InfoCEEP_06

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InfoCEEP_06
NUMERO
ANNO
GENNAIO - MARZO 2009
Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento postale
D. L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46)
CEEP
QUADERNI
PER IL DIALOGO
E LA PACE
VI
1
L’Europa tra
presente e futuro
INDICE
:: Francesco Cesarini
Editoriale
pag. 3
:: Giovanni Bianchi
L’Europa come destino
pag. 4
:: Franco Chittolina
Il futuro della solidarietà in Europa
pag. 14
:: Paolo Colombo
Laicità e religione cristiana nell’Europa odierna
pag. 22
:: Giuseppe Davicino
Come la crisi cambia l’Europa
pag. 26
SCHEDE TEMATICHE
:: Uno strano organismo: l’Unione Europea (M. Boni)
pag. 29
:: La questione aperta del Trattato di Lisbona (L. Gaiani)
pag. 32
:: Quale Turchia bussa alle porte dell’Europa? (G. Davicino)
pag. 39
:: Kosovo oggi: l’indipendenza incompleta (S. Ziliotto)
pag. 41
:: La Francia e L’Unione Europea (A. Novellini)
pag. 44
:: La Spagna e l’Unione Europea (A. Novellini)
pag. 47
QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
Centro ecumenico europeo per la pace
Il Centro ecumenico europeo per la pace nasce dall’esigenza di
offrire alla società civile percorsi formativi e proposte culturali a
fronte dei processi di trasformazione e delle nuove sfide epocali.
Nell’Europa, chiamata ad integrare tra loro società di tipo
multietnico, multiculturale e multireligioso, la formazione al dialogo
– per la soluzione dei conflitti e per la ricerca di una dialettica di
convivialità delle differenze – appare sempre più come il nuovo
nome della pace.
L’esigenza del dialogo interpella laicamente ogni coscienza
e costituisce un imperativo per i cristiani chiamati ad una
testimonianza radicale e comune dell’evangelo, al di là delle loro
divisioni storiche.
Per questo Europa, pace, ecumenismo sono tre parole-chiave
dell’impegno che i soci fondatori e le presidenze milanese, lombarda
e nazionale delle ACLI hanno inteso assumere e promuovere con
la costituzione del Centro ecumenico europeo per la pace.
CEEP
Quaderni per il dialogo e la pace
Direttore
Paolo Colombo
[email protected]
Redazione
Mirto Boni, Giuseppe Davicino
Segreteria di Redazione
Marina Valdambrini
[email protected]
Supplemento a “Il giornale dei lavoratori” n. 3, 2009
Redazione e amministrazione: Via della Signora 3, 20122 Milano.
Registrazione n. 951 del 3/12/1948 presso il Tribunale di Milano.
Direttore responsabile: Monica Forni
Grafica
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Via Stefini, 2 - Milano
Stampa
Sady Francinetti
Via Casarsa, 5 - Milano
QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
Editoriale
Francesco Cesarini*
Q
uaderni per il dialogo e la pace: questo il nuovo titolo che,
dopo cinque anni, abbiamo deciso di dare alla nostra pubblicazione. Un titolo che richiama, aggiornandolo, quello
precedente (Infoceep – Quaderni per la formazione al dialogo e
alla pace), volendo sottolineare insieme il tratto della continuità e
quello del rinnovamento.
Francesco
Cesarini,
presidente CEEP
Anzitutto la continuità. Il lavoro svolto negli scorsi anni non deve in
alcun modo andare perduto. L’impegno profuso si è trasformato in
fascicoli preziosi, che hanno spaziato su diverse tematiche legate
agli obiettivi che innervano l’attività del Centro Ecumenico Europeo
per la Pace: in questo senso, l’esperienza acquisita e i contatti che
si sono attivati risultano una condizione essenziale per proseguire
il lavoro.
Allo stesso tempo, varcata la soglia dei primi cinque anni, sembrava necessario procedere a qualche cambiamento. Anzitutto sotto
il profilo grafico: la veste dei Quaderni appare ora diversa, snellita.
A partire dal presente fascicolo le pagine saranno più leggere, gli
articoli più sobri. Questo non per rendere meno rigorosi i contenuti,
ma per facilitare il compito del lettore, desideroso di cogliere il cuore dell’argomentazione anche in contributi più essenziali. Verrà poi
ampliato il comitato di Redazione: l’ingresso di personalità autorevoli contribuirà senz’altro a conferire ai Quaderni una qualità sempre migliore. Il coinvolgimento crescente di tutti i livelli associativi
che promuovono il CEEP (ACLI milanesi, lombarde e nazionali) e
il loro impegno per una diffusione più ampia appaiono infine condizioni essenziali per la riuscita del progetto.
Lo sforzo di restyling vuole dunque essere un segno del rinnovato
sforzo che il Centro Ecumenico Europeo per la Pace intende svolgere per promuovere, in un’ottica di formazione popolare, i valoriguida per i quali è stato istituito ormai diversi anni fa: una maggiore
coscienza della cittadinanza europea, una cultura di pace e di dialogo tra identità differenti e spesso conflittuali, una partecipazione attiva al cammino ecumenico delle chiese. Si tratta di compiti
estremamente alti, che si possono però realizzare agevolmente
nell’incontro quotidiano con le persone, con le situazioni di vita e
con le comunità cristiane di cui ciascuno fa parte.
QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
L’Europa come destino
Giovanni
Bianchi,
già presidente
ACLI nazionali
» Un paio
di decenni fa
rispondere
era più facile
Giovanni Bianchi*
Come marinai
D
ifficile definire questa stagione, che a Mario Tronti appare
segnata da storie minori, in fuga dalla profezia e dalle utopie, con un rumore di fondo invariabilmente in mibemolle…
È la musica, forse, di questo post moderno, dove al “post” è assegnata la funzione di indicare quel che non siamo in grado di criticare e tantomeno di cambiare. Ma è proprio soltanto così?
Un paio di decenni fa rispondere era più facile: l’ordine internazionale di Yalta delineava un quadro in cui orientarsi. Oggi non è più
così. È crollato il vecchio ordine internazionale e quello nuovo è in
una faticosa fase di gestazione. Ha scritto Otto Neurath:
“Siamo come marinai che debbano costruire la loro nave in mare
aperto. Essi possono usare il legname della vecchia struttura per
modificare lo scheletro e il fasciame dell’imbarcazione, ma non
possono riportarla in bacino per ricostruirla da capo. Durante il loro
lavoro, essi si sostengono sulla vecchia struttura e lottano contro
violenti fortunali e onde tempestose. Questo è il nostro destino”.
Questa davvero è la nostra condizione. Questa percezione del
passaggio d’epoca è essenziale per parlare oggi dell’Europa. E ci
obbliga a pensare Europa. A pensare europeo. L’Europa che verrà
è un’Europa oltre se stessa. Oltre il sogno americano. Spiace per
l’Alta Corte tedesca, ma Europa non è la copia degli Stati Uniti
d’America. Altro il nostro federalismo. Là dove la legge governava
gli spazi, qui oggi le etiche sono chiamate a governare il consumismo. Non soltanto tribunali, ma cattedrali, sinagoghe e moschee.
Non più tedeschi, francesi, italiani, ma meticci di un mondo in progress. L’Europa non è Stato federale analogizzabile agli Usa perché è processo e procedimento, e quindi, a partire dal Vecchio
Continente, sogno di futuro. Non più la scritta sulla parete del tribunale che dichiara la legge uguale per tutti, ma l’opinione pubblica, i
suoi guasti “medievali”, le ondate dell’emozione (e qualche riedizione di caccia alle streghe), il Papa alla finestra dell’Angelus romano
e il gracchiante altoparlante del muezin importato. Al suo interno,
e anche sui confini, gli spazi chiedono di essere ricontrattati. Detto
husserlianamente, le diverse “regioni” ridisegnano rapporti, vicinanze e lontananze, compatibilità e incompatibilità, spazio privato
QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
e spazio pubblico, religione e laicità dello Stato... Fino a strapazzare i classici, alla invitante maniera di Saul Bellow.
Quest’Europa è modello da implementare. Plastico. Tuttora ignoto a se stesso. Non solo avidi mercanti e burocratici banchieri.
Non la merce al centro, ma il lavoro e la relazione: questo suggerisce la crisi finanziaria esplosa alla fine d’agosto 2008. Nessuna tirchieria mentale condurrà questa Europa in un porto sicuro,
perché il suo unico destino è il mare aperto e la celebre metafora
di Otto Neurath.
Aumenta la dose Ezra Pound: The wind also is of the process1, insieme a Il flagello degli uomini in movimento2. Europa dunque totalmente immersa nelle contraddizioni “e con un nome a venire”3.
Europa dal Tamigi alla Tour Eiffel, dalla Torre di Pisa alle pasticcerie
nella Nevsky4 (probabilmente). Quel che resta è, appunto, pensare
e scrivere Europa: Formica solitaria d’un formicaio distrutto/dalle
rovine d’Europa, ego scriptor5. Così Ezra Pound, come sempre
fuori programma.
Un programma? Solo al passato poetico, che sconfina in profezia:
Abbatté il mercato degli schiavi, fece produrre il deserto/e minacciò i maiali dell’usura6. Del resto passato e futuro si tengono, secondo il celebre ammonimento di Herzen. Illuminanti in proposito
alcuni discorsi di Giovanni Paolo II in occasione della sua visita in
Slovenia nel maggio 1996. Rivolgendosi ai religiosi nella cattedrale di Ljubliana, il Papa Polacco così si esprimeva: “Il ricordo del
passato deve spingere a progettare il futuro”. E ne indicava le ragioni: “Questa è l’ora della verità per l’Europa. I muri sono crollati,
le cortine di ferro non ci sono più, ma la sfida circa il senso della
vita e il valore della libertà rimane più forte che mai nell’intimo delle intelligenze e delle coscienze”. Per dedurne: “Il clima attuale di
angoscia e sfiducia riguardo al senso della vita e lo smarrimento
manifesto della cultura europea ci sollecitano a guardare in modo
nuovo ai rapporti tra cristianesimo e cultura, tra fede e ragione. Un
rinnovato dialogo tra cultura e cristianesimo gioverà sia all’una che
all’altro, e a trarne vantaggio sarà soprattutto l’uomo, desideroso di
un’esistenza più vera e più piena”.
Se dunque da una parte emerge il vuoto lasciato dalle ideologie
e si fa strada un significativo risveglio della memoria delle proprie
radici e della ricchezza d’un tempo, dall’altra viene indicata l’esigenza di impostare in modo corretto e aggiornato i rapporti tra le
nazioni e la stessa idea di nazione. Osserva il Cardinale Dionigi Tettamanzi: “Su questo punto il magistero di Giovanni Paolo II
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1) Ezra Pound,
Pisan Cantos, trad.
it. Canti Pisani,
Guanda, Parma,
1979, p. 2.
2) Ibidem, p. 7.
3) Ibidem, p. 39.
4) Ibidem, p. 51.
5) Ibidem, p. 61.
6) Ibidem, p. 99.
»a guardare
in modo nuovo ai rapporti
tra cristianesimo e
cultura
7) Citato in Dionigi
Tettamanzi, Giovanni Paolo II e
l’Europa dei due
polmoni, pro manuscripto, Genova, 7
ottobre 1998, p. 8.
8) Ezra Pound, Pisan Cantos, op. cit.,
p. 125.
9) Dionigi Tettamanzi, Giovanni Paolo II
e l’Europa dei due
polmoni, op. cit., pp.
1-2.
chiede che questi problemi siano risolti seguendo i principi di sussidiarietà, di solidarietà e di responsabilità: principi tra loro inscindibili e da applicare in modo unitario e simultaneo. In particolare il
Papa lancia il concetto di “famiglia delle nazioni”. Nel suo discorso
all’Onu nell’ottobre 1995 egli rileva che “il concetto di famiglia evoca immediatamente qualcosa che va al di là dei semplici rapporti
funzionali o della sola convergenza di interessi. La famiglia è, per
sua natura una comunità fondata sulla fiducia reciproca, sul sostegno vicendevole, su un rispetto sincero. In un’autentica famiglia
non c’è il dominio dei forti, al contrario, i membri più deboli sono,
proprio per la loro debolezza, doppiamente accolti e serviti. Sono
questi, trasposti al livello della “famiglia delle nazioni”, i sentimenti
che devono intessere, prima ancora del semplice diritto, le relazioni fra i popoli”7.
Può quello che viene ancora abitualmente chiamato Vecchio Continente confrontarsi con un simile orizzonte? La risposta viene
ancora una volta dal Poeta: senesco sed amo 8. In effetti storia
e prospettiva d’Europa si danno appuntamento in un medesimo
luogo: quello di un inedito meticciato culturale e politico. A partire
da quella metafora dei due polmoni che Giovanni Paolo II usa per
la prima volta il 13 ottobre 1985 in un breve discorso all’Angelus
domenicale. Osserva Tettamanzi: “L’occasione gli viene data dalla
festività dei santi Cirillo e Metodio. “Questa memoria – dice – è
inseparabile, per il significato dell’opera dei due santi fratelli, da
una grande “nostalgia dell’unione” tra le Chiese sorelle d’Oriente e
d’Occidente”.
E aggiunge: “Chiamiamo nostalgia il dolore acuto che avvolge il
ricordo della patria lontana, e che spinge irresistibilmente a ritrovarla”. E dopo aver richiamato i tratti caratteristici della vita di questi due santi come appello a proseguire nello sforzo ecumenico,
il Papa così conclude: “Il ricordo dei santi Cirillo e Metodio pone
davanti al nostro sguardo, come una realtà inseparabile dalla loro
memoria, il traguardo della piena comunione che permetterà alla
Chiesa, nuovamente, di respirare con i suoi due polmoni: quello
orientale e quello occidentale ed insieme di offrire con efficacia rinnovata all’uomo contemporaneo la verità salvatrice del Vangelo”9.
Continua Tettamanzi: “La metafora dei due polmoni verrà poi ripresa dal Santo Padre in tante altre occasioni. Così il 15 agosto 1991
a Jasna Gòra per la VI Giornata Mondiale della Gioventù, una
Giornata – rileva il Papa – che “si distingue per una caratteristica
peculiare: è la prima volta che vi si registra una partecipazione così
numerosa di giovani dell’Europa orientale. Come non riconoscere
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in ciò un grande dono dello Spirito Santo? Insieme con voi, voglio
oggi ringraziarLo. Dopo il lungo periodo delle frontiere praticamente invalicabili, la Chiesa in Europa può ora respirare liberamente
con ambedue i suoi polmoni”10.
Un’Europa intera
Ora questa concezione, e quindi l’identità dell’Europa, viene determinata da una serie di fattori e di elementi di diverso ordine,
da quello geografico a quello antropologico, da quello culturale a
quello ecclesiologico. L’Europa alla quale il Papa pensa è un’Europa intera e considerata nella sua globalità, non più divisa in due
tronconi o ridotta alla sola sua parte occidentale. Da qui l’invito ad
allargare lo sguardo oltre ogni confine naturale, nazionale e artificiale per abbracciare tutta l’Europa e tutti popoli del continente,
“dall’Atlantico agli Urali, dal Mare del Nord al Mediterraneo”. Così
si espresse il Papa la prima volta il 10 settembre 1983 alla celebrazione dei “Vespri d’Europa” nella Heldenplatz a Vienna. Con
l’avvertenza, appunto, di non mettere tra parentesi il Mediterraneo,
là dove una lunga utopia rischia di morire, perché, come ha sconsolatamente scritto Predrag Matvejevic: “Dopo la caduta del Muro
di Berlino è stata costruita un’Europa separata dalla “culla dell’Europa”. Le decisioni relative alla sorte del Mediterraneo sono state
prese comunque senza coinvolgerlo […]. Tanto nei porti quanto
al largo, “le vecchie funi sommerse”, che la poesia si proponeva
di ritrovare e riannodare, spesso sono state rotte o strappate dall’intolleranza o dall’ignoranza […]. L’immagine del Mediterraneo e
il Mediterraneo reale non s’identificano affatto […]. L’11 settembre
2001, insieme alle fiamme e alla polvere delle Torri gemelle di New
York, è emersa una crisi di sfiducia di dimensioni planetarie, con il
conseguente peggioramento dei rapporti tra l’Occidente e il mondo
arabo e islamico. La situazione è precipitata e ha toccato il fondo
dopo i sanguinosi attentati di Londra e di Madrid”11.
»Un’Europa
intera
e considerata
nella sua
globalità, non
più divisa in
due tronconi
10) Ibidem, p. 2.
11) Predrag Matvejevic, Mediterraneo, così muore
un’utopia, in “Corriere della Sera”,
sabato 28 febbraio
2009, 46.
Esiste una via di sortita? È possibile un progetto comunemente
condiviso? Per Matvejevic “i progetti per l’alleanza delle civiltà
rappresentano in parte una reazione viva allo scontro delle civiltà, secondo la ben nota formula usata dal professore americano
Samuel Huntington, morto recentemente, nel suo libro Lo scontro
delle civiltà e il nuovo ordine mondiale. Questa “teoria” richiede
un approccio particolarmente critico. Non si tratta di uno scontro
delle componenti culturali di una civiltà, di culture in quanto tali. Si
scontrano infatti le espressioni delle culture alienate e trasformate
in ideologie, quelle che operano non più come contenuti culturali,
ma proprio come fatti ideologici. Il pericolo è noto da tempo: una
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parte della cultura nazionale si è trasformata, nelle varie epoche e
nei diversi luoghi, in ideologia della nazione. Aspettiamo una nuova cultura che ci sostenga. Siamo impazienti: non sappiamo se
la letteratura, i suoi vari modelli, generi, discorsi possano aiutarci
davvero. Forse con essa sarà almeno più facile sperare”12.
»
l’Europa
comprende
anche
la tradizione
orientale
12) Ibidem, p. 46.
13) Ibidem, p. 3.
14) Ibidem, p. 3.
15) Ibidem, p. 3.
Un secondo elemento per definire l’identità dell’Europa è costituito
da contenuti più propriamente culturali e antropologici: lungi, infatti,
dall’identificarsi con una sola tradizione, occidentale o latina, l’Europa comprende anche la tradizione orientale. Essa è frutto di queste due tradizioni cristiane tra loro complementari. E il rimando è
alle culture derivate da San Benedetto e dai santi Cirillo e Metodio.
Tradizione cristiana orientale e tradizione cristiana occidentale, secondo le parole del Papa Polacco nell’enciclica Slavorum Apostoli
(n. 27), “confluiscono entrambe nell’unica grande Tradizione della
Chiesa universale”13.
Nasce così la nostalgia dell’unione delle Chiese sorelle d’Oriente
e d’Occidente e del tempo in cui, “pur essendosi già sviluppate le
forme orientale ed occidentale del cristianesimo, la Chiesa continuava a rimanere indivisa nella intera sua compagine”14. Non a
caso nella Lettera apostolica Euntes in mundum, in occasione del
millennio del “Battesimo” della Rus’ di Kiev (25 gennaio 1988), il
Papa scrive: “l’Europa è cristiana nelle sue stesse radici. Le due
forme della grande tradizione della Chiesa, l’occidentale e l’orientale, le due forme di cultura si integrano reciprocamente come i
due “polmoni” di un solo organismo. Tale è l’eloquenza del passato; tale è l’eredità dei popoli che vivono nel nostro Continente. Si
potrebbe dire che le due correnti, l’orientale e l’occidentale, sono
diventate simultaneamente le prime grandi forme dell’inculturazione della fede, nell’ambito delle quali l’unica e indivisa pienezza, affidata da Cristo alla Chiesa, ha trovato la sua espressione storica.
Nelle diverse culture delle Nazioni europee, sia in Oriente sia in
Occidente, nella musica, nella letteratura, nelle arti figurative e nell’architettura, come anche nei modi di pensare, scorre una comune
linfa attinta ad un’unica fonte (n. 12)”15.
È l’eredità della storia. Quella medesima eredità intorno alla quale
rifletteva durante la perestrojka Mikhail il Gorbaciov: “In Occidente
c’è chi cerca di “escludere” l’Unione Sovietica dall’Europa. Ogni
tanto, automaticamente, identificano l’Europa con l’Europa occidentale. Tutto questo non può cambiare le realtà geografiche e
storiche. I legami commerciali, culturali e politici della Russia con
altri Stati e nazioni europei hanno radici profonde nella storia. Noi
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siamo europei. La vecchia Russia era unita all’Europa dal cristianesimo, della cui venuta sulla terra dei nostri avi l’anno prossimo
si celebrerà il millenario. La storia della Russia è parte integrante
della grande storia europea. I russi, gli ucraini, i bielorussi, i moldavi, i lituani, i lettoni, gli estoni, i careli e altri popoli hanno dato tutti
un grande contributo allo sviluppo della civiltà europea. Perciò si
considerano a buon diritto suoi eredi legittimi”16.
Non si tratta soltanto di pagine gloriose, e Gorbaciov non si sottrae
al compito della valutazione: “La nostra comune storia europea è
complessa e istruttiva, grandiosa e tragica. Merita di essere studiata e approfondita. Fin dai tempi più antichi, le guerre sono state
pietre miliari nella storia dell’Europa. Nel XX secolo il continente è
stato teatro di due guerre mondiali, le più distruttive e sanguinose
mai combattute dall’umanità. Il nostro popolo fece i sacrifici più
grandi sull’altare della lotta di liberazione contro il fascismo hitleriano. Più di venti milioni di sovietici morirono in quel conflitto terribile. Non rievochiamo tutto questo allo scopo di sminuire il ruolo
delle altre nazioni europee nella lotta contro il fascismo. Il popolo
sovietico rispetta il contributo dato da tutti gli Stati della coalizione
antinazista e dai combattenti della Resistenza alla sconfitta della
piaga del fascismo. Ma non potremo mai essere d’accordo con
quanti affermano che l’Unione Sovietica cominciò a prendere parte
alla lotta contro la Germania nazista soltanto nel 1941 mentre in
precedenza gli altri avevano dovuto combattere da soli”17.
L’Europa non si fa con le rivendicazioni, ma piuttosto con la memoria. Il patrimonio russo, nel quale la drammatica vicenda del
sovietismo non si inserisce come semplice parentesi, continua ad
interrogarci per la sua densità, gli orrori ed anche per le difficoltà
di interpretazione di un controverso destino. È ancora Gorbaciov a
fornire una chiave di lettura: “Il socialismo segnò una svolta drastica nella storia secolare di questa parte del mondo. La sconfitta del
fascismo e la vittoria delle rivoluzioni socialiste nei Paesi dell’Est
europeo crearono nel continente una situazione nuova. Emerse
una forza potente che spezzò l’interminabile catena dei conflitti armati. E ora i popoli dell’Europa sono entrati nel quinto decennio
senza guerre”18.
Parole acconce per la perestroika e che meritano comunque un discernimento storico, tuttora aperto, al di là dei tentativi di appropriazione di un ruolo e delle esigenze “interne” a una prospettiva che
si proponeva come riformatrice e che proprio in Russia doveva far
fronte a spinte sorde ma anche robuste. Non a caso il leader del rinnovamento russo ripropone più volte la metafora della “casa comuQUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
16) Mikhail Gorbaciov, Perestrojka.
Il nuovo pensiero
per il nostro Paese
e per il mondo,
Mondadori, Milano,
1987, p. 255.
17) Ibidem, pp.
255-256.
18) Ibidem, p. 257.
» L’Europa
non si fa
con le
rivendicazioni, ma
piuttosto con
la memoria
ne”. “Casa comune” presente anche nel lessico del Papa polacco.
Un problema aperto e destinato a rimanere aperto. Soltanto dirimpettaia di quest’Europa la Russia post sovietica e post gorbacioviana, o partner a qualche titolo destinato prima o poi a un ingresso
compiuto nell’Unione? Una riflessione sulla quale tornare. Può la
cultura europea, così come è venuta evolvendosi, fare a meno del
romanzo russo? Possiamo pensarci a prescindere da Guerra e
Pace e da Delitto e Castigo? Possiamo pensarci estranei ad Anna
Karenina? Può la nostra spiritualità mettere tra parentesi il misticismo russo?
19) Dionigi Tettamanzi, Giovanni
Paolo II e l’Europa
dei due polmoni,
op. cit., 2.
20) Ezra Pound,
op. cit., p. 139.
È il Papa Giovanni Paolo II, uomo di visione come pure di grande
franchezza, a non sottrarsi al dilemma. Nel discorso del 22 dicembre 1989 alla Curia romana per gli auguri natalizi diceva: “I popoli
d’Europa [...] si sentono chiamati ad unirsi per vivere meglio insieme. Questo nostro “vecchio continente”, che tanto ha dato agli altri,
sta riscoprendo la propria vocazione: a mettere insieme tradizioni
culturali diverse, per dar vita ad un umanesimo, in cui il rispetto dei
diritti, la solidarietà, la creatività permettano ad ogni uomo di realizzare le sue più nobili aspirazioni [...]. Di fronte a questa realtà europea, appare con evidenza quanto i “blocchi” siano artificiosi ed
innaturali. Io stesso ho spesso parlato dei “due polmoni” – l’Oriente
e l’Occidente – senza i quali l’Europa non potrebbe respirare. Ed
anche in futuro, non ci sarà una Europa pacifica ed irradiatrice di
civiltà senza questa osmosi e questa partecipazione di valori, differenti eppure complementari”19.
Anche questo del Papa Polacco è un modo per pensare ostinatamente e meditatamente Europa. Direi meglio, una inquietudine che
ci spinge a continuare la riflessione. Oltre confini e recinti, e oltre
vecchie angustie identitarie, che poco o nulla hanno da spartire
con la inevitabile ricerca culturale. E, accanto al profeta, si pone,
di nuovo, il poeta: “Non vi sono altre tenebre all’infuori dell’ignoranza”20.
Senza enfasi epocale
La cosa probabilmente migliore è però, e so di compiere un azzardo, scrollarsi di dosso l’enfasi epocale che ci perseguita e affidarci
agli arnesi giocosi di una saggia ironia. Solo pochi anni fa, in un
articolo diventato immediatamente famoso, Power and Weakness
(Forza e Debolezza), Robert Kagan, uno dei maggiori esponenti
dei neocon, così metteva le carte in tavola. “È ora di smettere di
fingere che gli europei e gli americani condividano la stessa visione del mondo, o che occupino persino lo stesso mondo […]. Sulle
10
QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
principali questioni internazionali e strategiche di oggi, gli americani provengono da Marte e gli europei da Venere: concordano
su poco e si capiscono sempre meno, particolarmente in merito
al ruolo della leadership americana e al ricorso all’uso della forza
quale strumento per il mantenimento della pace internazionale”.
Un altro esponente della medesima visione del mondo, Daniel Pipes, si incarica di spiegare il perché di tanta divaricazione continentale e geopolitica. “Oggi l’Unione Europea investe molto di più
nei problemi sociali che nelle armi. Nonostante una popolazione
e un’economia di dimensioni paragonabili a quelle statunitensi,
l’Europa è un “pigmeo militare”. Resta da capire quale parentela
possano rivendicare i pigmei nei confronti di Venere, mentre resta
assodato che a dividere americani ed europei è il diverso ruolo da
loro attribuito al Welfare State. Nessun eccesso di erotismo suppone dunque il riferimento alla dea dell’amore. E forse una mediazione è possibile: una comune devozione a Bacco, confidando nella
vis unitiva di un brindisi...
Non a caso un versante essenziale dell’iniziativa europea è il suo
modello di società. Lo Stato Sociale, così come lo abbiamo conosciuto e come lo stiamo trasformando, è stato una invenzione
europea. Trasformare sicurezze corporate in diritti di cittadinanza
ha comportato un lungo cammino che ha visto al suo centro il movimento dei lavoratori e l’espandersi della sensibilità sociale delle
istituzioni. Una democrazia sociale, una democrazia sostanziale
[…]. Non bastava, non è bastata una democrazia liberale. Oggi
si tende a contrapporre uguaglianza e libertà. Lo Stato Sociale
europeo è stato di fatto una terza via tra una libertà insensibile
all’uguaglianza (America) e una uguaglianza senza libertà (la Russia Sovietica). Poteva esserci una libertà responsabile, aperta alla
dimensione dell’uguaglianza proprio mentre esaltava la libertà delle persone? Appunto, persone e non meri individui […]. È possibile
una diversità non estranea alla solidarietà? È possibile una uguaglianza che valorizzi la diversità? Siamo stati un grande campo di
sperimentazioni. Non si è certo trovata la formula magica, ma si
è intravista una via, si sono fatte esperienze, si sono sedimentate
istituzioni che ci fanno oggettivamente diversi dagli altri.
» Lo Stato
Sociale
è stato una
invenzione
europea
Possiamo discutere, e lo si è fatto per decenni, dei vari tipi di Stato
Sociale: nordico, continentale, mediterraneo. Ciò che accomuna
sotto le formule è la sensibilità sociale delle istituzioni. Un capitalismo compassionevole sarebbe da noi una regressione antropologica e civile.
QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
11
» L’Europa
del dialogo
12
C’è, insomma, uno stile di vita europeo, una percezione dei diritti
e dello Stato che è un valore da proporre e da continuare a produrre.
Proporre non vuol dire imporre. Non si impone la libertà e non
si impone la democrazia. Il conflitto geopolitico comporta questa
molteplicità di modelli, di soluzioni all’esperimento sempre aperto
della vita associata. La lunghezza e la complessità della nostra
storia può essere una risorsa inesauribile per creare un’altra possibilità, non unica, alla variegata storia del mondo. E quando parliamo di stile di vita europeo parliamo anche di una misura diversa
della vita. È immaginabile una città europea di 24 milioni di abitanti? Le “piccole” città dell’Europa, il suo “piccolo” mare rispetto allo
sconfinato oceano non sono una “riserva indiana”, ma possono
indicare una dimensione nuova ai processi in corso. Nell’oceano
immenso ci siamo stati e da protagonisti. Non ci siamo rinchiusi
negli spazi fermi, nei mari chiusi. C’è sempre stata una frontiera da
oltrepassare. Sono state le nostre “Colonne d’Ercole”. Dallo stretto
di Gibilterra a Costantinopoli abbiamo dialogato con l’oceano e altri
mari, a loro volta approdi di popoli immensi e lontani. Ma siamo
stati anche in grado di dare misura agli spazi infiniti. La distribuzione delle città, la rioccupazione delle campagne, il ripopolamento
delle colline, la riscrittura dell’ambiente sono tutte compatibili con
l’incredibile sviluppo delle nuove tecnologie.
Hanno senso megalopoli interminabili nelle straziate periferie del
mondo? Hanno senso monoculture umilianti che desertificano la
terra di uomini e di società?
Una Europa della solidarietà e dell’accoglienza è una Europa che
misura i processi della globalizzazione riportandoli al loro profilo
umano. È l’Europa del “radicamento”, di cui parlava Simone Weil,
contro lo sradicamento di una globalizzazione senza politica.
Per questo diventa decisiva la funzione dell’Europa: l’Europa del
dialogo. La caccia al terrorista sta disseminando nel mondo focolai di guerre inconcludibili, che non preparano un nuovo ordine. In
questi ultimi decenni abbiamo assistito a guerre senza politica, a
guerre lasciate lì, perennemente aperte. Una politica estera europea non può adeguarsi allo stato delle cose: ne uscirebbe annullato il suo ruolo nel mondo.
Da dove il malinteso? L’Europa non è negli statuti, bensì nelle origini e nel processo lungo il quale si va costituendo. Non rientra nei
canoni della cultura giuridica tedesca, e si distanzia dalla visione che ne ha la Corte Costituzionale germanica che le assegna
un profilo troppo simile a quello dello Stato Federale statunitense.
QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
Così come non appartiene alla cultura dell’innovazione che implica continuismo ed inerzia, ma a quella della trasformazione: delle
forme e – si spera – dei soggetti. Non è insidiata dai referendum
avversi di Irlanda, Olanda e Francia, ma dall’idraulico polacco…
Proprio perché i nuovi europei la guardano più dal punto di vista
del welfare che da quello di Giscard D’Estaing e dell’équipe che
con lui ha prodotto la Carta. Per questo Europa è figura che matura
lentamente e nella storia e sulla scena politica. Insomma, questa
Europa, direbbe Dossetti, non è da fissare in una fotografia, ma da
seguire in una sequenza filmica.
QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
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Il futuro della solidarietà
in Europa
Franco
Chittolina,
esperto di
Istituzioni
europee
Franco Chittolina*
Q
uando nasce, agli inizi degli anni ’50, l’attuale Unione Europea ha un duplice obiettivo: ricostruire e consolidare il
tessuto economico integrato di Paesi provati dalla guerra e
porre in tal modo le condizioni per una pace duratura sul continente. Ispirava questo progetto ambizioso la convinzione che una ritrovata solidarietà tra i popoli europei avrebbe generato una pacifica
convivenza e un benessere condiviso ed equamente ripartito.
Oggi a mezzo secolo di distanza dalla nascita della prima Comunità
europea e alla vigilia delle elezioni per il Parlamento europeo,
è opportuno e anche urgente interrogarsi sullo stato di salute di
quell’impresa di solidarietà. E, soprattutto, su quale futuro si profili
per questo grande progetto di convivenza pacifica. Per rispondere,
può essere utile prendere schematicamente in considerazione la
solidarietà europea nella sua triplice dimensione territoriale, sociale
e politica.
La solidarietà oggi nell’Ue
»
un
progressivo
sviluppo
territoriale
14
L’impresa solidale dell’Europa conosce un progressivo sviluppo
territoriale: i sei Paesi fondatori dei primi anni ’50 (Italia, Francia,
Germania e Benelux) sono raggiunti nel 1973 da Gran Bretagna,
Irlanda e Danimarca, nel 1980 dalla Grecia, nel 1985 da Spagna
e Portogallo, nel 1995 da Svezia, Finlandia e Austria, nel 2004
da Polonia, Ungheria, Slovenia, Slovacchia, Repubblica ceca,
Lituania, Lettonia, Estonia, Malta e Cipro e, nel 2007, da Bulgaria e
Romania.
Nel corso di questi successivi allargamenti si sono realizzate in
passato forti dinamiche di riavvicinamento e di integrazione, anche
grazie alla solidarietà di cui sono stati strumenti i Fondi strutturali:
si pensi in particolare agli importanti risultati economici conseguiti
da Paesi come la Grecia, la Spagna, il Portogallo e l’Irlanda.
Più problematica l’integrazione in corso, dopo gli allargamenti
verso l’Europa centrale ed orientale, in particolare in questa
stagione di grave crisi economica come hanno dimostrato gli
orientamenti adottati dal Consiglio europeo nel marzo 2009.
Contemporaneamente non deve sfuggire un altro particolare
“allargamento” della popolazione dell’Unione tuttora in corso e
destinato a proseguire: l’accoglienza sul territorio dell’Europa di una
QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
consistente popolazione immigrata da Paesi in difficoltà di sviluppo.
La sua stabilizzazione nell’Unione, testimonia di una vocazione
solidale dell’Europa malgrado le crescenti difficoltà delle politiche di
integrazione, tuttora di responsabilità nazionale. A fronte dei processi
di globalizzazione e di accresciuta competizione economica si deve
costatare la sostanziale tenuta del modello sociale europeo che
traduce la solidarietà attraverso una regolazione sociale del mercato
(per via legislativa o contrattuale), una riallocazione delle risorse
(tra territori, gruppi sociali e generazioni), la messa a disposizione
di servizi pubblici essenziali, senza escludere il supporto importante
del mercato unico e dell’euro.
Benché fortemente attaccato in questi ultimi anni, questo modello
ha resistito almeno nella sua ispirazione di fondo anche se si devono
constatare erosioni significative tanto ai diritti quanto all’universalità
e al livello di prestazioni nei servizi pubblici. Questa tenuta ha fatto
da argine all’aggravamento delle povertà estreme, anche se non
ha impedito il diffondersi di nuove povertà che hanno colpito in
particolare il mondo del lavoro segnato da crescenti condizioni di
precarietà. Analogamente si è verificata una crescita complessiva
del benessere ed una sua redistribuzione, ancora troppo ineguale,
tra i diversi gruppi sociali.
Una forte solidarietà politica si è certamente manifestata all’inizio
tra i sei Paesi fondatori: quasi imposta dalle condizioni del primo
dopoguerra e resa più facilmente praticabile dal limitato numero
di Paesi che componevano l’Unione, questa solidarietà deriva
anche dalla condivisione di un progetto di Europa che, a partire
dall’integrazione economica, puntava al raggiungimento di una
solidarietà politica che sarebbe stata in parte frenata dai successivi
allargamenti.
In effetti la solidarietà politica si fa più contrastata a partire dal
primo allargamento negli anni ’70 e vede l’Unione spesso divisa o
almeno impotente sullo scenario internazionale: la drammatica crisi
della ex-Jugoslavia sarà rivelatrice della fragilità che caratterizza la
solidarietà politica nell’Unione. Anche più grave, se fosse possibile,
la divisione che si è insinuata tra i Governi dei Paesi dell’Unione alla
vigilia della guerra in Iraq e questo nonostante una sorprendente
mobilitazione popolare in Europa in favore della pace.
» a partire
dall’integrazione
economica
puntava al
raggiungimento di
una solidarietà politica
Le prospettive per la solidarietà dell’Ue
L’allargamento dell’UE a ventisette non mette certo fine all’ampliamento territoriale dell’Unione. Salvo imprevisti, più tardi, con ogni
probabilità, ci raggiungeranno i Paesi della regione balcanica (po-
QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
15
»
una
cultura
condivisa
dei diritti
e della
democrazia
» un lungo
cammino
in salita
16
trebbero già concludersi entro il 2009 i negoziati di adesione con
la Croazia) e, un po’ più in là nel tempo e secondo modalità ancora da chiarire, la Turchia. Ma all’orizzonte si affaccia problematica
ma ineludibile una più forte associazione all’Unione dei Paesi della
sponda meridionale del Mediterraneo come pure quella di alcuni
Paesi dell’ex-Unione Sovietica. L’ incertezza sui confini dell’Europa
e forse, in questo mondo globalizzato, il superamento del vecchio
concetto di territorialità inducono a pensare in altri termini il concetto di solidarietà. Ricorrendo piuttosto alla categoria di una cultura condivisa dei diritti e della democrazia, che non a quella del
solo spazio fisico.
Segnali inquietanti sembrano però gettare non poche ombre sul
futuro della solidarietà sociale: a cominciare dall’aspro dibattito che
segna periodicamente la disputa sul futuro bilancio dell’Unione.
Già particolarmente modesto nell’Unione a Quindici (appena uno
scarso 1,20 % del Prodotto interno lordo dell’Unione da raffrontare
con il circa 50% che raggiungono mediamente i bilanci pubblici
dei suoi Paesi membri), questo bilancio ha registrato, per il periodo 2007-2013, un’ulteriore riduzione che lo ha congelato attorno
all’1% del PIL proprio adesso che l’Unione allargata a ventisette
Paesi avrebbe bisogno – in particolare di fronte all’esplosione della crisi economica – di una più forte coesione e di una maggiore
solidarietà.
Se a tutto questo si aggiunge l’aggravarsi della pressione che una
certa concezione della competitività economica esercita sui nostri
sistemi di welfare con il conseguente indebolimento del modello
sociale europeo e l’inquietante cultura dell’intolleranza verso lo
“straniero”, allora le ombre sulla solidarietà sociale si fanno particolarmente pesanti.
Il rifiuto della Costituzione europea – affondata dai “no” di Francia
e Olanda – e i ritardi nella ratifica del Trattato di Lisbona dopo il
“no” irlandese del 2008 sono segnali chiari della crisi che investe
la solidarietà politica in seno all’Unione. La diversità degli interessi
economici dei Paesi membri, le forme crescenti di protezionismo
economico e sociale, il ritorno forte delle sovranità nazionali, più
marcate ad Est ma certo non assenti nei vecchi Paesi dell’Unione,
lasciano intravedere un lungo cammino in salita per la realizzazione di una duratura solidarietà politica nell’Unione. Ne sono una
prova chiara le resistenze all’introduzione del voto a maggioranza
per importanti politiche dell’Unione: si pensi in particolare alle politiche sociali, alla politica economica, al fisco, alla politica estera
comune. E questo proprio in una stagione particolarmente turboQUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
lenta del mondo che esigerebbe da tutti una maggiore capacità di
governo e istituzioni transnazionali forti ed efficaci.
Quale futuro per l’Europa dell’accoglienza
Dopo oltre cinquant’anni di integrazione europea e di progressiva
abolizione delle frontiere interne dell’Unione Europea, torna a farsi
infuocato il dibattito sulla necessità non solo di proteggere l’UE
alle sue frontiere esterne dall’ingresso di cittadini di provenienza
da Paesi terzi, ma anche di rivedere le regole per il passaggio alle
frontiere interne per gli stessi cittadini comunitari.
Per cogliere le dimensioni del problema, può essere utile fare
qualche passo indietro e cominciare col ricordare che il Trattato
di Roma del 1957 fondava il processo di integrazione europea su
quattro fondamentali libertà che si sarebbero poi progressivamente realizzate, anche se con ritmo ed intensità diversi. Abbastanza
rapidamente giunsero a regime la libertà di circolazione dei beni,
più tardi quella dei capitali e dei servizi e infine, non senza deroghe
e dilazioni, la libera circolazione delle persone.
Il 21 dicembre 2007, con l’adesione al Trattato di Schengen di nove
dei dieci Paesi entrati nell’UE nel 2004, la quasi totalità dei Paesi
dell’Unione rinunciava al controllo sistematico alle proprie frontiere
esterne per i cittadini comunitari. Dall’accordo rimanevano provvisoriamente fuori, per ragioni diverse, tre Paesi: Cipro, Bulgaria e
Romania.
» quattro
fondamentali
libertà
Viene da pensare che dati proprio dalla fine del 2007 il raffreddamento di una dinamica di apertura che aveva caratterizzato l’atteggiamento dell’Unione europea sul fronte sempre più caldo della
mobilità interna e dei flussi migratori dall’esterno. E questo, non a
caso, in coincidenza con una transizione di responsabilità in materia dai Governi nazionali ad una più marcata competenza europea.
Appaiono lontane le aperture del Consiglio di Tampere del 1999,
rilanciate dal Programma dell’Aja del 2004. È di quello stesso anno
un’importante Direttiva che raccolse in un unico testo il complesso
corpus legislativo esistente a proposito del diritto di libera circolazione maturato fin dall’inizio degli anni ’60.
Certo da allora molte cose sono cambiate: molti nuovi Paesi sono
entrati nell’UE e non sempre con un alto gradimento da parte dei
cittadini dei vecchi Paesi membri, altri Paesi stanno negoziando
con crescenti difficoltà la loro adesione, lo choc dell’attentato alle
Torri gemelle di New York ha alimentato conflittualità crescenti nel
mondo, il mercato del lavoro europeo, in questa stagione di crisi,
è sotto tensione e crescono atteggiamenti di intolleranza verso lo
straniero.
QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
17
» una
presenza
di immigrati
extracomunitari
nell’UE che
si aggirano
sui venti
milioni
Tutto ciò a fronte di una presenza di immigrati extra-comunitari
nell’UE che si aggirano sui venti milioni rispetto ad una popolazione totale di mezzo miliardo di persone: una dimensione tutto
sommato contenuta e in grandissima parte funzionale allo sviluppo
dell’economia europea. Ma su questi dati sembrano prevalere, nella percezione dell’opinione pubblica, il fenomeno non indifferente
dell’immigrazione irregolare e, più ancora, i ripetuti episodi di criminalità cui danno grande evidenza i toni spesso allarmisti dei media
nostrani.
Non stupisce che in questo clima assuma un rilievo particolare una
recente proposta di Direttiva europea sulla detenzione e il rimpatrio
degli immigrati irregolari contrastato senza successo da una larga
parte del Parlamento europeo all’inizio di giugno del 2008.
Tra i punti sensibili della Direttiva quello del periodo di detenzione
per gli immigrati clandestini fino a 18 mesi: questi i termini definiti per il rimpatrio volontario oltre il quale scatta l’espulsione automatica con il divieto di rientro per gli espulsi sull’intero territorio
dell’Unione. Misure per un verso non facili da eseguire e, per un
altro, da rendere compatibili con il diritto individuale alla difesa e al
ricorso contro ogni deriva di espulsioni collettive.
Ancora una volta siamo di fronte a problemi che interrogano la
nostra coscienza e che sarà bene affrontare con rigore e lucidità,
magari anche chiedendoci se si possano scindere tra di loro le
quattro nostre libertà di circolazione privilegiando quella dei capitali, dei beni e dei servizi a spese di quella delle persone. Potrebbe
esserne un esempio il caso Italia-Romania: a molti sembrano tanti,
troppi i romeni tra di noi ma pochi fanno caso alle 23.000 aziende
italiane registrate in Romania. Il mercato globale è anche questo: il
diritto serve a regolarlo o almeno a ridurne gli effetti devastanti che
sono davanti ai nostri occhi.
Da stranieri a cittadini e ritorno
» chiedersi
quale fine
abbia fatto
l’Europa dell’accoglienza
18
Alcuni episodi recenti inducono a chiedersi quale fine abbia fatto l’Europa dell’accoglienza e se ci siano cittadini europei. C’è da
chiederselo dopo quanto accaduto in Gran Bretagna, dove cittadini
inglesi si sono opposti al lavoro di cittadini italiani chiamati a costruire una raffineria nel Lincolnshire, in seguito al conseguimento
di un regolare appalto della francese Total. In altre parole: cittadini
europei in conflitto tra di loro per un lavoro con una compagnia
petrolifera europea in un Paese europeo. Il tutto sotto gli occhi di
Istituzioni europee sorprese ed ammutolite e di sindacati imbarazzati e prigionieri di contraddizioni dal sapore “protezionista”.
Da chiedersi che cosa stia accadendo in questa Europa del merQUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
cato unico, della moneta unica (nella quale, sarà un caso, la Gran
Bretagna non c’è), della libera circolazione di tutto – capitali, beni e
servizi – ma non ancora delle persone.
Dal primo gennaio scorso avrebbero dovuto ulteriormente aprirsi
le frontiere per gli ultimi arrivati nell’UE, romeni e bulgari, ma undici
Paesi hanno preferito rimandare: questo era nei patti, tempo per
farlo fino al 2011 o, al massimo, 2013 in caso di alterazione grave
del mercato del lavoro nazionale. Tra questi Paesi che cercano ancora protezioni dentro le proprie frontiere Italia, Francia e Germania. Ma non la Gran Bretagna che aveva aperto le proprie frontiere
da subito, al primo gennaio 2007.
E allora come spiegare il rifiuto inglese per i lavoratori italiani che
beneficiano – come i loro colleghi inglesi – della libera circolazione
fin dal giorno dell’adesione nel 1973 della Gran Bretagna all’Unione europea?
Una spiegazione è sicuramente nella gravità delle crisi economica
che sta facendo lievitare la disoccupazione in tutta l’Europa attorno all’9%, con punte molto più alte in alcune regioni come quelle
del nostro meridione e quelle del nord della Gran Bretagna e della
Spagna: fa riflettere che lo scontro sociale sia avvenuto proprio
con un’azienda di Siracusa salita dal nostro sud a cercare lavoro in
una regione del nord Europa in difficoltà.
Al di là dell’evidente e grave infrazione alle regole europee della
libera circolazione, l’episodio – sperando che tale rimanga – rivela
quanto sia facile scivolare sulla pericolosa china del protezionismo
qui sociale, altrove economico e commerciale. Il peggior modo di
rispondere ad una crisi dove il “si salvi chi può” è suicidio sicuro
per tutti e che tutti affermano, nelle sedi internazionali, di volere
evitare. Ci sarà anche in questo atteggiamento miope la tiepidezza inglese verso l’Europa, ma non dimentichiamo in proposito la
rozzezza di forze politiche italiane che vogliono riservare l’occupazione ai “nostri” lavoratori, intendendo per adesso gli italiani, ma
chissà che domani non si vorrà riservare il lavoro in Veneto per i
veneti e per i piemontesi in Piemonte.
Eravamo, o credevamo di essere, tutti cittadini europei come vanno da anni ripetendo i Trattati dell’UE ma adesso ci scopriamo
stranieri tutti contro tutti, con una minaccia pesante che pesa sul
futuro del modello sociale europeo.
Il dibattito sul modello sociale europeo
Da sempre oggetto di dibattito e di conclusioni perlopiù rinviate, il
tema del modello sociale europeo e della sua riforma ha tutta l’aria
QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
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di tornare al centro del confronto sul futuro dell’Unione europea.
Il momento sembra propizio tenuto conto da una parte della dura
competizione internazionale e dall’altra dell’evidente crisi di coesione nell’UE insieme con la crescente voglia di molti governi di
centro-destra di mettere in discussione un modello di società.
» identifi-
care
gli strumenti
pubblici della solidarietà
ed il loro
campo
di intervento
20
Ma quali sono gli ingredienti del modello “sociale” europeo di cui si
va parlando?
Il modello sociale europeo può essere definito come un insieme
articolato di strumenti con i quali il regolatore pubblico e la società
traducono una certa cultura dei diritti e una concezione della solidarietà tra i gruppi sociali, le generazioni e i territori della comunità
cui si appartiene. Su una simile definizione il consenso è ampio. Le
cose si fanno più difficili quando si tratta di identificare gli strumenti
pubblici della solidarietà ed il loro campo di intervento. Si prenda ad esempio il sistema di protezione sociale con le sue diverse
componenti: pensioni, sanità, sostegno alla famiglia e al lavoro, la
casa, ecc. Già questa lista non trova tutti d’accordo ed ancor meno
il peso relativo di ciascun elemento rispetto agli altri. È risaputo ad
esempio quanto sia fuori dalla media europea la spesa italiana per
le pensioni e quanto questi costi penalizzino le altre voci della protezione sociale, nonostante che nel suo insieme la spesa sociale
italiana sia addirittura inferiore alla media europea.
Ma le cose si complicano ulteriormente se si guarda agli altri strumenti della solidarietà: basta citarne alcuni per misurare l’ampiezza
delle divergenze. I servizi pubblici per esempio: quali debbono essere garantiti a tutti e con quale soglia di qualità rispetto alla soglia
di reddito? E ancora: quali garanzie per chi ha perso il lavoro per
una crisi d’impresa e quali incentivi per stimolare la ricerca di un
nuovo impiego? Quali forme contrattuali e con quali flessibilità regolare i rapporti di lavoro e con quali garanzie per i lavoratori? E il
ruolo delle parti sociali, sindacati e imprenditori, quale deve essere
in una società democratica e quale il ruolo dei pubblici poteri nella
regolazione sociale del mercato? La lista degli interrogativi sugli
ingredienti del nostro modello sociale è ancora molto lunga. Un’ultima domanda però sarà bene non trascurare in questa stagione
di “devolution”: quale solidarietà tra le regioni del nostro Paese e
tra i Paesi dell’UE? La risposta non può evitare l’elemento centrale
della solidarietà, il suo nucleo duro che è la fiscalità.
A fronte di una crisi che metterà a dura prova il modello sociale europeo, è lecita una domanda semplicissima: ma esiste veramente
un modello sociale europeo o non è piuttosto un orizzonte verso
cui incamminarsi?
QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
L’Unione europea come si è venuta configurando nel suo cammino ancora incompiuto ha raccolto ventisette Paesi con storie,
culture, società tra loro anche molto diverse e ciascuna con un
proprio “modello” sociale che negli anni – e nei migliori dei casi
– è andato convergendo con gli altri, mantenendo tuttavia ampie
specificità. Si pensi ad esempio quanto è diversa la fiscalità che
sostiene la protezione sociale nei Paesi del Sud dell’UE da quella
dei Paesi nordici fondata sulla fiscalità generale e non, come da
noi, su prelievi specifici sui redditi da lavoro. Per non parlare della
differenza tra le relazioni sindacali che in alcuni Paesi – la Germania, ad esempio – sono determinanti nella regolazione sociale
e in altri – come la Francia – dove sono relativamente marginali.
E la lista degli elementi di differenziazione sarebbe ancora lunga.
Tutti però resi compatibili da un comune riferimento alla cultura dei
diritti e della solidarietà, declinata in ciascun Paese in conformità
con la propria storia e le specifiche condizioni socio-economiche.
Ora però, man mano che l’UE si allarga e cresce l’esigenza di una
nuova coesione tra diversi, il bisogno di un nuovo orizzonte sociale
comune si fa sentire. Perché questo possa avvenire, l’obiettivo da
perseguire è quello di un’Unione politica, quella verso cui camminava il defunto Progetto di Costituzione europea, ripreso con meno
vigore dal Trattato di Lisbona, tuttora in attesa di ratifica. Forse non
è ancora troppo tardi, forse la crisi economica in corso potrebbe
essere una opportunità da cogliere per accelerare il processo di
integrazione.
»esiste
veramente
un modello
sociale
europeo
o non è
piuttosto un
orizzonte
verso cui incamminarsi?
Sicuramente non c’è più tempo da perdere e le imminenti elezioni
per il Parlamento europeo offrono l’occasione ai cittadini di dire se
vogliono un’Europa della solidarietà e quali prezzi sono disposti a
pagare perché mezzo secolo di integrazione europea non venga
vanificato da egoismi nazionali ed individuali.
QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
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Laicità e religione cristiana
nell’Europa odierna
Paolo Colombo,
direttore di
Quaderni per
il Dialogo
e la Pace
»
Nel
discorso
pronunciato
il 12 settembre 2008
all’Eliseo
Paolo Colombo*
N
essun Paese europeo come la Francia è depositario, nella
propria storia e nella propria cultura, di un così forte senso
della laicità. Non è perciò casuale che, nel corso del suo
ultimo viaggio in terra francese, Papa Benedetto XVI abbia svolto
importanti riflessioni proprio a proposito del rapporto tra fede religiosa e laicità.
Nel discorso pronunciato il 12 settembre 2008 all’Eliseo, indirizzandosi alle autorità dello Stato, Benedetto diceva in particolare:
«Numerose persone, anche qui in Francia, si sono soffermate a riflettere sui rapporti tra Chiesa e Stato. In verità, sul problema delle
relazioni tra sfera politica e sfera religiosa Cristo aveva già offerto
il criterio di fondo in base al quale trovare una giusta soluzione.
Lo fece quando, rispondendo ad una domanda che gli era stata
posta, affermò: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò
che è di Dio” (Mc 12,17). La Chiesa in Francia gode attualmente
di un regime di libertà. La diffidenza del passato si è trasformata
a poco a poco in un dialogo sereno e positivo, che si consolida
sempre di più […]. Lei ha del resto utilizzato, Signor Presidente, la
bella espressione di “laicità positiva” per qualificare questa comprensione più aperta. In questo momento storico in cui le culture
si incrociano tra loro sempre di più, sono profondamente convinto che una nuova riflessione sul vero significato e sull’importanza
della laicità è divenuta necessaria. È fondamentale infatti, da una
parte, insistere sulla distinzione tra l’ambito politico e quello religioso al fine di tutelare sia la libertà religiosa dei cittadini, che la
responsabilità dello Stato verso di essi e, dall’altra parte, prendere
una più chiara coscienza della funzione insostituibile della religione
per la formazione delle coscienze e del contributo che essa può
apportare, insieme ad altre istanze, alla creazione di un consenso
etico di fondo nella società».
Era utile citare per esteso questo passaggio; del resto lo stesso
Papa Benedetto ribadiva i medesimi concetti pochi giorni dopo, nel
corso dell’Udienza generale del 17 settembre a Roma. Facendo
eco al viaggio da poco conclusosi e, nuovamente sulla scia di Mc
12,17, il pontefice ribadiva l’importanza di una autentica laicità, rispettosa insieme delle esigenze della fede religiosa e delle istanze
22
QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
delle istituzioni pubbliche. «Autentica laicità non è pertanto prescindere dalla dimensione spirituale, ma riconoscere che proprio
questa, radicalmente, è garante della nostra libertà e dell’autonomia delle realtà terrene, grazie ai dettami della Sapienza creatrice che la coscienza umana sa accogliere e attuare». Lo sfondo è
il medesimo: l’espressione autentica laicità può senz’altro essere
accolta come un sinonimo della laicità positiva, sottolineando che
Chiesa e Stato non si elidono reciprocamente ma, nelle rispettive
distinzioni, sono chiamati a porsi a fecondo servizio della persona
umana e, nell’insieme, delle collettività.
» l’impor-
tanza
di un’autentica laicità
Non vi sono dubbi che la storia dell’Europa è segnata da snodi non
facili. Nel corso dei secoli le ingerenze di campo non si contano;
la stessa disputa a proposito dell’inserimento o meno del richiamo
alle “radici cristiane” nel testo della Costituzione dell’Unione Europea suona come un esempio emblematico di come sia difficile
rispettare la storia e le peculiarità di ciascuno. Tornando ad esempio al caso della Francia, appare impossibile negare la valenza che
il cristianesimo ha avuto nel forgiarne la cultura; né si tratta solo
di reperti archelogici, ormai sepolti nel passato, bensì di elementi
tuttora radicati nella coscienza di milioni di persone. E d’altro canto
non è automatico che il riconoscimento di un fattore culturale e religioso debba tradursi in testi giuridici e in scelte di natura politica.
Di nuovo si affaccia come orientativo il criterio della distinzione invocato da Papa Benedetto, essenziale ad evitare inutili confusioni
e sterili dicotomie.
Anzitutto le inutili confusioni, che si generano quando i piani – rispettivamente religioso e politico – vengono a mischiarsi proditoriamente. Allora una sfera tende a fagocitare l’altra, in chiave
integralista o laicista. Il primo caso si evidenzia nella pretesa di
dedurre immediatamente, a partire dai principi religiosi, codici di
comportamento e articoli normati vincolanti per tutti. Integralista
è, nel caso specifico del cristianesimo, la pretesa di costruire una
città terrena che abbia una esplicita connotazione cristiana, fino a
sovrapporre il codice legislativo religioso con quello civile. Al contrario si muove lo spirito laicista, per cui la lettura politica eleva la
volontà di essere l’unica e ultima parola sull’uomo e sulla società.
Emblematico il caso dell’ideologia marxista; e tuttavia anche in altri
modelli culturali è presente, in forme talora striscianti e talora più
esplicite, la volontà di ridurre al silenzio la coscienza religiosa e, di
conseguenza, il ruolo delle sue istituzioni. Si cade allora nella dicotomia tra coscienza religiosa e coscienza civile; Chiesa e Stato si
considerano in reciproca opposizione, quasi che solo un’istituzione
QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
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fosse portatrice di libertà, mentre l’altra scadrebbe a mero simbolo
dell’imposizione e della prevaricazione.
» due sono
le condizioni
affinché si
possa attuare un contesto di “laicità
autentica”
» il ricono-
scimento
della
legittima
autonomia
delle realtà
terrene
Dal punto di vista della fede cristiana due sono le condizioni affinché si possa attuare un contesto di “laicità autentica”. In primo
luogo occorre ribadire l’importanza della libertà, et quidem della
libertà della coscienza umana. Un simile approccio conduce a un
atteggiamento di prudenza e di rispetto, cifre essenziali per evitare
dannose prevaricazioni e sterili pregiudizi. La reciproca distinzione
tra le sfere religiosa e politica suppone un estremo rispetto nei
confronti della libertà di coscienza: ogni eccessiva pressione, ogni
interferenza ne è un attentato. La libertà religiosa, esigita a fronte
dei rischi di ingerenza dell’istituzione pubblica, comporta, a sua
volta, un rispetto profondo delle convinzioni di ciascuno e quindi
una reale capacità di dialogo; dialogo che significa rinuncia ad ogni
pretesa di imposizione, supponendo invece la capacità di esporre
le proprie convinzioni nella contestuale apertura di credito nei confronti delle convinzioni altrui.
In secondo luogo è indispensabile – riprendo testualmente il Santo
Padre – il riconoscimento della legittima autonomia delle realtà terrene. Su questo aveva già insistito il Concilio Vaticano II, in specie
nelle pagine della Gaudium et Spes: «Se per autonomia delle realtà terrene intendiamo che le cose create e le stesse società hanno
leggi e valori propri, che l’uomo gradatamente deve scoprire, usare
e ordinare, allora si tratta di una esigenza legittima, che non solo è
postulata dagli uomini del nostro tempo, ma anche è conforme al
volere del Creatore» (Gaudium et Spes, n. 36; cf. n. 41). In fondo
è questa la radice di ogni autentica laicità: l’autonomia delle realtà
temporali si rispecchia in un atteggiamento di grande confidenza
nei confronti degli sforzi di tutti gli uomini e di tutte le donne nella
ricerca di quelle leggi e di quei valori che innervano le varie aree
della vita sociale. Ripercorrere la via della “laicità autentica” significa peraltro riscoprire un filone di pensiero estremamente fecondo
che, a partire da nomi quali i francesi Maritain e Mounier, già nella
prima metà del ‘900 ha suggerito le aperture poi recepite in seno
al Concilio Vaticano II. In ambito italiano è impossibile non citare
Giuseppe Lazzati, che della “feconda distinzione” tra temporale
e spirituale, e dunque della valorizzazione di una sana laicità, ha
fatto il centro della propria impostazione di pensiero e del proprio
impegno ecclesiale e civile.
Come si è visto, il nodo della laicità rappresenta uno dei punti più
promettenti e insieme più impegnativi del dialogo tra credenti e
24
QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
non credenti; l’obiettività della riflessione impone tuttavia la considerazione di altri fattori che contribuiscono a rendere la questione
ancora più complessa. Anzitutto vi è la forte differenziazione per
aree geografiche, che si rispecchia nella storia delle principali confessioni cristiane che hanno segnato la cultura religiosa dell’Europa: quella cattolica per l’area mediterranea, quella protestante
per il centro-nord Europa, quella anglicana nel Regno Unito, quella
ortodossa in gran parte dell’Europa orientale. Le differenze costituiscono un ulteriore carico di complessità, nella misura in cui in
ognuna di queste aree i rapporti tra Chiesa e Stato, tra credenti
e non credenti, e in ultima istanza la stessa figura della laicità assumono valenze tra loro sensibilmente diverse. La tradizione cattolica è quella più segnata dall’eredità del modello costantiniano
prima e dello Stato Pontificio poi; l’eredità cioè di un modello in cui
lo spirito religioso ha fortemente connotato le istituzioni pubbliche,
salvo riconoscere che, nell’arco di pochi decenni, la secolarizzazione ha reso assai meno solidi quei legami ideali a lungo ritenuti
indissolubili.
» la forte
differenziazione per
aree geografiche, che si
rispecchia
nella storia
delle principali
confessioni
cristiane
Assai diverso il contesto nei Paesi a forte tradizione protestante;
qui un diverso approccio alla modernità – per molti aspetti anticipata dallo stesso Lutero – ha impresso una nuova velocità all’evoluzione dei rapporti tra autorità religiosa e civile.
Da ultimo, in specie dopo la caduta del muro di Berlino, è indispensabile un richiamo ai Paesi a prevalente tradizione ortodossa, dove
il rapporto tra Chiesa e Stato assume sfumature ancora differenti
(basti pensare, fin dall’antichità, alla figura del re quale “episcopus
externus”) rendendo impossibile, in riferimento alla figura della laicità, ogni univoca semplificazione.
Per non parlare infine delle altre religioni, in particolare l’islam,
dove il concetto della laicità dello Stato e della politica riveste valenze ancora ulteriori, come è ad esempio il caso della Turchia
– Paese a chiara maggioranza islamica, ma con una Costituzione
ispirata a princìpi marcatamente laici – il cui progetto di ingresso
nell’Unione Europea solleva non poche domande e perplessità. È
infine impossibile non riproporre la questione della laicità a fronte
della massiccia presenza di immigrati di religione islamica in Paesi
di cultura e storia differenti, con tutte le conseguenze che la cosa
riveste sotto il profilo della pacifica convivenza e della reciproca
integrazione tra le persone, le culture e le religioni.
QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
25
Come la crisi cambia
l’Europa
Giuseppe
Davicino,
giornalista
e redattore
di Quaderni per
il Dialogo
e la Pace
»
ciò che a
costituzionalisti, giuristi,
filosofi ed
economisti appare
imperfetto
si dimostra,
alla prova
dei fatti,
decente, se
non addirittura buono
» crisi così
profonda
26
Giuseppe Davicino*
Le istituzioni, al pari delle persone, si forgiano al contatto con la
realtà storica. E spesso ciò che a costituzionalisti, giuristi, filosofi
ed economisti appare imperfetto si dimostra, alla prova dei fatti,
decente, se non addirittura buono. Mentre ciò che sul piano teorico
può sembrare ottimo, a volte si rivela sul piano storico inadeguato.
Anche il processo di integrazione europea risente di questa
dinamica, di questa dialettica tra le intenzioni e le problematiche
storiche che sopraggiungono. Lo si è potuto verificare bene negli
ultimi tempi quando, con l’avvento della crisi finanziaria globale,
l’Europa comunitaria sulla carta si presentava solida dal punto di
vista economico, con una moneta unica che in pochi anni aveva
saputo convincere anche gli analisti più scettici della sua validità
e solidità. Inoltre, le rigide regole del Patto di Stabilità avrebbero
dovuto armonizzare le economie della zona Euro, mettendole al
riparo da eccessive turbolenze. Mentre, sempre sulla carta, i limiti
dell’Unione Europea sembravano essere tutti sul piano politico:
la mancanza della Costituzione europea, o almeno di un accordo
minore sulle regole di funzionamento dell’Europa allargata a 27
Stati. Quanti cori piangenti si sono uditi in questi anni intorno alle
disgrazie elettorali prima della Convenzione europea, respinta dal
voto popolare in Francia ed in Olanda nella primavera del 2005,
e poi del Trattato di Lisbona, bocciato lo scorso anno dai cittadini
irlandesi. E in effetti, almeno lo stallo della riforma delle procedure
di voto dell’Europa allargata sembrava indebolire ulteriormente la
capacità di funzionamento dell’Europa politica.
Nel frattempo è sopraggiunta la crisi globale, che non ha risparmiato
il Vecchio Continente. Ora, di fronte ad una crisi così profonda,
prodotta da un mix di clamorose connivenze, complicità, omissioni nei
controlli, nella regolamentazione, nell’informazione che ha inquinato
i mercati finanziari su scala mondiale, inondandoli di titoli spazzatura,
l’architettura economica comunitaria è entrata profondamente in crisi.
In questi tempi difficili, la moneta unica europea ha senza dubbio
rappresentato uno scudo contro gli “avvoltoi” della speculazione
monetaria, sempre pronti ad avventarsi su valute in crisi e a dare il
colpo di grazia ad economie già traballanti. Ma i rigidi parametri di
Maastricht, soprattutto il deficit pubblico non superiore al 3% del Pil
QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
e un debito pubblico al di sotto del 60%, si sono rivelati decisamente
inadatti ad affrontare questa fase di eccezionale crisi, che richiede
interventi straordinari a sostegno dell’economia e della coesione
sociale, messa a rischio dalla perdita di molti posti di lavoro. Ed
infatti i governi europei hanno iniziato, pur in forme diverse e forse
senza un soddisfacente grado di coordinamento, a varare i loro piani
di stimolo all’economia necessariamente sforando questi vincoli
europei, anche con il tacito assenso della Commissione. A ciò si
aggiunga che la direttiva europea Mifid, che doveva costringere
banche e intermediari finanziari come sim e sgr ad una maggiore
trasparenza, in realtà si è rivelata molto condizionata dagli interessi
che avrebbe dovuto regolamentare e non è servita per impedire (si
insinua anzi che abbia favorito) l’invasione massiccia di titoli tossici
nei bilanci degli istituti di credito europei.
Dall’altro lato l’Europa politica, che sembrava essersi bloccata
in seguito al fallimento dei progetti di trattato costituzionale, ha
dimostrato invece di sapere assumere una propria iniziativa di fronte
all’avanzare della crisi finanziaria. Sorprendentemente, quello che
sembrava un limite oggettivo all’iniziativa politica comune europea
– vale a dire la presidenza a rotazione di soli sei mesi, i criteri di
voto tra i Paesi membri e altri elementi – si è rivelato un ostacolo
non insormontabile, di fronte alla volontà politica degli Stati, a
cominciare da quelli più grandi. Ancora una volta è stata l’intesa
franco-tedesca a dare il la ad un’azione più coordinata dell’Europa
contro la crisi, rafforzata dall’adesione italiana e, su alcuni punti, da
quella britannica.
La reazione dell’Europa alla crisi ha finito per dimostrare che ciò
di cui oggi ha bisogno il progetto europeo per conquistare il cuore
e il consenso delle nuove generazioni è di più democrazia e più
trasparenza. I referendum sui progetti di costituzione (che pure
hanno destato nell’immediato una fondata preoccupazione) hanno
forse chiuso il periodo grigio (seguito alle speranze degli albori)
della storia dell’Europa comunitaria, caratterizzato dalla prevalenza
di un modello piramidale in cui tutto (dai valori fondanti, alla misura
delle gabbie per le galline ovaiole) veniva calato dall’alto, sulla
testa di una società civile europea più responsabile e propositiva di
quanto pensassero le élite costituenti e le burocrazie di Bruxelles.
Una seconda lezione da trarre dal modo in cui la crisi sta modificando
il “condominio” europeo è che questa Unione Europea, nella
sua fragilità ed incompiutezza, si sta rivelando forse l’istituzione
internazionale più interessante e moderna che esista al mondo.
QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
» questa
Unione
Europea
si sta rivelando forse
l’istituzione
internazionale più
interessante
e moderna
che esista al
mondo
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» questa
Unione
Europea
si sta rivelando forse
l’stituzione
internazionale più
interessante
e moderna
che esista al
mondo
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Non è un caso che in ogni angolo del globo vi siano dei tentativi
di imitazione: dai Paesi del Sud Est asiatico (Asean), a quelli
dell’Africa Orientale (Eac) e a quelli dell’America Latina. Le ragioni
dell’interdipendenza fra gli Stati si dimostrano più forti dei motivi di
conflitto, e possono ragionevolmente ritrovarsi e rafforzarsi, in una
forma di unione politica che salvaguarda la responsabilità degli
stati e le identità nazionali e mette in comune numerosi aspetti
della vita civile ed economica.
Infine, credo non si possa far finta di non vedere che da questa
crisi emerge un ulteriore cambiamento in Europa. Se l’UE è stata
capace di assumere un’iniziativa contro la crisi, che l’ha portata a
rappresentare una posizione propria e distinta, dagli Stati Uniti e
dalla Cina al G20 di Londra dell’aprile scorso, persino in presenza
di una presidenza di turno “euroscettica”, come quella degli attuali
dirigenti della Repubblica Ceca, ciò significa che oggi c’è una forte
regia intergovernativa capace di sopperire alla mancanza di un
governo europeo. Anche chi come noi auspica un’evoluzione in
senso federale dell’integrazione europea deve oggi prendere atto
che l’Europa possibile è quella dei governi nazionali, legittimati
dal voto popolare, capaci di comprendere che il miglior modo per
difendere l’interesse particolare è quello di realizzare obiettivi
comuni al proprio interno e di fronte al mondo. Anche in questo
caso, la storia (se non già la cronaca dei prossimi mesi) dirà quale
modello di Europa si rivelerà più idoneo nel tortuoso percorso di
uscita dalla crisi, anche rispetto a certe unioni politiche fra stati già
realizzate e che fino a ieri apparivano solidissime e dominanti.
QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
Scheda sull’Europa 1
uno strano organismo: l’unione europea
Mirto Boni*
L’Unione Europea (UE) è indubbiamente uno strano organismo; non è uno stato
federale, come gli USA o l’India, perché i singoli stati dell’UE mantengono la loro
piena indipendenza e la propria costituzione, tant’è che non esiste un “Capo
dello Stato” dell’UE. D’altra parte è molto di più di un’alleanza militare e politica
(come ad esempio la NATO) o di un’unione doganale o uno spazio economico
comune. Essa è al presente una Comunità di Stati che, aderendo a una serie di
trattati liberamente sottoscritti da ciascuno Stato membro, accettano di rinunciare
parzialmente alla propria sovranità in una vasta lista di competenze, per accettare
in codesti settori le decisioni legislative e regolamentari deliberate dalla Comunità
medesima attraverso le proprie Istituzioni.
Per meglio chiarire questo concetto diamo una brevissima definizione delle
Istituzioni comunitarie, preceduta da un sommario storico delle principali tappe
che hanno portato all’Unione come attualmente si trova.
Mirto Boni,
già presidente
ACLI Varese,
redattore
di Quaderni per
il Dialogo e la Pace
Le stragi e le immani rovine di due guerre mondiali nel giro di trent’ anni furono la
spinta determinante a convincere alcuni politici lungimiranti degli Stati più coinvolti
nelle guerre stesse a cercare una via per impedire che futuri conflitti di interesse
portassero di nuovo a tragici conflitti militari. Un ulteriore incentivo a superare
le tradizionali controversie fra stati dell’Europa occidentale fu la constatazione
che ciascuna singola potenza europea era ormai troppo debole, sia militarmente
che politicamente e finanziariamente, per competere con le due Grandi Potenze
uscite dalla Seconda guerra mondiale, cioè gli USA e l’URSS.
Si arrivò così al primo embrione comunitario con la Comunità Europea del Carbone
e dell’Acciaio (CECA), istituita col trattato di Parigi (1951), seguita pochi anni
dopo dalla Comunità Economica Europea (CEE) e dalla Comunità Europea per
l’Energia Atomica (EURATOM), sancite con i Trattati di Roma del 1957. Queste
comunità comprendevano i sei Paesi detti oggi “fondatori”, cioè Belgio, Francia,
Germania Occidentale, Italia, Lussemburgo e Olanda. Negli anni successivi
questi trattati furono modificati e ampliati ad altri settori di competenza, come ad
esempio la protezione ambientale, la difesa della salute, la politica monetaria,
ecc. Nello stesso tempo altri Stati europei aderivano man mano, aumentando il
numero degli Stati membri e di conseguenza il “peso” economico e demografico
della Comunità.
Un importante passo avanti verso una maggiore coesione fu costituito dal Trattato
di Maastricht (1992), in seguito al quale le varie “comunità” si fusero nell’Unione
Europea. Fu concepita a Maastricht la decisione di adottare una moneta unica,
che si concretizzerà nel 2002 con l’introduzione dell’Euro.
Un’altra svolta politica fondamentale, seguita agli avvenimenti del 1989, fu
l’adesione all’UE di un importante gruppo di Paesi dell’Europa orientale; questi
QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
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Paesi fino al 1989 non riconoscevano nemmeno l’esistenza della Comunità
Europea!
Così l’UE, con l’ultimo allargamento – nel 2007 l’ingresso di Bulgaria e Romania
– arrivava a comprendere 27 Paesi e a raggiungere il confine con la Russia.
Attualmente copre una superficie di circa 4.330.000 Kmq ed ha una popolazione
di oltre 490 milioni di abitanti.
Vediamo ora una definizione schematica delle Istituzioni dell’UE:
Parlamento Europeo
Eletto a suffragio universale da tutti i cittadini degli Stati membri, è composto da
un numero di rappresentanti per ciascuno Stato grossolanamente proporzionale
alla popolazione. Rappresenta i cittadini dell’Unione nel loro complesso: i suoi
gruppi politici sono costituiti non per nazionalità ma per affinità politica. Ha potere
legislativo (in coabitazione con il Consiglio) e potere di controllo (e di sfiducia)
sull’operato dell’esecutivo. Le sue decisioni sono valide a maggioranza semplice.
Non ha invece potere di iniziativa: può soltanto discutere e approvare/emendare/
respingere le proposte legislative e regolamentari introdotte dall’esecutivo.
Consiglio dell’Unione Europea
Rappresenta i governi degli Stati membri, ed è composto dal ministro competente
di ciascuno Stato relativo all’argomento in discussione. Condivide con il PE il
potere legislativo; un regolamento o una direttiva dell’UE ha vigore solo quando è
approvata da entrambe le Istituzioni. Il Consiglio vota a “maggioranza qualificata”
(seguendo un complicato sistema di ponderazione); per le questioni cruciali è
richiesta l’unanimità. Anche il Consiglio non ha potere di iniziativa.
Commissione Europea
È l’organo comunitario per eccellenza: è custode dei trattati e responsabile del
buon funzionamento amministrativo dell’UE e della corretta esecuzione dei
bilanci. È composta da un rappresentante per ogni Stato membro; i commissari
sono nominati dai rispettivi governi, ma sia i singoli che la Commissione nel suo
complesso debbono ricevere la fiducia da parte del PE. È l’unica Istituzione a
godere del diritto di iniziativa. La Commissione (come il PE) dura in carica 5 anni,
salvo dimissioni o sfiducia.
Corte di Giustizia
Rappresenta il potere giudiziario a livello comunitario, con due gradi di giudizio.
Tratta le controversie riguardanti il diritto comunitario, e vi possono adire sia gli
Stati o le Istituzioni comunitarie che i singoli cittadini dell’UE. Per il momento non
è competente per la giustizia penale.
Corte dei Conti
Esiste per il controllo sulle spese; ci sono poi vari organismi consultivi, tra cui i
più importanti sono il Comitato Economico e Sociale, costituito da rappresentanti
delle forze produttive (Imprenditori, Lavoratori, Pubblici Amministratori), e il
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QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
Comitato delle Regioni che porta la voce delle autonomie e delle istanze locali
all’interno dei vari Stati dell’UE.
La capitale dell’Unione Europea è Bruxelles, ma alcune delle Istituzione hanno
sede a Lussemburgo e a Strasburgo. L’UE ha una propria bandiera e un inno
(l’Inno alla Gioia dalla IX Sinfonia di Beethoven). Presso la Commissione
Europea sono accreditate missioni diplomatiche ufficiali di tutti gli Stati esterni
che riconoscono l’Unione.
QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
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Scheda sull’Europa 2
La questione aperta del Trattato di Lisbona
Lorenzo Gaiani,
vice presidente
ACLI milanesi
Lorenzo Gaiani*
Il Trattato di Lisbona (noto anche come Trattato di riforma) è il trattato redatto
per sostituire la Costituzione europea bocciata dal ‘no’ nei referendum francese
e olandese del 2005.
L’intesa arriva dopo i due anni del “periodo di riflessione” ed è stata preceduta
dalla Dichiarazione di Berlino del 25 marzo 2007, in occasione dei 50 anni
dell’Europa unita, in cui la cancelliera tedesca Angela Merkel e il premier italiano
Romano Prodi esprimevano la volontà di sciogliere il nodo entro pochi mesi al
fine di consentire l’entrata in vigore di un nuovo trattato nel 2009, anno delle
elezioni del nuovo Parlamento europeo.
Nello stesso periodo nasce il cosiddetto “Gruppo Amato” (formato da politici
europei), ufficialmente chiamato “Comitato d’azione per la democrazia europea”
(in inglese “Action Committee for European Democracy” o ACED) supportato
dalla Commissione europea che ha inviato due suoi rappresentanti alle riunioni.
Il gruppo ha avuto il mandato (non ufficiale) di prospettare una riscrittura della
Costituzione basata sui criteri che erano emersi durante le consultazioni della
Presidenza tedesca con le varie cancellerie europee. Il risultato è stato presentato
il 4 giugno 2007: il nuovo testo presentava in 70 articoli e 12.800 parole circa le
stesse innovazioni della Costituzione (che aveva 448 articoli e 63.000 parole)
diventando così il punto di riferimento per i negoziati.
Il Consiglio Europeo di Bruxelles, sotto la presidenza tedesca, il 23 giugno 2007
raggiunse l’accordo sul nuovo Trattato di riforma. L’accordo recepisce gran parte
delle innovazioni contenute nella Costituzione europea. Rispetto a quel testo,
sono state approvate a Bruxelles le seguenti modifiche:
•
•
•
32
non esisterà un solo trattato (come la Costituzione europea), ma saranno
riformati i vecchi trattati. Il Trattato di riforma modificherà quindi il Trattato
sull’Unione Europea (TUE) e il Trattato che istituisce la Comunità europea
(TCE). Il primo manterrà il suo titolo attuale mentre il secondo sarà denominato
Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE). Ad essi vanno
aggiunti la Carta dei diritti fondamentali e il Trattato Euratom (quest’ultimo
non era stato integrato nella Costituzione europea);
è stato tolto ogni riferimento esplicito alla natura costituzionale nel testo:
sono stati eliminati i simboli europei e si è ritornati alla vecchia nomenclatura
per gli atti dell’UE: tornano “regolamenti” e “direttive” al posto delle “leggi
europee” e “leggi quadro europee”;
il “ministro degli Esteri” europeo tornerà a chiamarsi “alto rappresentante
per la PESC (Politica Estera e di Sicurezza Comune)”, benché con i poteri
rafforzati indicati nella vecchia Costituzione: sarà anche vicepresidente della
QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
Commissione;
vengono meglio delimitate le competenze dell’UE e degli Stati membri,
esplicitando che il “travaso di sovranità” può avvenire sia in un senso (dai
Paesi all’UE, come è sempre avvenuto) che nell’altro (dall’UE ai Paesi);
il nuovo metodo decisionale della “doppia maggioranza” entrerà in vigore nel
2014 e, a pieno regime, nel 2017;
aumentano i poteri dei Parlamenti nazionali che hanno più tempo per esaminare
i regolamenti e le direttive;
la Carta dei diritti fondamentali non è integrata nel Trattato, ma vi è un
riferimento ad essa. Il Regno unito ha ottenuto una “clausola di esclusione”
(“opt-out”) per non applicarla sul suo territorio al fine di preservare la
Common law. Lo stesso è stato concesso alla Polonia ma con l’elezione a
premier di Donald Tusk quest’ultimo si è impegnato a non far valere l’opt-out
acquistato;
il Regno Unito e l’Irlanda hanno ottenuto (per chiunque lo voglia utilizzare) un
meccanismo (“opt-out”) per essere esentati da decisioni a maggioranza nel
settore “Giustizia e affari interni”;
viene specificato che la PESC ha un carattere specifico all’interno dell’UE
e che non può pregiudicare la politica estera e la rappresentanza presso le
istituzioni internazionali degli Stati membri.
la concorrenza non è più ritenuta un obiettivo fondamentale dell’UE, ma
viene citata in un protocollo aggiuntivo;
viene introdotta l’energia nella clausola di solidarietà in cui gli Stati membri si
impegnano a sostenere gli altri in caso di necessità;
viene specificata la necessità di combattere i cambiamenti climatici nei
provvedimenti a livello internazionale;
viene introdotta la possibilità di recedere dall’UE (fino ad oggi, infatti, vi si
poteva solo aderire).
Essenzialmente tre sono stati i Paesi su cui si è trattato più a lungo per un
accordo: Polonia, Regno Unito e Francia. I punti controversi sul tavolo negoziale
erano i seguenti:
• la Polonia rifiutava il metodo della maggioranza qualificata per le decisioni in
seno al Consiglio Europeo e chiedeva il ritorno alla ponderazione col metodo
della radice quadrata;
• diversi Paesi (tra cui soprattutto Regno Unito, Paesi Bassi e Repubblica
Ceca) chiedevano di cancellare la figura del ministro degli Esteri europeo
mantenendo l’autonomia nazionale in politica estera;
• il Regno Unito si opponeva al valore giuridico della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione Europea (ottenendo un “opt-out” insieme alla Polonia) e alla
superiorità del Diritto europeo in tutti i settori (cosa poi ottenuta dagli
europeisti, sebbene derubricata in una dichiarazione contenente un richiamo
alla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’UE), due cose che avrebbero
stravolto l’ordinamento della Common law britannica;
• la Francia chiedeva la soppressione del riferimento a un mercato comune
QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
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dominato dalla libera concorrenza, per porre freni al liberismo europeo visto
con malanimo dai francesi.
I negoziati hanno presto risolto, con diverse concessioni, i nodi britannici mentre
la questione polacca si è rivelata quasi insormontabile a causa del deciso rifiuto
dei leader Lech e Jaroslaw Kaczynski di accettare la maggioranza qualificata.
Un accordo tra Varsavia e la tedesca Merkel (che prevedeva l’entrata in vigore
della maggioranza qualificata solo nel 2014) è stato dapprima accettato e poi
respinto dalla Polonia. A questo punto, sotto la pressione dell’Italia che ha
guidato una coalizione di Paesi europeisti a oltranza, la cancelliera Angela
Merkel aveva proposto di indire una nuova Conferenza intergovernativa senza
includere la Polonia che, di fatto, sarebbe così rimasta fuori dal nuovo trattato.
Ciò ha spaventato il governo polacco che ha infine accettato una proposta di
compromesso.
L’iter di ratifica
L’Ungheria è stato il primo Paese a ratificare il Trattato, il 17 dicembre 2007, a soli
quattro giorni dalla firma dello stesso.
Il Trattato è stato ratificato da quasi tutti gli Stati firmatari, prevalentemente per
via parlamentare, nel corso del 2008. Vari gruppi euroscettici (danesi e inglesi)
hanno chiesto nei primi mesi del 2008 la ratifica attraverso referendum, avendo
notato che le implicazioni legali del Trattato rispetto alla precedentemente
bocciata Costituzione europea sono identiche, ma non l’hanno ottenuta.
Solo l’Irlanda, nel rispetto della sua Costituzione, ha deciso di effettuare un
referendum confermativo, mentre i Paesi Bassi, la Repubblica Ceca e la
Danimarca hanno ritenuto invece di non tenerlo: l’obiettivo era quello di riuscire
a far entrare in vigore il Trattato il 1° gennaio 2009, prima delle elezioni europee
del giugno successivo.
Il ‘no’ dell’Irlanda al referendum del 12 giugno 2008 ha causato una battuta
d’arresto dell’entrata in vigore del Trattato, ma non una sua messa da parte: la
Commissione europea e i responsabili dei maggiori governi continentali (Spagna,
Polonia, Svezia, Germania e Francia Regno Unito, Cipro, Italia, Slovacchia e
Ungheria, Danimarca, Olanda, Slovenia - presidente UE) hanno dichiarato che il
processo di ratifica deve proseguire. Il Portogallo (che ha già ratificato) non si è
voluto sbilanciare, mentre solo la Repubblica Ceca ha dichiarato di voler fermare
il processo di ratifica. Si è quindi deciso di seguire lo schema del 2001, quando
un’iniziale bocciatura del Trattato di Nizza, sempre in Irlanda, fu poi trasformata
in promozione con un secondo referendum.
Il Consiglio europeo del 19-20 giugno 2008 ha sostanzialmente adottato questa
linea, rimandando la decisione finale alla riunione del 15 ottobre 2008 (appuntamento
poi posticipato a dicembre 2008 su richiesta dell’Irlanda stessa) sotto presidenza
francese.
In sostanza si è dato tempo all’Irlanda di elaborare come uscire dall’impasse,
mentre si sono invitati i Paesi che non l’hanno ancora fatto a ratificare il Trattato.
Lo slittamento dell’entrata in vigore del Trattato porterà comunque dei notevoli
problemi da risolvere, in quanto tutta l’agenda del 2009 era stata impostata
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QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
pensando alle nuove regole. Il Trattato di Nizza attualmente in vigore infatti
prevede che:
• la Commissione europea successiva al raggiungimento del 27° Stato venga
ridimensionata, ma non dice come. Il Trattato di Lisbona prevede invece
regole precise a partire dal 2014;
• il Parlamento europeo venga ridimensionato a 736 deputati, contro i 784 attuali
e contro i 751 previsti dalla decisione “collegata” al Trattato di Lisbona.
Si ritiene inoltre politicamente impraticabile qualsiasi nuovo allargamento senza
la previa approvazione del Trattato di Lisbona.
Nel Consiglio europeo dell’11-12 dicembre 2008 si è giusti ad un’intesa per
un secondo referendum che l’Irlanda si impegna a tenere prima dell’entrata in
funzione della prossima Commissione europea, ovvero prima della fine di ottobre
2009. In cambio la nazione isolana ha ottenuto rassicurazioni sulle sue richieste,
che verranno formalizzate probabilmente all’interno del Trattato di adesione della
Croazia:
• il mantenimento di un commissario per Stato;
• la salvaguardia dei poteri nazionali nel campo della politica fiscale;
• la rassicurazione sulla tradizionale neutralità della nazione;
• la non ingerenza nelle materie del diritto alla vita, dell’educazione e della
famiglia a causa dei vincoli giuridici causati dall’entrata i vigore della Carta
dei diritti fondamentali.
Si è poi deciso di adottare delle misure transitorie sul regime della presidenza del
Consiglio europeo e sul Parlamento europeo. In particolare:
la Presidenza semestrale attiva quando il Trattato entrerà in vigore continuerà
a vivere e passerà la mano alla Presidenza eletta solamente al termine del suo
mandato;
i membri del Parlamento europeo saranno aumentati dai 736 previsti dal Trattato
di Nizza ai 754 (previsti dalla decisione collegata al Trattato di Lisbona), con
l’obiettivo che tale modifica avvenga nel corso del 2010.
Vediamo ora le singole specificità.
Francia
Il 20 dicembre 2007 il Consiglio costituzionale ha ritenuto parzialmente incompatibili
con la Costituzione francese alcune disposizioni del Trattato di Lisbona e quindi,
prima di inoltrarsi nella ratifica formale del testo, si è provveduto a modificare
la Costituzione stessa. Il relativo progetto di riforma costituzionale è stato
approvato dall’Assemblea Nazionale il 16 gennaio 2008, dal Senato il 29 gennaio
2008 e dal Congresso (formato dall’Assemblea Nazionale e dal Senato riuniti in
seduta comune) il 4 febbraio 2008. La legge di revisione costituzionale è stata
successivamente pubblicata nel Journal officiel il 5 febbraio 2008, giorno a partire
dal quale la Francia ha potuto così procedere alla ratifica del Trattato.
Germania
QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
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La ratifica tedesca è attualmente sospesa. La legge di ratifica è stata approvata
dal Parlamento e quindi ora, per completare l’iter, manca solo la promulgazione
da parte del presidente della Repubblica Horst Köhler e il deposito degli strumenti
di ratifica a Roma, procedure che avverranno dopo il pronunciamento della
Corte costituzionale sulla compatibilità del Trattato con la Legge fondamentale
(Costituzione tedesca), a seguito di un ricorso proposto dal parlamentare Peter
Gauweiler (CSU), membro del Bundestag. L’udienza davanti all’Alta Corte si è
svolta il 10 e 11 febbraio 2009 ma la sentenza è attesa per il mese di maggio del
2009.
Irlanda
Dal 1987 in avanti, dopo una decisione in merito da parte della Corte suprema,
i trattati internazionali che potrebbero essere in conflitto con la Costituzione
irlandese devono essere ratificati con un referendum popolare. Così nel giugno
2008 l’Irlanda è stato l’unico Stato membro a tenere una consultazione popolare
sul Trattato. Tutti i membri dei tre partiti di governo nell’Oireachtas hanno
sostenuto il ‘sì’. Così hanno fatto tutti i partiti di opposizione nel Parlamento, con
l’eccezione del Sinn Féin. I Verdi, pur essendo un partito di governo, non hanno
preso ufficialmente posizione non riuscendo a raggiungere una maggioranza
dei due terzi (in uno o nell’altro senso) nel loro congresso del gennaio 2008 e
lasciando così i propri membri liberi di decidere autonomamente. La maggior
parte dei sindacati e delle organizzazioni irlandesi di categoria hanno sostenuto
il ‘sì’, mentre hanno promosso il ‘no’ il Sinn Féin, il gruppo Libertas, il gruppo
“L’Alleanza della gente prima del profitto” e alcuni gruppi minori di ispirazione
marxista. Inoltre il “Partito indipendentista dal Regno Unito” ha incoraggiato i
propri membri ad andare in Irlanda a fare campagna per il ‘no’. Il ‘no’ ha vinto
con il 53,4% dei voti (862 415 elettori) contro il 46,6% del ‘sì’ (752 451 elettori).
L’affluenza è stata di poco superiore al 50% degli aventi diritto.
L’Irlanda si sta incamminando verso un secondo referendum che si è impegnata
a tenere prima dell’entrata in funzione della prossima Commissione europea,
ossia prima della fine di ottobre 2009. Il 27 novembre 2008 una sub-commissione
del Parlamento irlandese ha infatti stabilito formalmente che “non ci sono ostacoli
giuridici al fatto che in Irlanda si svolga un secondo referendum sul Trattato di
Lisbona”. Mentre Brian Cowen si dichiara fiducioso sull’esito del nuovo voto dopo
le concessioni avute nel Consiglio europeo dell’11-12 dicembre 2008, le principali
forze politiche che sostennero il ‘no’ durante la prima consultazione hanno
confermato la loro opposizione al Trattato anche per il secondo referendum.
Italia
In Italia, a causa delle elezioni politiche anticipate e della volontà di alcuni gruppi
parlamentari di non procedere alla ratifica a camere sciolte, nonostante un appello
informale in questo senso fosse stato fatto dal presidente della Repubblica Giorgio
Napolitano, il disegno di legge presentato dal Governo Prodi non fu votato. Il
nuovo Governo Berlusconi ha dovuto quindi ripresentare un disegno di legge
per procedere alla ratifica. Tale disegno di legge è stato in seguito approvato
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QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
all’unanimità dal Parlamento, promulgato dal presidente della Repubblica e
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 185 dell’8 agosto
2008, supplemento ordinario n. 188.
Polonia
La ratifica in Polonia è attualmente ferma in quanto si attende la firma presidenziale
(il cosiddetto “atto di ratifica”). Il presidente della Repubblica polacca Lech
Kaczyński ha però firmato la legge che gli permette di ratificare il Trattato:
questa legge fissa la procedura per concedere l’autorizzazione alla ratifica
ed è stata fatta ai sensi dell’articolo 90, comma 4 della Costituzione polacca.
Ciò non significa però che la Polonia abbia terminato la procedura di ratifica. Il
presidente della Repubblica infatti non è costretto a ratificare il Trattato, tuttavia
sembra improbabile che non lo faccia se quest’ultimo si incamminerà sulla via
della ratifica nel resto dell’UE. Kaczyński ha rilasciato numerose dichiarazioni,
correggendo più volte il tiro e subendo pressioni soprattutto dal capo di Stato
francese Nicolas Sarkozy (presidente di turno del Consiglio europeo durante il
secondo semestre 2008) per rispettare gli impegni presi. Nella sua ultima uscita
ha affermato che concederà la sua firma quando anche l’Irlanda sarà pronta a
ratificare. La mossa sembra più che altro una manovra di politica interna che
lo vede contrapporsi al primo ministro Donald Tusk sulla questione dello scudo
spaziale USA da ospitare nel Paese.
Regno Unito
Il milionario conservatore ed euro-scettico Stuart Wheeler ha presentato un
ricorso presso l’Alta Corte di Londra volto ad ottenere la convocazione di un
referendum preventivo riguardo la ratifica del Trattato di Lisbona, ma il 25 giugno
2008 l’Alta Corte ha respinto la richiesta..
Repubblica Ceca
Il presidente della Repubblica ceca Václav Klaus potrebbe essere un ostacolo
alla ratifica del Trattato poiché è un fervente euro-scettico e ne ha chiesto
l‘abbandono definendolo “morto“ dopo il ‘no‘ del referendum irlandese (unico
capo di Stato ad agire in tal modo). A norma della Costituzione ceca, la ratifica
richiede la firma presidenziale, ma è molto improbabile che questa sarà negata
se entrambi i livelli del Parlamento approveranno il Trattato. Il 24 luglio 2008 il
presidente della Repubblica ha affermato che non firmerà il Trattato se l’Irlanda
non lo ratificherà prima.
La Corte costituzionale ceca ha sentenziato il 26 novembre 2008 che “il Trattato
di Lisbona dell’UE non viola la Costituzione nazionale” aprendo così la strada
alla sua ratifica parlamentare dopo sei mesi di blocco. La richiesta di una verifica
della costituzionalità del Trattato era partita dal Senato ceco, probabilmente al
fine di acquietare i timori dei partiti più piccoli rappresentati in Parlamento.
Il primo ministro ceco Mirek Topolánek ha dichiarato recentemente che il Trattato
sarà ratificato dal Parlamento entro la fine di marzo del 2009. La Camera e il
Senato hanno iniziato l’esame del trattato rispettivamente il 9 e il 10 dicembre
2008, ma entrambi i rami del Parlamento hanno deciso di rinviare il voto a
QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
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febbraio 2009 per pronunciarsi preventivamente sull’accordo con gli USA per
la realizzazione di una base radar e per dare il tempo ai due maggiori partiti
di negoziare una tregua in vista del semestre di presidenza UE del 2009. La
Camera ha approvato la ratifica il 18 febbraio 2009 mentre il Senato l’ha
ulteriormente rinviata in un periodo compreso tra marzo e maggio 2009 al fine
di dare prima il via libera all’inserimento nel regolamento di entrambi i rami del
Parlamento del cosiddetto “istituto del mandato vincolato”, secondo il quale ogni
trasferimento di competenza dal piano nazionale a quello comunitario dovrà
essere preventivamente approvato da entrambe le Camere (non potrà quindi più
bastare il solo parere favorevole del Governo).
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QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
Scheda sull’Europa 3
Quale Turchia bussa alle porte dell’Europa?
Giuseppe Davicino*
Il tema dell’ingresso della Turchia nell’UE da molto tempo appassiona le opinioni
pubbliche europee. E per le varie cancellerie (occidentali, russe, arabe, dei giganti
asiatici e di Paesi emergenti paragonabili per popolazione e/o per Pil, come
Messico, Sudafrica, Indonesia), la Turchia rappresenta uno Stato chiave – non solo
per collocazione geografica – in rapporto alle loro strategie, un partner ambizioso
ed esigente, uno Stato che in qualche modo conserva l’eredità di un antico
passato imperiale ed è perciò capace di esprimere autorevolmente una propria
visione geo-politica su molte caselle dello scacchiere internazionale. Una realtà
un pochino diversa dallo stereotipo di una Turchia che bussa disperatamente alle
porte della Comunità europea perché non sa dove andare. Un cliché consolidato
dai maggiori mass media europei capaci di fornire sull’Anatolia, in ultima analisi,
molti dettagli che fanno notizia, ma pochi veri elementi l’informazione.
Tra questi ultimi, vi è il fatto che a partire dal 2002 in Turchia si è verificato un
profondo cambiamento. Con l’avvento al potere del Partito per la Giustizia e lo
Sviluppo, l’Akp, dell’attuale premier Recep Tayyip Erdoğan è iniziata una svolta
storica, confermata dalle politiche del 2007 in seguito alle quali l’Akp ha conquistato
anche la carica di presidente della Repubblica nella persona di Abdullah Gül. Per
il primo ministro Erdoğan, l’aver piazzato un uomo di sua fiducia al vertice dello
Stato si è rivelata una mossa politica abile, un modello per molti aspetti virtuoso,
“copiato” lo scorso anno anche dalla Russia.
Giuseppe
Davicino,
giornalista
e redattore
di Quaderni per
il Dialogo
e la Pace
Un modello che sta permettendo, pur tra mille difficoltà, alla Turchia di trovare
un’alternativa nazionale e democratica al declino della classe dirigente militare
e burocratica che per oltre 80 anni ha governato il Paese nel solco dell’ideologia
laicista e occidentalizzante del kemalismo (dal nome di Mustafa Kemal, nel 1923
fondatore e primo presidente della Repubblica Turca, chiamato Atatürk, padre dei
turchi), ispirata alla massoneria e alla mazziniana Giovine Italia, che ha per lungo
tempo tenuto sotto tutela la democrazia turca e che ha profondamente inciso
nella formazione dell’identità tormentata della Turchia contemporanea, così ben
descritta dallo scrittore turco Orhan Pamuk, Nobel per la Letteratura nel 2006.
In questo nuovo secolo quell’equilibrio si è rotto ed oggi ad Ankara c’è un governo
rappresentativo del popolo che è al 99,8% di fede islamica. Il partito islamicomoderato di governo l’Akp, contiene molti paradossi. È un partito laico ma di
ispirazione islamica, sul modello dei partiti cristiano-democratici occidentali, tanto
da poter essere considerato, “demo-islamico”, una sorta di “democrazia cristiana”
islamica. È un partito moderato ma che ha guidato una fase di grande miglioramento
delle condizioni di vita del popolo turco, per questo popolare ma capace di
intercettare il consenso della borghesia più moderna, molto filo-europeista in un
Paese che è ormai stanco del modo in cui continua ad essere trattato dall’UE.
E che comincia a guardarsi attorno, non certo per essere risospinto verso le
QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
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culture turcomanne dell’Asia Centrale, bensì per scoprirsi potenza regionale di
tutto rispetto, in grado di primeggiare in Europa, se e quando le verranno aperte
le porte. In grado di esercitare un ruolo fondamentale di stabilizzazione e di pace
come ha dimostrato in almeno tre recenti occasioni. Durante la guerra che la
Georgia ha scatenato in Ossezia del Sud l’estate scorsa, il Governo di Ankara
ha proibito il passaggio nello stretto del Bosforo di navi da guerra americane di
grande stazza, secondo le prerogative concesse alla Turchia dalla Convenzione di
Montreux del 1936, che regola la navigazione negli Stretti Turchi (Dardanelli, Mar
di Marmara e Bosforo), impedendo così una pericolosa escalation del conflitto.
Durante la guerra di Israele nella Striscia di Gaza, nei giorni immediatamente
precedenti l’insediamento del nuovo presidente degli Stati Uniti Barack Obama,
la Turchia ha espresso un severo giudizio sull’accaduto che non le ha impedito
di svolgere un riconosciuto ruolo di mediazione sia presso il governo di Tel Aviv,
sia presso i vertici di Hamas.
M.K. Bhadrakumar,
What Turkey teaches about democracy, Asia Times,
19 aprile 2007.
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Ma è soprattutto in seguito al disastro provocato dall’invasione dell’Iraq,
calcolata dall’ex presidente Bush in palese violazione del diritto internazionale,
che la Turchia ha dato prova di affidabilità e di saggezza, quale Paese terzo più
danneggiato da tale guerra. Infatti, per la Turchia la disgregazione dell’Iraq ha
significato il riaffiorare di una potente spinta separatista dell’etnia curda, con le
frange terroristiche del Pkk in grado di riorganizzarsi al suo confine, nella regione
curda dell’Iraq. Bisogna riconoscere che la Turchia ha saputo limitare al minimo
indispensabile le pur tragiche operazioni ed incursioni militari al proprio confine
con l’Iraq agendo, sempre, d’intesa con gli Usa, l’Europa e persino l’Iran, per il
mantenimento dell’integrità territoriale del martoriato Paese petrolifero. Il contrasto
del terrorismo curdo in questi anni è andato di pari passo con il rispetto e un
maggiore riconoscimento dei diritti di questa minoranza, compresa un’ampia
autonomia, in territorio turco, così come richiesto anche dal processo per
l’adesione all’Europa. Inoltre, il governo di Erdoğan lo scorso anno è riuscito a
scoprire e a smantellare un gruppo sovversivo segreto denominato Ergenekon,
una specie di Gladio turca, che, tra le altre cose, organizzava azioni clandestine
e spregiudicate contro i capi curdi.
Persino le altre minoranze cristiane, cattoliche e ortodosse come quelle armene
(che scorgono nei demo-islamici al potere dell’Akp una netta diversità politica
e ideologica rispetto gli autori del genocidio armeno del 1915-16, perpetrato
dai laicissimi “Giovani Turchi”), vedono di buon occhio la nuova fase apertasi
nella Turchia di Erdoğan che, come ha colto l’ex ambasciatore indiano in Turchia,
Bhadrakumar, “ha dimostrato che una democrazia islamica può esistere e
funzionare, ed essere un’alternativa migliore delle dittature militari e secolariste
che l’Occidente mantiene al governo in tanti Paesi islamici”1.
Questa Turchia è in qualche modo un esempio per gli altri Paesi di religione islamica
che si affacciano sul Mediterraneo, e una spina nel fianco per i loro regimi. Un grande
Paese che attende dall’Europa dei 27 una risposta chiara prima che la mancata
adesione all’UE di quella che gli europei si ostinano a considerare una propaggine
dell’Asia non contribuisca a rendere l’Europa intera un’appendice d’Asia.
QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
Scheda sull’Europa 4
kosovo oggi: l’indipendenza incompleta
di Silvio Ziliotto*
Il popolo kosovaro albanese, ripresosi dall’euforia retorica e anestetizzante
dell’indipendenza del 2008, si ritrova ancora prigioniero di un’economia immobile e
appesantita da una disoccupazione che si attesta al 40%, dato che, se da una parte
non tiene conto dell’economia sommersa che assorbe parte della forza lavoro,
dall’altra è costantemente alimentato da una popolazione col tasso di natalità più
alto d’Europa, che immette ogni anno trentamila persone sul mercato del lavoro.
Silvio Ziliotto,
vice presidente
IPSIA Milano
Ad onor del vero va ricordato che il Kosovo è stata sempre un’area arretrata
sin dalla fondazione della Jugoslavia, avendo usufruito ad oltranza degli aiuti
provenienti dalle casse federali di Belgrado dal secondo dopoguerra in poi sia
in quanto zona depressa sia per le notorie questioni politiche di controllo della
turbolenta maggioranza albanese. All’epoca si riscontravano già le problematiche
odierne: uno scarso dinamismo sociale ulteriormente rallentato dalla struttura
arcaico clanica, la carente disponibilità di energia elettrica, la mancanza di
manodopera specializzata, la disoccupazione sempre alta, la costante migrazione
delle forze migliori. Possono quindi agevolmente comprendersi le difficoltà attuali
nel riuscire a creare un’economia sviluppata libera dall’assistenzialismo, a questo
punto non più jugoslavo ma internazionale, di cui tuttora fruisce questa regione
e di cui nel corso degli anni, sia dal punto di vista delle istituzioni che da quello
della società civile, si è dimostrata largamente dipendente.
Vista la disoccupazione così alta, la mancata indigenza di parte dei kosovari
albanesi si spiega con una fitta rete di attività private, clientelari ed assistenziali
che sfociano spesso nell’economia grigia dell’illecito. La storica emigrazione
kosovaro albanese verso Svizzera, Germania, Scandinavia e USA va annoverata
inoltre tra le principali fonti di ricchezza visto che le rimesse hanno rappresentato
ancora nel 2006 circa il 16% del PIL kosovaro.
Il punto cruciale per lo sviluppo economico e la stabilità politica risiede però
nella normalizzazione dei rapporti e nell’integrazione con il resto della regione
balcanica inclusa la Serbia, unito ad una politica energetica nuova, dato che la
fornitura attuale di energia è inadeguata e legata ancora alle strutture obsolete
del periodo jugoslavo.
Inoltre la riconversione industriale e le privatizzazioni attese come un’opportunità
di ricchezza si sono rivelate un‘altra occasione perduta che ha portato soldi in
gran parte nelle casse delle oligarchie locali o ha favorito speculatori interni ed
internazionali che, senza alcun esborso, hanno potuto usufruire di lauti sussidi
ed incentivi.
Se c’è un aspetto della coesione interetnica jugoslava che è passato indenne da
venti anni di processo disgregativo, è quello del malaffare: dopo la disintegrazione
dello Stato jugoslavo, esiste tuttora una Jugoslavia del crimine che, oltre ad
QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
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attanagliare il territorio d’origine, allunga i suoi gangli temibili sulle nazioni
circostanti e che, parafrasando Clausewitz, nella guerra vede un proseguo,
ovviamente non dell’azione politica bensì di quella delinquenziale in tutte le sue
declinazioni possibili.
In Kosovo la malavita facendo perno su una struttura clanica arcaica basata
sul kanun (codice di leggi e consuetudini tramandatesi oralmente nelle valli
montuose albanesi) e la besa (la parola data), è radicata e si è sviluppata grazie
all’emigrazione, ben prima degli ultimi conflitti, dimostrando di avere un codice
d’onore forte, simile a quello mafioso e spesso più efferato. Le gesta delittuose
della diaspora kosovaro-albanese risalgono ai tempi dell’inchiesta pizza
connection in cui risultò apprezzata dalla cupola italoamericana l’affidabilità dei
sicari assoldati fra le sue fila sino a giungere alle innumerevoli inchieste attuali
condotte dalle polizie di mezza Europa ove emerge come il ruolo di fornitrice di
manovalanza si è man mano sostituito a quello di associazione a delinquere
integrata appieno con le più efficienti organizzazioni italiane quali la ’ndrangheta
e la sacra corona unita oltre alla mafia stessa.
I traffici che vedono il Kosovo come importante snodo e terminale di una vera
propria mezzaluna fertile malavitosa che parte dall’Afghanistan e tramite i mille
canali delle porose frontiere dell’Est europeo, prosegue nel cuore del nostro
continente e oltre, sono tra i più svariati: traffico di organi, di esseri umani, di
armi, transito e raffinazione di stupefacenti, riciclaggio di denaro, prostituzione,
ricettazione e smercio di opere d’arte depredate in prevalenza dai monasteri serbi
ma anche da altri siti storici, merci e marchi contraffatti e via dicendo a soddisfare
ogni genere di richiesta e produzione illecita.
Non pare infatti casuale e neppure di mera cortesia la visita operativa compiuta
dal capo della polizia italiana Antonio Manganelli all’inizio del 2009 in Albania
per un confronto con i referenti delle forze dell’ordine di Macedonia, Albania,
Montenegro e appunto Kosovo.
Per di più la pioggia di aiuti economici concessa dal 1999 ad oggi per la
ricostruzione ha creato giri di denaro ed interessi inusitati per una regione di
modeste dimensioni ma di interesse strategico straordinario per cui possiamo
serenamente affermare che gran parte delle centinaia di milioni di euro elargiti al
Kosovo dalla comunità internazionale non è stata esente del tutto da operazioni
illecite. Ciò ha permesso al Kosovo, preceduto in verità dall’Albania al terzo
posto, di essere annoverato in una poco invidiabile top ten come quarto paese al
mondo per la corruzione diffusa a tutti i livelli istituzionali.
Per completezza di informazione va sottolineato che la suddetta corruzione non
è un morbo endemico generato unicamente dai kosovari ma è spesso stata
incoraggiata ed alimentata dai comportamenti scorretti e dalle procedure discutibili
della nomenklatura dei numerosi enti ed agenzie internazionali insediatisi per le
politiche di ricostruzione e democratizzazione del Kosovo.
Preoccupa anche che il Kosovo possa divenire una potenziale base logistica
per il terrorismo internazionale, più per la larga disponibilità di ogni sorta di arma
ed esplosivo e la vicinanza con il Sangiaccato potenziale zona di proselitismo,
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QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
che per la reale presenza di fondamentalismi che possono attecchire con molta
difficoltà in uno Stato che ha come sponsor principale gli Stati Uniti ma dove si
sta sviluppando, come del resto in buona parte dell’Europa Sud-Orientale, anche
l’inquietante fenomeno delle agenzie di sicurezza private e mercenarie al soldo
dei signori prima della guerra e ora della malavita.
Altro problema cruciale, che necessiterebbe una trattazione molto più approfondita,
è quello della repressione delle minoranze (serba, rom ed altre) che ha portato
alla ghettizzazione e all’emarginazione di parte della popolazione in un clima
di soprusi e spesso di indifferenza a livello internazionale. Questa incognita
fondamentale andrà risolta in maniera approfondita ed idonea per giungere ad
una reale normalizzazione dei rapporti tra Kosovo e Serbia.
La maggioranza dei kosovaro-albanesi è giovane di fatto ma anche di formazione:
sino al 1999 il Kosovo «non ha conosciuto politicamente ed umanamente altro
che repressioni e discriminazioni. Non ha vissuto una società civile normale ma
solo ininterrotte emergenze e veleni etnici»1 e ora, ad un anno dall’indipendenza
e dieci anni dai bombardamenti NATO fa una fatica enorme ad acquisire la
coscienza civile dei propri diritti e doveri, tipica delle cosiddette democrazie
avanzate, trovandosi sempre più «in bilico tra MTV e Kanun, tra una voglia
inconfessabile di Occidente e le regole ferree della tradizione»2.
Per giunta la convinzione fatalista e di comodo, che il proprio destino sia sempre
stato gestito da autorità esterne, prima quelle jugoslave ora quelle delle missioni
internazionali, oltre a fornire un alibi alla modesta classe politica locale, ha
impedito la crescita di una sana autocritica interna alla società stessa, foriera,
una volta avviata, di una evoluzione positiva del tessuto civile e sociale.
Questo sarà il compito delle nuove generazioni kosovare, all’Europa quello di
non abbandonarle.
QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
1) R. Morozzo Della
Rocca, Kosovo la
guerra in Europa,
origini e realtà di
un conflitto etnico,
Guerini e associati,
Milano 1999, p. 79.
2) F.Gentilini, Infiniti
Balcani, viaggio
sentimentale da
Pristina a Bruxelles,
Edizioni Pendragon, Bologna
2007, p. 65.
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Scheda sull’Europa 5
La Francia e l’Unione Europea
Aldo Novellini,
giornalista
Aldo Novellini*
La Francia insieme ad Italia, Germania, Olanda, Belgio e Lussemburgo è uno dei
Paesi fondatori del Mercato comune nel 1957. Parlare dunque di Europa a Parigi
e dintorni significa portare a galla un sentimento europeista che, pur con i suoi
alti e i suoi bassi e un certo sciovinismo tipicamente transalpino, attraversa tutti
gli strati della popolazione da oltre sessant’anni.
L’idea di qualche forma di integrazione europea intesa anche come cammino di
pacificazione del continente scosso dagli orrori del secondo conflitto mondiale
trovò nell’immediato dopoguerra i suoi principali ispiratori ed artefici negli ambienti
politici democratico-cristiani. Pace, sviluppo e democrazia furono i capisaldi della
nuova classe dirigente di ispirazione cattolica e liberale, ascesa al governo in
molti Paesi europei tra cui l’Italia.
Oltralpe portabandiera di questi colori furono Jean Monnet e Robert Schuman,
insigni esponenti del Mrp (Movimento repubblicano popolare), uno dei partiti
cerniera della IVa Repubblica. All’epoca sullo scacchiere politico transalpino
aleggiava però l’ombra di De Gaulle risolutamente contrario ad associazioni a
sfondo europeo nelle quali la Francia potesse veder limitata la propria sovranità.
E infatti proprio da Parigi arrivò nel 1954 la bocciatura della Ced (Comunità
europea di difesa) che rappresentò una decisiva battuta d’arresto verso una
precoce (a meno di dieci anni dalla fine della guerra) unità politica europea. In
Francia avversi a questa prospettiva erano sia la destra nazionalista (cui allora
apparteneva il movimento gollista) sia le forze social-comuniste, legate al blocco
sovietico.
Poi per una sorprendente accelerazione della storia in meno di tre anni dal fallimento
della Ced si arrivò alla nascita di una Comunità prettamente economica. Chiave
del suo successo fu proprio quella di presentarsi come un unione mercantile
per liberare l’economia europea dalle barriere doganali senza avere particolari
ambizioni politiche. In quegli anni a favore della Cee erano esclusivamente le
maggioranze centriste e golliste al governo nella prospettiva di un’Europa delle
patrie fondata cioè sulle identità nazionali. L’opposizione di sinistra era invece
ancora influenzata dal partito comunista avverso a qualsiasi percorso europeista
considerato un po’ la longa manus del capitalismo internazionale.
Con Valery Giscard d’Estaing vi fu un decisivo impulso alla causa europea
nell’Esagono. Sotto la sua presidenza fu infatti decisa, con l’Italia in prima
fila, la nascita del Sistema monetario europeo (Sme) antesignano dell’Euro.
Una posizione europeista era intanto maturata nel Partito socialista. Nel 1981
con François Mitterrand la sinistra arrivò all’Eliseo e vinse le elezioni politiche.
Ancora una volta funzionò a menadito l’asse con Bonn. L’intesa tra il socialista
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QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
Mitterrand e il democristiano Kohl (come per anni quella tra il liberale Giscard
e il socialdemocratico Schmidt) si rivelò determinante per giungere all’Atto
unico (1986) e al Trattato di Maastricht (1992) che prepararono la nascita
dell’Euro. Ampia convergenza su questo cammino anche da parte gollista (Rpr),
soprattutto grazie all’apporto di Jacques Chirac che riuscì a vincere il tradizionale
euroscetticismo della sua famiglia politica. Anche il Pcf aderiva a questa
impostazione, evidenziando semmai la necessità di imprimere alla nascente
Unione una svolta sociale. Contrario il Fronte nazionale di Jean-Marie Le Pen
che dell’avversione all’Europa multiculturale faceva il suo cavallo di battaglia.
L’intero panorama politico transalpino agli inizi degli anni Novanta era in larga
parte ben assestato su una linea favorevole all’unificazione europea anche se,
e avrebbe dovuto essere un campanello d’allarme, il referendum sull’intesa di
Maastricht nel 1992 venne approvato con una maggioranza piuttosto risicata.
In effetti questo europeismo sempre più diffuso nella classe politica iniziò a
sfilacciarsi a livello sociale testimoniato anche dal progressivo astensionismo alle
elezioni per il Parlamento di Strasburgo. L’Unione cominciò a venir percepita dal
cittadino medio non soltanto come simbolo del grande ideale europeista ma anche
come una sovrastruttura burocratica con una sempre più penetrante, e magari
fastidiosa, regolazione di troppi aspetti della vita quotidiana dei cittadini, senza
apparentemente offrire alcun vantaggio. Un universo per di più distante dalle
preoccupazioni della gente alle prese con un mondo del lavoro sempre meno
tutelato e con un mercato globale che rende più precaria la sua esistenza.
Così dapprima come generico malcontento, ove neppure il traguardo della
moneta unica viene percepito come un successo, si fa strada una progressiva e
sempre più vasta ripulsa che si tramuta quindi in avversione politica. Soprattutto
la sinistra, relegata all’opposizione dopo la sconfitta alle presidenziali 2002, si
fa portavoce di queste istanze provando a cavalcarle a suo possibile profitto.
Viene così data la stura ad un antieuropeismo, sino a pochi anni in appannaggio
soltanto a frange estreme di destra (Fn) e di sinistra (Lcr, Lotta operaia). Nelle
file socialiste a capitanare questa protesta è l’ex primo ministro Laurent Fabius
che, dimenticando il suo passato social-liberale, si collocò con una spregiudicata
operazione politica alla guida del fronte contrario al trattato di Nizza sulla
Costituzione europea: un cartello comprendente gollisti dissidenti, Fn, Pcf ed
estrema sinistra, cui proprio l’apporto di parte del Ps diede la spinta vincente al
referendum.
Respingendo la Costituzione europea la Francia, membro fondatore e socio di
particolare peso politico, ha mandato in crisi il processo di integrazione. Oggi
questa frattura non pare essere ancora completamente rimarginata anche se è
stata superata la defezione del Ps. Sia Ségolène Royal, candidata all’Eliseo nel
2007, che Martine Aubry, segretario del partito, sono infatti favorevoli a un più
accentuato vigore politico dell’Unione, in assonanza, almeno su questo tema,
alle iniziative filoeuropeiste di Nicolas Sarkozy.
Gli ultimi dati dell’eurobarometro (EB 70 - autunno 2008) evidenziano un interesse
QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
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dei cittadini francesi superiore alla media UE: 46 contro 44%. Riguardo alle
prossime elezioni per l’europarlamento il 44% degli intervistati è già sicuro di
partecipare al voto (un punteggio di ben 16 punti superiore al dato medio UE)
mentre i refrattari alle urne sono il 15%. I giovani talvolta poco interessati alle
vicende politiche si situano al 19% nel non voto; una cifra decisamente più
contenuta di molti altri Paesi europei. Il potere d’acquisto con il 70% dei responsi
è di gran lunga il tema che assilla i francesi (contro il 47% della media UE), seguito
a ruota dalla disoccupazione (57%) e dalla scarsa crescita economica (52%).
La realizzazione di un welfare a livello europeo è considerata l’architrave del
processo di integrazione e il fattore decisivo per una vera cittadinanza europea.
La Francia insomma sembra aver compreso l’errore del 2005, quando venne
bocciata una Costituzione portatrice di nuovi assetti politico-istituzionali che
in prospettiva avrebbero aperto lo spazio a regole comuni sul welfare, sulla
fiscalità e in materia economica. Strumenti che, oltre a rappresentare un salto
di qualità verso una maggior integrazione politica, sarebbe assai utile avere
oggi a disposizione per affrontare efficacemente la crisi generale perché ormai è
evidente un fatto: per uscire dall’attuale slavina economico-finanziaria serve più
e non meno Europa.
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QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
Scheda sull’Europa 6
La Spagna e l’Unione Europea
Aldo Novellini*
La Spagna si è inserita nel processo di integrazione europea in ritardo rispetto a
molti altri Paesi e in particolare rispetto al nucleo fondante l’Europa a sei del 1957,
a causa della dittatura franchista. Un isolamento durato fino agli anni Settanta
anche perché le democrazie del continente avevano steso attorno a Madrid una
sorta di cordone sanitario. Del resto non era soltanto l’Europa ad isolare il regime
franchista. Anche gli Stati Uniti facevano altrettanto. Sebbene, ad esempio, Franco
nel 1959 ricevette in pompa magna il presidente Eisenhower facendo valere
– siamo in piena guerra fredda – il decisivo ruolo della Spagna anticomunista
nel contrastare l’espansionismo sovietico, le porte della Nato non le furono mai
aperte, collocando l’alleanza ibero-americana in semplici accordi bilaterali.
Aldo Novellini,
giornalista
Ma torniamo all’Europa. Quando nel 1957 venne siglato a Roma il trattato che
istituiva la Cee, i principali quotidiani spagnoli commentarono l’avvenimento nello
stesso tempo con favore ed indifferenza. Favore perché nel progetto europeista
intravedevano la nascita di una comunità di identità occidentale e cristiana
nella quale prima o poi anche la Spagna avrebbe potuto trovare il suo posto.
Indifferenza perché restava forte nel regime l’idea che tutto ciò che avveniva
oltre i Pirenei in fondo non riguardasse la penisola iberica. Per Franco le
liberaldemocrazie europee non erano poi tanto dissimili dalle demoplutocrazie di
mussoliniana memoria. Esse del resto disdegnavano la Spagna mostrando invece
– fatto inimmaginabile per il Generalissimo – di avere forse maggior riguardo e
comprensione per i sistemi marxisti d’oltre cortina. Così Madrid lanciava il suo
sguardo oltre l’Atlantico, verso l’America Latina periferia di quell’hispanidad tanto
cara al franchismo e in questa logica si possono collocare i buoni rapporti con
la Cuba di Fidel Castro, nonostante le invalicabili differenze ideologiche tra i due
regimi.Dopo la morte di Franco, nel 1975, per la Spagna, avviata a diventare
una normale democrazia, si aprirono le porte dell’Europa. L’adesione all’Unione
europea, preceduta dall’ingresso nella Nato, avvenne nel 1986, quando a Madrid
sedeva una maggioranza socialista guidata da Felipe Gonzales.
Il cammino di integrazione europeo negli anni della Transizione era ampiamente
condiviso nella classe politica, sia moderata che progressista, con l’appoggio di
una larghissima maggioranza di cittadini. D’altra parte il primo governo del dopo
Franco, a guida centrista e democristiana vedeva la Cee come suo naturale
approdo e il partito socialista (Pse) che di lì a pochi anni avrebbe assunto la guida
del Paese compì in breve tempo una svolta euro-atlantica come poche altre forze
di sinistra in Europa. Ai margini del percorso europeo si collocava invece Forza
Nuova guidata da Blas Pinar, impregnato come il nostro Msi di retorica nazionalista.
Naturale quindi la sua avversione al cammino di integrazione del continente di cui
al massimo poteva essere valorizzato solo il richiamo all’identità cristiana vissuta
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però più come fatto tradizionale che con autentico afflato universalistico religioso.
Le prime elezioni europee cui partecipò la Spagna nel 1989 fecero emergere un
quadro bipolare: Pse e Alleanza popolare (antesignana del Pp di Aznar e Rajoy),
punteggiato appena dalla presenza di alcune forze nazionaliste a carattere
regionale: Pnv basco, Ciu catalana e Coalizione Canaria. Un bipolarismo
confermato tutt’ora secondo i tipici schemi di molte democrazie occidentali. Tra le
due principali formazioni politiche iberiche (Pse e Pp) vi è un sostanziale consenso
sulle tematiche europee. E non per caso. La Spagna ha in effetti saputo trarre
enorme profitto dalle sovvenzioni e dai fondi messi a disposizione dall’Unione a
favore delle aree geografiche meno sviluppate realizzando nuove infrastrutture
(treni ad alta velocità, autostrade, acquedotti, invasi idrici, aereoporti, ecc…)
ed ammodernando di quelle esistenti. Il Paese è così diventato estremamente
attrattivo per il capitale straniero in aggiunta al continuo incremento di flussi
turistici che convogliano oltre i Pirenei risorse sempre più imponenti. In Europa
si è anche accresciuto il peso della classe dirigente iberica e la Spagna ha potuto
offrire candidature di notevole prestigio in molteplici cariche dell’Unione come
mostrano i casi di Javier Solana (alto rappresentante per la politica estera comune),
di Joaquin Almunia (attuale commissario agli Affari Economici) o di Pedro Solbes
suo predecessore nella commissione UE guidata da Romano Prodi.
Il presidente del Governo, Zapatero è favorevole ad un rafforzamento dei poteri
politici dell’Unione soprattutto riguardo all’armonizzazione degli assetti sociali e
tributari. Anche l’opposizione di centro-destra è allineata su queste posizioni mentre
le formazioni nazionaliste intravedono nella prospettiva europea l’orizzonte nel
quale collocare le proprie aspirazioni autonomistiche. Da qui la convinta adesione
spagnola al progetto di nuova Costituzione e al successivo “mini-trattato” proposto
dalla Francia e poi respinto con referendum dall’Irlanda.
A livello di cittadini le cose sono un po’ più variegate. Un recente sondaggio svolto
dall’eurobarometro (EB 70) nell’autunno 2008 evidenzia che particolarmente
interessato al percorso di integrazione europea è il 42% dei cittadini spagnoli
mentre la media UE giunge al 44%. Parteciperà sicuramente al voto per il
prossimo Parlamento europeo il 21% degli intervistati (contro una media UE del
28%) mentre è già convinto di disertare le urne il 16%, cifra che nella fascia
giovanile (15-24 anni) sale addirittura al 37%. Occupazione (60% degli intervistati)
e crescita economica (46%) sono i principali timori espressi. Emerge soprattutto
la generale convinzione che le istituzioni europee debbano fare un salto di qualità,
specie per quanto concerne la realizzazione di un welfare comune, ritenuto il
principale elemento per costruire una vera cittadinanza europea.
Rimanere in mezzo al guado è d’altra parte ormai controproducente, come sta
mostrando la grave crisi economica contro la quale non pare più sufficiente un
contrasto in ordine sparso da parte dei singoli Paesi ma è indispensabile porre
in atto un più efficace coordinamento che può derivare soltanto da una effettiva
convergenza in materia di politica economica e fiscale. Non sappiamo quali passi
in questa direzione saranno compiuti nei prossimi mesi, possiamo però esser certi
che la Spagna resta e sarà uno dei più importanti fautori del nuovo europeismo.
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QUADERNI PER IL DIALOGO E LA PACE • ANNO VI • GENNAIO - MARZO 2009 • NUMERO UNO
Numeri pubblicati
Anno 1 (2004)
• fascicolo 1 - Gesù e l’orecchio di Malco
• fascicolo 2 - Europa, un cammino di integrazione e di pace
• fascicolo 3 - Laicità e libertà religiosa: una sfida per l’Europa
• dossier 1 - Il conflitto israeliano-palestinese
Anno 2 (2005)
• fascicolo 1 - Gerusalemme
• fascicolo 2 - I cristiani, l’Europa, la politica
• fascicolo 3 - Sibiu 2007 - Verso la IIIa Assemblea Ecumenica
Anno 3 (2006)
• fascicolo 1 - Uguaglianza e giustizia: diritti e doveri nell’era
della globalizzazione
• fascicolo 2 - Esiste un relativismo cristiano?
• fascicolo 3 - Quali prospettive per il cattolicesimo democratico?
Anno 4 (2007)
• fascicolo 1- L’Assemblea Ecumenica di Sibiu
• fascicolo 2 - Il “Grande Medio Oriente”
• fascicolo 3 - L’Assemblea di Sibiu. Risultati e prospettive
Anno 5 (2008)
• fascicolo 1 - Il bene comune
• fascicolo 2 - Il Concilio Vaticano II. Il conflitto delle interpretazioni
• fascicolo 3 - Multiculturalità: caso, necessità od opportunità
Anno 6 (2009)
• fascicolo 1 - L’Europa tra presente e futuro
I numeri arretrati possono essere richiesti presso la Segreteria
delle Acli provinciali milanesi e sono inoltre disponibili (in formato
PDF) sul sito internet www.ceep.it.