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Il progetto PREVIO “Preventing Submerged Violence” è nato dal
comune interesse degli enti coinvolti rispetto al lavoro di cura e, più
in particolare, dalla necessità di avviare una riflessione sistematica e
condivisa circa le relazioni che si instaurano all’interno delle
strutture che ospitano anziani e minori, con un focus sulla relazione
fra utente – “l’oggetto di cura”, e l’operatore - il “prestatore della
cura o caregiver” -.
La qualità del lavoro di cura, un valore fondamentale per il
Consorzio ASTIR e per le organizzazioni coinvolte nel progetto, si
scontra tuttavia con due dati di fatto: il primo, di tipo più individuale,
che rimanda alla relazione asimmetrica fra chi assiste e chi è
assistito, fra chi è in condizione di bisogno e chi a quel bisogno –
spesso primario – ha il compito di rispondere; il secondo, di tipo più
sociale, legato al rapido cambiamento che il lavoro di cura ha subito
in anni recenti e che lo ha visto fra i settori più rilevanti per
l’inserimento o il reinserimento lavorativo di persone immigrate o
persone fuoriuscite dal mercato del lavoro a causa della crisi.
Il progetto PREVIO ha pertanto rappresentato una prima risposta ad
un bisogno di riflessione rispetto al lavoro di cura, alla sua
evoluzione nel tempo, al suo significato nella società attuale; di una
riflessione che partisse da un elemento centrale quale è la relazione
fra chi presta la “cura” e chi è oggetto di questa, per poi allargarla
agli elementi strutturali ed organizzativi, alle decisioni e alle priorità
politiche, alla sensibilità e alla percezione dell’opinione pubblica.
In questa azione di riflessione sono state attivamente coinvolte due
imprese sociali italiane, il Consorzio Agorà di Genova e il Consorzio
nazionale Idee in Rete. Tuttavia, ciò che più risultava interessante,
era il confronto con altri paesi e realtà europee, per capire come e in
che misura diversi contesti di riferimento (e quindi normative,
sensibilità e decisioni politiche, dinamiche sociali ed economiche,
valori culturali diversi) potessero incidere sulla stessa tipologia di
relazione. Più a fondo, l’elemento che maggiormente ha spinto per
un confronto “europeo”, risiede nella constatazione di fondo che i
fenomeni di violenza nelle istituzioni di cura hanno molto a che
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vedere con il rapporto interpersonale, la relazione e l’interazione fra
utente ed operatore, e che pertanto un’elevata qualità del sistema di
welfare non necessariamente significa assenza di violenza.
Il progetto ha quindi coinvolto la cooperativa sociale spagnola
Servicio de Conocimiento Asociado - Innòmades, e la fondazione
romena Chance for Life. Poiché questa riflessione voleva assumere i
connotati di una vera e propria ricerca scientifica, sono state infine
coinvolte l’Università di Firenze - Dipartimento di Scienze
dell’Educazione, dei Processi Culturali e Formativi, e Petroleum-Gas
University of Ploiesti – Educational Sciences Department (Romania).
Se è vero che l’intero progetto ha focalizzato le proprie attività su
una unità di analisi specifica e definita – le relazioni/interazioni nel
quadro delle attività di cura e assistenza alla persona – è altrettanto
vero che esso non poteva evitare di incontrarsi, e spesso scontrarsi,
con gli elementi strutturali, le dinamiche economiche e sociali, le
priorità e le decisioni politiche, la sensibilità dell’opinione pubblica,
con il senso ed il valore stesso della cura nella società attuale. Se
inoltre si considera che l’intervento si è concentrato su eventuali
forme di violenza “sommersa” all’interno di queste relazioni, è
evidente che l’incontro/scontro con il contesto di riferimento ha
doppiamente comportato lo sforzo costante di mantenere un punto di
vista ampio, evitando riduzionismi e valutazioni semplicistiche.
L’attività fondamentale del progetto è stata la ricerca, attuata
contemporaneamente a livello locale nei tre paesi (Italia, Spagna,
Romania). Essa ha avuto l’obiettivo fondamentale di costruire e
definire in modo più chiaro i presupposti teorici dell’intervento,
andando da un lato a chiarire il concetto stesso di violenza, dall’altro
ad osservare, rilevare e analizzare le dinamiche relazionali e
organizzative all’interno delle strutture che ospitano anziani e
minori. Contestualmente, è stata avviata un’analisi più ampia degli
elementi normativi legati alle residenze per anziani e minori, con un
focus sulla tipologia di strumenti di monitoraggio previsti al loro
interno nonché agli standard strutturali ed organizzativi. L’elemento
di particolare interesse è che tutto questo processo di analisi è stato
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effettuato a partire dalle numerose interviste, focus-groups e
osservazioni realizzate con operatori, assistenti sociali, dirigenti e
coordinatori di struttura, personalità politiche di riferimento,
presidenti di cooperative e consorzi, i quali hanno contribuito in
maniera determinante a tratteggiare i contorni di un contesto – quello
della relazione operatore-utente all’interno degli istituti di cura - che
complessivamente è ancora ai margini dell’interesse politico e della
ricerca scientifica.
L’attività di ricerca è stata inoltre fondamentale per l’individuazione
dei contenuti e delle metodologie da inserire nel corso di formazione
attuato nella seconda fase, che ha complessivamente coinvolto circa
150 operatori di strutture per anziani e minori nei tre paesi.
Nonostante i 4 corsi svolti (uno in Spagna, uno in Romania, due in
Italia) abbiano previsto contenuti e target diversi (concentrandosi ora
sugli operatori impiegati presso strutture per anziani, ora per minori,
ora su entrambe le tipologie come in Italia), l’elemento comune è
stata la modalità fortemente partecipativa delle attività, attraverso cui
sono state individuate possibili “buone pratiche”, strumenti e
raccomandazioni per contribuire al miglioramento della qualità degli
istituti di cura. Nel contempo, tutti i corsi hanno lavorato per favorire
maggior presa di coscienza, da parte degli operatori, rispetto al
significato del proprio lavoro, fornendo occasioni e strumenti
concreti per una riflessione approfondita e per l’auto-valutazione.
La rilevanza del progetto non si è pertanto esaurita nel tema
indagato, ma ha trovato bensì la sua massima espressione nella
volontà di individuare strumenti e pratiche operative in grado di
contribuire al miglioramento della qualità dei servizi di cura, un
miglioramento inteso soprattutto in termini di benessere dell’utente
finale (l’anziano, il minore), ma anche in termini di benessere
dell’operatore nel proprio ambito lavorativo, in una logica secondo
cui il secondo può contribuire in maniera determinante a realizzare il
primo.
In questo modo, PREVIO ha contribuito a tratteggiare gli elementi
del benessere per le diverse categorie di individui presi in esame,
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vuoi come risultato dell’interpretazione della normativa di
riferimento, vuoi come prodotto del confronto e dello scambio con
gli operatori, con lo staff medico e dirigenziale, con gli utenti e le
loro famiglie, vuoi infine come frutto dei periodi di osservazione
all’interno delle strutture.
Non è stato secondario, sia nella fase di ideazione e progettazione
dell’intervento sia durante tutto il processo di ricerca, richiamare la
centralità del concetto di benessere e le sue possibili traduzioni a
partire dalle diverse categorie di individui coinvolti, poiché è proprio
sul senso che si dà a questo termine – e quindi alla sua traduzione
operativa – che è possibile valutare la coerenza, l’efficacia e
l’efficienza delle azioni messe in campo. In altri termini, se è vero
che il fine giustifica i mezzi, il modo in cui gli istituti di cura sono
organizzati e strutturati al loro interno, le dinamiche relazionali, le
procedure, il modo stesso in cui sono concepiti dovrebbero essere la
diretta conseguenza del modo in cui il concetto di benessere viene
inteso ed interpretato. Ma non solo; se è vero che il benessere di cui
si parla è prevalentemente quello dell’utente finale, è chiaro che
questo ha molto a che vedere – e PREVIO lo ha considerato come
uno dei suoi paradigmi – con il benessere dell’operatore, con la sua
capacità di lavorare in maniera serena e continuativa, interagendo
positivamente e costruttivamente con le diverse figure di riferimento
in un’ottica di condivisione e di crescita personale, professionale e di
empowerment di gruppo.
PREVIO ha pertanto legato in maniera indissolubile il benessere
delle due tipologie di target, evidenziando che laddove esistono
forme di violenza esplicita o sommersa, esse sono pressoché sempre
riconducibili ad un malessere latente o manifesto di entrambe le
parti, e che l’aspetto organizzativo gioca un ruolo cruciale. A prima
vista ciò può sembrare scontato, ma non lo è più nel momento in cui
si stabilisce che i luoghi di cura, i servizi di assistenza, le attività di
sostegno e riabilitazione hanno il dovere fondamentale di assicurare
non solo una risposta ad un bisogno primario, quanto piuttosto di
favorire e promuovere il benessere di chi chiede cura, proprio come
richiamato da recenti direttive e raccomandazioni comunitarie. Ed è
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in questo passaggio fondamentale che si pone la domanda: quale
benessere?
Ancora una volta, PREVIO ha posto una questione di fondo per
niente scontata; il concetto di benessere è fortemente soggettivo ed
individuale, ciò che fa stare bene una persona non necessariamente
vale per un’altra, e ciò che assicura benessere in un dato periodo di
tempo può non valere più in un periodo successivo. Esso è inoltre
legato alla personalità dell’individuo (e quindi alla sua sfera
interiore, alla sua indole, alla capacità di porsi in modo positivo nei
vari aspetti della vita, etc.), ma prevalentemente sono le condizioni
esterne che incidono su di esso. In un mondo caratterizzato dalla
rapidità, dal cambiamento e dall’incertezza, il benessere diventa un
elemento estremamente fragile. Se trasferiamo questo ragionamento
agli istituti di cura, caratterizzati da un ricambio relativamente
frequente degli ospiti (con il conseguente ingresso di patologie,
forme di disagio, storie di vita, età anagrafiche, background sociali e
culturali diversificati) così come dall’elevato turn-over degli
operatori, non è difficile immaginare che al di là del significato che
si sceglie di dare al benessere e dell’individuazione dei suoi elementi
caratterizzanti, il suo equilibrio è fortemente precario e in qualche
modo necessita di un costante sforzo di ri-contestualizzazione.
Cambiano velocemente le persone, gli utenti, le dinamiche
relazionali, le modalità operative, gli stili lavorativi, comportando la
necessità di operare ogni volta per ritrovare un equilibrio fra i diversi
elementi in campo.
Pur nella oggettiva impossibilità di dare una definizione
universalmente valida di benessere, PREVIO ha quantomeno
lavorato per capire quali presupposti di fondo possono contribuire a
crearlo o meno, ed è proprio in tale analisi che è emerso in modo
netto e chiaro il gap, la mancanza, il nucleo vero e profondo della
questione: generalmente, gli istituti di cura, quale che sia la tipologia
ed il target a cui si rivolgono, non sono concepiti come luoghi che
devono assicurare benessere mentre “erogano cura”, quanto piuttosto
come contesti che rispondono ad un bisogno, spesso anche a
carattere di emergenza, e nel migliore dei casi, sono strutturate
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affinché la risposta a quel bisogno sia data nelle migliori condizioni
possibili. Il benessere si configura allora come conseguenza
eventuale dell’aver dato una risposta efficace. In altri termini, non è
l’obiettivo finale.
Non viene certamente negata la presenza di strutture ed ambienti
caratterizzati da lungimiranza e da personale appassionato e
motivato, che hanno saputo creare oasi di qualità e di efficienza (e
questo progetto ne ha fortunatamente incontrate), ma si tratta
appunto di oasi in un deserto ancora troppo grande. Ciò che qui
intendiamo affermare è che al di là di strumenti, di “buone” pratiche
operative e formative, è solo un cambiamento culturale profondo, un
ripensamento ex novo di questi luoghi che può portare realmente al
benessere di tutte le diverse figure in campo, senza escludere il fatto
che assicurare benessere a minori ed anziani significa dare un futuro
ai primi e dignità ai secondi, ciò che qualsiasi sistema di protezione
sociale deve essere in grado di fare.
Il cambiamento culturale, proprio in base a tutto l’intenso lavoro
effettuato nei due anni di attuazione dell’intervento (2009-2011), ha
molto a che vedere con la necessità di modificare, o addirittura
decostruire, molti degli elementi che associano questi contesti a vere
e proprie organizzazioni, caratterizzate dal forte accentramento del
potere e da una struttura di tipo piramidale, gerarchica, suddivisa per
livelli, con una presenza diffusa di frontiere fra chi pensa e chi
agisce, dove gli individui – gli operatori soprattutto – sono prima
risorse anziché essere persone che hanno delle risorse, un talento
unico, irripetibile, che non è possibile copiare né trasferire alla
stregua di un modello standardizzato. La presenza di frontiere diffuse
fra livelli decisionali ed operativi appare altresì come una
giustificazione e un’ulteriore conferma del ruolo prettamente
assistenzialista e di pura esecuzione dei protocolli da parte degli
operatori, dimenticando che invece la loro interazione quotidiana con
gli utenti, mentre si declina nella traduzione operativa dei protocolli
e delle pratiche decise “dall’alto”, si sostanzia soprattutto in un
processo di conoscenza e di costruzione di un legame con ogni utente
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nella sua soggettività ed individualità, che tanto potrebbe aggiungere
e dire nella definizione di questi stessi protocolli.
Spesso le organizzazioni, di qualsiasi tipo, tendono a dimenticare che
il principale mezzo di produzione, da sempre, “è piccolo, grigio, e
pesa circa 1300 grammi. Si tratta del cervello umano” (Jonas
Ridderstrale, Kjell Nordström). Ciò significa essenzialmente che al
di là di forme organizzative “perfette”, normative dettagliate rispetto
agli standard di qualità, pratiche e protocolli operativi, regolamenti
che contemplano ogni dettaglio delle attività e della vita quotidiana
all’interno degli istituti di cura, percorsi formativi e di
aggiornamento per il personale, il benessere passa dalla capacità di
questi stessi luoghi di attrarre, mantenere e sviluppare il talento degli
operatori così come quello delle altre figure professionali. Un
contesto di lavoro che riesce a far questo, a individuare i talenti, a
renderli consapevoli e a farli crescere, diventa un contesto dove
difficilmente le persone soffrono situazioni di disagio prolungato, e
in cui il burn-out ed il conseguente tasso di turn-over elevato (che
PREVIO ha rilevato come i fattori fra i più rilevanti nel causare
forme di conflitto e anche violenza) diventano fenomeni sporadici.
Le persone difficilmente lasciano un lavoro in cui si sentono bene,
perché l’eventuale stress fisico, emotivo e psicologico viene ripagato
dalla crescita professionale e personale, che a sua volta non è più una
sensazione interna dell’individuo, ma un elemento esplicitato e
riconosciuto dall’organizzazione stessa. E laddove le persone restano
perché “si sentono bene”, esse sedimentano conoscenza, saperi,
storie e legami. Il volto, l’identità dell’organizzazione, dell’istituto di
cura nel nostro caso, diventa allora il volto sfaccettato delle persone
che vi lavorano, non più il contrario, superando la logica comune
dell’appiattimento sui regolamenti e i protocolli, e restituendo invece
spazio alla creatività, all’intuizione, alle reti di relazione, alle
emozioni, che tanto o tutto hanno a che vedere con il talento.
Non si tratta di ripensare questi luoghi come senza regole o senza
protocolli, quanto piuttosto di ridare spazio e riconoscimento alle
persone nella loro individualità ed irripetibilità. Per gli anziani e i
minori, ciò significa considerare la loro presenza nella struttura non
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più come un passaggio più o meno prolungato, quanto come un
momento che è parte integrante della loro vita e che deve avere pari
o più dignità di quelli che sono stati o che saranno vissuti fuori da
questi luoghi. Per gli operatori, ciò significa decostruire dal fondo la
loro rappresentazione in termini puramente assistenzialisti e
considerarli invece come gli attori chiave in grado di incidere o meno
sul benessere dell’utente finale; si tratta inoltre di sviluppare attività
e servizi di sostegno e supervisione costanti, che sappiano prendersi
carico, e a loro volta cura, delle difficoltà, delle pressioni e degli
stress di tipo fisico, emotivo e psicologico che gli operatori vivono in
maniera quotidiana, sia in modo individuale che come gruppo. E
proprio perché non si ha a che fare con un lavoro individuale, si tratta
infine di costruire, mantenere e rafforzare un gruppo di lavoro che
condivide gli obiettivi ed i metodi, in cui ciascuno ha un ruolo
riconoscibile e riconosciuto e nel quale se restano vaghe le modalità
con cui si motivano le persone, perlomeno si conoscono a fondo
quelle che le demotivano, e si è in grado di lavorare per trasformarle
in maniera positiva.