Il bicchiere rotto

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Il bicchiere rotto
IL BICCHIERE ROTTO
Alicia Mariona (traduzione di Alice Aloisi)
La domenica andavo in centro con i miei genitori a trovare Juan Carlos Perlado, un cugino
della mamma, un tizio che dirigeva un’orchestra. Papà ci accompagnava sempre fino alla casa dei
Perlado in calle Viamonte, quasi all’angolo con l’avenida Callao.
Si tratteneva un po’, non di più: lo aspettava un amico, diceva. Il lavoro, questioni di soldi.
Bugie.
Una donna?
No.
I cavalli.
Pover’uomo, aveva questo vizio.
Non erano mai questioni di donne. Mai che c’entrasse un’irriverente pelliccia d’ermellino con
fodera in lamé, come cantava Gardel. Mai che c’entrasse una voiturette su cui cantanti di couplet
portavano in giro la loro sfacciataggine. No. Non si trattava di una bionda platinata, né di una
mora avvenente. Era sempre un puro sangue dannatamente bello a rubargli l’anima e a svuotargli
il portafoglio. E dopo quello, un altro, e un altro, e un altro ancora.
Io osservavo perplessa le pareti della nostra sala da pranzo, tutte tappezzate di foto di cavalli
d’ogni tipo. Ma perché mai quelle foto? Non erano familiari ed erano sempre snelli e leggiadri come ballerini, come efebi.
Papà li guardava con occhi sognanti mentre facevamo colazione, mentre pranzavamo e cenavamo. Se un giorno quell’uruguaiano avesse lo stesso pedigree di Penny Post, mormorava, e quello, e l’altro…
In casa non si spendeva una sola parola per spiegare la faccenda. Bisognava tirare a indovinare. O fare due più due. Erano tempi un po’ così. Di martiri privati. Di sogni eterni. Di Sherlock
Holmes in incognito, che giocavano alle bambole o con le macchinine.
Papà era tranquillo e spensierato fin quando non arrivavamo in centro. Era il solito sbadato.
Ma appena arrivavamo a casa dei Perlado si trasformava. Era irrequieto, guardava l’orologio e con
quell’eccitazione addosso ci salutava deciso e con altrettanta decisione si dileguava.
Andava all’ippodromo. Voleva uscire dalla povertà. Poverino!
Si sarebbe diretto a San Isidro o a Palermo, ma chissà se arrivava quanto meno a La Plata,
portandosi appresso quell’entusiasmo come uno scudo d’oro.
Io e mamma restavamo lì senza protestare.
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Io ero tutta presa dalle novità straordinarie che quella casa poteva offrire. Perché Juan Carlos
Perlado era famoso e avremmo potuto vantarci, raccontando che avevamo quel tizio in famiglia.
Sì, un po’ strano, pensavo.
Primo perché aveva un pessimo gusto nel vestire, a mio parere. E poi perché aveva un grippo
musicale che suonava di tutto. Ma di tutto. Tango, valzer, paso doble, ranchera, rumba, bolero.
Questo pot pourri di generi musicali mi sembrava una schifezza per vecchi e poveracci, per donnette in calze nere dall’odor di candeggina.
Forse ci aveva azzeccato, perché guadagnava molto con quella musica deplorevole. E lo si notava appena entrati in casa, un terratetto pieno di colonnine dipinte in toni marmorei, con pavimenti di granito nero, perfetti per pattinare senza pattini. (Non ci ho mai provato, ma era chiaro
che mi sarei potuta scatenare su quegli specchi lussuosi).
Era l’unica casa che conoscevo in cui i profumi francesi si mischiavano all’odore di bruciato
dei radiatori. Enormi. Esagerati. Meravigliosi. Gioie per il naso.
E per le orecchie c’erano altre attrazioni.
Luna del mar, mare di sabbia, sabbia del soooool!
Sole dal fiume, onde da spiaggia, spiagge in rossor
Nonostante guardassi, sognassi la luna, t’ho vista passar
Stregato, morivo e tremavo di folle passion
Peccato, peccato, peccato e passione.
Erano questi i furori che una voce soave e imponente citava nelle canzoni che salivano dal
pian terreno. Un uomo cantava e si accompagnava con il piano a mezza coda che si intravedeva
dalle scale.
Era un tipo strano, un messicano che non parlava mai e passava tutta la domenica in casa dei
Perlado, intonando un bolero dopo l’altro. Come se non fosse già stanco di lavorare ogni sera con
l’orchestra di Juan Carlos.
Non potevo far altro che sopportare quel repertorio. Anche se c’era un non so che in quella
voce.
Iniziava così una lotta tra il mio udito, che abbracciava la voce del cantante e le sue passioni, e
il mio essere una bambina che stava sopportando la vita fin quando non sarebbe arrivata l’ora di
mandare tutti al diavolo. (Tranne papà, pover’uomo).
Ma alla fine vinceva Genaro Satén, il cantante di bolero. Io accettavo l’invito erotico di quella
voce chiara, forte e virile che celebrava la vita sul molo e la brezza che viene dal mare a sfiorare i
fianchi di una lei.
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È il rumore di una canzone, canzone d’amore e di pietà. Perché se n’è andata? Sei stato tu a lasciarla andar via.
Cantava. E poi taceva. Non una parola che non fosse in una canzone. Neanche una.
Ogni volta che chiedevo chi fosse quel signore così taciturno mi dicevano ciò che già sapevo:
era un famoso musicista di bolero. E poi iniziavano a far spallucce e a scuotere la testa come a di re di lasciar perdere, che non era una cosa in cui convenisse ficcare il naso. Era meglio limitarsi ad
ascoltarlo cantare con il pianto di luna che inondava la nera miseria del suo disinganno.
Di tanto in tanto Genaro lasciava in pace la luna, finché non partiva con un arpeggio che percorreva tutta la tastiera da parte a parte.
Noi che tanto ci amiamo. E il mare, specchio della mia solitudine. Dicono che la distanza aiuti
a dimenticare. Perché io continuerò ad essere schiavo dei capricci del tuo cuore. E ti scordi che
posso ferirti, se soltanto lo volessi. Tutto mentre l’orologio maledetto scandiva di nuovo lo scor rere del tempo, nonostante che Genaro gli avesse già chiesto di lasciar stare quel tic tac e di concedergli quella notte.
Storie terribili.
E sempre sul tema preferito di Genaro Satén, il peccato.
Quella era l’unica casa in cui si parlava apertamente di passione. La passione e il peccato. Bisognava essere davvero imbecilli per non capire che la passione consisteva in un tizio, messicano o
argentino che fosse, che si portava a letto la fidanzata o la moglie di un altro. E lì compariva il
corpo, la bocca e la carne. E il peccato. E che il messicano e la ragazza dell’altro passavano la notte a peccare senza sosta. E che non volevano uscire, né alzarsi, niente. E che odiavano la luce e
l’alba e che non c’era nulla che li frenasse. E che sarebbero stati capaci di vendere tutto, persino la
madre, per un’altra notte come quella, peccaminosa e gioiosa.
Fu allora che decisi che da grande sarei stata coi peccatori e non chi ignorava quelle notti e
quella passione. Era gente che non aveva per le mani un amore proibito e si accontentava di conoscere le chiacchiere della chiesa. Ecco perché sapevano che Dio disprezzava il fatto che avessi
passato la notte con te.
I peccatori sapevano anche che Dio se la sarebbe legata al dito, ma a loro poco importava della sua opinione: meglio che li lasciasse fuori dalla grazia. Almeno avrebbero continuato a fare peccato.
All’ora del tè ci sedevamo intorno a un tavolo molto chic. Non mancavano mai Genaro e la
moglie, messicana anche lei. Si chiacchierava del più e del meno fin quando la conversazione non
languiva. A quel punto la moglie di Satén sospirava, lo guardava con occhi stanchi e sospirava di
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nuovo.
Era il punto di rottura del pomeriggio.
Dai figurini sulle riviste di moda, dalle gonne svasate e i film di Hollywood si passava a Genaro e il peccato e il dramma che oscurava la sua vita. Una disgrazia che proveniva dal bicchiere rotto. Una verità amara che aveva già cantato, quando confessò che la moglie era distrutta dal dolore
e trafitta da una pena atroce: l’amore di suo marito per un’altra.
La bottiglia.
Sì. Satén beveva, poppava, si ubriacava.
Cominciava a quel punto la litania della messicana. E il coro degli invitati. Le parole per descrivere il musicista si sprecavano, e diventavano presto ingiurie. Genaro era una ciliegia sotto
grappa. Passava la vita a bere. Era una spugna.
E Maruja, la sua alma mater oltre ogni limite, risplendeva nella sofferenza. Era un lume di sorda candela, come cantava Maria Grever in tutti i suoi testi di bolero; una santa che sosteneva Genaro con la croce di tutti i suoi peccati.
La ricordo ancora, con quelle sopracciglia alla Frida Kahlo sensuali come la voce, e la carnagione più scura di quella del marito e il neo sopra la bocca disegnata col tiralinee. E ricordo anche
Genaro Satén stordito, mentre guardava solo lei e fissava la porta dalla quale era uscita, aspettando con ansia che tornasse. Come se gli insulti di Maruja non lo ferissero, come se gli parlasse in
giapponese, come se gli lanciasse fiori.
Dopo un po’, Genaro andava al piano a suonare bolero speciali come Así de fácil o Cuarenta y
veinte.
La serie continuava con Tú me acostumbraste, Se te olvida e Luna de mi soledad.
Arrivava poi il mate, che Satén beveva succhiando con delicatezza, mentre ascoltava quello
che dicevano della sua anima peccatrice. Tutte le oscenità commesse dall’uomo che la vita aveva
concesso a quella santa di Maruja, che poi era lui. Accennava addirittura un sorriso.
Io assumevo un’espressione da stolta e pensavo a papà. Mi preoccupavo per lui. Andando all’ippodromo, si perdeva sempre la storia di questo vero peccatore. Quel Genaro aveva davvero le
porte dell’inferno spalancate. Era il suo destino.
E quel poveretto di papà, che si sorbiva le lamentele della mamma quando finivamo l’olio. Un
agnellino in confronto a Genaro Satén. Lui sì che era un peccatore incredibile. Povero papà, rag girato, pensava d’essere il peggiore al mondo.
Io non potevo raccontargli questo dramma messicano, né tantomeno i dettagli più scabrosi,
quelli che venivano fuori alle 19.30, l’ora del whisky, quando Maruja agitava la bottiglia con gesto
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esperto affinché il liquido ambrato cadesse sul ghiaccio fumante, quando schioccava la lingua con
le labbra bagnate dall’alcol e toccava i punti salienti del suo dramma senza fine.
Non ho mai parlato a mio padre di questa strana faccenda. Come potevo farlo, proprio di domenica sera! Come potevo complicargli la vita col racconto di questo dramma messicano, proprio
quando lui rincasava con la miseria negli occhi, a testa bassa e ingobbito dal senso di colpa!
Gli avrebbe fatto bene sapere che vuol dire peccare. Peccare seriamente.
Avrebbe dovuto conoscerla, questa storia che la mamma ascoltava morbosamente. Una tragedia latinoamericana che la stregava, la spaventava e le faceva invocare Dio e tutti i santi. Perché le
raccontassero di più, credo.
Perché ogni volta non faceva altro che chiedere dettagli, sempre più dettagli, sperando che
Maruja le dicesse che scherzava, che suo marito non era come un poppante al seno della mamma.
Ed era felice, invece, quando la donna le diceva che in realtà era proprio così.
E alla fine realizzava, almeno quella domenica, l’enorme aberrazione che doveva sopportare la
messicana nel suo martirologio. Sorpresa e sommessa, se ne usciva con un “così grande e ancora
prende dalla tetta?”
Senza la tetta il signorino smette di cantare?
A quell’uomo serve un poppatoio?
In confronto a questo, il peccato di papà era una cosa da niente.
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