> E L`EUROPA TRADITA(1)

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> E L`EUROPA TRADITA(1)
IL DIRITTO AD UN PROCESSO
DI RAGIONEVOLE DURATA:
LA <<LEGGE PINTO>> E L'EUROPA TRADITA(1)
Ci sarà pure un giudice a Berlino, si chiedeva il mugnaio prussiano al cospetto di re
Federico II, che gli negava il suo diritto; allo stesso modo, fino a qualche tempo fa _ prima
dell'entrata in vigore della controversa <<legge pinto>> (n. 89 del 24 marzo 2001) _ il
cittadino italiano, che si era trovato impaludato nelle acque stagnanti della giustizia italiana,
si chiedeva se poteva esistere una giustizia diversa, in grado di dare una risposta di
giurisdizione pronta, efficace, sicura e giusta: in una parola, una giustizia vera. E soprattutto
veloce, poiché è la durata eccessiva dei processi ciò che ha sempre indignato più di ogni
altra cosa lo sventurato utente della giustizia nostrana. Una giustizia che _ possiam dire _ si
caratterizza per una tutela sostanziale dei diritti di grado avanzato ma di applicazione
svilita, quando non del tutto negata, dalla esasperata lunghezza dei processi. Il giudice
capace di restituirgli il diritto negato (non quello sostanziale, ma quello non meno
importante ad aver giustizia in tempo ragionevole) il cittadino italiano lo aveva alfine
trovato, poco distante da Berlino: a Strasburgo, dove ha sede la Corte Europea dei Diritti
dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali.
Questo scenario è stato stravolto, per meglio dire azzerato, dal varo della legge pinto(2),
sulla cui genesi varrebbe la pena spendere alcune parole. Senza volersi dilungare troppo,
basterà ricordare che il <<problème italien>> era all'ordine del giorno del Comitato dei
Ministri del Consiglio d'Europa sin dal 1995, quando con una prima risoluzione poi
reiterata l'Italia veniva dichiarata <<sotto sorveglianza>>. Nel 1999 il Comitato, pur
prendendo atto dell'impegno solenne assunto dall'Italia per cercare di risolvere il problema e
constatando un aumento di efficienza dei Tribunali italiani (dovuto all'entrata in vigore di
alcune riforme, prima fra tutte quelle sul giudice unico e sulle sezioni stralcio, e la revisione
dell'art. 111 Cost., il che fa venire il dubbio che la stagione delle riforme sia stata
soprattutto frutto della pressione europea piuttosto che figlia di una seria politica interna di
rinnovamento), decise di <<concedere termine>> di un anno allo Stato italiano per vedere
se le nuove contromisure annunciate per ridurre i tempi dei processi si sarebbero davvero
rivelate efficaci. In realtà, le contromisure che l'Italia aveva annunciato erano molto blande,
visto che il tutto si riduceva in buona sostanza a quello che sarebbe poi diventato l'impianto
della futura legge pinto (all'epoca ancora sotto forma di disegno di legge, n. 3813/S). Il
legislatore italiano si proponeva quindi di introdurre un <<mezzo efficace di ricorso interno
in materia di durata delle procedure>>, il che a ben vedere non è affatto contromisura atta a
risolvere il problema fisiologico della eccessiva lunghezza dei processi, bensì introduzione
di un sistema procedurale di risarcimento per i danni causati dalla patologia creata dal
problema; più che altro, come è a tutti evidente, si trattava _ e si tratta ora che quel d.d.l. è
legge _ di adottare un sistema procedurale interno in grado di non intasare più la Corte
sovranazionale. Infatti, passato l'anno di termine che era stato concesso, il Consiglio
d'Europa non pot‚ far altro che prender atto che i ricorsi inviati a Strasburgo dai cittadini
italiani non diminuivano (anche perché nel frattempo il disegno di legge era rimasto tale e
quindi sul piano normativo sostanziale nulla era cambiato), rimanendo i soliti 1.500-2.000
all'anno, e cominciò a far richieste più pressanti, fino a minacciare la sospensione all'Italia
del diritto di voto, cosicché i tempi per l'approvazione della futura legge pinto si
accelerarono. Significativamente, l'iter di approvazione della legge è uno dei più rapidi che
si ricordi: il testo finale è stato approvato in tre giorni dai due rami del Parlamento, ed il
testo definitivo è stato approvato dalla Commissione Giustizia del Senato, in sede
deliberante, l'ultimo giorno della passata legislatura. La legge, nonostante il d.d.l. fosse di
iniziativa del gruppo parlamentare del Partito Popolare(3) e quindi della maggioranza di
centro-sinistra, è stata comunque approvata all'unanimità, cosicché la responsabilità politica
della sua emanazione va condivisa fra tutte le forze politiche parlamentari dell'epoca: si può
ben dire, quindi, che si tratti di un vero e proprio caso di legislazione d'emergenza(4).
Insomma, è scritto nelle motivazioni storiche che hanno portato alla approvazione della
legge (quale atto dovuto per onorare gli impegni previsti dalla Convenzione e presi con
l'Unione Europea), che la finalità della legge pinto è solamente quella di deflazionare il
contenzioso innanzi alla Corte di Strasburgo, mentre nulla essa fa o può fare per risolvere il
problema, che era e resta quello dell'eccessiva durata dei processi italiani. La qual cosa non
è naturalmente sfuggita al Comitato dei Ministri della Corte Europea, che il 3 ottobre 2001,
con la risoluzione 703f, ha preso atto dell'introduzione della legge pinto ma <<ha espresso
perplessità sul fatto che la legge menzionata non prevede l'accelerazione dei procedimenti
e che la sua applicazione pone il rischio di aggravare il sovraccarico delle Corti
d'Appello>>(5).
Quanto meno, non può essere imputato ai legislatori della legge pinto di avere tradito i
principò della Convenzione europea, nell'importarli nella legislazione nazionale: il principio
di diritto che sorregge la Convenzione (l'art. 6 della stessa) è stato espressamente fatto
proprio dall'art. 2 della legge pinto, che prevede che <<chi ha subìto un danno patrimoniale
o non patrimoniale per effetto della violazione della Convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, sotto il profilo del mancato rispetto del
termine ragionevole di cui all'art. 6 della Convenzione, ha diritto ad una equa
riparazione>>. Semmai, stride l'assenza di riferimento alcuno alla nuova formulazione
dell'art. 111 Cost., nel quale è stata inserita una garanzia formale che, prima, nella nostra
carta costituzionale non esisteva: la ragionevole durata del processo(6). È vero che il nostro
legislatore è tanto generoso, in termini di produzione legislativa, quanto normalmente
disattento al coordinamento fra le nuove fonti via via partorite, ma semplicemente ignorare
che poco tempo prima (neanche un anno e mezzo prima: nel dicembre 1999) era stata
riformata la costituzione sul punto specifico appare qualcosa più di una leggerezza, e cioè
una dimostrazione di insensibilità e di approssimazione preoccupante, atteggiamento in
ordine al quale la legge pinto offre peraltro più di uno spunto di riflessione.
Ma quel che più lascia perplesso, e che mi induce a parlare di <<tradimento>> dello
spirito della Convenzione e della giustizia resa dalla Corte europea in materia di
irragionevole durata, è _ da una parte _ la scelta di sottrarre la giurisdizione in materia alla
Corte sovranazionale, in favore delle Corti (d'appello) domestiche, e _ dall'altra _
l'applicazione da parte di quest'ultime (nonché della Corte di Cassazione, almeno per
quanto appare dalle primissime decisioni edite) di misure e criteri risarcitori _ quando
applicati _ palesemente, ed a volte anche dichiaratamente, in spregio alla giurisprudenza
formatasi in sede europea.
Quanto al primo punto, va detto che la scelta di creare giurisdizione domestica per far
fronte alla domanda di giustizia sulla durata non ragionevole dei processi nasce _ forse non
soprattutto ma certamente anche _ da una presunta necessità d'ordine giuridico, sorta dopo
che la questione di diritto era stata sollevata dalla decisione del 26 ottobre 2000 della Corte
di Strasburgo nel caso Kudla c. Polonia(7), che si era soffermata sulla interpretazione
dell'art. 13 della Convenzione, il quale prescrive che <<ogni persona i cui diritti e le libertà
riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto di presentare un
ricorso avanti ad una magistratura nazionale, anche quando la violazione sia stata
commessa da persone agenti nell'esercizio delle loro funzioni ufficiali>>. Secondo la
decisione della Corte, ciò si traduce nell'obbligo dello Stato contraente di assicurare una
tutela interna al diritto alla ragionevole durata del processo. E ciò è tanto più evidente a
mente dell'art. 35 della Convenzione, il quale detta _ alla rubrica <<condizioni di
ricevibilità>> _ che <<la Corte non può essere adìta se non dopo l'esaurimento delle vie di
ricorso interne...>>.
Non deve essere parso vero, quindi, al legislatore italiano, da anni in difficoltà nei
confronti della Corte nonché dei partners aderenti alla Convenzione (i quali non riuscivano
più ad ottenere l'attenzione della Corte, pressocché interamente assorbita ad occuparsi del
problème italien), di poter legittimamente creare ex novo un rimedio giurisdizionale interno,
così di fatto eliminando la legittimazione passiva diretta della Corte europea. Una soluzione
che, va detto, ha trovato immediatamente complice la stessa Corte, la quale, con
motivazioni metagiuridiche che hanno suscitato la legittima reprimenda di più di un
giurista(8), con la famigerata sentenza Brusco c. Italia del 6 settembre 2001(9), ha
affermato la <<improcedibilità sopravvenuta>> del ricorso sovranazionale già depositato, a
seguito della successiva introduzione del rimedio procedurale domestico.
E così il gioco delle parti, in cui ragione e diritto giocano una parte tutta marginale, si è
concluso _ per ora _ con un classico colpo di rimpiattino: da una parte, per sottrarre alla
giurisdizione europea i nuovi ricorsi, l'Italia non ha esitato ad approvare una legge che
invece di risolvere il problema lo aggrava; dall'altra, per liberarsi del pesante fardello
costituito dalle migliaia di vecchi ricorsi, l'autorità europea non ha esitato a dichiarare
irricevibili i ricorsi già depositati. Fuor di diritto, come pare ora piacere alla Corte di
Strasburgo, non rimane che cogliere il sollievo della stessa nell'essersi finalmente sgravata
dell'onusto carico costituito dai circa 12.000 (10) (di cui solamente 1.000 avevano già
ricevuto il visto di ricevibilità) ricorsi italiani giacenti(11).
Niente più ricorsi, per la Corte di Strasburgo; niente più sanzioni, per l'Italia: il conto di
chi ci ha guadagnato è presto fatto. Chi ci ha perso è però ancora il cittadino, con modalità
tali che par sentirsi risuonare, in accompagnamento, un sonoro pernacchio di scherno,
giacché lo Stato italiano, mentre continua oggi _ esattamente come prima _ a non assicurare
la ragionevole durata dei processi, ha precluso il ricorso diretto alla Corte europea, per
giunta costringendo il cittadino agli oneri di una obbligatoria difesa tecnica (laddove il
ricorso a Strasburgo poteva essere fatto personalmente per lettera), ed offrendo quale
risarcimento un piatto di lenticchie: la copertura finanziaria della legge è stata di 12 miliardi
e 705 milioni di lire, che è importo inferiore a quello che l'Italia veniva condannata a pagare
dalla Corte di Strasburgo in un solo anno: quasi 8 miliardi nel 1997; 7 miliardi nel 1998; 12
miliardi nel 1999; 19 miliardi nel 2000 (importi tutti in lire). E per rendere l'idea
dell'inadeguatezza della copertura finanziaria, sapendo che nel solo primo mese e mezzo del
2000 l'Italia è stata condannata a pagare 5 miliardi di lire complessivamente liquidati per
184 decisioni (con una media quindi di liquidazione di circa 27 milioni per ricorso),
possiamo allora fare una proporzione e vediamo che se moltiplichiamo per 27 milioni i
12.000 ricorsi che erano pendenti a Strasburgo, i provvedimenti di liquidazione dovrebbero
superare i 300 miliardi di vecchie lire, ciò evidentemente sul presupposto che i 12.000
ricorsi venissero tutti decisi ed accolti, il che immagino probabilmente non sarebbe, ma il
dato che emerge _ una previsione di spesa di 12 miliardi di lire a fronte dei 300 che,
seppure nella peggiore delle ipotesi, l'Italia sarebbe condannata a pagare dalla Corte
europea _ rende bene la totale inadeguatezza economica ancor prima che giuridica della
legge. E se al momento del varo della legge pinto si poteva pensare che solamente una parte
dei 12.000 ricorsi già pendenti avrebbe finito per essere riproposta innanzi alle Corti
d'appello italiane, oggi _ dopo la ricordata decisione Brusco della Corte europea _ abbiamo
la certezza che questo immane carico di ritorno è destinato ad intasare le Corti italiane, in
aggiunta alla messe dei nuovi ricorsi ed in aggravamento al carico già accresciuto delle
stesse, in forza del trasferimento alle Corti d'appello della competenza a decidere in grado
d'appello sulle controversie di diritto del lavoro (che oggi ricomprendono anche le
controversie relative ai rapporti di pubblico impiego alle dipendenze della P.A.) nonché sui
gravami avverso le sentenze emesse dalle Sezioni Stralcio. Va ricordato che, non a caso,
sulla legge è gravato anche un parere negativo della Commissione Bilancio della Camera.
E che cosa significa poi che, come dice la legge pinto (all'art. 3, n. 7), <<l'erogazione degli
indennizzi agli aventi diritto avviene, nei limiti delle risorse disponibili>>? Che verranno
pagati solamente i primi che otterranno delle condanne, e gli altri dovranno accontentarsi di
avere in mano un titolo esecutivo senza alcuna possibilità pratica di soddisfazione del
proprio credito, così come accade spesso ad un qualsiasi creditore (ma con la differenza che
il cittadino creditore dello Stato non potrà ricorrere all'istanza di fallimento...)? Che
significato ha dire che, anche se un cittadino ha ragione e lo Stato italiano viene
riconosciuto colpevole e condannato dai suoi stessi giudici, lo Stato si riserva di pagarlo
quando vuole e, comunque, solo forse (se ci saranno i soldi)? È una previsione intollerabile
in uno stato di diritto, ancor più se si pensa in quale contesto nasce, e cioè in un
procedimento che alle derive della funzionalità dello Stato si offre di porre rimedio(12). Si
tratta di interrogativi che certamente molti attori, usciti vittoriosi dai procedimenti innanzi
alle Corti d'appello italiane, si stanno ponendo, ora che si tratta di incassare quanto è stato
loro riconosciuto; e a parte le preoccupazioni, non mancano segnalazioni di vere e proprie
disperazioni, come quella che riferisce di una parte che, uscita vittoriosa da un
procedimento innanzi alla Corte d'Appello di Milano che le ha riconosciuto un indennizzo
di 16.000 euro, non riuscendo ad ottenere la liquidazione della somma assegnatale, si è
incantenata per protesta davanti al Palazzo di giustizia di Genova(13).
Nulla, in realtà, se non la vicendevole convenienza politica, ha potuto motivare lo scippo
di giurisdizione e di giustizia che il cittadino si è visto perpetrare a proprio danno, con
l'approvazione della legge pinto. Nemmeno la presunta questione di diritto sull'assenza, nel
nostro ordinamento, del rimedio processuale interno, poiché in precedenza già più volte la
stessa Corte di Strasburgo aveva interpretato nel senso che se la via del ricorso interno non
era prevista (come in Italia, prima della legge pinto) era comunque fatta salva la possibilità
del cittadino di ricorrere direttamente alla Corte di Strasburgo, come era stato anche
stabilito nel primo procedimento che portò alla condanna dello Stato italiano: il caso
Capuano c. Italia del 25 giugno 1987.
Ciò detto, è facile osservare _ come già molti hanno fatto _ che l'intera vicenda che ha
caratterizzato il varo della legge pinto nasce da un atteggiamento grossolano del nostro
legislatore, il quale evidentemente crede che il problema dell'intasamento delle curie
italiane, che è il motivo primo se non unico della durata dei processi, possa essere risolto
distraendo la competenza a giudicare sui ricorsi dalla sede europea in favore di quella stessa
autorità giudiziaria italiana che dei ritardi è responsabile, così addirittura aumentandone,
invece che diminuirne, il carico. A dire il vero, l'intenzione originaria dei firmatari del
disegno di legge era proprio quella di identificare, prima ancora che un sistema domestico
di risarcimento dei danni da ritardo, delle misure acceleratorie del processo, per fare in
modo che _ innanzitutto _ i ritardi non avessero più a verificarsi. Col tempo, però, questa
prospettiva è stata completamente abbandonata e nulla si trova nella legge pinto che si
occupi della accelerazione del processo(14): l'unica previsione normativa che non riguarda
il sistema riparatorio è la ridefinizione dei casi in cui la Corte di cassazione decide in
camera di consiglio, con la modifica del testo dell'art. 375 c.p.c., ma è del tutto evidente che
non è questa una misura che di per s‚ sola possa essere in grado di incidere in modo
apprezzabile sui gravissimi ritardi che affliggono i processi italiani. Tolta così dal campo
ogni ambizione acceleratoria, per la legge pinto si parla giustamente di una semplice
<<nazionalizzazione>> del procedimento di liquidazione dei danni da ritardo.
L'altro piano sul quale si è delineato, ormai ben chiaramente, l'allontanamento dallo jus
receptum europeo è quello delle misure e dei criteri di liquidazione dell'indennizzo alle parti
protagoniste, loro malgrado, di processi a lunga durata. Con riguardo alla misura
dell'indennizzo da riconoscere alla <<vittima>> di un processo irragionevolmente lungo, la
giurisprudenza ad oggi emessa dalle Corti domestiche si divide, da una parte, fra
l'applicazione di misure risarcitorie aut indennitarie nettamente inferiori rispetto al
<<tariffario>> europeo e, dall'altra, la negazione del diritto stesso al risarcimento. Ed anche
gli stessi criteri posti a base del diritto ad ottenere l'equo indennizzo, quando esso viene
riconosciuto tutelabile, sono emersi come più rigorosi rispetto a quelli per anni adottati
dalla Corte di Strasburgo; innanzittutto, la giurisprudenza domestica ha fatto piazza pulita
del favor processuale che la Corte europea aveva concesso al cittadino italiano, con la
celebre sentenza resa nel caso Bottazzi c. Italia del 28 luglio 1999, allorquando la Corte
cominciò ad applicare il principio dell'inversione dell'onere della prova: se prima era il
ricorrente a dover provare che i ritardi erano addebitabili allo Stato italiano, da allora in poi
era lo Stato italiano a doversi discolpare provando che i ritardi non erano da addebitare allo
stesso. Con tale decisione, vero e proprio punto di svolta nella giurisprudenza della Corte
sui ricorsi italiani, questa aveva accertato e dichiarato l'esistenza di una prassi italiana
incompatibile con il principio garantito dall'art. 6 della Convenzione, comportante
<<violazione continua ad avere giustizia in tempi ragionevoli>>, formula gravissima se si
pensa che la Corte la aveva usata per l'ultima volta in occasione dei ricorsi provenienti dalla
Grecia nell'infausta era dei colonnelli. Oggi, invece, spetta al cittadino-attore provare che la
durata irragionevole è dipesa da ritardi addebitabili all'ordinamento italiano, e non invece
alle cause che sono state tipizzate come dirimenti, quali la complessità del caso ovvero la
condotta delle parti.
Oggi, non solo i criteri per ottenere il riconoscimento dell'equo indennizzo si sono fatti più
rigorosi, ma spesso _ come dicevamo _ il diritto all'indennizzo (con riguardo al danno non
patrimoniale, che la Corte di Strasburgo liquidava sistematicamente) non viene affatto
considerato degno di tutela. E quel che è più preoccupante è che la prima giurisprudenza
della Corte di cassazione sulla legge pinto pare esattamente indirizzata in questa, restrittiva,
direzione: l'indennizzo non spetta automaticamente, in quanto <<deve escludersi che il
danno patrimoniale o morale sia in re ipsa per il solo fatto che il processo si sia protratto
oltre la sua fisiologica durata>>(15). Oggi, quindi, il cittadino italiano, per ottenere tutela
del proprio diritto primario ad un processo di ragionevole durata, non solo deve adire il
medesimo ordinamento che ha prodotto il ritardo del suo processo (laddove prima poteva
adire una giurisdizione terza e pertanto, fisiologicamente, più imparziale), non solo deve
provare che il ritardo è addebitabile allo Stato italiano (laddove prima era quest'ultimo a
dovere fornire eventuale prova contraria), ma anche deve, infine, provare positivamente di
avere subito un danno psicologico (laddove il danno non patrimoniale, nella giurisprudenza
della Corte europea, si dava pacificamente per riconosciuto in re ipsa, in presenza del dato
oggettivo del ritardo di irragionevole durata).
Sfuggire ai criteri dettati negli anni dalla Corte di Strasburgo ha un significato
oggettivamente eversivo, rispetto all'ottica europeista che spesso invece, con buona ragione,
si rincorre, anche nella politica legislativa nazionale. E stravolgere, sino a renderli
irriconoscibili, tali criteri non può che finire per significare la negazione della salvaguardia
che la Convenzione offre del particolare diritto fondamentale che l'individuo ha alla
celebrazione di un processo non solo equo, ma anche celere. Tanto più che le pronunce
giurisprudenziali emesse in sede europea, a valere quale diritto vivente, rappresentano un
patrimonio giuridico vasto ed attendibile, e soprattutto sono eteroformate, nel senso che si
tratta di una giurisprudenza resa da una giurisdizione esterna, con riflessi anche in termini
di indipendenza e terzietà del giudice, così come vorrebbe la nuova formulazione dell'art.
111 Cost. D'altronde, se ragioniamo in un'ottica europea, come certamente facciamo non
solo perché i tempi ce lo impongono ma anche perché parliamo dell'osservanza di una
particolare convenzione europea, quale miglior riferimento possiamo avere della
giurisprudenza formatasi in quella sede?
La giurisprudenza europea è copiosa ed analitica, cosicché non si vede come potrebbe
essere ignorata dalle Corti d'appello. Il patrimonio giurisprudenziale europeo, peraltro, si
pone come precedente non solo necessario, ma anche utile ad evitare che le Corti nostrane
ricorrano ad una giurisdizione sommaria e pretoria, producendo una disparità di trattamento
nelle liquidazioni che prima la centralità della Corte europea rendeva impossibili. In questo
senso, conforta leggere nella decisione di una Corte domestica che <<la circostanza che
come fatto produttivo del danno il legislatore italiano preveda immediatamente la
violazione dell'art. 6 della Convenzione autorizza ed anzi impone di rintracciare i necessari
canoni interpretativi nella giurisprudenza della Corte europea per i diritti dell'uomo che,
sul tema, ha avuto infatti modo di emettere numerose pronunce anche nei confronti dello
Stato italiano>>(16).
La giurisprudenza formata dalla Corte europea può quindi _ ed anzi deve, a mio parere _
soccorrere in analogia anche sul punto della liquidazione dei risarcimenti, anche perché la
legge pinto non detta parametri oggettivizzati per i risarcimenti (strada che invece il
legislatore aveva adottato appena diciannove giorni prima, con l'emanazione della legge sui
risarcimenti dei danni da c.d. micropermanenti: legge n. 57 del 5 marzo 2001). La
giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha in realtà nel corso degli anni fatto ciò quanto la
legge pinto ha perso l'occasione di fare, e cioè oggettivizzato parametri che ha ritenuto
ragionevoli per l'equa riparazione del danno da ritardo, ed ha riconosciuto 2.000.000 di lire
per ogni anno eccedente la durata ragionevole dei processi in primo grado; 1.000.000 di lire
per ogni anno eccedente in grado d'appello; 500.000 lire per ogni anno eccedente in
Cassazione o in sede di rinvio. Ora, non v'è chi non veda che una tale parametrazione dei
risarcimenti, o indennità che dir si voglia, incontra i limiti che ogni oggettivazione
semplificata comporta, cosicché inevitabilmente detti parametri devono essere suscettibili
di aggiustamenti in virtù della specificità del singolo caso. Tuttavia, ritengo che tale
<<tabellazione>> nata in sede europea non potrebbe, per i motivi già esposti, essere
ignorata dalla giurisprudenza delle Corti d'appello italiane, le quali sono naturalmente libere
di adattare questi criteri al singolo caso(17), senza tuttavia _ a mio parere _ potere
responsabilmente derogare al ribasso a questi parametri, da intendersi come criteri minimi
di risarcimento.
Quella della Corte di Strasburgo è una giurisprudenza veramente conforme, consolidata ed
unanime (non come quella nostrana, dove i c.d. <<arresti>> della Corte di cassazione sono
sempre più rari e dove non si è mai sicuri che un principio dettato dalla nostra corte di
legittimità non trovi puntualmente pronuncia difforme o contraria in altra sezione della
Corte Suprema o in curie locali che si ribellano alla funzione nomofilattica della
Cassazione) perché ripetuta, con pedante sistematicità e letteralità, nelle migliaia di
pronunce di condanna che si sono succedute negli anni a carico dell'Italia(18). Ed infatti,
come tale _ cioè come precedente ineludibile _ la giurisprudenza della Corte di Strasburgo è
stata percepita e mutuata dalle Corti italiane, per quanto attiene alla identificazione della
ragionevole durata di un processo (e conseguentemente, dunque, ai termini nei quali la
durata di un processo diviene irragionevole): la giurisprudenza consolidata della Corte
europea ha da tempo (sin dalla prima, storica, condanna: il ricordato caso Capuano c. Italia)
enucleato i termini temporali massimi di durata del processo sancendo, come regole
generali, che i ricorsi contro procedimenti che sono durati meno di tre anni (due anni e sette
mesi, se concernenti lo stato delle persone, i fallimenti, le pensioni, il diritto del lavoro ed
altri diritti primari) sono irricevibili; come sono irricevibili quelli contro cause che, in tutti i
gradi di giudizio compresa la Cassazione, sono durati meno di sei anni (otto anni in caso di
giudizio di rinvio ed undici anni in caso di secondo rinvio)(19), avendo così di riflesso
identificato i termini massimi di ragionevole durata dei processi italiani. Rappresenta
dunque scelta motivatamente coerente uniformarsi a detti parametri europei, come è stato
fatto sin da una delle prime decisioni delle Corti d'appello italiane, la quale ha decretato che
<<la durata ragionevole del processo di primo grado, anche alla luce dell'elaborazione
giurisprudenziale della Corte europea dei diritti dell'uomo, può essere determinata, in via
generale e approssimativa, in tre anni>>(20). Ma se la giurisprudenza della Corte europea
viene condivisa sul punto dei termini di durata del processo, allora perché viene invece, in
maniera incoerente, sistematicamente disattesa sul punto della misura dei risarcimenti
riconosciuti a coloro che della durata irragionevole dei processi sono rimaste vittime?
La divergenza con la giurisprudenza della Corte si realizza soprattutto, ma in termini assai
significativi, con la riluttanza a riconoscere il patimento di un danno non patrimoniale e,
comunque, con la tendenza a disconoscerlo in capo alle persone giuridiche(21). Con
riguardo a quest'ultimo aspetto, contrasta con la normativa europea(22) la negazione del
diritto alla tutela in capo alla persona giuridica, e non solo fisica, ed infatti non mancano
decisioni di altre Corti d'appello(23), che hanno affermato il principio contrario,
espressamente ritenendo configurabile il diritto all'indennizzo, anche a titolo di danno
extrapatrimoniale, per le società, <<in considerazione del rischio d'impresa e della
difficoltà di esazione dei crediti>>; e, quanto all'inquadramento della alterazione psichica in
capo ad un ente collettivo, la giurisprudenza _ anche in materia di legge pinto _ ha chiarito
che <<la sofferenza psichica e morale e, dunque, un danno non patrimoniale>> è
configurabile a carico di coloro che rappresentano l'ente collettivo, <<per il principio della
immedisimazione della rappresentanza organica con l'ente>>(24).
La sopra richiamata sentenza della Corte di cassazione, che ha sostanzialmente negato
diritto all'indennizzo a chi non sia in grado di provare di avere subito una lesione psicofisica da <<patema d'animo>>(25), esprime peraltro un orientamento che già era stato
anticipato da alcune decisioni di merito di Corte d'appello italiane. L'orientamento
restrittivo sulle liquidazioni era stato per esempio prefigurato dalla Corte d'appello di
Roma(26), la quale aveva ritenuto infondata la domanda di equa riparazione proposta <<in
difetto di prova di un qualunque pregiudizio di carattere economico o morale>>, laddove la
Corte europea _ comunque seguita da altre Corti d'Appello italiane(27) _ ha sempre
riconosciuto il diritto all'indennità per il danno morale senza che fosse obbligatorio fornire
la prova di tale danno, ritenuto in re ipsa. E sarebbe veramente grave se l'orientamento che
emerge in Cassazione e che, in ogni caso, pare essere fatto proprio da molte Corti d'appello,
sottintendesse il messaggio che <<gli anni delle vacche grasse sono finiti>>, perché non
stiamo parlando di cause promosse a mo' d'investimento economico, ma di ricerca di una
tutela che quasi quindici anni di giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo
hanno riconosciuto e ribadito, anche nel suo contenuto economico, e che ora non è più
possibile, a meno di essere nuovamente messi alla berlina in Europa, cancellare con un
colpo di spugna. La conclusione che deve giocoforza applicarsi ad un tale orientamento, in
caso di sua conferma e diffusione presso le Corti d'appello, è assai preoccupante, poiché
postula che un processo può impunemente avere una durata irragionevole, e magari
irragionevolissima, senza che la sua lunga durata possa essere fonte di un diritto liquidabile
alla parte che subisce un tale processo, perché magari questa _ anche se la causa è durata
vent'anni _ non ha avuto, bontà sua, l'esaurimento nervoso, la depressione, l'insonnia.
Oltre a quanto già osservato, non può tacersi il fatto che, se anche la legge pinto dimentica
(pour cause, evidentemente) di menzionare il coordinamento con il disposto del neo art.
111 Cost., la norma costituzionale in parola rileva non solamente sotto il profilo della
ragionevolezza della durata del processo, ma anche con riguardo alla terzietà del giudice,
principio garantito oltre che dall'art. 111 Cost. anche dallo stesso art. 6 della Convenzione
europea. ¼ con riguardo a questo riflesso che ritengo si possa eccepire che la trasmigrata
competenza in capo alle Corti d'appello (scilicet, ai giudici italiani) violerebbe tale disposto,
ponendo i giudici italiani contemporaneamente nella posizione di controllati e di
controllori. C'È chi ha parlato addirittura, suggestivamente, di collocazione giuridica del
vecchio principio che <<i panni sporchi si lavano in famiglia>>(28); senza giungere a tanto,
è comunque indubbio, a mio avviso, che il procedimento interno sconta una innegabile _
poiché il prodotto della giurisprudenza nostrana ciò mostra _ dose di indulgenza del giudice
domestico, che è pur sempre uno dei protagonisti del processo di irragionevole durata, e
quindi una delle concause (a volte incolpevole, a volte no) della violazione del diritto che
vuole oggi trovare tutela davanti allo stesso giudice nazionale che di quei ritardi é
corresponsabile.
Si é obiettato che se così fosse sarebbe anche incostituzionale la legge sulla responsabilità
dei magistrati (alla quale la legge pinto fa espresso riferimento nella individuazione del
criterio di competenza), che ugualmente conferisce la competenza a giudicare alle Corti
viciniori(29). L'argomento non mi pare convincente, perché riduttivo e perché non
considera che tale legge venne varata quando ancora l'art. 111 della Costituzione non era
ancora stato novellato; ed anche perché, a differenza del caso in cui un magistrato venga
chiamato a giudicare sull'operato specifico e particolare di un collega, nel caso delle
violazioni oggetto della tutela offerta dalla legge pinto al magistrato <<sotto accusa>>
(insieme agli altri protagonisti del processo, parti e loro avvocati inclusi s'intende) non è
tanto addebitato un particolare e specifico comportamento causativo di danno (quale
potrebbe essere, per esempio quello di avere investito qualcuno sulle strisce pedonali),
quanto la condivisione (rectius la direzione e l'indirizzo, ex art. 175 c.p.c.) di regole e
comportamenti processuali che hanno causato ritardi nei processi italiani. E se
consideriamo che, come criterio generale, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha
identificato come colpiti da irragionevole ritardo tutti i processi civili che in primo grado
sono durati più di tre anni, capiamo bene come tale situazione sia oggettivamente condivisa
dalla stragrande maggioranza dei giudici italiani.
D'altronde, la necessità di terzietà del giudice ha già avuto una fragorosa elusione con la
nota decisione della Corte d'appello di Torino dell'11 luglio-5 settembre 2001(30), che ha
suscitato vivaci polemiche a causa dei toni davvero fuori luogo nella quale ci si è
abbandonati nel liberare una fluviale, scomposta ed in larga parte inconferente filippica in
controffensiva(31). Il trasporto con il quale il giudice torinese ha redatto il suo notorio
decreto tradisce la forte immedesimazione che lo ha animato: il provvedimento dispiega
un'accalorata difesa della giurisdizione italiana dalle accuse provenienti da una
giurisdizione _ quella della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo! _ che si reputa apertis
verbis inetta ed indegna a giudicare del funzionamento dell'ordinamento giuridico italiano.
Pur nel suo errabondo argomentare, il provvedimento in parola ha il pregio di rendere
evidente quello che deve essere considerato uno dei vizi più immediatamenti percepibili del
processo domestico introdotto dalla legge pinto: il difetto del requisito costituzionale della
terzietà del giudice chiamato a rendere giustizia al cittadino italiano privato del proprio
diritto ad un processo di ragionevole durata.
In forza di tutto quanto sopra osservato, è facile concludere che la legge pinto rappresenta
_ né più né meno _ che uno sfacciato tradimento, per esigenze politiche non meno che di
bilancio dello Stato, tanto delle prerogative della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo e delle libertà fondamentali, quanto dei principi dettati, in anni di severa
elaborazione giurisprudenziale, dalla Corte di Strasburgo, il tutto a danno del cittadino
italiano. È però altrettanto facile _ ritengo _ prevedere che la questione sia destinata a
ritornare oggetto dell'esame, magari non più esclusivo, della Corte europea. Infatti, il
brevissimo termine previsto dalla legge pinto per la decisione della Corte d'appello (con il
dichiarato intento di evitare il paradosso di ricorsi alla Corte di Strasburgo contro
l'irragionevole lunghezza del procedimento innanzi alla Corte d'appello), non tien conto del
fatto che l'organo di giustizia internazionale potrà a ragione ritenere non efficace lo
strumento del rimedio interno in caso di <<sforamento>> del detto termine di quattro mesi
(che rappresenta quindi implicitamente, per scelta legislativa, la misura della
<<ragionevolezza>> del termine di durata del processo innanzi alla Corte d'appello), con la
conseguenza che i ricorrenti potrebbero essere ritenuti esonerati dal dover utilizzare il
rimedio interno e ricorrere così direttamente _ di nuovo _ a Strasburgo. Già la Corte
europea ha stabilito che la effettività del rimedio interno è ineludibile, dovendo questo
essere non solo teorico ma anche pratico e non potendo gli Stati difendersi davanti alla
Corte europea eccependo il mancato esperimento del rimedio interno quando questo si sia
dimostrato non effettivo n‚ efficace (32). D'altronde, se così non fosse avrebbe ragione chi
autorevolmente evoca il gioco delle tre carte, dove il diritto dell'uomo che compare (a
Strasburgo), scompare e ricompare (in Italia), per poi definitivamente scomparire(33).
È comunque evidente sin d'ora che, se si apriranno cunei legittimanti, sarà tutto interesse
dei cittadini italiani infilarvisi, nel caso in cui si confermi una tendenza della giurisprudenza
delle Corti d'appello a liquidazioni irrisorie o comunque non <<eque e giuste>>, ovvero se,
ancor più sciaguratamente, dovesse trovare diffuso credito l'orientamento espresso,
vogliamo sperare in isolamento culturale, dalla seconda sezione della Corte d'appello di
Torino.
Giovanni Berti Arnoaldi Veli avvocato in Bologna
(1) Lo scritto costituisce parziale ripresa ed ulteriore sviluppo de La legge Pinto sull'equa
riparazione dei danni per la non ragionevole durata dei processi: problemi applicativi ed
interpretativi, in Diritto e formazione, 2002, 157, ed in Rassegna forense, 2002, 21.
Per scambio d'opinioni, l'indirizzo di posta elettronica dell'autore è [email protected].
(2) Per l'elencazione di tutta la dottrina sino ad allora edita si rimanda allo scritto di cui alla
nota precedente. Fra la successiva, si segnalano le monografie di Didone, Equa riparazione
e ragionevole durata del giusto processo, Giuffré, 2002; Besso-Dalmotto-AimonettoRonco-Nela (a cura di Chiarloni), Misure acceleratorie e riparatorie contro l'irragionevole
durata dei processi, Giappichelli, 2002, e Romano-Parrotta-Lizza, Il diritto ad un giusto
processo tra Corte internazionale e Corti nazionali, Giuffré, 2002; gli atti del convegno
<<La nuova normativa in tema di riparazione del danno per l'eccessiva durata dei
procedimenti giudiziari: prime riflessioni>>, Roma, 5 giugno 2001, con interventi di
Conso-Pinto-Lo Turco-Esposito-Lana, pubblicati in I Diritti dell'uomo, 2002, 23; la nota di
Civinini alle sentenze pubblicate su Foro it., 2002, 231; gli articoli di Bargiacchi, L'istituto
della equa riparazione per la eccessiva durata del procedimento, in PQM, n. 3/2001, 21;
Lana, Principio riparatorio e principio propositivo della legge n. 89/2001, in I Diritti
dell'uomo, 2002, 101; Cricenti, Massime non consolidate sulla responsabilità da
irragionevole durata del processo, in Danno e responsabilità, 2002, 693; Bozza, La
ragionevole durata del giusto processo, la legge Pinto e il giusto processo, in Il fallimento,
2002, 299; Vullo, Risarcimento del danno per eccessiva durata del processo e giudizi su
status familiari, in Famiglia e diritto, 2002, 303.
(3) In realtà, come lo stesso firmatario del d.d.l. sen. Michele Pinto ha pubblicamente
riconosciuto (cfr. in Equa riparazione per irragionevole durata del processo: la prospettiva
del legislatore, dagli atti del convegno <<La nuova normativa in tema di riparazione del
danno per l'eccessiva durata dei provvedimenti giudiziari: prime riflessioni>>, cit., 26), la
primigenia del disegno di legge va riconosciuta in capo all'allora Ministro della Giustizia
prof. Giovanni Conso, il quale aveva a suo tempo predisposto un d.d.l. volto ad istituire il
diritto all'equa riparazione per il mancato rispetto del termine ragionevole (si tratta del d.d.l.
n. 1816 del 18 gennaio 1994, pubblicato in I Diritti dell'Uomo, 1999, 2, 100).
(4) Queste le parole del prof. Conso, presidente emerito della Corte costituzionale: <<la
legge era necessaria, non più procrastinabile, addirittura inevitabile se si voleva
scongiurare il pericolo di venire sospesi dal Consiglio d'Europa>> (così in Legge Pinto:
passo ineluttabile anche se certamente non decisivo, dagli atti del convegno <<La nuova
normativa in tema di riparazione del danno per l'eccessiva durata dei provvedimenti
giudiziari: prime riflessioni>>, cit., 24).
(5) Traduzione non ufficiale di Giovanna Lisotta, in Guida al diritto, n. 41/2001, 37.
(6) <<La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni
processo si svolge nel contraddittorio delle parti, in condizioni di parità, davanti ad un
giudice terzo ed imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata>>.
(7) Pubblicata in Corriere giuridico 2001, 405, con nota di Bultrini; sul caso si veda anche:
Tamietti, Irragionevole durata dei processi e diritto ad un rimedio interno: a margine del
caso Kudla c. Polonia, in I Diritti dell'uomo, n. 3/2000, 23.
(8) Si legga, per esempio, quanto scrivono Sacchettini, in Sulla migrazione dei dodicimila
ricorsi il rischio dell'ingorgo in Corte d'Appello, in Guida al diritto, n. 41/2001, 14, e
Lisotta, L'irragionevole estensione della norma transitoria, ivi, n. 38/2001, 19.
(9) Pubblicata in Guida al diritto, n. 38/2001, 13, con note di Tricomi, Scalabrino e Lisotta.
Si vedano anche i commenti di Tamietti, Prima pronuncia della Corte europea sulla legge
Pinto: la decisione Brusco c. Italia, in I Diritti dell'uomo, 2002, 45, e di Saccucci, Prime
statuizioni della Corte europea sulla legge Pinto all'insegna dell'efficientismo giudiziario,
ibidem, 56.
(10) Tale è il numero anche riportato nella relazione al decreto legge n. 370 del 12 ottobre
2001.
(11) Con immagine colorita ma certamente non lontana dal vero, il coagente del governo
italiano dinanzi alla Corte europea dei diritti dell'uomo, Vitaliano Esposito, ha commentato:
<<approvata la legge, tutti i giuristi ed i giudici della Corte (Europea) hanno festeggiato,
brindando a champagne, e subito dopo hanno staccato i telefoni>> (così in L'irragionevole
durata dei processi: un problema che rimane irrisolto, dagli atti del convegno <<La nuova
normativa in tema di riparazione del danno per l'eccessiva durata dei provvedimenti
giudiziari: prime riflessioni>>, cit., 36).
(12) Sulla incostituzionalità di tale previsione si veda Dalmotto, in Misure acceleratorie e
riparatorie contro l'irragionevole durata dei processi, cit., 208.
(13) Notizia riportata da La Repubblica del 23 luglio 2002, 24.
(14) L'originario disegno di legge del Ministro Conso dedicava ben 16 articoli alle misure
per l'accelerazione dei processi, solamente in parte poi assorbite dalle norme contenute nella
novella del codice di procedura civile.
(15) Cass. civ., sez. I, n. 11987 del 10 giugno-8 agosto 2002, pubblicata in Diritto &
Giustizia, n. 32/2002, 18, con nota di Didone.
(16) Appello di Brescia, sez. I, decr. 29 giugno 2001, in Guida al diritto, n. 38/2001, 21.
(17) Nella considerazione dei possibili adattamenti alle fattispecie, la Corte d'Appello di
Brescia ha specificato di ritenere criteri da osservare, nella equa quantificazione del danno,
<<il rilievo giuridico, sociale ed economico dell'interesse in causa>>, dal momento che
l'incidenza degli stati d'animo di sofferenza, ansia, disagio psicologico determinati
dall'ingiustificato prolungarsi del giudizio <<sarà assai diversa a seconda della natura
dell'interesse controverso, sia sotto il profilo qualitativo, sia sotto quello della rilevanza
economica>> (decr. 23-30 agosto 2001, n. 2860, in Guida al diritto, n. 43/2001, 58, con
nota di Tricomi). Al medesimo principio della << posta in gioco >> si è ispirata l'Appello
L'Aquila, con due propri decreti, entrambi in data 23 luglio 2001, in Corriere giuridico, n.
9/2001, 1185, con nota di Corongiu, i quali peraltro richiamano in conformità la
giurisprudenza della stessa Corte europea: caso Laino c. Italia del 18 febbraio 1999.
(18) 482 solamente nei diciotto mesi fra il luglio 2000 ed il dicembre 2001: cfr. De
Stefano, La lunghezza della durata dei processi in Italia condannata dalla Corte Europea
dei Diritti dell'Uomo, in Impresa, 2001, 1900.
(19) Per una utile rassegna della giurisprudenza della Corte europea, si rimanda al volume
edito dal C.S.M. (n. 113 nella collana dei <<Quaderni del C.S.M.>>, 2000), contenente
anche la relazione del coagente del governo italiano presso la Corte europea dei diritti
dell'uomo, Vitaliano Esposito, Il ruolo del giudice nazionale per la tutela dei diritti
dell'uomo, 417-470.
(20) Appello Torino, sez. I, decr. 19-25 giugno 2001, n. 48, in Guida al diritto, n. 41/2001,
19, con nota di De Paola.
(21) Appello Brescia, sez. II, decreti nn. 79 e 80/2001, in Guida al diritto, n. 38/2001, 2930, con nota contraria di De Paola.
(22) Particolarmente con l'art. 34 del protocollo n. 11 alla Convenzione, sottoscritto a
Strasburgo l'11 maggio 1994 e ratificato dalla legge n. 296 del 28 agosto 1997, in vigore dal
1° novembre 1998, che stabilisce che il ricorso alla Corte europea può essere proposto da
una persona fisica, da un'organizzazione non governativa, da un gruppo, sicché la
previsione del ricorso individuale comprende sia le persone fisiche che tutte quelle
giuridiche, ad eccezione di quelle statali. D'altronde, la stessa legge Pinto, all'art. 2,
stabilisce che <<chi ha subito un danno...>> ha diritto all'equa riparazione, con un
riferimento generico ed onnicomprensivo che pare difficile non applicare anche a qualsiasi
ente, società o associazione che abbia una soggettività giuridica.
(23) Appello Trento, decr. 31 luglio 2001, in Guida al diritto, n. 38/2001, 30.
(24) Appello Ancona, decr. 13 ottobre-17 dicembre 2001, n. 22/2001 R.G.A.D., inedita, la
quale cita le sentenze della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 6 aprile 2000
(Comingersoll c. Portogallo) e dell'8 dicembre 1999 (Ozdep c. Turchia).
(25) Per dirla con le parole della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, <<il pregiudizio
morale in dipendenza dell'incertezza e dell'ansia circa l'esito del giudizio, con ripercussioni
sulla condizione complessiva, anche di salute, dell'interessato>> (decisione del 26 ottobre
1988, in Foro it., 1989, IV, 389).
(26) Appello Roma, sez. II, decr. 19 luglio 2001, in Guida al diritto, n. 38/2001, 29, con
nota contraria di De Paola; Appello Brescia, decr. 6 giugno-29 giugno 2001, in Guida al
diritto, n. 38/2001, 21, con nota di Sacchettini, e Appello Potenza, decr. 25 settembre-15
ottobre 2001, in Diritto e giustizia, n. 41/2001, 14, con nota di Bianca, ed in Foro it., 2002,
I, 232, con nota di Civinini. Vedi anche Finocchiaro, L'istante deve dimostrare l'esistenza di
un danno derivante dall'inefficienza degli apparati giudiziari, in Guida al diritto, n.
46/2001, 29.
(27) Per esempio, Appello Genova, sez. III, che con decr. 12 luglio-28 agosto 2001, in
Guida al diritto, n. 47/2001, 64, ha <<ritenuto il protrarsi del procedimento ... di per sé
causativo di danno non patrimoniale alle ragioni dell'istante>>; Appello Catania, sez. I,
che con decr. 10 agosto 2001, in Guida al diritto, n. 41/2001, 35, ha statuito che <<l'equa
riparazione del danno non patrimoniale conseguente alla durata non ragionevole del
processo, correlabile al protratto stato di pendenza del procedimento, in mancanza di
specifici elementi di valutazione può individuarsi con valutazione necessariamente
equitativa>>; Appello Ancona, che con decr. 10 agosto 2001, Artom c. Min. Giustizia,
inedito, ha riconosciuto che <<il danno morale, inteso come patema d'animo e stato di
disagio connesso alla mancata definizione del giudizio, può ritenersi in re ipsa o comunque
dimostrato sulla base dell'id quod plerumque accidit e la sua liquidazione sfugge ad una
valutazione analitica e va, di necessità, effettuata secondo criteri di equità>>.
(28) Sacchettini, in Più difficili i ricorsi ai giudici di Strasburgo; così l'utente si ritrova a
tutela dimezzata, in Guida al diritto, n. 14/2001, 18.
(29) Didone, L'equa riparazione per l'irragionevole durata del processo, in Questione
giustizia, n. 3/2001, 519.
(30) Sez. II, pres. ed est. Vitrò, decr. n. 56, pubblicato in Guida al diritto, n. 41/2001, 22,
con nota contraria di De Paola.
(31) Il decreto, che esordisce annunciando <<brevi premesse>>, consuma pagine e pagine
nel difendere il sistema giustizia italiano, <<espressione di alta civiltà giuridica, che ha un
ottimo funzionamento, che non deve essere confuso con la c.d. crisi della giustizia, dovuta
ad altri fattori>>>> e per riconvenzionalmente propugnare l'inadeguatezza a rendere
<<decisioni giuste e fondate>> del <<sistema processuale di Strasburgo>>; e continua,
per citare alcuni passi fra i più sconcertanti: <<la crisi della giustizia è voluta dalle parti e
dai loro difensori ... la giustizia non può essere utilizzata per eliminare la disoccupazione
intellettuale dei giovani, che impreparati e non idonei per altri mestieri, si rifugiano negli
albi professionali per sbarcare il lunario ... in Italia la maturità e la laurea in legge non si
nega a nessuno>>. Conseguenza di siffatto ragionare è la reiezione del ricorso per
inammissibilità (sic), con sostanziale inapplicazione sia della Convenzione sui diritti
dell'uomo e delle libertà fondamentali che della consolidata giurisprudenza maturata in tale
sede, sia _ in definitiva _ della stessa legge Pinto (ed infine anche in contrasto con le
decisioni rese da altra sezione della medesima Corte d'appello), con il tocco finale della
condanna del ricorrente alle spese nella misura di ben otto milioni di lire.
(32) Casi Civet c. Francia del 28 settembre 1999, e Beer e Regan c. Germania del 18
febbraio 1999.
(33) Così Vitaliano Esposito, coagente del governo italiano dinanzi alla Corte Europea dei
Diritti dell'Uomo, in L'irragionevole durata dei processi: un problema che rimane irrisolto,
cit.,35.