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massimo rizzante
come salvarsi la pelle
senza rinunciare alla poesia
archivio di saggi 14
COME SALVARSI LA PELLE
SENZA RINUNCIARE ALLA POESIA
© 2013 Massimo Rizzante
massimo rizzante, come salvarsi la pelle senza rinunciare alla poesia
Bisogna partire dal fatto che Roberto Bolaño si considerava un poeta.
Aveva pubblicato cinque invisibili plaquettes prima
del 1993, prima cioè che, a quarant’anni, cominciasse la
sua vera storia di romanziere.
Nel 1979 era uscita in Messico, dove l’autore cileno
aveva vissuto tra la fine degli anni sessanta e gli inizi
degli anni settanta, un’antologia dal titolo Muchachos
desnudos bajo al arcoiris de fuego (Ragazzi nudi sotto un
arcobaleno di fuoco) nella quale aveva riunito un gruppo
di giovani poeti d’avanguardia dell’America Latina. L’avanguardia in questione era l’«infrarealismo» o «realvisceralismo», una sorta di “Dada alla messicana” le cui
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radici s’inabissavano in Francia.
Sembra che Soupault avesse dato vita a un’eresia parallela al Surrealismo. In Messico l’eresia soupaultiana
era stata adottata da un pugno di guerrilleros della parola che, armati unicamente della loro sana disperazione,
seminavano il panico nei simposi letterari della capitale.
Ancora verso la fine della sua vita, Bolaño affermava:
«Sono fondamentalmente un poeta. Ho iniziato come
poeta. Da sempre ho creduto – e continuo a farlo – che
scrivere prosa sia un atto di cattivo gusto».
Gli amici riferiscono che si sia deciso a scrivere con
regolarità racconti e romanzi verso il 1990, dopo la nascita del suo primogenito. La poesia è importante, ma
ancor più importante è sopravvivere. C’era la necessità
di provvedere ai bisogni di una famiglia. Sopravvivere
grazie alla prosa è probabilmente un esercizio meno
acrobatico del triplice salto mortale senza rete rappresentato dall’invisibile pubblicazione di plaquettes di
poesia, tanto più se quell’esercizio salvifico dipende
dal trapezio offerto dai premi letterari delle province di
Spagna.
C’è un racconto, Sensini, presente nella raccolta
intitolata Chiamate telefoniche (1997), in cui un vecchio scrittore argentino spiega a un giovane scrittore,
anch’egli emigrato in Spagna da un paese dell’America Latina, «la strategia generale» per partecipare a un
numero sempre maggiore di premi. In una lettera che
gli invia da Madrid, insiste sulla «misura precauzionale»
di spedire alle diverse municipalità lo stesso racconto,
ma avendo ogni volta l’accortezza di cambiarne il titolo.
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Certo, aggiunge, esiste la possibilità di imbattersi in uno
stesso membro di giuria che, in molti casi, è anch’egli
uno scrittore candidato ai numerosi premi letterari di
provincia. Questo è il rischio, d’altra parte, che «un cacciatore di scalpi» lontano dalla sua riserva deve correre.
Un rischio calcolato. Quale critico, infatti – afferma ancora il vecchio scrittore – potrebbe negare che due racconti dal titolo differente non siano differenti proprio a
causa della singolarità del loro titolo?
La situazione del giovane «pellerossa» alle prese con
il Far West della letteratura – «Il mondo della letteratura è terribile, e ridicolo», ripete il maestro al suo allievo
– è assai simile a quella in cui lo scrittore Roberto Bolaño, nato nel 1953 a Santiago del Cile, si dibatte ormai
dal 1977, anno in cui, giunto in Catalogna, si stabilisce
prima a Barcellona, poi, dal 1981, a Blanes, una stazione
balneare della Costa Brava.
Gli assegni dei premi letterari delle province spagnole, tuttavia, non bastano a far sopravvivere un giovane
emigrato senza protezioni sociali e per di più mal disposto a compromettersi con le mafie letterarie. Bisogna
adattarsi perciò, secondo le stagioni, a qualsiasi lavoro:
cameriere, idraulico, guardiano notturno di camping,
portuale, vendemmiatore, rivenditore di articoli per turisti.
Il cameriere, il guardiano notturno, il giocattolaio di
Blanes, ovvero l’uomo che conosce a menadito la precarietà della vita, non è poi così diverso dall’adolescente
che nel 1968 ha lasciato il suo paese per trasferirsi in
Messico.
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A Città del Messico, «un vasto territorio inesistente
dove la libertà e la metamorfosi costituivano lo spettacolo di tutti i giorni», Bolaño, in compagnia dell’amico e poeta Mario Santiago, vive all’insegna di tutte le
avanguardie d’Europa e d’America la sua rivoluzione
artistica.
L’uomo di Blanes non può nemmeno dimenticare il
giovane di vent’anni che nel 1973, spinto da un istinto
tanto violento quanto romantico, fa ritorno in patria.
Vi resterà cinque mesi. Il tempo di assistere alla caduta
di Allende e alla presa di potere di Pinochet, che viene rinchiuso in carcere. Sarà liberato dopo otto giorni, grazie all’aiuto di un secondino, suo ex compagno
di studi: «L’esperienza dell’amore, dello humour nero,
dell’amicizia, della prigione e del pericolo della morte
si condensarono in meno di cinque interminabili mesi
durante i quali in modo estremamente rapido e in uno
stato di abbagliamento ho vissuto tutto».
A trentun’anni, nel 1984, in collaborazione con l’amico Antoni G. Porta, compirà i primi passi nel mondo
della prosa pubblicando un’opera dal titolo Consejos de
un discípulo de Morrison a un fanatico de Joyce (dal titolo di una poesia scritta dal suo amico – nel frattempo
scomparso – Mario Santiago, Consejos de un discípulo
de Marx a un fanatico de Heidegger). Già in quest’opera, come nei romanzi a venire, egli non farà altro che
riprodurre sulla pagina quella violenta condensazione
dell’esperienza, quella rapidità d’azione narrativa priva d’ogni dettaglio superfluo, quella visione lucida del
mondo – colma d’amore, sesso e humour – vissuta du-
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rante i «cinque interminabili mesi» trascorsi in Cile nel
1973.
La tonalità della prosa di Bolaño: quella di un poeta
in pericolo di vita che osserva, in uno stato di «abbagliamento» e con un sorriso sulle labbra, tutta la fragilità dell’essere umano impressa sul volto del suo miglior
amico.
Un uomo, quello di Blanes, inoltre, che rivendica «la
miseria e la superiorità» dell’autentica pratica letteraria
rispetto a ogni genere di consorteria. Nella prefazione
a Amberes (Anversa), un’opera del 1980 ma pubblicata
nel 2002, l’autore ricorda il suo primo periodo in Catalogna, e confessa: «Il disprezzo che provavo per la cosiddetta letteratura ufficiale era enorme, benché soltanto
un po’ meno grande di quello che provavo per la letteratura marginale. Ma credevo nella letteratura, ovvero
non credevo né nell’arrivismo né nell’opportunismo né
nei pettegolezzi dei cortigiani. Credevo nei gesti inutili,
nel destino. Non avevo ancora avuto figli. Leggevo più
poesia che prosa».
Il suo atteggiamento da «cane romantico», da orfano
senza complessi edipici, senza casa, in esilio – «L’esilio è il valore, il coraggio. Il vero esilio è il vero valore,
il vero coraggio di ogni scrittore» –, esposto continuamente «alle intemperie», capace di incarnare tutto l’orgoglio e la disgrazia d’essere poeta, non cambierà più.
Si sposerà; avrà due figli, Lautario – «La patria è mio
figlio e la mia biblioteca» – e Alexandra; pubblicherà
tra il 1993 e il 2003, anno della sua morte, undici opere;
leggerà sempre più prosa (sebbene non abbandonerà
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mai del tutto la lettura della poesia antica e moderna);
scriverà articoli per giornali spagnoli e latinoamericani
in cui analizzerà opere di romanzieri e poeti del passato
e del futuro; il suo romanzo I detective selvaggi (1998)
riceverà premi prestigiosi (l’Herralde, il Rómulo Gallegos); diventerà il faro, o addirittura il totem, della nuova generazione di scrittori latinoamericani (Alan Pauls,
Rodrigo Fresán, Jorge Volpi, Ignacio Padilla, Edmundo
Paz Soldán, Santiago Gamboa, Juan Villoro, Rodrigo
Rey Rosa, Ibsen Martinez, Fernando Vallejo, Antonio
Ungar, Gonzales Contreras, Pedro Lemebel, Jayme Collyer). Ciò nonostante, poco prima di morire, mentre è
assorbito dalla redazione di 2666, il suo ultimo romanzo – un’impresa colossale di più di mille pagine, uscito
postumo nel 2004 – scrive un attacco che è degno di
un’irruzione di un gruppo di giovani «realvisceralisti»
in un gabinetto medico nel momento stesso in cui un
collegio di anatomopatologi sta constatando la morte
del paziente.
Fedele al suo ideale di poeta che ha a cuore più «le
frontiere dorate dell’etica» che la propria reputazione,
si lancia contro la letteratura del presente, composta
nella maggior parte dei casi da rappresentanti della classe media di trenta e quarant’anni che, invece di restare «alle intemperie», preferiscono salire la scala della
rispettabilità: «Non respingono la rispettabilità, la cercano disperatamente». Aspirano a vendere. Desiderano
essere presenti alle fiere del libro. Desiderano «sorridere e, soprattutto, non mordere la mano di chi offre
loro da mangiare». Desiderano andare alla televisione e
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«fare i pagliacci nelle trasmissioni di gossip».
Dove sono la ribellione – si chiede – il feroce risentimento, il gesto gratuito, il piacere disinteressato, il senso
sottile e metafisico della fine del mondo, il riso, il rischio
dell’intelligenza e dei sensi? Dove sono andate a finire
queste qualità che dovrebbero appartenere al poeta, al
romanziere, all’artista? «Che cosa possono fare – scrive
Bolaño in I miti di Chtulhu – Sergio Pitol, Fernando
Vallejo e Ricardo Piglia contro la valanga di glamour?
Ben poco. Letteratura».
Che cosa possiamo fare noi in un mondo che pensa
che «il romanzo d’appendice è la salvezza del lettore (ed
en passant dell’industria culturale)»? Che cosa possono
fare Proust, Joyce? E Macedonio Fernández, Juan Carlos Onetti, Roberto Arlt? Che cosa ci resta della gioiosa
erudizione dei modernisti? E della follia dei giovani poeti «realvisceralisti» che nel 1976 seminavano il disordine nelle sale di lettura delle biblioteche di Città del
Messico?
«Ben poco. Letteratura. Ma la letteratura – aggiunge
Bolaño – non ha alcun valore se non è accompagnata da
qualcosa di più luminoso del mero atto di sopravvivere».
Poesia e personaggi
Il mondo romanzesco di Bolaño è sovrappopolato di
poeti, scrittori, critici letterari. Ma soprattutto di poeti.
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Una folla di poeti inventati: Carlos Wieder, il poeta
che ama l’arte della tortura di Stella distante (1996); Auxilio Lacouture di Amuleto (1999), che non è una poetessa, ma «la madre della poesia messicana» e l’amica
di tutti i poeti – i vari Arturo Belano, Ernesto San Epifanio, Lilian Serpas, León Felipe, Pedro Garfias – perduti nella «disperazione congetturale» del tempo «senza ordine né successione rispetto al passato e rispetto
al futuro» che si fa strada nella sua stessa memoria e
nella memoria delle strade di Città del Messico; il poeta B, emigrato dal Cile in Spagna, protagonista di un
racconto tratto dalla raccolta Puttane assassine (2001),
che cammina per le vie di Parigi e Bruxelles sfogliando
un’obsoleta rivista d’avanguardia sulle tracce di uno dei
suoi collaboratori, defunto da molto tempo; Enrique
Martín, il personaggio del racconto eponimo incluso
nella raccolta Chiamate telefoniche, che vuole a tutti i
costi essere poeta. La sua tenacia, narra l’amico e narratore, il poeta Arturo Belano, era «cieca e acritica», come
quella «dei cattivi pistoleri dei film, quelli che cadono
come mosche sotto le pallottole dell’eroe e che tuttavia
perseverano in modo suicida».
E una folla di poeti dall’incontestabile esistenza
storica: José Emilio Pacheco (1939), il poeta messicano, autore di raccolte come Los elementos de la noche
(1963) o No me pregunten cómo pasa el tiempo (1969),
amico di Carlos Monsiváis e Sergio Pitol, nonché traduttore di Beckett e Marcel Schwob che, nella parte
di confidente di Auxilio Lacouture, la protagonista e
voce narrante di Amuleto, svela i segreti dell’incontro
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tra Ezra Pound e W. B. Yeats, così come fantastica sul
valore dell’incontro mancato tra Ruben Darío e Vicente
Huidobro; Auxilio Lacouture, la protagonista di Amuleto, che snocciola, con l’aiuto di quella che chiama «la
voce dei sogni», un lungo rosario di profezie sul destino
di molti poeti e scrittori del XX secolo, tutti rigorosamente dotati di certificato di nascita e di morte: «Paul
Celan rinascerà dalle sue ceneri nel 2113. André Breton
rinascerà dagli specchi nel 2071. Max Jacob non sarà
più letto, cioè, il suo ultimo lettore scomparirà nel 2059
[...] Virginia Woolf si reincarnerà in una narratrice argentina nel 2076 [...] Louis Ferdinand Céline farà la sua
entrata nel Purgatorio nel 2094 [...] Paul Éluard sarà
un poeta di massa nel 2101»; il premio Nobel Octavio
Paz, «il nemico» dei poeti realvisceralisti nel romanzo I
detective selvaggi; César Vallejo (1892-1938), il grande
poeta modernista peruviano, autore di raccolte esplosive come Trilce (1922), o della silloge postuma, uscita nel
1939, Poemas humanos (titolo ironico, poiché di umano
nell’umanità rappresentata da Vallejo c’è rimasto ben
poco), sul suo letto di morte a Parigi in Monsieur Pain
(1999); Pablo Neruda che declama alcuni versi alla luna
in Notturno cileno (2002).
Una folla di poeti inventati che, a volte, amano coesistere con una folla di poeti la cui vita e la cui opera
sono storicamente documentate. È il caso, ad esempio,
dell’incontro onirico tra un personaggio chiamato Roberto Bolaño e il poeta cileno nato nel 1929 e ormai defunto Enrique Lihn di un racconto di Puttane assassine.
È il caso soprattutto de La letteratura nazista in America
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(1996).
In questo romanzo, che è costruito come un manuale
di letteratura, dotato di note e di apparato bibliografico,
tutto è scrupolosamente “falso”. I personaggi – un folto
gruppo di poeti nati nelle Americhe la cui biografia è
costellata di inverosimili peripezie intellettuali descritte
con puntigliosa serietà – sono uniti dall’appartenenza in
massa a una sorte di Ur-Reich ariano delle lettere. Tutto
è assurdo! Ciò, tuttavia, non è di nessun ostacolo al fatto che Jorge Luis Borges o Julio Cortázar, ad esempio, si
ritrovino irretiti indirettamente nelle complicate vicende dell’intellighenzia di ispirazione hitleriana. O che, ad
esempio, un certo Max Mirebalais, alias Max Kasimir,
alias Max von Hauptmann, alias Max Le Gueule, alias
Jacques Artibonito, nato nel 1941 a Port-au Prince e
morto a Les Cayes nel 1998 (Bolaño pubblica il libro,
lo ricordo, nel 1996!), diventi poeta plagiando i lavori
d’Aimé Césaire. Gli altri poeti di Port-au-Prince fiutano
immediatamente la truffa. Max, dal canto suo, non si
dà per vinto. Imprime una svolta decisiva alla sua sperimentazione linguistica e comincia a plagiare le liriche
di René Depestre. Poi quelle di George Desportes. Poi
quelle di Édouard Glissant. E, siccome non è affatto
un idiota, moltiplica progressivamente con «pazienza
d’artigiano» le sue fonti e i suoi eteronimi, ottenendo finalmente la considerazione dei critici. Il trionfo avverrà
allorché, nel 1971, pubblicherà con il nome di Max Kasimir alcune poesie di Senghor risalenti al 1948. Scopo
estetico di Max è quello di diventare un poeta nazionalsocialista, ma senza per questo rinunciare «a un certo
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tipo di negritudine». Il modello del romanzo è il catalogo – il cui riflesso stilistico è l’enumerazione di nomi
propri, opere, date – dove lo spazio tra immaginazione
e documento storico, arricchito da un’erudizione parodistica, risulta allo stesso tempo ludico e indecidibile:
secondo la linea genealogica che dalle Vite immaginarie
di Schwob, attraverso i Ritratti reali e immaginari di Alfonso Reyes, giunge a Finzioni di Borges.
I poeti rappresentati nelle pagine dell’opera di Bolaño sono spesso giovani, spesso legati a un’avanguardia
degli anni sessanta e settanta. Poeti ammaliati da qualche magia nera. Dalla follia, dal deserto, dal male. Vittime dei tiri mancini della vita. Vittime ammaliate dal
mito stesso della poesia.
Di solito i poeti sono messicani. A volte, argentini,
cileni, o poeti latinoamericani che vivono in Europa, soprattutto in Spagna. O in Francia, con pellegrinaggi in
Belgio, in Italia, in Russia. O altrove.
C’è un racconto di Puttane assassine, in cui il poeta Arturo Belano – che incontriamo più di una volta
nell’opera di Bolaño (come rappresentante del «realvisceralismo», ad esempio, lo ritroviamo in compagnia
del suo compagno di avventure Ulises Lima, protagonista del romanzo I detective selvaggi) – è in un villaggio
dell’Africa, dove sta sfogliando un album fotografico
sulla poesia di lingua francese della seconda metà del
XX secolo.
In 2666 la scena di una parte del romanzo è dominata da quattro professori di letteratura, un francese, un
italiano, uno spagnolo e un’inglese che hanno in comu-
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ne l’amore per l’opera di Beno von Archimboldi, uno
scrittore tedesco che si dice abiti a Santa Teresa, una
piccola cittadina situata alla frontiera tra il Messico e gli
Stati Uniti, tristemente celebre per gli stupri e gli omicidi compiuti ai danni di centinaia di giovani donne.
Poesia e crimini
In Bolaño la geografia della poesia è molto vasta.
L’enigma, tuttavia, che si trova al centro della sua
opera consiste in questo: che la poesia possa coesistere
con la Storia; o meglio, che i crimini della Storia possano coesistere con la poesia; che i poeti possano, in particolari condizioni storiche, trasformarsi in criminali; che
la poesia, oscurata dai crimini della Storia, possa essere
interpretata come un crimine, cioè come qualcosa di
non necessario alla sopravvivenza umana.
Ciò è tanto più vero dal momento che la Storia che
Bolaño esplora non si concentra soltanto su una delle
molteplici varianti latinoamericane dei totalitarismi del
XX secolo: la cruenta caduta di Allende; l’insediamento del regime golpista di Pinochet; gli interrogatori e le
torture; l’esilio in massa; la scomparsa di migliaia di persone; i morti senza tomba. La sua esplorazione supera le
frontiere geografiche del Cile, del Messico, dell’America
Latina e quelle temporali degli anni sessanta e settanta.
Ritorna a vivere le vicende della seconda guerra mondiale, i suoi effetti in Europa e in America Latina, e si
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spinge ancora più indietro, negli anni dieci e venti, alle
radici moderne del mondo e dell’arte. Poi, con lucidità
e umorismo, attraversa il deserto europeo degli anni ottanta e l’epoca post-comunista e si perde nuovamente,
alla fine degli anni novanta, nel deserto di Sonora, dove
si ritrovano Juan García Madero, il giovane poeta «realvisceralista» di Detective selvaggi, e Lupe, la puttana
adolescente, in fuga dal suo protettore.
Il XX secolo, nelle opere di Bolaño, viene percorso seguendo i labirinti o le cloache in cui scorre una
«disperazione congetturale» del tempo che comporta
la creazione di un mondo possibile in cui tutto ciò che
appartiene al mondo “reale”, storicamente documentato, viene convocato, interpellato, messo alla prova. Per
questo nei racconti e nei romanzi di Bolaño troviamo
spesso, accanto a personaggi inventati, molti personaggi
fittizi la cui identità storica è incontestabile. Non è un
caso che questi personaggi fittizi e allo stesso tempo storici siano dei poeti, degli uomini di lettere.
L’ideale di Bolaño risiede nel creare uno spazio estetico in cui la memoria storica sia costantemente assediata dalla memoria poetica – dalle voci della poesia, le
voci senza le quali la Storia sarebbe soltanto una sequela
di sacrifici, di violenze, di equivoci –, cioè dalla sola memoria in grado di ricordare ciò che non è «veramente»
accaduto, e perciò stesso capace di mettere alla berlina
la Storia. Come se il tribunale della Poesia chiamasse a
testimoniare i colpevoli della Storia. E il giudizio della
Poesia fosse un canto antilirico e irriverente, un cantoamuleto, fatto di specchi, piacere e desiderio, grazie al
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quale è permesso a noi lettori, esseri storici e limitati, di
attraversare la frontiera della “realtà”.
Da qui una delle strategie dello scrittore: costruire un
personaggio narrante la cui memoria storica deve fare i
conti continuamente con la memoria poetica. Tale lotta
svincola il personaggio dalle leggi della verosimiglianza
e lo rende libero di spaziare nel tempo. In questo modo
egli ottiene un ulteriore risultato: grazie a una tecnica
digressiva spesso incessante – riflesso letterario della
sequela di sacrifici, violenze e equivoci che è la Storia
– il personaggio viaggia oltre gli angusti confini della
propria personalità e oltre i confini del proprio tempo.
La biografia del personaggio – è il caso emblematico
di Auxilio Lacouture, la protagonista di Amuleto – si
sovrappone alla “biografia” di un paese, e quest’ultima
alla “biografia” di un’epoca.
Anche quando Bolaño si concentra sul Cile degli
anni più bui, egli coglie un intero secolo e un mondo.
Nel romanzo Notturno cileno il protagonista, Sebastián Urrutia Lacroix, poeta, critico letterario, prete e
membro dell’Opus Dei è sul suo letto di morte. Durante una sola notte – probabilmente l’ultima – riversa su
un invisibile interlocutore la sua coscienza. Emergono
così dal racconto avvenimenti e personaggi di un’intera
vita. Il protagonista, dopo aver descritto la sua entrata nel mondo delle lettere grazie a un lontano incontro
con Farewell, il più importante critico letterario cileno,
ricorda il momento in cui fu incaricato dal signor Oido
e dal signor Odeim, due tipi misteriosi (assomigliano ai
due sorveglianti di K. del Processo, ma possiedono anche
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qualche affinità con il Filidor e il Filibert di Ferdydurke
di Gombrowicz), di impartire lezioni di marxismo al generale Pinochet e alla sua giunta militare. Nel corso del
quinto incontro Urrutia, dopo aver commentato un testo di Engels, declama alla presenza del dittatore e della
luna L’infinito di Leopardi. Pinochet non mostra nessun
interesse. «Una bella poesia», si limita a dire. Durante la
sesta lezione, l’insegnante assiste a una discussione tra
Pinochet e un generale sul caso di una donna diventata
l’amante di due cubani. «Parliamo di una donna o di
una cagna?», inveisce il dittatore. Urrutia si ricorda di
alcuni versi di una poesia dedicata a una donna perduta
che qualche sera prima, spiegando alcuni passaggi della
Concezione materialistica della storia, aveva cominciato
a comporre mentalmente. Come spesso accade in Bolaño siamo precipitati in uno scherzo dove nulla è verosimile ma tutto è “vero”: Pinochet, l’Opus Dei, la Chiesa alleata al regime, il marxismo, il fascismo, la destra,
la sinistra, Cuba, la donna, puttana e musa ispiratrice. Il
Cile del XX secolo è racchiuso in alcune sequenze. Non
solo: il mondo occidentale è stato condensato vertiginosamente in uno spazio ridottissimo.
Al centro della deformazione grottesca di Bolaño
non c’è, in questo caso, l’ignoranza dei dittatori. Pinochet s’impegna seriamente per comprendere i fondamenti del marxismo. In una conversazione privata con
Urrutia gli confessa che tutti i capi di stato che l’hanno
preceduto, incluso Allende, non erano «uomini da libri,
ma piuttosto uomini da giornali». Lui, al contrario, sebbene introvabili perché pubblicati da case editrici mar-
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ginali, ha scritto tre libri. Legge romanzi. Non ha affatto
paura di studiare. Scrive «costantemente».
La domanda – e uno dei grandi enigmi del XX secolo – che Bolaño si pone è: come possono coesistere nella
stessa scena e perfino nello stesso individuo la poesia e
il crimine? (Milan Kundera, nel 1973, proprio nell’anno
del golpe militare di Pinochet, pubblica La vita è altrove, dove domina, in una situazione storica diversa, la
stessa interrogazione). Come mai la lettura degli antichi
poeti greci, di Dante e Cavalcanti, dei classici spagnoli
e francesi, di Whitman, di Pound, di Eliot, di Neruda,
di Borges, di César Vallejo non è in grado di impedire a
Urrutia di essere così ossequiente alle lusinghe dei criminali, così affascinato dalla loro personalità?
Si tratta forse dello stesso fascino a cui soggiace,
all’epoca dell’occupazione tedesca di Parigi – secondo
quanto riferito da un testimone in una conversazione
che Urrutia intrattiene in un circolo letterario –, Ernst
Jünger, inguainato nella sua uniforme di ufficiale della
Wehrmacht, quando si sofferma rapito da un quadro
surrealista, opera di un malinconico pittore guatemalteco in esilio?
La seduzione di fronte a un quadro surrealista è della stessa natura di quella che si prova di fronte al potere
criminale di un dittatore? Forse. Quel che è certo è che
gli artisti, i poeti, gli scrittori, per vivere, hanno soprattutto bisogno di conversare, di riunirsi: hanno bisogno
della «vicinanza fisica di altri scrittori».
È il caso di María Canales, donna ricca, attraente,
scrittrice alle prime armi e di un certo talento, che de-
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cide di accogliere regolarmente nella sua villa i colleghi
più celebri, mentre nello scantinato suo marito Jimmy,
un agente statunitense al soldo dei servizi segreti cileni,
interroga e tortura con scariche elettriche, dopo averle
denudate e immobilizzate, decine di persone. Gli incontri letterari al primo piano, così come gli interrogatori e
le torture nello scantinato, proseguono parallelamente
per anni.
L’enigma della «vicinanza fisica» del poeta e del boia,
tuttavia, non è ad esclusivo appannaggio di un momento storico o di una sola nazione.
Urrutia, dal suo letto di morte, naviga nella memoria.
Si ricorda quando, dopo la fine del regime di Pinochet,
ha fatto visita a María Canales, scoprendo altri dettagli
sull’atroce episodio di cui lui stesso, come invitato alle
riunioni letterarie, era stato un inconsapevole testimone. Mentre sta tornando in auto verso Santiago, ripensa alle ultime parole che María ha appena pronunciato
sotto un cielo stellato: «Così si fa la letteratura in Cile».
Che cosa significano, si chiede ora in auto? Che fare letteratura in Cile, senza tale «vicinanza fisica» tra poesia
e crimine è impossibile? Forse. In ogni caso, Urrutia è
sicuro che tale «vicinanza fisica» dipende dalla comune
consuetudine del poeta e del boia all’orrore. È questa
consuetudine all’orrore il vero enigma dell’uomo? Una
consuetudine che unisce Jimmy, sua moglie, Ernst Jünger, Farewell, Urrutia, il pittore guatemalteco in esilio,
tutti i criminali nascosti negli scantinati di tutte le ville di
Santiago e tutti i poeti che nello stesso istante commentano al piano di sopra un verso di Leopardi? Era stata la
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consuetudine all’orrore che aveva provocato un allentamento della sorveglianza da parte del marito di María,
così come era stata la stessa consuetudine all’orrore che
aveva fatto restare in silenzio lo scrittore che, smarritosi
nei corridoi della casa di María Canales, per primo e
per caso aveva scoperto nello scantinato un uomo nudo,
con gli occhi bendati e legato a un letto metallico. La
consuetudine all’orrore produce dei «pozzi neri» nella memoria: gli stessi che l’ufficiale della Wehrmacht
Ernst Jünger, in un atelier di Parigi, evoca guardando
il quadro surrealista di un pittore guatemalteco e che,
negli anni novanta del XX secolo, provocano il riflusso
del popolo nella noia, questa «portaerei gigantesca che
circumnaviga l’immaginario cileno».
La consuetudine all’orrore, «i pozzi neri» della memoria, la noia, e sullo sfondo la Storia cilena che non
muta, la casa di María Canales in rovina.
Qualcosa, tuttavia, non si cancella dall’immaginario
cileno di ogni tempo: «per fare letteratura» è necessaria
«la vicinanza fisica» degli scrittori e dei boia. Ma non
solo in Cile, riflette Urrutia sulla strada per Santiago:
«Anche in Argentina e in Messico, in Guatemala e in
Uruguay, e in Spagna e in Francia e in Germania, e nella
verde Inghilterra e nell’allegra Italia. Così si fa letteratura. O quello che noi, per non cadere nell’immondezzaio, chiamiamo letteratura».
Un po’ più in là – siamo alla fine del romanzo – Urrutia, dal suo letto di morte, lo ripete ancora una volta
al «giovanotto invecchiato», che è il suo interlocutore
muto e che, come un’angelica presenza, lo ha fin dal
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principio gettato nell’inferno del discredito, dell’infamia e della colpa, e agli occhi invisibili del quale, egli,
attraverso un’estrema confessione, cerca di riscattarsi:
Così si fa la letteratura in Cile. Così si fa la letteratura in
Occidente. Ficcatelo bene in testa, gli dico. Il giovanotto invecchiato, quello che di lui rimane, muove le labbra
formulando un no che non si sente. La mia forza mentale
l’ha fermato. O forse è stata la storia. Uno da solo può
poco contro la storia. Il giovanotto invecchiato è sempre
stato solo e io sono sempre stato con la storia.
Il romanzo termina con il volto di Urrutia, deformato dalla consuetudine all’orrore, che si domanda se non
sia lui stesso «il giovanotto invecchiato» che urla e che
nessuno ascolta.
Poesia e canaglie
Ci sono ancora due aspetti.
Il personaggio del giovane poeta che incontriamo
spesso nelle opere di Bolaño non è un poeta romantico.
È generoso. È valiente, coraggioso. Ma non è un poeta
lirico (non assomiglia a Jaromil, il protagonista de La
vita è altrove di Milan Kundera, la cui giovinezza coincide con il suo «atteggiamento lirico»). Ha creduto nella
rivoluzione, ma non è diventato un rivoluzionario. Non
si trova mai dalla parte della Storia (è della stessa specie
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massimo rizzante, come salvarsi la pelle senza rinunciare alla poesia
dei Boris Davidovic, il personaggio del romanzo di Kiš,
sebbene non abbia dovuto sperimentare la sua totale
disintegrazione fisica e spirituale. Bolaño, nei suoi saggi,
non cita mai il nome di Kiš. Eppure, a mio avviso, è uno
dei suoi fratelli spirituali). Non scrive poesia civile (Lorca, Neruda, Breton, Éluard, ad esempio, sono dei poeti
rispettati da Bolaño. Tuttavia, l’adesione sentimentale
all’ideologia politica di molte loro poesie non lo riguarda). È ironico. A volte l’ironia corre parallela a una vena
patetica. Ma il pathos è sempre spezzato dalla lama della provocazione intellettuale che nasce dalla sua fedeltà
allo spirito «selvaggio» dell’avanguardia. Per lui valgono le parole che Bolaño ha scritto in onore di uno dei
suoi maestri più venerati, il poeta cileno Nicanor Parra:
«Scrive sul dolore e la solitudine, sulle sfide inutili e necessarie, sulle parole che sono condannate a disgregarsi,
così come la tribù che le ha proferite. Parra scrive come
se il giorno dopo dovesse essere eseguita la sua condanna a morte sulla sedia elettrica». Parra, continua Bolaño,
«è riuscito a sopravvivere». Non è poco, sopravvivere.
Malgrado la sua giovane età il personaggio-poeta lo sa:
«Meglio perdere i propri manoscritti che la vita». Da
qui il suo slancio metafisico. Da qui il suo humour.
In Un altro racconto russo, che si trova nella raccolta
Chiamate telefoniche, c’è una passaggio in cui credo di
cogliere l’essenza dell’opera di Bolaño, l’opera, cioè, di
un poeta antilirico, di un superstite della modernità e
del suo spirito irriverente nei confronti della terribile
serietà della Storia che, pure, ci ammonisce di non perdere, per quanto la Storia si faccia violenta e insensata,
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quello spirito; di qualcuno consapevole che la vita vale
sempre più dei propri manoscritti e che la letteratura,
sebbene abbia bisogno di qualcosa di «più luminoso
del mero atto di sopravvivere», può, se autenticamente vissuta, aiutare a sopravvivere; di chi non dimentica
che nel tempo in cui vive, un tempo in cui la necessità
di sopravvivere è tale da mettere a repentaglio ogni altra
forma di sopravvivenza spirituale, la linea di frontiera tra
orrore e comico è sempre più labile.
Il racconto narra di un coscritto spagnolo, un sivigliano, piccolo e secco, che durante la seconda guerra
mondiale si ritrova sbattuto sul fronte russo. La parola
«coscritto», a forza di essergli ripetuta dai commilitoni,
si trasforma nella sua testa, «nella parte oscura» della
sua testa, nella parola «corista», a tal punto che, quasi
per caso un giorno si ritrova a dirigere un coro di soldati.
Giunge il tempo di combattere. È ferito, ed è costretto a
trascorrere due settimane all’ospedale militare. Rimessosi, è inviato per errore presso un battaglione delle SS,
lontano dal reggimento. È triste. La parola «coscritto»,
nella «parte oscura» della sua testa ricomincia a usurpare quella di «corista». Un giorno la caserma è messa
a ferro e fuoco dai russi. È fatto prigioniero e, legato
su una sedia, attende tremante di essere torturato. Non
conosce né il tedesco né il russo. Nessuno, fra i russi
conosce lo spagnolo. La situazione è disperata. Un soldato gli apre la bocca e con un paio di tenaglie sta per
strappargli la lingua: «Il dolore che sentì lo fece lacrimare e disse, o meglio gridò la parola “Cazzo!”. Con
le tenaglie in bocca l’imprecazione si trasformò e uscì
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massimo rizzante, come salvarsi la pelle senza rinunciare alla poesia
nell’aria tramutata nell’ululante parola Kunst». Il soldato, che conosce il tedesco, si ferma colmo di stupore.
La parola Kunst, che in tedesco significa «arte», ha un
potere straordinario: «La parola arte. Ciò che ammansisce le belve». Il «coscritto» diventato «corista» e quindi
di nuovo «coscritto» si trasforma, grazie alla magia di
una parola, improvvisamente in artista: «La parola cazzo, tramutata nella parola arte, gli aveva salvato la vita».
Ma c’è dell’altro. Per il personaggio che incarna il
poeta tutto è possibile. Che cosa voglio dire? Che, per
Bolaño, la vita di colui che si dedica alla poesia è una vita
romanzesca: come se nel poeta coesistessero un erudito
e un avventuriero, un uomo di lettere e un senza tetto;
come se tra le peripezie della parola e le peripezie della
strada ci fosse una relazione necessaria; come se tra la
lingua della poesia e la lingua della gente che vive ai
margini della società – questa folla di umanità miserabile, pericolosa ed eroica, che popola sempre più il nostro
mondo – ci fosse una relazione in grado di sprigionare
una desolata promessa di bellezza.
All’inizio della terza e ultima parte de I detective selvaggi Juan García Madero, il giovane poeta «realvisceralista» e voce narrante, è in auto con gli amici e indiscussi
capifila del realvisceralismo messicano Arturo Belano e
Ulises Lima. Con loro c’è Lupe, la puttana adolescente che il trio ha strappato al protettore. Si stanno dirigendo verso lo stato di Sonora, un territorio desertico e
costellato di pueblos, alla ricerca di Cesárea Tinajero, la
fondatrice storica del movimento. Juan, per intrattenere
i suoi amici, incomincia a sciorinare, una dopo l’altra,
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massimo rizzante, come salvarsi la pelle senza rinunciare alla poesia
domande sulla metrica. Domande per eruditi. O almeno per poeti avanguardisti non digiuni di retorica antica.
«Cos’è uno zefel? [...] Un saturnio? [...] Un chiasmo?
[...] Cos’è un proceleusmatico? [...] Cos’è un’epanalessi?». Gli amici a volte conoscono la risposta. Nella maggior parte dei casi richiedono una spiegazione. Dopo
un breve tratto di strada in cui si è addormentato, Juan,
risvegliatosi, riprende il gioco degli indovinelli. Questa
volta comincia a porre domande sul significato di alcuni vocaboli ripresi dal gergo dei bassifondi di Città
del Messico: «Sapete cos’è un’albata?». Silenzio. Subito
tutti cercano di scovare qualche parola bizzarra. Perfino
Lupe, la piccola puttana, si diverte a domandare il significato di alcune espressioni volgari e pittoresche: l’argomento, ovviamente, le è molto meno estraneo della
metrica. Il gioco termina. Cala la sera. L’auto continua a
vagare per le strade del Messico. Improvvisamente Juan
domanda: «Che cos’è un epicedio?». E il passatempo
ricomincia.
Perché un rosario di domande sul significato di parole come «chiasmo» o «saturnio» o «epanalessi» riesce a interessare una puttanella di Città del Messico?
Perché una domanda sul significato della parola «chiasmo» o «saturnio» o «epanalessi» innesca un altro rosario di domande sul significato di parole come «albata» o «super carranza» o «lurias» tratte dal gergo della
delinquenza? C’è una relazione necessaria tra la parola
«chiasmo» e la parola «super carranza»? Tra il linguaggio dei poeti e quello delle canaglie? O si tratta soltanto
di un gioco? Di un gioco linguistico? Per Juan – come
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per Lima e Belano – l’indovinello non cancella la delicatezza della domanda («Per intrattenere i miei amici
– afferma Juan – feci certe domande delicate, che sono
anche problemi, enigmi»). L’erudizione, nel 1976, sulle
strade di Sonora , non esclude né la dimensione ludica
né il mondo «là fuori», il mondo della prosa, il mondo
difficile, pericoloso, violento, tragicomico, perduto dei
pueblos e della capitale.
Nessuno a Città del Messico sa per davvero che cosa
Belano e Lima facciano tutto il giorno. I loro spostamenti sono frequenti e segreti. Dicono di essere impegnati
in un’inchiesta. Tuttavia Juan García Madero sospetta
che consegnino piccole dosi di droga a domicilio.
«Delinquente» viene dal verbo latino delinquere, che
significa «commettere un crimine contro l’ordine stabilito». Ma in origine il verbo significava anche «lasciare
ai margini» o «essere in difetto». Il poeta, individuo per
vocazione ai margini della società e a cui fa sempre difetto qualcosa, è degno, secondo Bolaño, di essere posto al
centro della rappresentazione romanzesca soltanto nel
caso non rinunci a concepire la poesia come un atto di
trasgressione contro l’ordine stabilito. Il poeta, in Bolanõ, delinque spontaneamente, manifestandosi per ciò
che è. Egli è il suo stesso misterioso crimine. E, allo stesso tempo, è un «detective» sulle tracce di un crimine
misterioso, o, che è lo stesso, alla ricerca di qualche suo
simile. Ciò non significa affatto che debba trasformarsi
in un criminale. Anzi, per non trasformarsi in un vero
criminale politico o in un silenzioso collaboratore dei
propri aguzzini, gli è sufficiente esplorare l’esistenza dei
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suoi naturali alleati – naturali, perché ai margini e perché, in un modo o in un altro, essere difettosi –, tutta
quella folla che popola i libri di Bolaño, composta da
vagabondi, puttane, regine del porno, «cazzoni meticci», piccoli farabutti, emigrati, calciatori sfortunati, ex
campioni di culturismo, vecchi scialacquatori, buoni a
nulla, gauchos insopportabili. La relazione tra il poeta e
questa folla di emarginati, se è naturale, non per questo
è sentimentale. Egli li guarda con distacco. Rappresentano un inesauribile laboratorio della sofferenza umana.
E della crudeltà umana. Un bazar di inquisizioni e torture, tanto più romanzesco quanto più immerso nell’irreale quotidianità della cosiddetta civiltà di massa. Il
poeta, «orfano combattente», condivide per un tratto la
loro vita, condivide la loro «anormalità», il loro essere
perduti, il loro essere, come lui, dei «superstiti nati». E
così facendo egli, il poeta erudito e «selvaggio», il cronista dei crimini quotidiani e dei crimini contro il gusto,
lontano da chi sta dalla parte della Storia e mai schierato dalla parte del buon gusto, irriverente nei confronti di ogni criminale rispettabilità dell’arte, ci illumina
sull’infinita varietà di tutto ciò che è irrimediabilmente
vivo e ci attende.
Jim
Nell’ultima raccolta di racconti e saggi che Bolaño
pubblicò da vivo, intitolata Il gaucho insostenibile
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massimo rizzante, come salvarsi la pelle senza rinunciare alla poesia
(2003), ce n’è uno, il primo e il più breve, che è la storia
di un fuggevole incontro in una strada di Città del Messico tra il narratore, un giovane di diciotto o diciannove
anni, e il suo amico Jim (il nome dà il titolo al racconto),
il nordamericano più triste che il ragazzo abbia mai conosciuto.
Jim è poeta.
In che cosa consiste la poesia, Jim? – gli domandavano
i bambini mendicanti di Città del Messico. Jim li ascoltava, guardava le nuvole e poi vuotava il sacco. Lessico,
eloquenza, ricerca della verità. Epifania. Come quando ti
appare la Madonna.
Un po’ più in là si scopre che Jim, prima di diventare poeta, è stato un marine, un veterano del Vietnam
che ha deciso di farla finita con l’uso della violenza. La
sua decisione è stata talmente radicale che rifiuta di difendersi persino dagli assalti dei ladruncoli. «Ora sono
un poeta e cerco ciò che è straordinario allo scopo di
dirlo con parole semplici e quotidiane». Il narratore e
Jim s’incrociano su un marciapiedi dove un mangiatore
di fuoco a torso nudo si sta esibendo. Jim ne è stregato,
quasi avesse intuito nel volto di quello strano personaggio i tratti «di un vecchio amico o di qualcuno che aveva
ucciso». Il narratore si accorge che Jim ha la febbre.
Suda. Piange. È malato? O è sotto l’effetto di qualche
droga? Lo osserva mentre si avvicina alle fiamme: «Vuoi
farti arrostire per la strada?», gli chiede scherzando. È
proprio quello che Jim spera: «Farsi arrostire sulla stra-
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massimo rizzante, come salvarsi la pelle senza rinunciare alla poesia
da».
D’un tratto comincia a risuonargli in testa un motivetto di un pezzo funky alla moda: «Stregato, fottuto/
Stregato, fottuto». Jim, afferma il narratore, era stato
stregato e fottuto dai miraggi di Città del Messico e ora
«guardava dritto in faccia i suoi fantasmi». Il tempo per
il ragazzo di spingere Jim lontano dal marciapiede dove
le fiamme del mangiatore di fuoco lo stanno per raggiungere, che i due si perdono di vista.
Jim, «stregato» e «fottuto» dentro un miraggio chiamato Città del Messico, è il nostro fantasma, il nostro
incubo. E il nostro simulacro di salvezza.
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