L`amministrazione tra centro e periferia

Transcript

L`amministrazione tra centro e periferia
L ’amministrazione tra centro e periferia
Guido Melis
Nel 1866, a Palermo, uno dei cosiddetti pre­
fetti dell’unificazione, Luigi Torelli, ripristi­
nò l’usanza borbonica di tenere udienza pub­
blica, in giorni prestabiliti della settimana,
nell’ex sala del trono che abitualmente utiliz­
zava, per lo stesso scopo e nella stessa giorno
della settimana, il viceré. Come il suo prede­
cessore mantenne — lui, prefetto del regno —
l’uso di ricevere i cittadini seduto sul trono.
Questo episodio, che Torelli racconta nelle
sue memorie come emblematico delle esigen­
ze di visibilità e di continuità che dovettero
fronteggiare i rappresentanti del nuovo pote­
re, e che Nico Randeraad rievoca nella sua
bella storia delle prefetture postunitarie1, in­
troduce efficacemente, mi pare, a un discorso
sul concreto funzionamento degli apparati
amministrativi dell’Italia ottocentesca. L’im­
pianto uniformemente centralistico adottato
sin nel Piemonte sabaudo con la legge e il re­
golamento Cavour del 1853 (un impianto che
ricalcava da vicino il modello francese, filtra­
to dall’esperienza belga)2 fu subito temperato
da una molteplicità di fattori ambientali, da
una prassi spesso distante dal modello, dalla
mediazione di una burocrazia che, specie sino
agli anni ottanta dell’Ottocento, mantenne
(almeno nei suoi livelli dirigenti) una certa in­
telligente e autonoma discrezionalità nell’ap­
plicazione delle norme. Come hanno mostra­
to, per esempio, gli studi recenti di Raffaele
Romanelli3, la vocazione centralistica del si­
stema dovette immediatamente commisurar­
si ad una società civile debole, enormemente
frammentata in élites locali dal controverso
radicamento, priva di una sicura leadership
unitaria. Come il sistema politico della nuova
Italia andò subito connotandosi in una com­
plessa e spesso problematica dialettica tra éli­
tes regionali e (spesso) subregionali (e il tra­
sformismo ne fu, in certo modo, il riflesso ob­
bligato), cosi il sistema amministrativo, pure
apparentemente fondato sul ruolo chiave del
prefetto “ alla francese” quale garante del
rapporto centro-periferia, tese a configurarsi
secondo moduli di funzionamento concreto
parzialmente diversi dal modello.
E proprio il prefetto, che una tradizione
storiografica fortemente condizionata dalla
polemica salveminiana ci ha consegnato co-
I problemi qui trattati sono stati successivamente da me affrontati più distesamente nel volume Storia dell'amministra­
zione italiana. 1861-1993, Bologna, Il Mulino, 1996, nel quale sono in parte rifluiti anche alcuni passaggi di questa re­
lazione.
1 Nico Randeraad, Authority in Search o f Liberty. The Prefects in Liberal ltaly , Amsterdam, Thesis Publishers, 1993, p.
41.
2 Sull’importanza del modello belga cfr. Alessandro Taradel, Analogie e differenze tra la riorganizzazione deU'amministrazione centrale del Regno del Belgio del 1846 e la riforma dell’amministrazione centrale del Regno di Sardegna nel 185354, “Rivista trimestrale di scienza dell’amministrazione” , 1985, n. 2, pp. 31 sg.
3 Riassuntivamente, Raffaele Romanelli, Centralismo e autonomie, in Id. (a cura di), Storia dello Stato italiano, Roma,
Donzelli, 1995, pp. 125 sg.
Italia contemporanea”, marzo 1997, n. 206
6
Guido Melis
me il perno del centralismo, ad apparire negli
studi recenti (ma anche in quelli meno recen­
ti: basti citare le pionieristiche pagine di Er­
nesto Ragionieri)45come il riflesso più tipico
delle contraddizioni del centralismo all’italia­
na. Randeraad, prendendo analiticamente in
esame l’attività di tre prefetture di diversa la­
titudine nei primi decenni postunitari (Vene­
zia, Bologna, Reggio Calabria), ha mostrato
esaurientemente quali profonde differenze ne
dividessero la pratica, come le stesse circolari
del ministero conoscessero diversi gradi di
applicazione (o, talvolta, di inapplicazione),
come si differenziassero le attività di control­
lo, quelle di vigilanza e persino quelle di regi­
strazione e informazione, come persino i bol­
lettini delle prefetture, strumento fondamen­
tale di comunicazione dell’amministrazione
con la provincia, mantenessero a lungo con­
tenuti e stili di scrittura profondamente diffe­
renti, specchio fedele di tradizioni ammini­
strative più antiche tra di loro inconciliabili3.
Per di più, a partire almeno dal 1869 (data di
istituzione in ogni capoluogo di provincia
delle intendenze di finanza), il monopolio
delle relazioni centro-periferia sarebbe stato
drasticamente limitato e si sarebbero forma­
ti, accanto alla pur sempre centrale cinghia
di trasmissione prefettizia, nuovi canali di co­
municazione e di integrazione della periferia
nelle politiche di governo: le intendenze di fi­
nanza in diretto rapporto con il dicastero fi­
nanziario, poi i provveditorati agli studi im­
mediatamente dipendenti dal ministero della
Pubblica istruzione, quindi gli ispettori del
ministero di Agricoltura e Commercio, il Ge­
nio civile, il complesso degli uffici finanziari
periferici. Un ex prefetto, il senatore Allievi,
avrebbe lam entato nel 1888 come ormai
una larga parte dell’amministrazione decen­
trata dello Stato prescindesse nelle sue comu­
nicazioni con il centro dalla mediazione pre­
fettizia6. Un altro acuto osservatore, anch’e­
gli senatore ed ex prefetto, Pietro Manfrin,
avrebbe scritto nel 1894: “ Il Ministero del­
l’Interno ha tre circoscrizioni, la comunaleprovinciale, la carceraria e la collegiale-elet­
torale. Un po’ più si avvicina il Ministero del­
la Pubblica Istruzione alla circoscrizione pro­
vinciale-comunale, ma poi si dilunga da essa
con i Provveditorati, con gli Ispettorati, con i
preposti archeologico-monumentali. Tutti gli
altri Ministeri hanno Compartimenti, M an­
damenti, Circondari, Distretti, Comandi, Di­
partimenti, Regioni, Zone o qualunque altro
nome che le diverse Direzioni sono libere co­
me l’aria di battezzarsi con la circoscrizione
che stimano migliore” 7.
Il quadro consegnatoci da Manfrin appare
dunque contrassegnato, già alla fine del seco­
lo, da una pluralità di reti periferiche, tenden­
zialmente indipendenti l’una dall’altra. Ad
esse si sarebbero aggiunte, con l’età giolittiana e poi con il dopoguerra, i compartimenti
ferroviari, i provveditorati alle opere pubbli­
che, le grandi reti centro-periferia facenti ca­
po ai primi enti pubblici nazionali (le agenzie
provinciali dell’Ina, le sedi provinciali della
Cassa nazionale delle assicurazioni sociali
poi Inps) e — infine — l’articolata organizza­
zione parallela del fascismo-partito (che ebbe
una sua densa ricaduta amministrativa, pro­
ducendo uffici e burocrazie autonome anche
in periferia). Al centro, poi, l’uniforme strut­
tura dei ministeri, concepita nella legge Ca­
vour del 1853 come un’unica piramide i cui
4 Ernesto Ragionieri, Politica e amministrazione nello Stato unitario , poi in Id., Politica e amministrazione nella storia
dell’Italia unita, Bari, Laterza, 1967, pp. 71 sg.
5 Sulla storiografia dei prefetti cfr. soprattutto i contributi di Enrico Gustapane, I prefetti dell’unificazione amministra­
tiva nelle biografìe dell’archivio di Francesco Crispi, “ Rivista trimestrale di diritto pubblico” , 1984, pp. 1034 sg.; Id., Le
fo n ti per la storiografia dei prefetti, “Storia amministrazione costituzione. Annale dell’Istituto per la scienza dell'amministrazione pubblica”, 1 (1993), pp. 245 sg.; e Id., Sulla storia del prefetto, “ Le Carte e la storia” , 1995, n. 1, pp. 18 sg.
6 Atti parlamentari, Senato del Regno, Discussioni, Legislatura XVI, 2a sessione, 5 dicembre 1888, pp. 2899-2900.
7 Pietro Manfrin, Dell’arbitrio amministrativo in Italia. Memoria, Roma, Fratelli Bocca, 1894, p. 75.
L’amministrazione tra centro e periferia
versanti (i ministeri) avrebbero dovuto carat­
terizzarsi per la loro struttura rigidamente
uniforme (sicché sezionando la piramide ad
un certo livello si sarebbero dovute riscontra­
re corrispondenze assolute nell’organizzazio­
ne delle varie amministrazioni), diede luogo
ben presto a significative differenziazioni:
ministeri dotati di vaste articolazioni periferi­
che e ministeri quasi solo centrali; ammini­
strazioni con direzioni generali e amministra­
zioni senza; ispettorati generali o segretariati
generali o altre forme di organizzazione su­
periore degli uffici; carriere interne enorme­
mente diversificate (agiva la regola generale
dei “ ruoli chiusi” , che condizionava i tempi
dell’ascesa in carriera alla disponibilità dei
posti superiori); regolamenti concorsuali e
disciplinari e posizioni di status lasciati alla
discrezionalità del ministro. Gli stessi assetti
normativi del nuovo Stato, in attesa delle
grandi operazioni di codificazione e di reda­
zione dei grandi testi unici dell’età crispina
e giolittiana, apparivano variegati e contrad­
dittori. Come ebbe a scrivere l’autorevole pe­
riodico “Nuova antologia”, “una carta poli­
croma delle varie leggi in vigore in Italia per
tutte le Amministrazioni esigerebbe tutte le
gradazioni delle tinte immaginate fin qui
dai pittori” 8.
La legge comunale e provinciale del 1859, poi
tradotta quasi senza soluzione di continuità
in quella del 1865 e rimasta il testo base del
potere locale sino alla legge crispina del
1888 ed oltre, non affrontò in modo chiaro
il tema della natura delle autonomie locali e
del loro rapporto con lo Stato. Tra le due
concezioni possibili (che si sarebbero poi am­
biguamente alternate e talvolta confuse nella
legislazione dell’Italia unita sino quasi ad og­
gi) — quella imperniata sulla natura origina­
ria dell’autonom ia comunale e provinciale
7
come residuo di un’autonomia delle comuni­
tà locali preesistente allo Stato moderno, e
quella che un certo grado di autonomia (San­
ti Romano avrebbe poi corretto autorevol­
mente con “ autarchia”) faceva dipendere
dalla volontà dello Stato, delegante all’ente
minore certe sue prerogative originarie —,
tra queste due concezioni, dicevo, la legge so­
stanzialmente non scelse.
Convissero, sin da quel primo ordinamen­
to, un certo riconoscimento dell’autonomia
locale e la scelta di fondo, però, di imporre
agli enti locali le spese obbligatorie, conce­
pendoli dunque come terminali periferici di
politiche pubbliche delle quali essi non pote­
vano in alcun modo determinare la gestione e
l’orientamento; la presenza di una robusta
catena di controlli sugli atti di comuni e pro­
vince e il paradosso del sindaco, insieme rap­
presentante del potere locale autonomo e uf­
ficiale del governo, sino alla legge del 1888
nominato dall’alto.
Non c’è dubbio che l’ordinamento degli en­
ti locali presentasse, come carattere dominan­
te e caratterizzante, un impianto eminente­
mente centralistico, rimasto inalterato per tut­
ta l’età liberale e irrigidito poi ulteriormente
dal fascismo. I controlli prefettizi vi figurava­
no estesi e penetranti; la scelta del sindaco (si­
no a quando esso non divenne elettivo) fu un
momento decisivo di condizionamento da
parte del centro, anche se temperato dalla
prassi di designare esponenti del notabilato lo­
cale, espressione delle élites del comune; l’in­
gerenza prefettizia nel momento elettorale
(non solo dal 1876 ma anche nel periodo della
Destra, come hanno mostrato le pagine di
Luigi Musella sul partito spaventiano a Napo­
li9) rappresentò un potente fattore di direzione
dall’alto della vita pubblica provinciale.
Tuttavia il circuito sindaco-prefetto-ministero dell’Interno fu quasi immediatamente
8 Le piaghe dell'amministrazione nel Regno d ’Italia, “Nuova antologia”, 1 gennaio 1873.
9 Luigi Musella, Individui, amici, clienti. Relazioni personali e circuiti politici in Italia meridionale tra Otto e Novecento,
Bologna, Il Mulino, 1994.
8
Guido Melis
doppiato dall’altro circuito, sindaco-deputato locale-parlamento-governo, sicché (come
mostrava egregiamente già qualche anno fa
uno studio di Sidney Tarrow), in presenza
di una forte frammentazione della società,
da noi la comunicazione politico-parlamen­
tare tese precocemente a supplire quella poli­
tico-amministrativa 1°.
Ne derivò una prassi amministrativa in
molti casi ambigua. E vero che la burocrazia
(così come per altri versi la scuola e l’esercito)
costituì, nell’Italia uscita dal Risorgimento,
un potente fattore di unificazione, imponen­
do ovunque procedure, linguaggi, immagini
“ forti” del potere (si pensi solo all’influsso
unificante dell’edilizia amministrativa). Que­
sta azione uniformatrice, tuttavia, fu subito
temperata, o meglio condizionata, dall’in­
flusso determinante dei contesti locali. La vo­
cazione astrattamente centralistica dell’ordi­
namento contrastava con le condizioni di fat­
to: una relazione del ministero delFInterno
lamentava già nel 1866 la presenza di “distin­
ti regolamenti di polizia urbana, rurale, edili­
tà, igiene, che ora si fanno con un giro assai
lungo e complicato di operazioni burocrati­
che e sotto la competenza di tre M inisteri”
ed auspicava che fosse limitata “ questa ma­
nìa di statuti locali” e che si realizzasse “un
regolamento unico municipale” 1011. L’ipotesi
razionalistica dell’uniformità si scontrava
dunque con la insopprimibile presenza della
diversità. Era una contraddizione in più,
che venne ad aggiungersi all’altra per cui
una classe dirigente, liberale per idee e auto­
nomista per simpatie culturali, aveva dovuto
concepire il proprio progetto di costruzione
dell’Italia giacobinamente dall’alto. Veniva­
no al pettine, insomma, i nodi di quella pecu­
liare condizione che Raffaele Romanelli ha
sintetizzato con l’espressione di “ comando
impossibile” 12.
Ulteriori elementi di diversificazione vennero
come conseguenza delle nuove politiche di in­
tervento pubblico messe in opera a cavallo
dei due secoli. Non solo si ruppe allora, per
la prima volta, l’uniformità legislativa, sosti­
tuendosi il mito della legge universale ed
astratta con la realtà di legislazioni particola­
ri e concrete, volte a soddisfare domande
provenienti da specifiche aree periferiche (co­
me fu tutta la nuova legislazione per il Mez­
zogiorno) o da gruppi sociali e interessi deter­
minati (come in parte furono la legislazione
operaia del periodo giolittiano o la nuova le­
gislazione sulle bonifiche e sulle acque pub­
bliche intorno alla prima guerra mondiale);
ma si diede luogo ad apparati speciali (com­
missariati civili, uffici speciali, aziende ed enti
autonomi), si differenziarono i poteri dei pre­
fetti a seconda delle regioni e delle province,
si operò una distinzione tra comuni a secon­
da che fossero o no implicati nel nuovo inter­
vento (sicché nel Mezzogiorno si configurò
un vero e proprio intervento sostitutivo dello
Stato che invece restò estraneo ad altre regio­
ni del paese), si conferirono all’amministra­
zione peculiari poteri di intervento (come av­
venne, ad esempio a favore del ministero dei
Lavori pubblici e dei suoi corpi tecnici con la
ricorrente legislazione di emergenza seguita
alle altrettanto frequenti calamità naturali,
specie nel Sud).
Quello che Roberto Ruffilli ha chiamato
“ decentramento burocratico giolittiano” si
risolse dunque anche in una profonda (sebbe­
ne non sempre visibile) trasformazione del­
l’amministrazione e in generale del rapporto
tra l’amministrazione e gli interessi che ad es-
10 Sidney Tarrow, Tra centro e periferia. // ruolo degli amministratori locali in Italia e in Francia, Bologna, Il Mulino,
1979 [Between center and periphery, New Haven, Yale University Press, 1977],
11 Relazione sull’andamento delle amministrazioni dipendenti dal Ministero dell’Interno nell'anno 1866 presentata dal M i­
nistro al Parlamento il 22 dicembre, Firenze, Eredi Botta tipografi della Camera dei Deputati, 1866, pp. 21-22.
12 R. Romanelli, Il comando impossibile. Stato e società nell'Italia liberale, Bologna, Il Mulino, 1988, p. 10.
L’amministrazione tra centro e periferia
sa cominciavano in quell’epoca a rivolgersi.
Sicché, al tradizionale tema del rapporto tra
il centro (i ministeri) e la periferia (i comuni
e le province), si doveva adesso aggiungere
quello delle fitte relazioni tra interessi locali,
interessi ormai a dimensione nazionale e am­
ministrazione dello Stato. Sotto questo profi­
lo l’articolazione per apparati speciali, espro­
priando delle rispettive prerogative comuni e
province (che infatti talvolta protestavano vi­
vacemente), poteva anche servire a dare a
gruppi capitalistici, ormai organizzati su base
non solo sovracomunale e sovraprovinciale
ma sovraregionale, degli interlocutori istitu­
zionali più affidabili, cioè degli uffici in grado
di gestire le politiche pubbliche locali nella
loro interezza, senza più le frammentazioni
di responsabilità che costituivano il portato
più tipico della divisione in ministeri e le
frammentazioni di competenza territoriale
implicite nell’articolazione degli enti locali e
nello stesso sistema prefettizio. Così il Magi­
strato alle acque per le province venete e di
M antova del 1907 poteva, sì, rappresentare
una risposta alla domanda delle élites locali
venete, tanto influenti in parlamento attra­
verso i loro rappresentanti; ma forse era an­
che un modo per “governare” l’intera politi­
ca di riassetto idrico, di bonifica e razionaliz­
zazione delle risorse, in risposta a una do­
manda nuova (quella dei primi gruppi indu­
striali elettrici) che richiedeva allo Stato unità
di comportamenti e di moduli organizzativi.
L’apparire sulla scena di grandi interessi in
via di organizzazione sul piano nazionale se­
gnava un punto di svolta, che la guerra mon­
diale (con la stretta integrazione tra econo­
9
mia, politica e amministrazione realizzatasi
negli apparati di guerra) avrebbe presto con­
fermato. Anche le autonomie locali, nel nuo­
vo contesto, andavano assumendo un ruolo
diverso, sebbene le norme restassero sostan­
zialmente le stesse. Lo sviluppo di grandi cit­
tà quali Roma, Milano, Firenze, Torino (Na­
poli e Palermo erano già delle “metropoli” a
metà dell’Ottocento) generò nuove domande
di servizi, che vennero scaricandosi sull’ente
locale. Furono i comuni, nell’ultimo scorcio
dell’Ottocento e poi nella prima parte del
Novecento, a rispondere in prima battuta al­
la nuova richiesta di servizi pubblici (specie
nel triplice campo dei bisogni di acqua, luce
e gas, e poi sul terreno dei trasporti urbani,
con le prime reti di tramways). Nel 1903 la
nuova legge sulle municipalizzazioni13 fornì
le amministrazioni (specie quelle del Cen­
tro-Nord, che ne profittarono più frequente­
mente) di uno strumento di intervento asso­
lutamente impensabile nel passato e favori
l’avvento di politiche sociali direttamente
promosse e gestite dai comuni attraverso la
figura inedita dell’azienda municipalizzata.
Ciò si inseriva nella tacita ripartizione di
compiti tra Stato e enti locali in base alla
quale furono questi ultimi, in prima istanza,
a fronteggiare le conseguenze dei processi di
inurbamento connessi al primo decollo indu­
striale del Paese14.
L’ulteriore compressione delle autonomie e
la proliferazione degli enti pubblici di settore
furono i due fenomeni caratteristici del perio­
do fascista. Si deve tuttavia osservare come il
regime, pur nell’ambito di una revisione
13 La legge 29 marzo 1903, n. 103 (“Assunzione diretta dei pubblici servizi da parte dei Comuni”) stabili la facoltà, per
i comuni, di assumere “1’impianto e l’esercizio diretto dei pubblici servizi”. Sull’argomento cfr. soprattutto Fabio Rugge, Gli esordi della municipalizzazione in Italia. Appunti su Stato, autonomie, "socialismo municipale", “Jus”, XXXI
(1984), n. 1, pp. 191 sg.; Id., Alla periferia del Rechtsstaat. Autonomie e municipalizzazione nell'Italia di inizio secolo,
“Quaderni sardi di storia”, 1983-1984, n. 4, pp. 159 sg.; Id., All'origine dell’impresa pubblica: l ’esordio della municipa­
lizzazione, “Amministrare” , XVI (1986), n. 2, pp. 231 sg.; Id., Introduzione, in F. Rugge (a cura di), I regimi della città.
Il governo municipale in Europa tra '800 e '900, Milano, Angeli, 1992, pp. 9 sg.
14 Sabino Cassese, Guido Melis, Lo sviluppo dell’amministrazione italiana (1880-1920), “ Rivista trimestrale di diritto
pubblico”, 1990, pp. 333 sg.
10
Guido Melis
autoritaria dell’ordinamento che tra l’altro
avrebbe abolito l'elettività del sindaco, non
volle o non seppe cancellare drasticamente
il regime “autarchico” (come allora si diceva)
degli enti locali, che rimase in piedi, nono­
stante la morsa centralizzatrice cui fu sotto­
posta la finanza locale. Quanto agli enti, spe­
cie quelli di settore, o “enti corporativi” (co­
me li definì la dottrina), essi realizzarono nel
corso del ventennio una sostanziale integra­
zione verticale di interessi, spesso dalla peri­
feria verso il centro, in corrispondenza con
il primo processo di nazionalizzazione della
società italiana.
Il fenomeno merita, mi pare, qualche pa­
rola di spiegazione. La politica autarchica e
il dirigismo economico dominante in quegli
anni incoraggiarono infatti il riconoscimento
della qualifica di ente pubblico a favore di as­
sociazioni di produttori o di gruppi partico­
lari di consumatori, ai quali lo Stato conferì
di volta in volta compiti di autonoma regola­
zione della produzione e del mercato, con­
trolli sulla qualità dei prodotti (spesso con
la facoltà di attribuire un marchio di qualità),
funzioni di rappresentanza dell’intero setto­
re, gestione di albi professionali, ecc.
Per un verso tutto ciò comportò la para­
dossale conseguenza che, proprio mentre il
fascismo proclamava la monumentalità dello
Stato ed il monolitismo dell’organizzazione
del potere pubblico, la fortezza veniva pene­
trata per più brecce dagli interessi organizza­
ti, che negli enti trovavano l’ideale canale di
autorappresentanza presso l’amministrazio­
ne. Per un altro verso, e cioè nel campo spe­
cifico dei rapporti centro-periferia, ne venne
un’ulteriore spinta all’integrazione. La pro­
vincia, che lungo tutto il periodo liberale
era stata una realtà sostanzialmente separata
dal centro, cui la univano tu tt’al più legami
istituzionali e burocratici (il sistema — si po­
trebbe dire — era stato a lungo propriamente
dualistico: un centro e una periferia), venne
ora investita dalle politiche di nazionalizza­
zione messe in atto dal regime (non solo le
nuove politiche economiche ma più in gene­
rale la mobilitazione di massa, la diffusione
della propaganda specie attraverso i nuovi
mezzi tecnici, un’edilizia pubblica anche peri­
ferica carica di messaggi “ imperiali” ). Alla
burocrazia ministeriale si affiancarono le
nuove burocrazie del regime: quella del parti­
to, quella sindacale, quella corporativa, quel­
la degli enti di previdenza o di propaganda.
Un fascio di terminali l’uno distinto dall’al­
tro avvolse la provincia e, per così dire, la
“ nazionalizzò” , attirandola in un ambito
nel quale la sua separatezza si fondeva nella
partecipazione, sia pure subordinata, alla vi­
ta del regime. E vero che — come ci ha inse­
gnato Carlo Levi — tutto questo poteva an­
che “ fermarsi ad Eboli” , cioè che larghi set­
tori della società italiana, intere regioni del
paese, ne restavano esclusi; ma in molti altri
casi, specie nelle realtà urbane, l’integrazione
avvenne, almeno parzialmente. La stessa
composizione della classe politica fascista
(pur restando le élites del grande potere eco­
nomico sempre, più o meno, le stesse, espres­
sione delle stesse famiglie) tendeva a cambia­
re, arricchendosi di componenti provinciali
più di quanto non fosse accaduto nel mondo
della politica liberale15.
Alla caduta del fascismo, esauritosi quasi su­
bito il vento del Nord e consumatosi il rituale
dell’epurazione, la ricostruzione dell’appara­
to amministrativo centrale fu incentrata an­
cora una volta sul sistema dei prefetti (sinto­
matiche le scelte, sin dal 1944, contro i prefet­
ti “politici” e a favore di quelli di carriera) e
sul depotenziamento di quella che è stata
chiamata, con riferimento alle tensioni di
15 Sull’integrazione della classe dirigente settentrionale (homines novi) attraverso il partito e le sue organizzazioni ha
insistito con convincenti argomenti Mariuccia Salvati, Il regime e gli impiegati. La nazionalizzazione piccolo-borghese
nel ventennio fascista, Roma-Bari, Laterza, 1992.
L’amministrazione tra centro e periferia
quegli anni, l’“alternativa delle autonomie” .
Tuttavia apparve chiaro da subito come il si­
stema dei partiti (in parte erede dell’unità
ciellenistica) dovesse ormai occupare per in­
tero il campo del rapporto tra centro e perife­
ria, costituendo — ben inteso — per la prima
volta la nervatura di una partecipazione dal
basso la cui mancanza aveva a lungo costitui­
to la debolezza della legittimazione delle isti­
tuzioni in Italia. In un eloquente documento
del febbraio-marzo 1948, il ministero dell’In­
terno lamentava per esempio “le frequenti gi­
te a Roma” , dalle rispettive province, di varie
commissioni, rappresentative di interessi lo­
cali, “per sollecitare la definizione di pratiche
ed ottenere particolari provvidenze presso le
competenti Amministrazioni Centrali” . Nell’invitare i prefetti, comunque, a non accom­
pagnare né incoraggiare quelle “gite” , l’am­
ministrazione dellTnterno era costretta a
chiedere, tuttavia, che “ gli organi centrali
[...], dopo ricevute dette commissioni, voglia­
no dare dirette notizie ai Prefetti stessi di
quanto concordato e discusso con le commis­
sioni stesse. Accade infatti di frequente — si
aggiungeva — che le commissioni nel ritor­
nare in sede diffondano esagerate notizie di
lusinghieri risultati ottenuti dal loro diretto
intervento e di prossime favorevoli soluzioni
dei problemi prospettati” 16.
Era, in pratica, l’ammissione che il canale
di collegamento centro-periferia rappresen­
tato dai prefetti era entrato definitivamente
in crisi dinanzi al contatto diretto, per lo
più mediato dalle rappresentanze politiche
locali per il tramite dei rispettivi partiti di
appartenenza1718. La tendenza sarebbe stata
11
nell’Italia del dopoguerra tanto radicata
da risultare praticam ente incontrastabile.
Non è forse casuale se l’attuale crisi di legit­
timazione delle istituzioni centrali corri­
sponde alla crisi dei partiti politici e della
loro rappresentatività sociale: un sistema
istituzionale debole, che ai partiti aveva
chiesto un ruolo di supplenza, non è oggi
in grado di fronteggiare con le proprie
autonom e risorse il ridimensionamento di
quella supplenza.
Secondo quello che resta forse il documento
di sintesi più importante sullo stato dell’am­
ministrazione italiana negli anni novanta (il
Rapporto Cassese, reso noto quando Sabino
Cassese divenne ministro della Funzione
pubblica), al luglio 1993 l’amministrazione
italiana era articolata in 22 ministeri, 4 dipar­
timenti, circa 10 autorità amministrative in­
dipendenti, oltre 1.000 enti pubblici naziona­
li, 20 regioni di cui 5 a statuto speciale, 104
province, 8.103 comuni, 337 comunità mon­
tane, circa 700 consorzi di enti locali, 65 uni­
versità, 67.000 sedi di istituti scolastici, quasi
650 unità sanitarie locali, non meno di 800
aziende municipalizzate, e molte altre unità
amministrative .
La mappa dell’amministrazione, che sino
agli anni settanta era stata caratterizzata dal­
la incombente presenza di una predominante
organizzazione ministeriale, sia pure corpo­
samente affiancata da enti locali, enti pubbli­
ci e varie amministrazioni “parallele” , aveva
assunto, specialmente nello spazio di un de­
cennio (tra la fine degli anni settanta e gli an­
ni novanta) una articolazione ed una com•
•
•
18
16 Gabinetto del ministero dell’Interno alla Presidenza del Consiglio, Gabinetto, riservata dell’11 febbraio 1948, in
ACS, Pesidenza del Consiglio dei ministri, Gabinetto, 1948-1950, 1.1.2, 6857.
17 Una testimonianza diretta del fenomeno è nelle memorie di Aldo Buoncristiano (che fu prefetto a Matera, Potenza e
Firenze oltre che commissario di governo in Basilicata e Toscana): “mi apparve subito — scrive Buoncristiano della sua
prima missione come prefetto a Matera nel 1969 — che la posizione del prefetto era molto diversa da come era da at­
tendersi: perché il tessuto connettivo della società non erano più le istituzioni ma ¡ partiti” (Aldo Buoncristiano, Un
prefetto testimonia. Problemi delle autonomie e della sicurezza, Firenze, Noccioli, 1995, p. 17).
18 Presidenza del Consiglio dei ministri, Dipartimento per la funzione pubblica, Rapporto sulle condizioni delle pubbli­
che amministrazioni, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 1993, p. 33.
12
Guido Melis
plessità tali da dimostrarsi irriducibile a qua­
lunque tentativo di riordinamento unitario.
Non solo si erano moltiplicati gli esempi di
altri modelli organizzativi (amministrazioni
indipendenti, servizi nazionali, figure orga­
nizzative regolate dal diritto privato)19, ma
si erano estesi enormemente i casi di utilizza­
zione di privati in funzione ausiliaria di pub­
bliche amministrazioni (sempre più, cioè,
l’amministrazione delegava al di fuori le pro­
prie funzioni, riducendosi a “passare carte” o
semplicemente ad erogare spesa). In più era­
no sorte nuove amministrazioni sovranazionali, comunitarie e non. Il disegno lineare
dell’Ottocento si era definitivamente sfarina­
to in un pulviscolo amministrativo: l’ammi­
nistrazione era “in briciole”20.
Sarebbe davvero arduo voler classificare
questa galassia istituzionale con gli schemi
tradizionali del rapporto tra un centro e
una periferia. Al posto della piramide di un
tempo si è ormai costituito un reticolo appa­
rentemente disordinato, nel quale i “pubblici
poteri” (di “pubblici poteri” , e non di “pub­
blica amministrazione” , aveva parlato Mas­
simo Severo Giannini in un illuminante scrit­
to di qualche anno prima21) dialogano (o per
meglio dire “contrattano”) tra di loro, ognu­
no in relazione e come portavoce di interessi
esterni22.
Rispetto a questo stato di fatto l’attuale di­
battito sul federalismo (per altro denso di
equivoci non risolti: sarebbe da compiere
un’indagine lessicale sui significati, spesso
contrastanti, che il termine ha assunto nel­
l’ambito delle varie proposte) sembra sostan­
zialmente non dare risposte soddisfacenti.
L’ipotesi di un radicale trasferimento verso
la periferia di funzioni e poteri oggi control­
lati al centro (a cominciare da quel potere
di borsa che costituisce forse il vero nucleo
resistente del centralismo, e che ha sede prin­
cipalmente nell’asse Banca d’Italia-Ragioneria generale dello stato) non è di per sé idonea
a risolvere i problemi dell’interconnessione
reciproca tra livelli istituzionali diversi (na­
zionale, sovranazionale, subnazionale) e tra
soggetti organizzativi di tanto varia natura:
pubblica, privata, mista. La complessità or­
ganizzativa delle società contemporanee ri­
chiede probabilmente un di più di flessibilità
e di pragmatismo, un ragionare per funzioni
e non per modelli organizzativi, che al con­
trario il dibattito attuale — carico com’è di
condizionamenti ideologici e allo stesso tem­
po politico-contingenti — non sembra in gra­
do di apprezzare. Sotto questo profilo le
grandi riforme istituzionali potranno forse,
se si faranno, rilegittimare classi politiche in
difetto di legittimazione; difficilmente po­
tranno risolvere da sole i problemi di funzio­
nalità evidenziati nella crisi dell’amministra­
zione italiana.
Guido Melis
19 Presidenza del Consiglio dei ministri, Dipartimento per la funzione pubblica, Rapporto sulle condizioni delle pubbli­
che amministrazioni, cit., pp. 34-35. Cfr. anche Alberto Massera, La crisi del sistema ministeriale e lo sviluppo degli enti
pubblici e delle autorità amministrative indipendenti, in Sabino Cassese, Claudio Franchini (a cura di), L'amministrazione
pubblica italiana. Un profilo, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 34; e, da ultimo, S. Cassese, C. Franchini (a cura di), ¡garanti
delle regole. Le autorità indipendenti, Bologna, Il Mulino, 1996.
20 L’espressione è la traduzione letterale dal francese: cfr. François Dupuy, Jean-Claude Thoemig, L ’administration en
miettes, Paris, Fayard, 1985. Il riferimento vale anche a segnalare le dimensioni non solo italiane del fenomeno, per
quanto in Italia, per effetto del “centralismo debole” , assuma una evidenza assai maggiore che non altrove.
21 Massimo Severo Giannini, I pubblici poteri negli Stati pluriclasse, “ Rivista trimestrale di diritto pubblico” , 1979, pp.
389 sg.
22 S. Cassese, Le basi del diritto amministrativo, Einaudi, Torino, 1989 [la ed.].