è stata ad ora fallimentare: al 14 giugno 2016 sono stati ricollocati 2280 persone (777 dall’Italia e 1503 dalla Grecia). Le criticità evidenti in questo sistema, oltre alla scarsa collaborazione dei singoli Paesi, sono principalmente due: spesso le mete proposte non sono quelle ambite dai migranti e non coincidono con il loro progetto migratori. In secondo luogo il piano di relocation si applica solo a quelle nazionalità che hanno un tasso di approvazione delle domande di protezione umanitaria superiore al 75%. Questo restringe di molto il campo dei possibili beneficiari dell’accordo ad oggi applicato principalmente a siriani, iracheni e eritrei. A questo proposito all’evento di Pozzallo è stato evidenziato che, tra i punti dell’Agenda europea sulla migrazione del 2015, il meno implementato è stato proprio quello della relocation, ossia l’aspetto fondato sulla solidarietà tra Stati. Resettlements Anche sul fronte dei “reinsediamenti” ovvero il trasferimento di persone che necessitano protezione umanitaria da un Paese terzo ad un Paese dell’Unione europea, regna la lentezza. Dei 22 mila trasferimenti previsti da un piano della Commissione europea approvato nel luglio 2015 ne sono stati realizzati 7272 (dato al 14 giugno 2016). Approccio disomogeneo Da cosa dipende questa difficoltà nell’attuare le decisione prese? Oggi la situazione a livello europeo è caratterizzata da una forte disomogeneità di approccio al problema. In alcuni Paesi si erigono muri. Ma è evidente che ciò rappresenta una “soluzione tampone”. Purtroppo le frizioni a livello europeo sono ancora molte. Fermare i migranti “fuori” dall’Europa Ne consegue il tentativo di “esternalizzare” le frontiere che sta diventando sempre più un punto centrale nell’Agenda europea delle migrazioni. Un linea che l’Unione europea ha dimostrato con l’approvazione dell’intesa con la Turchia del marzo scorso e con la nuova proposta dei “compacts” da siglare con gli stati africani (vedi scheda). L’idea di fondo è quella di trasferire su Paesi terzi il compito di “difendere” le frontiere europee. Si tratta, però, spesso di Paesi che vivono una situazione di grande povertà, instabilità politica e mancanza tutela dei diritti umani. Dare a loro fondi per accollarsi il problema non è una soluzione. La vera alternativa potrebbe essere quella di aprire “corridoi umanitari” e governare il fenomeno a livello europeo. Situazione in Italia La situazione in Italia è in continua evoluzione. Nei mesi scorsi si prevedeva un grosso incremento degli arrivi, ma così non è stato, almeno per ora. Gli arrivi in Italia – seppur consistenti – sono in linea con quelli dello scorso anno: al 31 luglio erano arrivati in Italia 93611 persone (nel 2015 erano stati 93540, a fine anno furono 153 mila). Per quanto riguarda le nazionalità a guidare la classifica sono Nigeria (17%), Eritrea (13%), Gambia (8%), Costa d’Avorio (7%), Sudan (7%), Guinea (7%), Somalia (6%). Notevole, invece, l’incremento nel numero dei MSNA (minori stranieri non accompagnati): + 170% rispetto al 2015. L’aumento di numero va di pari passo con la diminuzione dell’età media di questi minori stranieri, con l’arrivo sempre più frequente di bambini non accompagnati nella fascia di età tra gli 11 e i 14 anni, giovani che necessiterebbero di un rafforzamento delle misure di tutela. legale. Posti di accoglienza In Italia sono attivi circa 110.000 posti di accoglienza. Attualmente occupati 111.081 secondo il Ministero; circa 118.000 secondo Unhcr (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati). Le Diocesi accolgono circa 23.000 persone, con prevalenza di Lombardia, Triveneto, Piemonte e Sicilia. Nella Diocesi di Como, il dato relativo alle persone seguite dalla Cooperativa Symploké è il seguente: a Como circa 150 persone; circa 100 nelle Valli Varesine; circa 50 in Valtellina. Presentazione del portale Caritas in-migration A Pozzallo è stato presentato il portale di Caritas Italiana per produrre, organizzare, divulgare conoscenza sul fenomeno delle migrazioni. Due le principali finalità del progetto: diventare il punto di riferimento per la conoscenza del fenomeno delle migrazioni; essere strumento di supporto in tale ambito per tutte le Caritas diocesane. Verso una nuova politica europea verso l’Africa? Il 7 giugno 2016 la Commissione europea ha presentato a Strasburgo il nuovo schema di accordi bilaterali (i cosiddetti compacts) che verranno sottoscritti con sette Paesi di Africa (Nigeria, Mali, Niger, Senegal ed Etiopia) e Medio Oriente (Giordania e Libano) nel tentativo di coinvolgerli nella gestione dei flussi migratori. Ecco alcuni nodi critici del testo: Punto 1: Questo accordo è stato associato a quello siglato nel marzo scorso tra l’Unione europea e la Turchia. Diciamo che ci sono similitudini nella logica di fondo – coinvolgere un Paese terzo nel controllo dei flussi migratori -, ma anche differenze: l’accordo con la Turchia (oltre a prevedere molti più soldi, 6 miliardi per un solo Paese) è anche più articolato politicamente prevedendo uno schema “automatico” per i rimpatri verso la Turchia e per i reinsediamenti (“resettlements”) dalla Turchia verso l’Europa dei cittadini siriani. Ma non solo, l’accordo prevede un’apertura da parte europea sui visti dei cittadini turchi e un’accelerazione (probabilmente solo momentanea) delle procedure di adesione. Tutte cose non previste nel caso dei Paesi africani. Punto 2: L’EU Emergency Trust Fund for Africa, il fondo fiduciario per l’Africa lanciato al Summit de La Valletta, nel novembre 2015, diventa sempre più centrale nella gestione degli aiuti verso l’Africa. Sarà questo il serbatoio da cui si attingerà per finanziare i nuovi progetti (tutti consultabili dal sito). Al capitale già in dotazione – 1,88 miliardi di euro (di cui 1,8 sono fondi europei) – la Commissione ha deciso di aggiungere un ulteriore contributo da 500 milioni di euro, chiedendo ai 28 stati membri di raddoppiarli, portando così ad un miliardo l’incremento complessivo. Il problema è che gli Stati membri non sembrano molto collaborativi: a La Valletta si era preventivato un loro contributo da 1,8 miliardi (così da raddoppiare i fondi della Commissione) ma di questa prima tranche hanno versato solo 88 milioni (ottantotto!) ed è difficile immaginare che aggiungano questi 500. E, per la serie nulla si crea ma tutto si trasforma, se la Commissione continuerà a dirottare risorse verso il fondo fiduciario vorrà dire che da qualche parte ci saranno risorse in meno (fondi per la cooperazione, aiuti ecc.). Resta di positivo la volontà di ridurre la frammentarietà degli strumenti finanziari che fanno capo all’Ue, così come la volontà di stimolare gli investimenti in Africa: molto dipenderà dalla loro ripartizione tra progetti di sviluppo (con la creazione di posti di lavoro) da una parte e il rafforzamento dei controlli dall’altra. Punto 3: Questi nuovi “compacts” introducono la logica della “condizionalità negativa” nella gestione dei contributi. Tradotto in parole semplici: se fai quello che dico io ti do i soldi, altrimenti taglio i contributi. Una logica che rischia di tramutarsi in una forma di “ricatto” nei confronti dei governi africani. A fronte di generosi aiuti economici l’Europa chiede l’accettazione dei rimpatri, la lotta ai trafficanti e maggiori controlli, arrivando ad auspicare l’introduzione (già in Africa) di controlli biometrici e foto-segnalazioni; quello che oggi viene fatto negli hotspot di Italia e Grecia. Qualcuno da tempo parla di “esternalizzazione delle frontiere”, concetto che non mi piace, ma rende l’idea. Una sperimentazione in questo senso potrebbe partire a breve in Niger attraverso la missione Eucap Sahel Niger, già attiva a Niamey ed Agadez. Punto 4: La Commissione nella bozza di proposta parla di “partnership”, ma lo squilibrio all’interno di questi nuovi “compacts” appare evidente. L’Europa sembra aver messo da parte – forse solo momentaneamente – quel sistema di negoziati e accordi multilaterali nati negli ultimi anni per avviare un dialogo con i Paesi africani, anche in materia di migrazioni: penso ai processi di Rabat e Karthoum, così come ai Summit di La Valletta o al dialogo costante con l’Unione africana. Spinta dalla necessità di agire in fretta e per evitare il coinvolgimento di personaggi scomodi (come i “chiacchierati” presidenti di Eritrea, Gambia e Sudan), l’Unione ha deciso di fare da sola, imponendo di fatto la sua soluzione alla controparte. E lo chiamano “dialogo”. Punto 5: Il nodo di fondo resta la volontà degli stati membri. Qualsiasi iniziativa della Commissione – compreso l’annunciato piano di investimenti per l’Africa da 31 miliardi entro il 2020 (sarà discusso in autunno dal Consiglio europeo) – potrà avere efficacia solo se i governi parteciperanno con più entusiamo, ma guardando agli scarsi finanziamenti per il fondo fiduciario e, soprattutto, al fallimento dei sistema di “ricollocamenti” interno alla stessa unione (1500 persone ricollocate da Grecia e Italia a metà maggio 2016 a fronte dei 20 mila previsti – con l’ìdea di arrivare a 160 mila entro settembre 2017), le speranze sono decisamente scarse. A cura di Alessio Cazzaniga e Michele Luppi