Gente in paese. Vecchio mondo, vecchia gente
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Gente in paese. Vecchio mondo, vecchia gente
Il racconto di Aprile Gente in paese. Vecchio mondo, vecchia gente -Racconto di Giuseppe Aprile Mio padre mi raccomandava sempre di studiare perché dai risultati alla scuola sarebbe dipeso il mio avvenire. A me piaceva giocare al pallone e passeggiare per scrutare gli argini della strada dove sfilavano serpenti e camminavano lucertole. Spesso mi addentravo verso l’interno della campagna e mi piaceva osservare i fiori, l’erba, gli alberi. Sarei in grado di ricordare ogni pianta che sia passata sotto i miei occhi. Preferivo la vita all’aperta campagna, a quella dello stare rinchiuso nella casa o gironzolare per le vie con gente del paese. Ma anche in paese c’erano buoni amici e compagni di giochi che amavo frequentare spesso. Non mi sono mai legato ad una sola cosa. Le varianti nella vita sono state sempre ragioni di stimoli e di piacere che determinavano attività diverse. Passavo dal gioco allo studio con disinvoltura. Non amavo mai fare la stessa cosa per molto tempo. Quando mio padre mi ricordava che dovevo studiare, io sapevo che aveva ragione. Lo studio avrebbe prodotto risultati utili per la mia vita. Il gioco era un’altra cosa. Il gioco era per passare il tempo, divertirsi ma non portava nulla di utile per il futuro. Tutti consideravano i giochi come fatti di vizio e comunque perdite di tempo. Solo quelli più grandi ogni tanto esaltavano i valori del gioco e delle attività sportive.Il mio paese era piccolo, contava un duemila abitanti e tutti i ragazzi eravamo non più di un centinaio. La nostra fortuna è stata il periodo scolastico che ci faceva frequentare la vicina Locri e ragazzi di altri paesi. Con questi ci scambiavamo esperienze di vita e facevamo una vita diversa che nel paese.Mio padre lavorava con il carrozzino tirato dal cavallo e diceva che non avrebbe voluto mai, per suo figlio, una vita tanto sacrificata. Accudire al cavallo che ogni sera richiedeva la pulizia sua e della stalla, il dargli fieno o paglia da mangiare, registrarlo e sistemargli l’ambiente tutte le sere con la pioggia e con il caldo, col vento o con la neve. Tutte le sere, più o meno alla stessa ora, mio padre doveva uscire per recarsi nella stalla dove metteva a posto il cavallo per la notte. Dopo tornava a casa e poteva pensare a se stesso ed a noi famigliari. Tutta la giornata era un sacrificio senza limiti, la sua vita. A volte diceva di non dormire per la stanchezza.Nel paese vi era un traffico quotidiano di persone che avevano una vita assai attiva. Ciccillo il barbiere stava sempre a lavorare con la sua bottega piena di persone, tra anziani e giovani. Faceva due mestieri nello stesso tempo. Era barbiere e faceva il calzolaio. E disponeva di due locali piccoli. In uno teneva gli arnesi del calzolaio, nell’altro aveva lo specchio e tutto quanto occorreva per tagliare i capelli, fare la barba.Non sempre passando da un lavoro all’altro, si lavava.La gente s’era abituata a chiedergli quanto gli serviva e non badava a fatti igienici e nemmeno alle questioni di accuratezza personale. Si viveva sapendo di essere in un mondo di contadini dove le mani stavano sempre in attività lavorativa, gli indumenti venivano tenuti giorni e giorni senza essere cambiati, si aveva l’idea che l’uomo lavoratore non avrebbe avuto tempo per lisciarsi i capelli, per darsi da fare con il fine di diventare pulito, ordinato, vestito di nuovo e darsi l’aria della persona civilizzata e non di campagnolo e faticatore di campagna con le mai sempre sporche e i calli alle dita o comunque nel palmo della mano. Quello che nelle città è normale, in paese diventa lusso.Perché il contadino torna dalla campagna pieno di terriccio sui vestiti e con le scarpe sporche di fango e di terra zappata. Il contadino non ha tempo per usare molto la parte di ore dedicabili al proprio vestiario, alla cura della propria persona.Questo non vuol dire che accetta l’idea che sia terrone o uomo di fatica senza stile e senza classe.E’ che sono altri i canoni di vita personale che vigono, nel paese rurale e negli ambienti dove la terra è come la carne propria. Non sono concepite le mani senza calli, non sono concepiti né il cappotto, né i pantaloni, né la giacca senza terra sopra e senza macchie. La donna stira molto meno i vestiti di come si fa nella città dove ognuno viene a contatto con gente nuova, in continuazione e ci tiene a dimostrare che egli è civile, pulito, presentabile, mai sporco. In paese si conoscono tutti e tutti sanno che ognuno non va giudicato dal vestito che porta o dalla cravatta più o meno ben pulita e registrata. Ognuno sa che il suo valore è scritto in tutta la storia della propria vita e tra paesani non si fa tanto conto delle forme esteriori e di quella che è ritenuta pulizia e ordine che appariscono dal portamento della persona. Non mancano persone che curano anche l’estetica della propria persona. Che pensano di essere migliori se vanno vestiti al meglio. Ci sono anche quelli che non escono da casa senza la cravatta a posto e senza avere prima illustrato le proprie scarpe con la vecchia cromatina oramai in disuso per lo più. Nel paese c’è di tutto in fatto di portamenti personali, di caratteristiche della persona. C’è il colto, il falso colto, il letterato, il professore, colui che dà lezioni di scuola privata, l’esperto in potatura, in abbacchiatura; il muratore provetto, lo svelto, quello della precisione, della capacità estetica che fabbrica bene e con stile e quello che preferisce la sostanza del lavoro svelto e fortemente durevole. Per ogni categoria di persone si hanno caratteristiche ben note. Si parla di un calzolaio, per esempio. E si dicono le doti che il calzolaio possiede o può possedere. Le più comuni sono: svelto, preciso, puntuale, capace di accogliere bene i clienti, che usa al meglio gli arnesi per i quali ci mette precisione e velocità; il calzolaio può essere un tipo antipatico ma molto apprezzato perché fa il lavoro al meglio, può essere uno simpatico e buono ma non ha molto lavoro perché il mestiere lo conosce solo parzialmente. E così il falegname: c’è mastro Mimì Panetta che canta sempre quando lavora, ride, è gioioso, la fatica non la sente ed è sempre un allegrone con cui passi piacevolmente molte ore nel mentre lui lavora e ti tiene compagnia nello stesso tempo. C’è Mimì di don Beniamino che, invece, fa il filosofo. Lavora e se stai con lui vicino ti fa lezioni di vita, di filosofia, di sapere; si sente più colto di un professore e non disdegna di parlare di qualunque argomento. In ogni cosa il suo giudizio emerge e non si trova mai disarmato di fronte a qualsiasi argomento. Tra i giovani le caratteristiche più caratterizzanti c’è la capacità di correre, di fare chilometri e chilometri di strada camminando tra sentieri e terreni scoscesi, di raccogliere le lumache con sveltezza unica, l’origano, gli asparagi. C’è chi semina zizzania per tenere allegra la compagnìa, chi parla sempre e diffonde cultura aiutando gli altri ad emanciparsi e ad amare il libro ed il racconto; c’è chi sa fare e non sa parlare, chi non fa e non sa ed è considerato il cretino per eccellenza, chi legge ed impara e chi studia ed è ignorante comunque. C’è chi con un’ora di studio impara cento cose e chi non impara niente nemmeno se sta ore ed ore interminabili buttato sui libri con dedizione e volontà. Si notano coloro che della umiltà di vita hanno fatto la loro caratteristiche fondamentale, e quelli che si sentono dei padreterni senza essere alcunché di buono e quelli che pur essendo bravi non lo danno mai a capire. Ci sono i figli che pigliano dai genitori e quelli che dei genitori non hanno neppure i portamenti. E poi ci sono gli anziani ed i vecchi. Gente con rughe, cattiva salute, acciacchi vari e nuovi; gente che vive di pensione della previdenza sociale o che continua ad arrangiarsi con i ricavati dell’orto e dell’uliveto.La popolazione è invecchiata nel mio paese. Mancano oramai tanti e tanti miei conoscenti ed amici tanto che trovo triste andarci.Da più tempo trovo assai spiacevole tentare di rivedere amici e conoscenti d’infanzia e del vecchio paese dei compagni di scuola e di giochi; e non trovo più gli anziani di allora che oramai sono passati ad altra vita. A volte non mi rendo conto del tempo che passa e dover vivere fuori dal paese mi porta a dimenticare fatti essenziali che riguardano figure del mio paese e conoscenze di vecchia fattura. Ma amo il mio bel paese che è sempre e comunque eguale non facendo io distinguo tra quanto apparisce davanti ai miei occhi e quanto vive nella mia memoria. Il legame profondo che vivo con le pietre del mio paese, con le strade acciottolate che oramai da innumerevoli anni non ci sono più, con quanto ho vissuto, con tutto quanto ho vissuto e goduto ed anche sofferto, mi porta a non distinguere più tra i vivo ed il morto. Alla morte non ci credo e forte dell’abitudine che mi sono fatto per via dell’emigrazione che ha colpito mio padre e la mia famiglia, non faccio distinzione tra il presente ed il sognato, tra l’oggi e il domani, tra quanto vedo e quanto ho visto, tra quanto vivo e quanto ho vissuto. Ed ora che tanta gente non c’è più mi godo quanto resiste al tempo insieme a me. E non posso immaginare ragioni di rancore tra persone che conosco. Io vorrei che tutti ci volessimo bene, ci sentissimo, per come siamo dentro per la stessa vita, lo stesso affetto, lo stesso amore. E godere ora per quanto di bello abbiamo costituito nella nostra vita. Ed ora vedo Mimì Speziali, il mio migliore amico di sempre, e Cecè Mollica con il quale non riesco a tenere presente qualche sua intemperanza e al di là di tutto lo voglio vicino, amico, parente e tutti gli altri: Nella, la meravigliosa e saggia moglie di Mimì’ e massima amica di Bianca, mia moglie , Annina del Bar, e il marito Pino, e il grande pittore Totò Trifoglio, e il professore Totarino Capogreco, Turi Ciano l’altro pittore del paese, e Totò Mollica, Gino Palmisani, Mimì Palmisani, Gino Palmisani, e Totò il vigile, e il mio cugino Vincenzino Belcastro, Totò Mandarano, Ettore Mollica e Pino Mittica grande amico e parente della mia prima infanzia, e tanti che non ci sono più come Nandino Mollica ottimo pittore del paese. Ed ancora: Cosimo Panetta, Totò Ursino, Totò Gratteri, ed il marito di Maria di Carmeluzza ottimo amico e simpatico uomo di vicinanza abitativa, e tanti, tanti altri ancora sui quali scriverò perché voglio che la mia penna, a cui attribuisco grande valore, li descriverà a futura memoria di quanti tra tanti e tanti secoli avranno bisogno di ricordare il più bel periodo storico di questo meraviglioso paese che si chiama S. Ilario dello Ionio che è tutt’uno con la sua marina e la sua frazione Condojanni alla cui popolazione, che fa parte del mio popolo, voglio dedicare questo ultimo pensiero di questo odierno scritto narrativo e letterario. Giuseppe Aprile