LibertàEdizioni
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LibertàEdizioni Marco Battista INFINITO E BESTIA RACCONTI FANTASTICI LibertàEdizioni Ai vivi e ai morti, con amore MEMORIE ALLEGORICHE Onesti lavoratori Si presentarono in forma smagliante, tutti uguali, sulla cinquantina, calvi, sorriso a trentadue denti, denti bianchi, profumati di pulito e di dopobarba, nella loro impeccabile salopette di jeans. Era una domenica mattina, una di quelle domeniche a cavallo fra inverno e primavera, l’aria tersa e cristallina, sole ovunque, monti innevati in lontananza. Avrei potuto andarmene quando volevo, nessuno mi avrebbe trattenuto, ma nessuno si aspettava che io me ne andassi, tutti si aspettavano che io sarei rimasto, ed io ero rimasto, infatti, non li avevo delusi. Dovevano conoscermi molto bene. Ero lì che aspettavo, con angoscia, non avevo dormito. Quando entrarono in casa mia con tutti i loro attrezzi, la loro gentilezza, i loro materiali, mi sentii violato, umiliato, calpestato. Ciò nonostante fui cortese, feci loro strada, offrii loro un caffè (che rifiutarono con garbo: etica professionale). Entrarono in casa mia e mi investirono coi loro modi affabili, coi loro sorrisi. Mi sedetti in disparte, in salotto, mentre gli onesti lavoratori erano intenti alla loro opera. Seghe, martelli, cacciaviti, chiodi. Il sole illuminava obliquamente la stanza e si fondeva al brusio di 9 tutta quella laboriosità, mi ricordai di quando da bambino ascoltavo il brusio della gente, in strada, i giorni di mercato, tutto quel vociare, quel battere, quel muovere. Prendevo la mano di mia nonna e mi facevo portare fuori, in quella marea umana, gli occhi grandi, curiosi, stupefatti, incantati. Stavo davanti al banco del pesce ed ero come rapito dentro una fiaba di pescherecci, di cuoche, di uomini, di colori, di amore. Stavo seduto in disparte, nel mio salotto, e, ricordando con commozione profonda queste sensazioni, capii che qualcosa mi stava suggerendo come un senso di piacevolezza in quello che mi stava accadendo, la laboriosità degli operai, il loro brusio, ma io rifiutai seccamente quel qualcosa e lo maledii. Avrei potuto andarmene, anche allora, ma stavo lì, fermo. Li guardavo mentre costruivano la loro opera, sudavo freddo, eppure con gesto meccanico raccolsi addirittura il martello caduto a un operaio e glielo porsi, sorridendo. “Grazie, lei è molto gentile” mi disse l’operaio investendomi di denti bianchi, dopobarba, dentifricio. Poco prima di mezzogiorno il patibolo era pronto. Bello, di un bel colore mogano chiaro, stagliato contro la finestra, su invito degli operai salii gli scalini e vi montai sopra, 10 complimenti, buon lavoro ripetevo, notai che i miei piedi erano all’incirca all’altezza del davanzale, guardai fuori ed era bellissimo, non avevo mai visto tanta luce entrare da quella finestra. Avrei dovuto pensarci prima. Avrei dovuto costruirmi un piccolo soppalco e godermi quello spettacolo, in santa pace, da solo o con Emilia, nei giorni felici, e invece me ne stavo lì, rincoglionito, a guardar fuori gli alberi e i campanili dalla stessa pedana che fra qualche ora sarebbe stata il palcoscenico della mia impiccagione. Avevano fatto davvero un buon lavoro. Cominciai a sentir male allo stomaco, avevo freddo, sudavo. Gli operai mi dissero che era normale, che non dovevo preoccuparmi. Mi fecero un tè. Ebbi uno scatto d’ira e urlai “Andiamo! Fate presto! Che cazzo stiamo aspettando?” Volevo sputargli in faccia e infilare la mia testa di cazzo in quel fottuto cappio, guardarli negli occhi mentre crepavo e tirare le cuoia senza dar loro la minima soddisfazione, con disprezzo. Con grande tempismo si strinsero attorno a me, tecnicamente molto preparati, mi bloccarono, mi calmarono, mi spiegarono che sarebbe dovuto arrivare il 11 pubblico, e che avremmo dovuto attendere anche le autorità di condominio. Qualcosa si era rotto dentro di me, non ero più la stessa persona di prima. Avvertii come una frattura, spezzatura di ossa, come una consapevolezza che restava tuttavia vaga, aveva delle implicazioni, avrei dovuto capire tutte le conseguenze di quella frattura, sudavo, probabilmente avevo la febbre, eppure ero lucido, maledettamente lucido, ma non avevo tempo. Risi pensando che sarei morto proprio quello stesso giorno. Ero cambiato per sempre il giorno della mia morte, della mia esecuzione. Che cazzo me ne facevo di quel cambiamento? A che cazzo sarebbe servito comprenderlo, capirlo appieno? Ma ero ancora vivo, e quel pensiero mi teneva ancora in vita, mi avrebbe tenuto in vita ancora per qualche ora. Una parte di me, molliccia, era già morta, stava già morendo. Un furgone posteggiò sotto casa mia e gli operai cominciarono a portar su sedie, sedie e poi ancora sedie. Bianche, di legno, del modello che si usa per i tavolini da mare. Le ordinarono in cinque file, ci saranno stati, credo, cinquanta posti. 12 La gente cominciò ad arrivare. Erano gentili, mi salutavano. Anch’io ero gentile. Salutavo tutti, signori e signore. Ma qualcosa era davvero cambiato in me, lo sentivo ormai perfettamente. Ma che cosa? Febbricitavo, ansavo, sudavo freddo. Una vicina di casa mi pose amorevolmente sulla fronte un asciugamano bagnato, fresco. Ancora mi ricordo il suo profumo di bucato. Fu a quel punto che ebbi un lampo di genio. Fu davvero un lampo di genio, lo dico senza presunzione, un vero lampo di genio. Dissi “Abbiate pazienza, scendo un minuto in strada a prendere un po’ d’aria, sono certo che mi riprenderò subito.” Ottenni sorrisi e rassicurazioni in cambio, e nessuno si oppose. Scesi in strada e respirai profondamente. Nessuno si preoccupava, nessuno faceva troppo caso a me. La gente continuava ad arrivare, mi salutava. Gli operai portavano su le ultime cose, un paio di luci, qualche altra sedia nel caso servissero. Avevo come intuito il significato di quella frattura che era avvenuta in me. Non c’era niente da ridere. Quella frattura avrebbe potuto salvarmi la vita. Altro che un inutile cambiamento in punto di morte. 13 Tornai a casa, quasi perfettamente tranquillo, e anzi con la mente già rivolta al futuro. Nella confusione generale, salutando ancora questo e quello, riempii una borsa di libri ed effetti personali. Presi con me un po’ di soldi e scesi di nuovo in strada. Doveva essere quasi l’ora, sentivo il brusio come comporsi, forse erano arrivate le autorità di condominio, forse era arrivato il boia. Ripetei mentalmente il mio ragionamento per l’ennesima volta, come a cercare riprova del fatto che avrebbe potuto funzionare. Salii in macchina e me ne andai, senza voltarmi indietro. Ero libero. 14 La sfida Giaragàt aveva lanciato la sfida a Savoràt e adesso stavano l’uno di fronte all’altro, ognuno seduto agli estremi di un lunghissimo tavolo, in piazza, circondati dai loro clan. I clan vociavano rumorosamente a sostegno del proprio capo, e lanciavano grida di odio contro tutti gli altri. “Morte a Giaragàt e ai suoi bastardi” gridavano i savorattiani. “Morte a Savoràt e ai suoi figli di cani” gridavano i giaragattiani. I due sfidanti tenevano un contegno altero, austero e sussiegoso, e non parlavano se non nelle pause di silenzio. Con un gesto del braccio Giaragàt ottenne il silenzio del suo clan. Lo stesso fece Savoràt e a quel punto la sfida cominciò. L’oste portò in tavola due tacchini enormi, e sei fiaschi di vino. Giaragàt infranse il silenzio con una risata infernale e si avventò voracemente sul proprio tacchino, mentre il suo clan esplose in gravi urla di sostegno e di insulti. Savoràt si limitò a lanciare uno sguardo d’odio a Giaragàt, poi, levando di scatto al cielo entrambe le braccia, incitò il suo clan all’ira e al fragore. Ai due tacchini seguirono due lunghissimi rotoli di salcicce, ai tre fiaschi di vino seguirono tre bottiglie di distillato. Ai due rotoli di salcicce segui15 rono due teste di maiale, alle tre bottiglie di distillato seguirono tre bottiglie di cognac. Savoràt stramazzò a terra dopo aver trangugiato la seconda bottiglia di cognac, fra la delusione del suo clan e gli sberleffi di Giaragàt e dei giaragattiani. Si accartocciò e si contorse, vomitò, provò a ricominciare, si rialzò come un pugile caduto al tappeto, si cacciò in bocca un orecchio di porco ma stramazzò di nuovo a terra, sputando e vomitando, infine raccolse al corpo le braccia e le ginocchia come in posizione fetale, attorno allo stomaco sconquassato. Giaragàt era arrogante e fresco come una rosa. Stringeva mani, dispensava sorrisi, ruttava in modo stentoreo e straordinario. Per festeggiare la vittoria brindò a cognac con quelli del suo clan. Savoràt il giorno dopo stava già meglio, bianco come un cencio ma sostanzialmente in forze, considerato tutto. Un coro festante di uomini e di donne lo informò di buon mattino, da sotto la sua finestra, che Giaragàt era morto d’infarto durante la notte. 16 Il giardino incantato Nel giardino incantato c’erano i bambini con la testa di porco. Portavano una camicia bianca dal colletto inamidato, da cui uscivano due zampine di porco. Avevano pantaloni corti, e anche da questi uscivano zampine di porco. Ognuno aveva la sua cartella, e dentro la sua cartella il suo bel sussidiario. Il giardino era dominato dalla scuola, e la scuola era dominata da un maestro terribile. Insegnava la Bibbia ai bambini e li puniva orrendamente quando non sapevano rispondere a qualcuna delle sue domande. Il maestro interrogava ogni giorno, puniva ogni giorno. Il giardino incantato era perfetto. Vi regnava un perfetto ordine. Il maestro ne era molto fiero. Non vi erano genitori in quel giardino. Solo il maestro e i bambini con la testa di porco. Che perfezione! Che ordine meraviglioso regnava in quel giardino! Ma i bambini erano tanti, e il maestro uno solo. I bambini erano tristi, avrebbero voluto dei genitori. Così il maestro, sia pure in via provvisoria e sperimentale, ordinò che nel giardino venissero ad abitare un certo numero di genitori, due per ogni bambino. 17 Genitori irreprensibili, dominati dal maestro. Genitori dalla testa di porco. 18 La fine di tutto Il sole era di nuovo dappertutto e gli ombrelloni colorati a spicchi erano pennellate di gioia sull’olio della spiaggia. Tu assorta con il tuo libro, io meditabondo dietro gli occhiali da sole trovati in terra al matrimonio della tua amica. Suonano le radio, piangono i bambini, coppie si baciano. C’è un’atmosfera di anonimato che avvolge tutto e sembra volerci redistribuire a ruoli a noi più consoni, arcanamente. Mi sdraio e non esisto più: sono un uomo che prende il sole. Ti allontani e non esisti più: sei una ragazza che cammina sulla battigia, coi piedi nell’acqua. In tutto questo sembra perpetuarsi qualcosa che va al di là di noi. Sembriamo niente in questo contesto, evaporati, rarefatti, e in me subentra una strana sensazione di pace che si mischia indefinitamente al benessere fisico, venata di inquietudine, inafferrabile. Sarebbe straordinario, penso, se fossimo già morti, passati, se potessimo ricordare col sorriso la nostra vita precedente, qui dall’eternità, da questa spiaggia senza tempo, dove tutto esiste in compresenza e dove tutti ci ritrovassimo un po’ alla volta, con grida e con saluti. Che bello se fossi già morto, se questa fosse l’eternità, se tutta la 19 vita ci stesse adesso davanti, liquida, assolata. In quel mentre ci fu un silenzio come da terremoto. Si alzò un vento improvviso. Se fosse un’onda anomala o un maremoto non so dirlo, non chiedetemelo. Una muraglia di mare si stagliava altissima, verde, contro al sole, contro di noi, si avvicinava, cupa, facendosi tuttavia più alta, nera, distruttrice. L’uomo del cocco - vidi la sua silhouette contro al sole - smise persino di respirare. Diventò di sale. Gli uomini che prendevano il sole alzarono il collo, il busto: guardavano, senza dire niente. Le ragazze che camminavano sulla battigia pensarono forse ai loro amori. Potei soltanto immaginarle. In quella bolla d’aria e di tempo sembrò sperimentarsi davvero l’eternità, ma il terrore che mi assalì in quel punto mi ricordò infallibilmente che stavo ancora dentro al tempo. Dov’eri? Ti cercai con disperazione, con lo sguardo. Invano. Poi fu la fine. Non chiedetemi se dopo fu la luce, oppure la tenebra, se vidi qualcuno dopo di allora, oppure fui da solo, sperso, nebulizzato in atomi di grigio non-essere o in schegge di infinità. 20 John Rambo Sdraiati sul nostro divano fuori dallo spazio e dal tempo, ti tengo tra le braccia come si tiene tra le braccia la cosa più preziosa dell’universo. Mi è stata affidata questa missione: di custodire per un po’ di tempo una porzione di eternità. Il mio sonno è leggero, vigile. Devo proteggerti dai nemici senza farti accorgere di niente. Sei così fragile a volte, così ignara delle condizioni particolari della guerra. Ti cuci addosso, a volte, una serenità o un turbamento che hanno qualcosa di infantile. Devo proteggerti. Dormo con una mano sulla tua nuca e con l’altra sul fucile mitragliatore. Lo sai che siamo in guerra ma non sai dei pericoli che corriamo di ora in ora, di minuto in minuto. Eppure sprofondo anch’io, a volte, in un sonno primordiale. Torno come bambino, quel bambino con l’elmetto e il fucile di plastica che sta dentro la foto in bianco e nero che mi scattò mio nonno, milioni di anni fa. L’hai veduta, ti ricordi? Non è un fuggire dal tempo. I bambini non stanno fuori ma dentro la realtà, dentro la verità. Si accostano a lei, soltanto, da un altro punto di vista, da un altro suo lato. Non ho una missione stavolta. Stavolta sei tu che mi 21 salvi, armata di sangue e di cuore che batte all’impazzata, armata di strali, di raggi di sole tutti d’oro che brandisci, che vibri con forza, con violenza, contro le Tenebre, contro il Male, contro i miei nemici. Forse neanche lo sai: sei una guerriera straordinaria. Combatti con valore, vinci per me. Tu mi liberi da me stesso. Ecco: tu mi liberi da me stesso. Chissà se lo sai, se lo immagini, se lo intuisci. Spuntano le prime luci dell’alba. Dormo un sonno leggero, vigile. Tengo una mano sulla tua nuca e l’altra sul fucile mitragliatore. Ti tengo tra le braccia come si tiene tra le braccia la cosa più preziosa dell’universo. Con l’immaginazione ti accarezzo, ti stringo, ti parlo. Ti desidero. Ma resto ammirato dal tuo russare e ti lascio dormire. Esposto ai raggi d’oro della tua sottoveste fumo una sigaretta, una soltanto, senza farmene accorgere. 22 Cento piccoli mostri Sono meteoropatico e ho imparato ad accettarlo con serenità. Oggi è una di quelle giornate in cui mi aspetto una loro visita. Senza combattere. Il cielo è plumbeo, tutto uguale, piove acqua mischiata a nevischio, è freddo, è domenica, ho finito il vino. Mi sdraio sul divano, completamente nudo per semplificare le cose, mi copro solo con un sacco a pelo che uso come una coperta. Li aspetto. So che verranno. Sono ragionevolmente certo che verranno. E infatti eccoli, puntuali, silenziosi, flemmatici. Hanno il corpo di cuccioli di cane. Si muovono incerti, teneri. Le loro teste invece sono sproporzionatamente grosse, come quelle di un dinosauro per intenderci, e hanno denti orribili e acuminati, come quelli di un tyrannosaurus rex (fatte naturalmente le dovute proporzioni). Sono insomma cuccioli di cane con la testa di mostro. Non abbaiano. Si muovono lentamente, scodinzolano. Non mi ribello, non li mando via, perché ho imparato che è impossibile lottare contro di loro. A volte riesco a non aver paura di loro, pur sapendo quello che vogliono farmi. Si arrampicano sul divano e pian piano mi circondano, come piccole bestie intente a nu23 trirsi del latte della mamma. Metto via anche il sacco a pelo, per semplificare le cose. Sono ormai circondato, altri piccoli mostri attendono sul pavimento il loro turno, mi guardano con occhioni sonnacchiosi mentre chiudono il naso fra le zampe o mentre si stiracchiano. Il pasto comincia. Con movimenti sorprendentemente decisi cominciano a strapparmi, a mangiarmi, li vedo scodinzolare mentre affondano ciechi i loro denti aguzzi nelle mie carni. Mi scorticano, mi svuotano, mi spolpano, e io non posso farci niente. Uno di loro si è portato via qualcosa, se lo è trascinato in un angolo della stanza, ora si è acquattato e lo divora. Deve essere un pezzo di fegato o di polmone, è una gelatina scura, sanguinolenta. Alla fine tutta la stanza è appiccicata di sangue. Le mie ossa sono dovunque, sparse, qualcuna negletta, le altre perlopiù tra le fauci di qualche piccolo mostro intento a sgranocchiarle. Li vedo non so con quali occhi, visto che i miei occhi non esistono più. Molti mostriciattoli dormono, fanno la pennichella. Ho come l’impressione che un raggio di sole ferisca la stanza adesso, per un attimo vedo un riflesso giallo-oro scolorare le cose e confondere i contorni, mi ricordo di pomeriggi sul mare in compagnia di ragazze, abbracciati, sonnacchiosi, salati, dopo aver fatto l’amore. 24 Odore di catrame, odore di sperma, odore di fica ancora sulle mie mani. Il tuo respiro, il battito del tuo cuore, alcuni gabbiani che si stagliano contro il sole rosso, basso, desideroso di tuffarsi nel mare. Il rumore del mare, il ritmo del mare, della vita. Un movimento delle tue cosce, acerbe, sode, cosce che strusciano l’una contro l’altra, producendo un suono impercettibile, cosce acquattate contro la fica dopo essersi aperte in un’epifania d’amore, di sangue, di bellezza. Com’è spengersi? Cos’è morire? Decadere e crescere sono la stessa cosa? Dov’è la mia casa? Esiste la mia casa? Sono solo nella mia casa, o qualcuno vive con me nella mia casa? 25 La prova Fui caricato sul carro dell’ignominia e portato via dalla vita. La cospirazione era vasta, la stessa che ebbe successo nel vessare molti uomini nati all’amore. Dalle sbarre del carro che si inerpicava per un sentiero alpestre e tortuoso potevo vedere il mare allontanarsi, svanire ogni mio orizzonte più caro. Mi rimase sul volto un sorriso inebetito, cucito addosso come da una fiducia arcana, lontana e impalpabile ma viva nel ricordo e nella speranza. Il carro dell’ignominia mi portò in un castello romito, nei cui sotterranei fui castrato e legato in ceppi. Ogni giorno ero divorato dai cani e ogni giorno una strega malefica mi tagliava la testa con una roncola, dopodiché me la immergeva in un secchio pieno di sterco e inveiva contro di me in una lingua che non comprendevo. Nelle lunghe pause di silenzio in cui la mia testa rimaneva negletta dentro al secchio, rannicchiandomi tutto nel mio spirito, così senza corpo come ero, ricordo di aver sognato più volte di fumare una sigaretta, una sola, di quelle che si fumano una volta l’anno, a Natale, insieme ai parenti più cari e più preziosi, in uno di quei momenti che ti pentirai poi per sempre di non aver saputo 26 cogliere in tutta la sua bellezza e irripetibilità. Ricordo di aver vagheggiato l’infanzia, le mani di mio nonno che mi sostenevano nei miei primi passi, nelle mie prime escursioni sulla scogliera, nei miei tentativi di imparare a nuotare. Cos’è che fa un uomo e cos’è che lo sfa. Quale mistero ci sta sopra e quale ci rapisce via dal cielo. Ma, soprattutto, quale origine di tanto accanimento contro gli uomini che semplicemente vivono, vivono e basta, anche se egoisticamente, modestamente, anche se isolati, senza far danno ad alcuno. A chi dispiace l’amore? A chi dispiace la vita? A chi dispiace la felicità? L’amore non basta a sé, l’amore ha bisogno di un’arma, di un talismano, l’amore ha bisogno di una magia. Un giorno, durante l’ora della pennichella, quando i cani digerivano sonnacchiosi dopo avermi divorato, mi apparve mio nonno, in un luogo dello spirito dove, sia pur privo del corpo, ero tuttavia cosciente. Stringeva in mano una pietra verde legata a una cordicella, e me la porgeva. Era serio, e mi diceva: “Prendi in mano il tuo destino.” Io presi la pietra e la strinsi nel palmo. Poi distesi il palmo e la guardai. 27 L’amore mi invase e mi ridiede la vita, quella piena, quella vera. Vi sembrerà incredibile, ma ero riuscito ad abituarmi a quelle condizioni, per quanto orribili. C’è qualcosa di primordiale dentro l’uomo che ti dà l’illusione di poter sopravvivere a tutto. Ti aggrappi a quel qualcosa e hai davvero l’illusione della salvezza, o quantomeno di una salvezza accettabile. Avevo strutturato la giornata in momenti topici, come il pasto dei cani o la mia decapitazione ad opera della strega, dopodiché avevo elaborato tecniche per vincere il dolore, o lenirlo, e intorno a tutto ciò avevo costruito una routine di abitudini che mi faceva passare il tempo, mi rendeva la vita sopportabile. Pensavo al giorno dopo. Pensavo al futuro. Dopotutto l’essere divorato ogni giorno era una certezza, e mi dava delle certezze. Non avevo paura dell’ignoto. Ma adesso avevo la pietra. Avevo di nuovo la vita. Avevo l’amore. Potevo guardare in faccia la verità e sconfiggere tutti i miei nemici. Bagnai la pietra con le mie lacrime e trasformai i miei ceppi in mazzette di banconote. Con quei soldi corruppi le guardie ed evasi dal castello. Caddi in ginocchio quan28 do, sulla via del ritorno, uno scollettamento della strada scoprì ai miei occhi l’immensità del mare, come un velo che scopre la bellezza del sesso dell’amata. 29 INFINITO E BESTIA Delio Il sole precipitò nel mare e il cielo si tinse di tenebra. Le stelle luccicavano a bassa voce e la luna non c’era. C’era il vento, forte e freddo, che sbatteva il mare sugli scogli e fischiava tra le case, strappando rami dagli alberi e sporcizia dai cassonetti rovesciati. Delio parlava da solo, cercando interlocutori, nella penombra della sua stanza. “Voglio morire” - disse - “Che ci sto a fare al mondo? Non ce la faccio più, merda non ce la faccio più a tirare avanti questa vita!” Nella stanza accanto, sua madre paralizzata, a letto. Gli alieni lo ascoltarono, e, dopo averne discusso col comandante anziano, decisero, indulgendo alla loro etica compassionevole, di esaudire il desiderio del terrestre. Dalla loro astronave partì un raggio Zeta che penetrò attraverso i muri, senza ferirli, e tranciò di netto la testa di Delio. La testa rotolò sul pavimento, per un attimo la sua espressione, come sorpresa, parve di- 33 re: “Che avete da piangere, ridete! Sono un pagliaccio, ridete!” 34 Decomposizione Cominciò tutto una mattina d’estate davanti allo specchio. Mi pettinai con la spazzola di ferro, la mia preferita perché dà un piacere assurdo, un solletico fresco e lieve sulla cute che accappona la pelle e scende elettrico giù alla schiena. Quel giorno tuttavia una piccola zolla di cuoio capelluto si strappò dal mio cranio come cuoio secco e marcio di una scarpa d’altri tempi. Ebbi subito terrore, sudore freddo e mal di stomaco, ma mi ripresi abbastanza bene la sera stessa dopo aver constatato come il mio benessere fisico non fosse mai venuto meno per tutta la giornata. Stavo bene, mi sentivo in piena forma, soltanto avevo scoperta una zona di cranio. Al tatto non mi dava nessun fastidio, l’osso era secco e la cute intorno non doleva neanche se ci grattavo sopra. Cominciai a farmene una ragione. Indossavo berretti di ogni tipo, solo, in verità, per risparmiarmi il disco rotto di chiacchiere dei benpensanti. Frequentavo ragazzi punk ed ero l’idolo del gruppo. Avevo una ragazza tatuata dalla testa ai piedi con un piercing su un labbro della vagina. Impazzi- 35 va per il mio cranio scoperto e la mia vita era straordinaria, normale insomma. Ma un brutto giorno successe di nuovo. Passeggiavo da solo, al porto, mi incuneai sotto una recinzione per raggiungere un vecchio molo in disuso dove andavo a pensare ai miei guai quando ero adolescente. Facendomi strada fra macerie e vecchi rottami picchiai la spalla violentemente contro un’impalcatura arrugginita. Incredibile, il mio braccio destro si staccò di netto. Non sentii male. Stava in terra tra la polvere, secco, come una vecchia scopa, come un fastello di paglia. Che schifo. Mi sentii venir meno, nausea, mi sdraiai, era caldo, forse svenni, forse mi addormentai dentro un oblio di quiete, cullando la speranza di potermi svegliare al di fuori di quell’incubo. Ma niente da fare. Ritrovai le forze che era notte. Avevo un braccio solo, il mio braccio non c’era più, al suo posto un moncone. Neanche riuscii a trovarlo, al buio, fra quelle schifezze, chissà che un cane non se lo sia portato via, pensai. La mia ragazza andò in estasi quando mi vide. Volle che io imparassi a cantare trash, una roba di urla e ruggiti, e così dopo qual36 che tempo diventai il cantante di un gruppo musicale che subito diventò famoso nella zona. Facevamo concerti ovunque, mi chiamavano “Lo zombie”. Stavo bene, benissimo. Ero di nuovo nel pieno delle forze, anzi avevo dentro di me una potenza nuova, grande, la potenza di chi si è temprato in grandi avversità. Ma il terzo colpo mi stroncò. Ancora adesso lo racconto con dolore. Fu forse un anno dopo. Facevamo l’amore, io e la mia ragazza. Le stavo sopra, la baciavo in bocca mentre con la mano sinistra le artigliavo i capelli neri sulla nuca. L’amplesso cresceva, diveniva una battaglia d’amore. La feci venire con la lingua e poi la penetrai di nuovo, con ardore, con foga, fra le sue urla di passione. Quando a un tratto successe l’indicibile, l’impensabile, l’orrore e l’umiliazione, la vessazione di un perseguitato. Fu come lo spezzarsi di un fiammifero, il mio pene si troncò e rimase dentro di lei, come legno marcio. Non ricordo più niente o quasi da quel punto in poi, la mia ragazza urlava inorridita, io ridotto a un uomo di fango mosso da spasmi isterici in un vortice di allucinazione. 37 Mi ritrovai da solo, senza la possibilità di avere mai più una compagna. Provai a reagire, a dire il vero. Cominciai a scrivere, a frequentare suore preti e gruppi di preghiera, ma niente, la vena mistica non mi si addiceva. O forse mi si addiceva troppo. Il fatto è che senza il sesso non provavo più nessun interesse per la vita sociale. Mi davano fastidio le persone che ridevano e scherzavano in compagnia. Non provavo brividi. Non avevo interessi. Cominciai a fare il volontario in ospedale. Stavo bene solo quando stavo coi malati terminali. Li sentivo come me, fratelli nel dolore e nella pallida castità, carne della mia carne e sangue del mio sangue. La decomposizione continuò, ma fu solo una questione di gradualità. Perdevo pezzi di me ma non ci facevo più caso. Andavo avanti giorno dopo giorno sul mio sentiero di disfacimento, quasi sereno, in completa solitudine. Una sera di me rimasero solo gli occhi. Tutto era buio e i miei occhi stavano sul letto, bianchi, grandi. Pensavo a me stesso con grande pena. Ma ecco che vidi altri occhi bianchi nel buio, e poi pian piano altri occhi, e poi altri ancora. Si raccolsero intorno 38 al mio letto, placidi. Mi parve di udire qualche sospiro, qualche risolino, forse una risatina infantile e sadica. “Questa è la morte?” - pensai - “Me la rido se questa è la morte!” Nel buio scoppiarono risatine e sghignazzi. Era davvero la morte. Era giunta la mia ora. Tanta paura, tanta angoscia, tante riflessioni per niente. Tonnellate di libri e di rovelli per arrivare a questo: un coro di sghignazzi intorno a due occhi. 39 Guerra La febbre di Ermete cresceva. La sua mente scopriva nuovi fili rossi, invisibili agli uomini medi, nuovi legami tra le cose che erano sintomi, e, per la quantità, prova dell’esistenza di forze, di complotti, di nemici potenti organizzati in modo sistematico contro di lui. Era la vigilia del Trilunio ed Ermete non riusciva a fare quello che voleva. Non poteva, bloccato dai complotti. “Perché?” - si chiedeva - “Perché?” Non aveva da lavorare quel giorno ed era andato al supermercato a comprare qualcosa da mangiare, in tutto relax. Ma il supermercato, nonostante l’orario fosse ben lontano da quello di punta, era stracolmo di gente. Alla cassa c’era una fila interminabile ed Ermete dovette rinunciare perché di lì a poco sarebbe dovuto andare a prendere suo figlio Neno a scuola. Pioveva ed Ermete si domandò se fosse davvero un caso. Quando c’è il sole la maggioranza dei bambini tornano a casa a piedi o in bicicletta. Quando piove invece tutti i genitori vanno a prenderli con la macchina, creando una bolgia infernale di traffico da40 vanti alla scuola. Quel giorno la bolgia fu anche maggiore perché molti genitori erano in ferie, a causa della vigilia del Trilunio, e potevano recarsi a scuola a prendere i figli. Ermete e Neno arrivarono a casa stremati e affamati. Neno, la solita aria catatonica. Ma Ermete non trovò granché pace. Siria, la moglie di Ermete, era infatti una fanatica della vita salottiera e aveva invitato a pranzo due cariatidi dell’Esercito stellare conosciute a teatro durante l’intervallo di una cerimonia commemorativa. Quando Ermete e suo figlio entrarono, una delle due cariatidi, un ex-comandante di vascello, stava enfaticamente raccontando gesta militari dimenticate che gli erano valse l’onorificenza di “Onesto commodoro”. Ermete, che pure era collezionista di vecchi libri di cronache militari, fece buon viso a cattivo gioco e fece finta di ascoltare con interesse, ma sognò di sbronzarsi, di accoppiarsi con una giovenca in un amplesso liberatorio, di masturbarsi, di riempirsi lo stomaco di pasticche benessere “Occhio sereno”. Che schifo, sua moglie e le cariatidi avevano mangiato come porci e non c’era rimasto 41 niente, solo la minestrina messa da parte per il bimbo e del pane schietto. “Come può tutto ciò essere un caso? Come non vedere un lucido complotto di forze ostili dietro questi avvenimenti?” Ermete sprofondò in pensieri cupi e con una scusa scese in strada. Avrebbe voluto passeggiare ma si ritrovò a camminare a passo svelto, nervoso, non appena ebbe chiaro a se stesso di dover raggiungere il giornale il prima possibile. Una voce interna gli ingiungeva di andare, ansiosa, preoccupata. Ermete era il direttore di “Spazio”, un giornale di media diffusione. Persona schiva ma influente, era stato decorato in più occasioni per meriti di servizio alla Nazione. Al giornale non c’era nessuno, a causa della festività. Il giorno seguente l’edizione quotidiana di Spazio non sarebbe uscita. Ermete entrò nel suo studio, trafelato, concentrato. Febbrilmente si mise a lavorare al QOP (Quantificatore Ottico di Probabilità), mettendo in campo le forze in gioco e avvenimenti a suo parere significativi, alla ricerca di un nesso, di una sorgente, di una causa. 42 Telefonò a casa per avvertire che sarebbe tornato tardi, forse anche il giorno dopo. Passò la notte insonne, bevendo caffè, davanti al QOP. Alle prime luci dell’alba finalmente il QOP dipingeva un mondo ordinato: nessi, cause ed effetti, fili rossi univano le cose, le più lontane, le più disparate. Lo schermo del QOP pullulava di colori, meravigliosamente. Tutti i complotti erano svelati. Sul viso di Ermete l’ansia e la preoccupazione avevano lasciato il posto a un sentimento di soddisfazione, temperato da un profondo senso di giustizia e di responsabilità. Che fare adesso? Fece una pausa per rilassarsi. Stanco, dormì due ore sulla poltrona. Poi si lavò, si sbarbò, si profumò. Diede un’ultima occhiata al QOP. Telefonò quindi a casa per salutare e avvertire la moglie. “Amore lo so bene che oggi è festa, ma usciamo in edizione straordinaria. Poi ti spiego, adesso non posso. Dai un bacio a Neno. A più tardi, ciao.” Telefonò ai più stretti collaboratori per convocarli al giornale. Si mise al lavoro, stilando una bozza di editoriale sul suo computer portatile. Scrisse 43 infine a lapis, su un foglio bianco, quello che ebbe deciso essere il titolo, a lettere cubitali, dell’edizione straordinaria: “MUOVERE GUERRA AGLI ABITANTI DEL PIANETA AXOLOTL!” “Brutti mostri” pensò fra sé. 44 Mezzogiorno di marzo Alberi e nebbia dalla finestra. È la finestra della mia astronave. Sono lontani i tempi dei complotti, dei sordidi agglutinamenti di Male contro di me, arcani. La vita di famiglia è tribolata, dura, ma densa di soddisfazioni: i cuccioli, un magnifico cane, una moglie lussuriosa e solare che è pure pazza, devota, letterata, cuoca sopraffina, crapulona. La mia casa è un porto di mare. È un giardino di odori. La porta è sempre aperta. Amici vengono, vanno, si sbronzano insieme a me al tepore dell’abbraccio della famiglia felice. Mi scoppia il cuore, a volte, e vorrei tanto essere all’altezza di tutto questo. Se chiudo gli occhi corro all’impazzata, fra l’erba, annuso, ansante e muscolare, poi, orgoglioso, lo sguardo mischiato al sole, porto trionfante al comandante Kirk il tesoro che ho trovato, stretto tra i denti, il ramo che mi ha lanciato, con grida, desideroso e certo del suo premio, della sua carezza: sono un cane felice. 45 Necrophilus I Se c'è una categoria di gente che mi sta veramente sul cazzo questi sono gli scrittori. Eccolo che arriva, vestito male perché disprezza la plebe che ama ben vestirsi, fottere e piacere agli altri. Ma porta una sciarpa raffinata ed eccentrica per farti capire che si veste male per scelta e non perché viene da un paesino di bifolchi. Se poi ci parli capisci che la rivoluzione copernicana è stata un errore della scienza perché l'universo intero in realtà gira intorno alla sua meravigliosa testa di cazzo. Lui si intende di tutto, tu non capisci niente. No, perché tu guardi la tv e leggi i giornali, lui invece ha accesso a informazioni top secret debitamente occultate al popolo dalla Spectre di 007, che ha lavato il cervello a tutti e governa su un pianeta di dementi (tutti dementi tranne lui naturalmente). Per fortuna esiste uno straccio di giustizia e lui vive solo e senza amici, circondato da ammiratori e ammiratrici sottomessi e plagiati per un periodo a cose normali transitorio. Dopo morto andrà all'Inferno, nel girone degli accademici. Ma non tutti gli scrittori sono come lui. Ce ne sono 46 di peggio. Ecco quello che vuol venire dal popolo e incarnarne la cultura, si veste male stando attento a non mettersi roba elegante che potrebbe rivelare la sua natura aristocratica, sta coi poveri, fa volontariato e quando parla sembra abbia la terza elementare. È il massimo dello snobismo, te ne accorgi perché le sue fidanzate, i suoi fidanzati, i suoi amici intimi sono tutti cervelloni laureati. II Anch'io sono uno scrittore (modestia a parte, molto bravo), ma appartengo a una terza categoria. Sono uno scrittore necrofilo, e l'averne consapevolezza mi riempie la vita di disgusto. Ho una malattia mentale. Se prendo in mano un libro, e me lo guardo, e me lo sfoglio, con l'acquolina in bocca mi trasformo, provo il piacere, la libidine di chi scopa fiche secche di cadaveri (che c'è di più bello?), sono orgasmi intensi, esplosivi, ma il piacere che provo è disgustoso e non posso più vivere né scrivere. Ho comprensione per chi prova una compulsione violenta a bruciare libri, oppure al suicidio. Ce ne sono di questi individui (oltre me), ve lo garantisco. Se frequentate le sale d'aspetto di un neuropsichiatra ne vedete di mondo. 47 Ho fluttuato per anni tra picchi e valli, fra entusiasmi e depressioni, tra putrefazione e nobiltà, alla ricerca del farmaco giusto, senza mai aver rapporti sessuali, solo masturbandomi, tutto nudo, su letti e divani pieni di libri. Che vita! D'accordo col mio neuropsichiatra ho cominciato di recente a frequentare corsi per imbalsamatori finanziati dal governo, si tratta di nuove attività, nuove professioni. Nuove si fa per dire. Ti piacciono i morti? Eccoteli, caro mio scrittoruccio del cazzo. Non so se avete mai sentito parlare di tanatoesteti e tanatoprattori. La differenza è fondamentale. Il tanatoesteta interviene sulla superficie del cadavere, lo sbarba, lo incipria, lo lava, lo veste, lo compone, gli taglia le unghie e via dicendo. Il tanatoprattore interviene invece sottocute, purifica il morto dai liquami schifosi che ne accelerano la putrefazione, inietta sostanze miracolose che possano prolungarne l'esposizione ai parenti e che letteralmente credetemi lo ringiovaniscono, lo abbelliscono, lo rasserenano nell'espressione e gli ridanno vita, se così si può dire di un cadavere. È un mercato di grande umanità, un mercato che gira intorno all'amore per i propri defunti. Una cosa assai bella, a veder bene. 48 Diventerò presto un tanatoprattore professionista. La terapia sembra funzionare. La compagnia dei cadaveri in obitorio o sul lettino sul quale opero mi purifica, quasi mi guarisce, mi riporta alla realtà (bella o brutta) delle cose. In frigorifero abbiamo tante belle ragazze, ma ho smesso di abusare di loro la notte o nei ritagli di tempo. Stando a giornate con la morte va a finire che mi abituo ai morti e mi innamoro di nuovo della vita. Che meraviglia la natura! La fica, il buon vino francese. Mi scordo della malattia mentale e torno a vivere gagliardo, senza paura e senza remore, io tutt'uno di infinito e bestia. Mi lascio annegare in un sonno sano pieno di vita sulle tette di mia moglie. Mi addormento pensando a un nuovo romanzo, a un nuovo racconto. E le scrittrici? Vecchie baldracche! Se ho fortuna avrò anche una polluzione. 49 Il bimbo Avevano sempre desiderato avere un figlio. Abitavano in una casa di legno, nel bosco. Erano molto poveri. Vendevano legna nel paese a valle e mangiavano i propri animali. Non sapevano leggere e avevano la fama di essere due svitati. Sbagliavano i giorni della settimana, scendevano in paese vestiti bene per la Funzione domenicale ma non era domenica, era sabato, oppure lunedì. Li vedevi arrivare col loro carico di legna da vendere e invece era domenica. Suscitavano l’ilarità generale ma tutti volevano loro bene perché in fondo erano due poveri diavoli e non avevano mai fatto male a nessuno. Una notte d’estate piena di stelle stavano sul divano a dondolo fuori la loro casetta. Si tenevano per mano e bevevano grappa, discorrendo e guardando il cielo. Pensarono a una stella cadente quando videro un bagliore striare il cielo in lontananza. In segreto espressero un desiderio. Ma il bagliore invece di svanire aumentò, e quella che era sembrata una stella cadente si rivelò essere un meteorite. La stria di luce si avvicinava e fece loro intuire che il masso sa50 rebbe caduto nelle vicinanze. In men che non si dica ci fu un tuono e la stria di luce si schiantò nel bosco, in un punto non molto lontano dalla loro abitazione. “Andiamo a vedere, forse è un segno del Cielo.” Disse lei con occhi spiritati di eccitazione. Lui più sospettoso, lì per lì non trovò argomenti per contrastare la moglie e annuì in silenzio. Lo spettacolo che si presentò ai loro occhi fu incredibile. In mezzo a foglie bruciate e rami schiantati ancora ardenti stava un masso spaccato a metà, della grandezza di un alveare. In una delle due metà stava qualcosa come in una culla. Quel qualcosa pareva muoversi. Si avvicinarono ed era un baco rosa, aveva come due braccine e due gambine, e una roba come una testa, minuscolo, della grandezza di un palmo. Non ebbero dubbi: era il loro bambino, il loro bambino mandato dal Cielo. Colmi di gioia avvolsero il bimbo in una sciarpa di lana e lo portarono a casa. 51 Gli ultimi anni del pianeta terra “Guarda la terra, mamma, è pieno d’occhi!” Questo il commento di Emolo alla vista straordinaria del mondo dall’alto dell’ultima collina verde. Gli occhi cominciarono a diffondersi col diminuire dell’intensità solare. Palmo dopo palmo, decennio dopo decennio, secolo dopo secolo, metro dopo metro ricoprivano ormai quasi tutta la superficie del pianeta. Bellissime creature piene d’amore, vivevano a contatto l’una con l’altra, pacifiche, mute, quasi tristi, le membrane intrecciate come a tenersi per mano, molli, le grandi pupille verdi rivolte verso il cielo rosso tinto dal lento crepuscolo del sole. Gli occhi aumentavano, gli esseri umani diminuivano. Questa la storia degli ultimi tempi. Non ci fu lotta. I genitori di Emolo erano sereni, sapevano di essere tra gli ultimi e che Emolo sarebbe stato forse l’ultimo uomo mai nato. Ma erano felici. Emolo si addormentò fra le braccia di sua madre, seduta sull’erba accanto a suo padre, che li abbracciava entrambi e li baciava, 52 mentre miliardi di occhi sulla superficie del pianeta si tenevano per mano sotto il crepuscolo del sole. 53 LE RADICI DEL BENE Le radici del bene I Erano passati anni. Erano tutti morti. Il tempo li aveva maciullati a uno a uno. Ci aveva maciullati. Non ero più stato in quella casa. Ero come bloccato dall’idea di un dolore disumano che mi avrebbe assalito e dilaniato, ucciso per sempre. Pensavo ad altro, ma in realtà pensavo solamente alla mia desolazione. Una lastra di ferro, fredda, arida, che mi sigillava perfettamente in me con la mia estraniata e decisiva complicità. Un giorno mi resi conto che non avevo più niente da perdere. Ero già morto, compiutamente, perfettamente. Deambulavo per il mondo con il mio corpo ma non avevo più anima. Ero solo, completamente solo, né poteva essere diversamente. Non avevo più lacrime né amarezza. Mi guardavo nello specchio e vedevo lì incorniciata l’immagine perfetta della morte. Trovai il coraggio di aprire il cassetto dove stavano le vecchie chiavi. Le vidi e per un attimo li rividi tutti, sentii le loro voci. Poi niente, scomparvero di nuovo. Questa volta 57 fui io ad ucciderli. C’era una lacrima sul mio viso ma era il viso di un morto, era stato il sussulto di un cadavere percorso da una scossa elettrica, la fotocopia di un sentimento, di un lampo. Scesi in strada e non c’era nessuno. Montai in macchina e percorsi di nuovo la vecchia strada, chilometro dopo chilometro. Non c’era nessuno, non c’erano macchine. C’erano i semafori ma non c’erano macchine. Non c’erano persone sui lati della strada. Parcheggiai sotto la vecchia casa. Sudavo freddo. Avevo gli occhi asciutti. Meccanicamente aprii il portone. Riconobbi l’eco dei passi che restituiva l’androne. Salii in ascensore e raggiunsi con angoscia il terzo piano, in un’ascesa interminabile. Non pensavo. Sudavo. Dovevo farcela. Presi le chiavi, e, come in un altro tempo, aprii la porta con il fac-simile di un gesto leggero. Ero dentro. Chiusi la porta di casa finalmente dietro di me e alzai lo sguardo. Ce l’avevo fatta. II Mia moglie e i miei figli sapevano quello che sapevo, vedevano quello che vedevo, si 58 erano armonizzati perfettamente con la nuova, vecchia casa. Il pavimento sempre pulito, la cucina sempre piena di colori, i miei morti non se ne erano mai andati, non erano mai morti. Solo io ero stato morto. Erano felici del mio ritorno. Quante persone di nuovo nella vecchia casa. Quanta gente per strada quando andavo al mercato a far la spesa, col cuore grande quanto il cielo sopra Livorno. Gli occhi grandi di mio figlio erano i miei davanti al banco del pesce. I miei cari mi salutavano dalla finestra. Mi accoglievano sulla porta di casa. Era Natale e tutti insieme brindavamo a questo ennesimo miracolo dell’amore, a questa nuova occasione sortita dagli astri, quella di vivere ancora, tutti insieme, in eterno. 59 Il nuovo mondo Alle 13:45 le strutture del mondo cambiarono. La logica si attenuò. Gli orologi persero pian piano la loro perfetta forma circolare e diventarono oblunghi. Alle 16:00 la dichiarazione congiunta del Presidente degli Stati Uniti d’America e dei redivivi Marx, Lenin e Che Guevara: “Le radici della guerra e dell’ingiustizia sono nel cuore dell’uomo.” Alle 16:25 il Presidente dei Supermercati riuniti della Galassia dichiara che il consumismo non dà la felicità. Gli angeli del Signore distribuirono Prozac a tutti gli abitanti della terra e le guerre cessarono. 60 APPENDICE Il condominio La riunione cominciò una sera dopo cena, nell’Aula delle riunioni. A presiederla uno dei condomini, incolore ex-avvocato della Sacra Rota ma eccelso nozionista di giurisprudenza condominiale. Accanto a lui l’Amministratore del condominio, un ragioniere non infallibile che per pochi spiccioli si era messo a disposizione dei condomini. La sua faccia parlava da sola, il suo corpo era lì, nell’Aula delle riunioni, ma la sua mente era altrove, forse davanti a Sport Channel, forse davanti all’ultimo film porno amatoriale suggeritogli dall’esperto commesso del Sexy Shop. “Dunque dalle carte dell’Amministratore risulta che il Signor Naverchi, stasera assente, non paga la retta condominiale da cinque anni” - esordì l’ex-avvocato. “Sono esterrefatto” continuò, “con il Signor Naverchi ho avuto un rapporto quasi di amicizia, se così si può dire, non riesco a comprendere come io possa essermi sbagliato così grandemente sul suo conto.” Nell’aula si diffuse un brusio via via interrotto da sussurrate bestemmie e da manifestazioni di sdegno. “Se ho ben capito noi tutti, in tutti questi anni, ab63 biamo pagato il riscaldamento al Signor Naverchi, mentre lui si è riscaldato gratis, è questo quello che lei vuole dire?” sbottò uno dei condomini. “Sì è esattamente così” disse l’ex-avvocato, “l’Amministratore qui presente può confermarlo.” Per un attimo tutti guardarono l’Amministratore che, in silenzio, annuì con espressione assente. “È una vergogna!” Sbottò un altro condomino alzandosi in piedi e dimenando le braccia. “Che schifo” gli fece eco un altro condomino. “Silenzio per favore” intervenne l’exavvocato, “purtroppo questi sono i fatti, non ci resta, se siete d’accordo, che procedere alla giustizia. Ci rifaremo sulla sua casa. Il Signor Naverchi è proprietario, la faremo vendere all’asta e otterremo giustizia dalla vendita della sua casa, incassando ognuno il dovuto.” Ci fu silenzio, forse a qualcuno per un attimo dispiacque l’idea che il Signor Naverchi, tanto una brava e umile persona fino a pochi istanti prima, venisse pignorato e cacciato dalla sua casa. Sarebbe finito sicuramente in un ospizio per vecchi, data l’età. Ma il fuoco della giustizia andava placato, giustizia, appunto, si chiamava, e la bilancia della giustizia, sacra, andava pareggiata. “Sì” disse un condomino, “Sì, assolutamente”, fece eco un altro, finché l’Aula delle riunioni divenne un coro unanime di 64 assenso e di condanna. Tutto era deciso, la casa del Signor Naverchi sarebbe stata pignorata, venduta all’asta e il ricavato diviso tra i condomini, vittime e parte lesa. Si respirava adesso un clima più sereno, ognuno già faceva i conti di quanti soldi la giustizia gli avrebbe restituito. “Neanche hanno pensato a interpellarlo” disse l’Entità aliena che supervisionava la riunione. “Niente, neanche il beneficio del dubbio. Lo hanno condannato e basta.” “Come sono andate le cose?” chiese l’Entità aliena di supporto. “È stato un errore dell’Amministratore” rispose l’Entità superiore. “E l’ex-avvocato? Non era suo amico? Non gli è passato per la testa di parlargli un attimo in privato prima di procedere alla pubblica condanna?” “No” rispose l’Entità superiore, “lo ha condannato e basta.” “Che miserabile, quello non ha mai conosciuto il significato della parola Amicizia.” “Sì è così.” “Che farai adesso, li punirai?” chiese l’Entità di supporto. “No” rispose l’Entità superiore, sospirando, “ma darò loro quello che liberamente hanno scelto per sé e per le proprie vite.” L’Entità dispose che i condomini presenti alla riunione fossero dispersi nell’universo, 65 ognuno su un pianeta disabitato fatto di solitudine e di aridità. 66 La bimba dagli occhi gialli In un villaggio sperduto tra le montagne viveva una bambina con gli occhi gialli. Viveva nella sua casetta di legno insieme alla nonna. Gli abitanti del villaggio conferirono molto sulla faccenda del colore dei suoi occhi, finché un giorno, riuniti segretamente in assemblea a casa del sindaco, decisero, dietro calorosa sollecitazione del parroco, di uccidere la bambina. Non si sarebbe trattato di omicidio, naturalmente, ma di una semipubblica (o semi-segreta) esecuzione. La bambina era evidentemente un demone che andava rimandato all’Inferno per il bene della comunità. C’erano già stati casi simili in passato, anche se mai si era trattato di bambini. La procedura, trattandosi di un demone, era tuttavia la stessa. La bambina sarebbe stata portata in un campo, di notte, sbudellata, e poi, ancora viva, data in pasto alle scimmie purificatrici. Così decisero e così fecero. La sera stessa, senza indugio, si riunirono di nuovo e si diressero a casa della bimba. Entrarono e la presero, strappandola dalle braccia della nonna. La portarono in un campo umido e nebbioso, e qui la sbudellarono. Il parroco benedisse le scim- 67 mie purificatrici e le liberò verso le interiora della bambina. Ma la bambina, ancora ben viva, era davvero un demone, e se ne ricordò. All’avvicinarsi delle scimmie fameliche le sue interiora cominciarono a muoversi come fossero tentacoli di una piovra. Le scimmie si avventarono su di lei ma le sue viscere si attorcigliarono ai loro colli e le strangolarono. A quella vista gli abitanti del piccolo villaggio sperduto fuggirono terrorizzati, parroco in testa. La bimba rimase sola, nel campo, sdraiata e con le viscere aperte al cielo della notte. Sospirò e si stirò, come fosse in un letto. Le sue viscere scivolarono all’interno delle sue cosce e la bambina-demone provò un piacere mai provato. La carezza sugli inguini diventò pian piano una carezza sul pube e il piacere mai provato si espanse, la riempì, la travolse come un’onda calda che la lasciò come una spiaggia nuova al sorgere del nuovo sole. Era diventata donna? Coi suoi poteri demoniaci richiuse le sue interiora e tornò di corsa a casa, dalla nonna, che la riabbracciò felice. Piansero insieme lacrime di immensa gioia. 68 Libertà Nel regno delle belle colline e del bel mare c’erano un miliardo di leggi, cioè non ve n’era nessuna di plausibile certezza. Era inoltre invalsa l’abitudine, da parte degli sciamani, di interpretare le leggi secondo le proprie idee e la propria soggettività, e questo dava a tutti i sudditi la certezza assoluta di una assoluta incertezza. Siccome poi le vite degli uomini vanno pur vissute, ognuno in ultima analisi faceva affidamento su se stesso e sulla fortuna. Era il regno dei poeti e dei navigatori? No. Poeti e navigatori erano incatenati e imbrigliati, avevano bisogno di grandi spazi ma non c’era spazio per loro nel regno delle belle colline e del bel mare. Il regno era tutto un proliferare di scarafaggi, che avevano buon gioco nel muoversi tra ragnatele, muffe, anfratti, cantine e vecchie soffitte. Gli scarafaggi erano di mille tipi e di mille sottospecie. Lo scarafaggio grigio, ad esempio, era specializzato nell’assurgere a posizioni importanti nella società attraverso il baratto della propria dignità e le relazioni con gli altri scarafaggi. Con questo metodo, cioè attraverso le relazioni e il baratto della propria dignità, lo scarafaggio grigio poteva indifferentemente diventare 69 professore di Latino o di Matematica o di Chirurgia generale senza avere conoscenze particolari della materia da insegnare. Si sarebbe poi arrangiato sul momento, dall’alto della posizione acquisita. Lo scarafaggio giallo, per fare un altro esempio, faceva affari con gli scarafaggi grigi, e insieme si arricchivano. La bandiera dello scarafaggio giallo era l’assoluta incertezza della legge, che a loro dire autorizzava i furbi e gli spericolati a vivere calpestando ogni moralità e ogni diritto. L’assoluta incertezza della legge li favoriva, anche se ogni tanto qualcuno veniva torturato e spettacolarmente giustiziato per incutere terrore ai sudditi e ricordare loro che il potere, anche se gestito in modo del tutto arbitrario, esisteva, e non apparteneva certo ai sudditi. C’erano poi gli scarafaggi viola. La loro forza consisteva nel numero e nella disciplina militare. I loro capi (scarafaggi grigi cangianti), forse ingannandoli, li avevano resi “coscienti” (così dicevano) della loro assoluta mediocrità. Erano convinti di non esser degni di niente e di non valere niente singolarmente. Ma tutti insieme, annientandosi ognuno nella moltitudine viola, potevano dirsi orgogliosi di essere qualcosa di socialmente rilevante. La loro bandiera era la moralità. Si vantavano di osservare scrupolosamente tutte le 70 leggi, anche se umanamente era impossibile persino conoscere tutte le infinite leggi del regno. Erano obbedienti, felici di fare la spesa allo stesso supermercato color viola, fieri di fare ordinatamente la fila agli uffici del regno che dava loro il pane. Che piccolezze, che miseria nel regno delle belle colline e del bel mare! E che grettezza, che mancanza di amore, ovunque! Finché un giorno poeti e navigatori si alzarono e spezzarono le proprie catene. Si presero per mano e inondarono di amore il regno delle belle colline e del bel mare. Il regno cadde su se stesso, miseria su miseria, muffa su muffa, grettezza su grettezza. Gli scarafaggi vennero travolti dal vento e dalle onde del mare. I sopravvissuti, anche se bene accolti, morirono in seguito perché non poterono sopportare il suono meraviglioso della poesia. Il regno cadde e fiorì un giardino di uomini liberi. 71 INDICE MEMORIE ALLEGORICHE 9 Onesti lavoratori 15 La sfida 17 Il giardino incantato 19 La fine di tutto 21 John Rambo 23 Cento piccoli mostri 26 La prova INFINITO E BESTIA 33 Delio 35 Decomposizione 40 Guerra 45 Mezzogiorno di marzo 46 Necrophilus 50 Il bimbo 52 Gli ultimi anni del pianeta terra LE RADICI DEL BENE 57 Le radici del bene 60 Il nuovo mondo APPENDICE 63 Il condominio 67 La bimba dagli occhi gialli 69 Libertà Stampato in Italia nell’ottobre 2009 per conto di LibertàEdizioni