CORTE COSTITUZIONALE - Processo Penale e Giustizia

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CORTE COSTITUZIONALE - Processo Penale e Giustizia
Processo penale e giustizia n. 5 | 2016
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CORTE COSTITUZIONALE
di Wanda Nocerino
LE OPERAZIONI DI ASPORTO E RACCOLTA DI MATERIALE GENETICO: ACCERTAMENTI TECNICI IRRIPETIBILI
O ISPEZIONE?
(C. cost., ord. 26 maggio 2016, n. 118)
La Corte d’assise d’appello di Roma, investita del giudizio di rinvio conseguente alla sentenza della
Corte di Cassazione del 4 novembre 2014 di annullamento della Prima Corte d‘assise di appello di Roma del 21 maggio 2013 ha sollevato, con ordinanza del 25 giugno 2015, questione di legittimità costituzionale dell’art. 360 c.p.p., nella parte in cui «non prevede che le garanzie difensive approntate da detta
norma riguardano le attività di individuazione e prelievo dei reperti utili per la ricerca del DNA», con
presunta violazione degli artt. 24 e 111 della Costituzione.
Nella sentenza di annullamento la Corte Suprema aveva ritenuto utilizzabili i risultati degli accertamenti tecnici «disposti dalla Procura per individuare tracce del DNA sui prelievi che i CC avevano
effettuato, previa ispezione disposta dalla Procura stessa» sulla scena criminis: superando quanto sostenuto nella prima sentenza di appello, tale attività, a parere dei giudici di legittimità, non costituirebbe
un accertamento tecnico irripetibile (art. 360 c.p.p.), ma un atto di indagine rimesso alla p.g. e come tale
sarebbe stata superflua la presenza del difensore.
Riprendendo un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato (ex multis, Cass., sez. I, 23 giugno 2005, n. 32925; Cass., sez. I, 23 ottobre 2008, n. 43002; Cass., sez. II, 10 gennaio 2012, n. 2087), la Corte di Cassazione ha dunque distinto, in relazione all’acquisizione della prova sul DNA, tra l’attività di
«rilievo» del reperto biologico e quella, successiva, di vero e proprio «accertamento» sul reperto, al fine
di stabilire che soltanto per quest’ultima attività si pone un problema di utilizzabilità probatoria e, correlativamente, di osservanza delle garanzie difensive: l’attività di repertamento, non determinando alcuna incidenza sulla sfera di libertà dell’indagato, rientra tra le c.d. “attività materiali” attraverso cui la
p.g. si limita a conservare una potenziale fonte di prova, in modo da non disperderla e assicurarne la
disponibilità nelle successive attività processuali di formazione della prova nel contraddittorio tra le
parti. In tale ottica, quindi, l’esigenza di garantire la partecipazione della persona sottoposta alle indagini e della persona offesa si porrebbe solo in un momento successivo, allorquando, cioè, il reperto deve
essere “trattato” allo scopo di ricercare ed estrarre profili biologici in esso eventualmente presenti. Come noto, la questione relativa alla distinzione tra «rilievi» e «accertamenti» risulta assai controversa:
pur trattandosi di istituti diversi, dotati di propria autonomia concettuale e giuridica, il codice di rito
tende a trattarli indistintamente, senza offrirne definizione alcuna. E’ stata la giurisprudenza a creare
un confine tra i rispettivi ambiti di operatività degli stessi, precisando che mentre i rilievi hanno lo scopo di acquisire i dati della realtà in via immediata e con elaborazione critica elementare, vale a dire materiale probatorio grezzo destinato ad essere rielaborato in sede di indagini peritali, gli accertamenti
tecnici sono attività in cui l’esperto riversa un apporto critico valutativo: da sempre, si è assegnata la titolarità del rilievo alla p.g. e quella dell’accertamento all’esperto del giudice o del p.m., in funzione della materialità delle operazioni del primo e della scientificità del secondo. Tuttavia, la realtà sta assottigliando progressivamente la linea di demarcazione tra i due istituti, con evidenti ricadute sull’applicazione delle norme e sulle relative garanzie. Ciò per almeno due ordini di fattori: in primis, perché le
operazioni considerate un tempo eminentemente tecniche, nel senso empirico del termine, sono compenetrate nel sapere scientifico; in secundis, perché le attività di ricerca nel corso del sopralluogo giudiziario, un tempo riservato ai soli rilievi, ricorrono anche a risorse scientifiche, postulando l’esigenza di
garantire già nella fase di repertamento, il contraddittorio quale corollario del diritto di difesa.
Condividendo le eccezioni della difesa e con un netto cambio di rotta rispetto all’orientamento dei
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giudici di legittimità, la Corte d’assise d’appello, seguendo un orientamento giurisprudenziale minoritario che configura come «accertamenti tecnici irripetibili» (Cass., sez. II, 24 settembre 2009, CED Cass.,
242094), l’attività di prelievo di tracce biologiche su un oggetto rinvenuto nel locus commissi delicti, ha rilevato che l’attività di individuazione e prelievo dei reperti utili ai fini della ricerca del DNA non sia omologabile alle altre attività di repertamento: la raccolta e la asportazione di tracce non può essere configurata come mera attività esecutiva, e quindi come «rilievo», ma, stante la specificità dell’attività, rientrerebbe
nel genus degli «accertamenti», in quanto gli esperti chiamati ad operare sulla scena sono tenuti all’osservanza di precisi protocolli operativi; la presenza del difensore, che vigilerebbe sul rispetto di tali pratiche,
sarebbe presidio utile per ridurre il rischio di alterazioni e contaminazioni. Il procedimento di acquisizione e repertazione del materiale biologico si compone di fasi distinte, correlate sequenzialmente, che devono essere seguite secondo specifiche linee operative, dettate da rigidi protocolli, che ne garantiscono
omogeneità e completezza: l’intervento della polizia scientifica sulla scena del crimine rappresenta, in sostanza, il momento più delicato delle indagini, il cui buon esito dipende, sempre più spesso, dall’accuratezza con cui le tracce reperite sul luogo del reato sono state rilevate, conservate, trasmesse. Una scena del
delitto “integra” è in grado di riflettere le caratteristiche principali del colpevole, la sua firma: ogni errore
in questa fase potrebbe compromettere il buon esito delle indagini, così nel caso di inosservanza di applicazioni operative o di intempestività nell’adottare alcuni accorgimenti tecnici. Anche se, secondo giurisprudenza costante (ex multis, Cass., sez. IV, 16 dicembre 2009, n. 2388), la violazione del protocollo non
rende la prova inutilizzabile ex art. 191 c.p.p., il rispetto delle procedure standardizzate è un importante
parametro di giudizio, tenuto in debita considerazione dai giudici di merito (Cass., sez. IV, 17 settembre
2010, n. 43786, secondo cui «[…] il giudice è tenuto a dar conto delle ragioni che lo hanno indotto a ritenere valida la teoria scientifica presentata […]»).
Nel caso in esame, tuttavia, la distinzione tra le due attività, con conseguente determinazione delle
garanzie difensive da rispettare, risulterebbe superflua. La Corte costituzionale, infatti, con ordinanza
26 maggio 2016, n. 118, ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione sollevata, ritenendo
che l’attività di raccolta e asportazione di tracce genetiche, indipendentemente dalla qualificazione datagli, fosse avvenuta nell’ambito di un’attività ispettiva “a sorpresa”: per le caratteristiche dell’ispezione e del contestuale prelievo, a parere della Consulta, «non è necessario l’avviso al difensore, perciò il
giudice rimettente avrebbe dovuto chiarire quale garanzia difensiva nella specie sarebbe mancata» (secondo un orientamento già indicato dai giudici di legittimità. Così Cass., sez. un., 23 febbraio 2000, n.
7). Come noto, l’ispezione, pur essendo atto garantito, che, quindi, non solo prevede il diritto del difensore ad essere presente al momento del compimento delle operazione (art. 364, commi 1 e 2, c.p.p.), ma
impone l’obbligo di preavviso allo stesso (art. 364, comma 3, c.p.p.), può configurarsi quale atto “a sorpresa”, ai sensi dell’art. 364, comma 5, c.p.p.: tale avviso potrà, dunque, essere omesso se «vi è fondato
motivo di ritenere che tracce o gli altri elementi materiali del reato possano essere alterati», importando
un’inevitabile compressione del diritto di difesa e, più in generale, del contraddittorio, bilanciato dalla
necessità dell’accertamento dei fatti e del buon andamento delle indagini.
***
ESIGENZE DI DIFESA SOCIALE VS. GARANZIE DELLA PERSONA: L’INAPPLICABILITÀ DELL’ISTITUTO DELLA
SOSPENSIONE DEL PROCEDIMENTO ESECUTIVO A FAVORE DELL’IMPUTATO IRREPERIBILE
(C. cost., sent. 16 giugno 2016, n. 140)
La Corte costituzionale si pronuncia sul “nuovo” e delicato tema dell’assenza dell’imputato nel processo a suo carico, ritenendo inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9 della legge
28 aprile 2016, n. 67 («Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema
sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli
irreperibili») sollevata dal Tribunale ordinario della Spezia in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117, comma 1 della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 Cedu, nella parte in cui la norma «non prevede che la disciplina ivi recata si applichi anche alla costituzione delle parti in sede di incidente di esecuzione ex art. 666 c.p.p.; ciò, quanto meno, laddove nei confronti del soggetto interessato a esercitare i
propri diritti di difesa venga sollecitata al giudice una statuizione per lui pregiudizievole».
Invero, con la novella del 2014, il Legislatore ha cercato di adeguare il sistema processuale interno agli
indirizzi segnati dai ripetuti e incisivi interventi della Corte e.d.u. sul principio convenzionale dell’efSCENARI | CORTE COSTITUZIONALE
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fettiva e piena conoscenza da parte dell’imputato del processo a suo carico, in termini di diritto alla completa informazione circa l’accusa contestata e di facoltà di difendersi in ordine alla stessa (secondo la Corte, infatti, prima dell’entrata in vigore della legge, nel nostro ordinamento veniva assicurata la conoscibilità ma non anche la conoscenza effettiva dell’atto da notificare. Tra i più significativi interventi: Cedu, Colozza c. Italia, sentenza del 12 febbraio 1985; Zunic c. Italia, sentenza del 21 dicembre 2006): se è vero che il
diritto dell’imputato alla presenza nel proprio processo di merito è implicitamente riconosciuto dall’art. 6
Cedu, è innegabile che la sua mancata partecipazione possa essere giustificata come rinuncia consapevole.
La ratio della legge risulta, quindi, quella di rafforzare le garanzie partecipative e difensive dell’imputato,
il cui rispetto non era assicurato dagli istituti previsi dal codice di rito della rinnovazione dell’istruzione
dibattimentale in appello (art. 603, comma 4, c.p.p.) e della restituzione nel termine per impugnare (art.
175, comma 2, c.p.p.), così come riformulato dal d.l. 21 febbraio 2005, n. 17, convertito dalla l. 22 aprile
2005, n. 60 (Sejdovic c. Italia, sentenza 1 marzo 2006), che consentiva al contumace inconsapevole il diritto
alla restituzione del termine per impugnare la decisione conclusiva del giudizio.
Risulta, in sostanza, “tramontato” l’istituto della contumacia che viene, di fatto, sdoppiato nei nuovi
istituti della sospensione del processo per irreperibilità e dell’assenza “consapevole”: da un lato, se si è
in presenza di un irreperibile (art. 159 c.p.p.), il processo dovrà essere sospeso; dall’altro, se vi è stata
consegna dell’avviso o della citazione a mani proprie o vi è un altro fatto sintomatico della conoscenza
del procedimento (art. 420 bis c.p.p.), il rito prosegue contro l’imputato dichiarato assente, del quale si
presume la rinuncia volontaria a comparire.
Nel caso di specie, il «condannato in contumacia» era stato dichiarato irreperibile con decreto emesso ex art. 159 c.p.p. a seguito dell’infruttuosità delle ricerche disposte per la notifica dell’avviso di fissazione del giudizio di esecuzione, ex art. 666 c.p.p., promosso su iniziativa del p.m. che aveva richiesto,
ai sensi dell’art. 168, comma 1, n. 2, c.p., la revoca del beneficio della sospensione condizionale della
pena, concesso con la sentenza conclusiva del procedimento di primo grado: secondo il giudice rimettente, dunque, la mancata partecipazione incolpevole del condannato all’udienza di esecuzione, lederebbe non solo il diritto di difesa, non consentendo allo stesso di «poter pienamente esercitare i propri
diritti difensivi, che nella specie si riferirebbero alla necessità di evitare conseguenze pregiudizievoli sul
piano della libertà personale», ma anche il principio del giusto processo e della parità di trattamento
normativo di statuizioni simili, in assenza di precisi motivi che ne giustifichino eventuali differenze.
A parere della Consulta, dunque, la questione risulterebbe inammissibile in quanto il Tribunale remittente «è incorso in un errore nell’individuazione della norma censurata»: da una parte la Corte ha
rilevato che le censure avrebbero dovuto riguardare l’art. 666 c.p.p. nella parte in cui non prevede la sospensione dell’esecuzione del provvedimento nei confronti del condannato irreperibile (e non, invece,
l’art. 9, legge n. 67/2014); dall’altra, anticipando un eventuale futuro giudizio, anche se il giudice remittente avesse sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 666 c.p.p., non sarebbe stato possibile estendere al procedimento di esecuzione le norme novellate dalla legge del 2014 (artt. 420 bis, quater
e quinquies c.p.p.), congegnate per il giudizio di cognizione.
I giudici hanno, in sostanza, dovuto fare i conti con la portata della norma, ovvero con il suo ambito
applicativo, e cioè se l’art. 9 della legge n. 67/2014 possa o meno applicarsi anche al giudizio di esecuzione oppure debba estendere i suoi effetti all’udienza preliminare (artt. 420 bis, 420 quater, 420 quinquies c.p.p.), alle impugnazioni e ai relativi giudizi (artt. 585, 603, 604, 623, 625 ter c.p.p.).
La Consulta non si mostra favorevole ad un’esegesi estensiva delle norma, chiarendo immediatamente l’equivoco ontologico di fondo: come già rilevato dalla difesa, sussisterebbe una «differenza ontologica» tra la fase di cognizione e quella dell’esecuzione.
La prima sarebbe, infatti, deputata all’accertamento della responsabilità penale dell’imputato; la seconda, invece, ad esercitare la pretesa punitiva dello Stato, dando attuazione alla sentenza di condanna
(come evidenziato dalle Sezioni Unite, «[N]non può ignorarsi il divario strutturale tra giudizio di cognizione e giudizio di esecuzione, tenuto conto delle peculiarità “di accertamento giudiziale a contenuto limitato” di quest’ultimo, le quali ostano ad una trasposizione tout court di concetti e istituti propri
del processo penale di cognizione, contraddistinto dall’accertamento del fatto oggettivo e della sua riferibilità all’imputato». Così Cass., sez un., 21 gennaio 2010, n. 18288.
Si tratta, dunque, di un bilanciamento tra esigenze di difesa collettiva e garanzie della persona: l’applicabilità dell’istituto della sospensione del procedimento esecutivo a favore dell’imputato irreperibile, seppur encomiabile sotto il profilo del rispetto dei diritti fondamentali, risulterebbe, infatti, assai compromettente per le indagini, rischiando che il condannato rimanga impunito sine die, così da minare l’ordine sociale.
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