L`amministrazione tra centro e periferia
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L`amministrazione tra centro e periferia
L ’amministrazione tra centro e periferia Guido Melis Nel 1866, a Palermo, uno dei cosiddetti pre fetti dell’unificazione, Luigi Torelli, ripristi nò l’usanza borbonica di tenere udienza pub blica, in giorni prestabiliti della settimana, nell’ex sala del trono che abitualmente utiliz zava, per lo stesso scopo e nella stessa giorno della settimana, il viceré. Come il suo prede cessore mantenne — lui, prefetto del regno — l’uso di ricevere i cittadini seduto sul trono. Questo episodio, che Torelli racconta nelle sue memorie come emblematico delle esigen ze di visibilità e di continuità che dovettero fronteggiare i rappresentanti del nuovo pote re, e che Nico Randeraad rievoca nella sua bella storia delle prefetture postunitarie1, in troduce efficacemente, mi pare, a un discorso sul concreto funzionamento degli apparati amministrativi dell’Italia ottocentesca. L’im pianto uniformemente centralistico adottato sin nel Piemonte sabaudo con la legge e il re golamento Cavour del 1853 (un impianto che ricalcava da vicino il modello francese, filtra to dall’esperienza belga)2 fu subito temperato da una molteplicità di fattori ambientali, da una prassi spesso distante dal modello, dalla mediazione di una burocrazia che, specie sino agli anni ottanta dell’Ottocento, mantenne (almeno nei suoi livelli dirigenti) una certa in telligente e autonoma discrezionalità nell’ap plicazione delle norme. Come hanno mostra to, per esempio, gli studi recenti di Raffaele Romanelli3, la vocazione centralistica del si stema dovette immediatamente commisurar si ad una società civile debole, enormemente frammentata in élites locali dal controverso radicamento, priva di una sicura leadership unitaria. Come il sistema politico della nuova Italia andò subito connotandosi in una com plessa e spesso problematica dialettica tra éli tes regionali e (spesso) subregionali (e il tra sformismo ne fu, in certo modo, il riflesso ob bligato), cosi il sistema amministrativo, pure apparentemente fondato sul ruolo chiave del prefetto “ alla francese” quale garante del rapporto centro-periferia, tese a configurarsi secondo moduli di funzionamento concreto parzialmente diversi dal modello. E proprio il prefetto, che una tradizione storiografica fortemente condizionata dalla polemica salveminiana ci ha consegnato co- I problemi qui trattati sono stati successivamente da me affrontati più distesamente nel volume Storia dell'amministra zione italiana. 1861-1993, Bologna, Il Mulino, 1996, nel quale sono in parte rifluiti anche alcuni passaggi di questa re lazione. 1 Nico Randeraad, Authority in Search o f Liberty. The Prefects in Liberal ltaly , Amsterdam, Thesis Publishers, 1993, p. 41. 2 Sull’importanza del modello belga cfr. Alessandro Taradel, Analogie e differenze tra la riorganizzazione deU'amministrazione centrale del Regno del Belgio del 1846 e la riforma dell’amministrazione centrale del Regno di Sardegna nel 185354, “Rivista trimestrale di scienza dell’amministrazione” , 1985, n. 2, pp. 31 sg. 3 Riassuntivamente, Raffaele Romanelli, Centralismo e autonomie, in Id. (a cura di), Storia dello Stato italiano, Roma, Donzelli, 1995, pp. 125 sg. Italia contemporanea”, marzo 1997, n. 206 6 Guido Melis me il perno del centralismo, ad apparire negli studi recenti (ma anche in quelli meno recen ti: basti citare le pionieristiche pagine di Er nesto Ragionieri)45come il riflesso più tipico delle contraddizioni del centralismo all’italia na. Randeraad, prendendo analiticamente in esame l’attività di tre prefetture di diversa la titudine nei primi decenni postunitari (Vene zia, Bologna, Reggio Calabria), ha mostrato esaurientemente quali profonde differenze ne dividessero la pratica, come le stesse circolari del ministero conoscessero diversi gradi di applicazione (o, talvolta, di inapplicazione), come si differenziassero le attività di control lo, quelle di vigilanza e persino quelle di regi strazione e informazione, come persino i bol lettini delle prefetture, strumento fondamen tale di comunicazione dell’amministrazione con la provincia, mantenessero a lungo con tenuti e stili di scrittura profondamente diffe renti, specchio fedele di tradizioni ammini strative più antiche tra di loro inconciliabili3. Per di più, a partire almeno dal 1869 (data di istituzione in ogni capoluogo di provincia delle intendenze di finanza), il monopolio delle relazioni centro-periferia sarebbe stato drasticamente limitato e si sarebbero forma ti, accanto alla pur sempre centrale cinghia di trasmissione prefettizia, nuovi canali di co municazione e di integrazione della periferia nelle politiche di governo: le intendenze di fi nanza in diretto rapporto con il dicastero fi nanziario, poi i provveditorati agli studi im mediatamente dipendenti dal ministero della Pubblica istruzione, quindi gli ispettori del ministero di Agricoltura e Commercio, il Ge nio civile, il complesso degli uffici finanziari periferici. Un ex prefetto, il senatore Allievi, avrebbe lam entato nel 1888 come ormai una larga parte dell’amministrazione decen trata dello Stato prescindesse nelle sue comu nicazioni con il centro dalla mediazione pre fettizia6. Un altro acuto osservatore, anch’e gli senatore ed ex prefetto, Pietro Manfrin, avrebbe scritto nel 1894: “ Il Ministero del l’Interno ha tre circoscrizioni, la comunaleprovinciale, la carceraria e la collegiale-elet torale. Un po’ più si avvicina il Ministero del la Pubblica Istruzione alla circoscrizione pro vinciale-comunale, ma poi si dilunga da essa con i Provveditorati, con gli Ispettorati, con i preposti archeologico-monumentali. Tutti gli altri Ministeri hanno Compartimenti, M an damenti, Circondari, Distretti, Comandi, Di partimenti, Regioni, Zone o qualunque altro nome che le diverse Direzioni sono libere co me l’aria di battezzarsi con la circoscrizione che stimano migliore” 7. Il quadro consegnatoci da Manfrin appare dunque contrassegnato, già alla fine del seco lo, da una pluralità di reti periferiche, tenden zialmente indipendenti l’una dall’altra. Ad esse si sarebbero aggiunte, con l’età giolittiana e poi con il dopoguerra, i compartimenti ferroviari, i provveditorati alle opere pubbli che, le grandi reti centro-periferia facenti ca po ai primi enti pubblici nazionali (le agenzie provinciali dell’Ina, le sedi provinciali della Cassa nazionale delle assicurazioni sociali poi Inps) e — infine — l’articolata organizza zione parallela del fascismo-partito (che ebbe una sua densa ricaduta amministrativa, pro ducendo uffici e burocrazie autonome anche in periferia). Al centro, poi, l’uniforme strut tura dei ministeri, concepita nella legge Ca vour del 1853 come un’unica piramide i cui 4 Ernesto Ragionieri, Politica e amministrazione nello Stato unitario , poi in Id., Politica e amministrazione nella storia dell’Italia unita, Bari, Laterza, 1967, pp. 71 sg. 5 Sulla storiografia dei prefetti cfr. soprattutto i contributi di Enrico Gustapane, I prefetti dell’unificazione amministra tiva nelle biografìe dell’archivio di Francesco Crispi, “ Rivista trimestrale di diritto pubblico” , 1984, pp. 1034 sg.; Id., Le fo n ti per la storiografia dei prefetti, “Storia amministrazione costituzione. Annale dell’Istituto per la scienza dell'amministrazione pubblica”, 1 (1993), pp. 245 sg.; e Id., Sulla storia del prefetto, “ Le Carte e la storia” , 1995, n. 1, pp. 18 sg. 6 Atti parlamentari, Senato del Regno, Discussioni, Legislatura XVI, 2a sessione, 5 dicembre 1888, pp. 2899-2900. 7 Pietro Manfrin, Dell’arbitrio amministrativo in Italia. Memoria, Roma, Fratelli Bocca, 1894, p. 75. L’amministrazione tra centro e periferia versanti (i ministeri) avrebbero dovuto carat terizzarsi per la loro struttura rigidamente uniforme (sicché sezionando la piramide ad un certo livello si sarebbero dovute riscontra re corrispondenze assolute nell’organizzazio ne delle varie amministrazioni), diede luogo ben presto a significative differenziazioni: ministeri dotati di vaste articolazioni periferi che e ministeri quasi solo centrali; ammini strazioni con direzioni generali e amministra zioni senza; ispettorati generali o segretariati generali o altre forme di organizzazione su periore degli uffici; carriere interne enorme mente diversificate (agiva la regola generale dei “ ruoli chiusi” , che condizionava i tempi dell’ascesa in carriera alla disponibilità dei posti superiori); regolamenti concorsuali e disciplinari e posizioni di status lasciati alla discrezionalità del ministro. Gli stessi assetti normativi del nuovo Stato, in attesa delle grandi operazioni di codificazione e di reda zione dei grandi testi unici dell’età crispina e giolittiana, apparivano variegati e contrad dittori. Come ebbe a scrivere l’autorevole pe riodico “Nuova antologia”, “una carta poli croma delle varie leggi in vigore in Italia per tutte le Amministrazioni esigerebbe tutte le gradazioni delle tinte immaginate fin qui dai pittori” 8. La legge comunale e provinciale del 1859, poi tradotta quasi senza soluzione di continuità in quella del 1865 e rimasta il testo base del potere locale sino alla legge crispina del 1888 ed oltre, non affrontò in modo chiaro il tema della natura delle autonomie locali e del loro rapporto con lo Stato. Tra le due concezioni possibili (che si sarebbero poi am biguamente alternate e talvolta confuse nella legislazione dell’Italia unita sino quasi ad og gi) — quella imperniata sulla natura origina ria dell’autonom ia comunale e provinciale 7 come residuo di un’autonomia delle comuni tà locali preesistente allo Stato moderno, e quella che un certo grado di autonomia (San ti Romano avrebbe poi corretto autorevol mente con “ autarchia”) faceva dipendere dalla volontà dello Stato, delegante all’ente minore certe sue prerogative originarie —, tra queste due concezioni, dicevo, la legge so stanzialmente non scelse. Convissero, sin da quel primo ordinamen to, un certo riconoscimento dell’autonomia locale e la scelta di fondo, però, di imporre agli enti locali le spese obbligatorie, conce pendoli dunque come terminali periferici di politiche pubbliche delle quali essi non pote vano in alcun modo determinare la gestione e l’orientamento; la presenza di una robusta catena di controlli sugli atti di comuni e pro vince e il paradosso del sindaco, insieme rap presentante del potere locale autonomo e uf ficiale del governo, sino alla legge del 1888 nominato dall’alto. Non c’è dubbio che l’ordinamento degli en ti locali presentasse, come carattere dominan te e caratterizzante, un impianto eminente mente centralistico, rimasto inalterato per tut ta l’età liberale e irrigidito poi ulteriormente dal fascismo. I controlli prefettizi vi figurava no estesi e penetranti; la scelta del sindaco (si no a quando esso non divenne elettivo) fu un momento decisivo di condizionamento da parte del centro, anche se temperato dalla prassi di designare esponenti del notabilato lo cale, espressione delle élites del comune; l’in gerenza prefettizia nel momento elettorale (non solo dal 1876 ma anche nel periodo della Destra, come hanno mostrato le pagine di Luigi Musella sul partito spaventiano a Napo li9) rappresentò un potente fattore di direzione dall’alto della vita pubblica provinciale. Tuttavia il circuito sindaco-prefetto-ministero dell’Interno fu quasi immediatamente 8 Le piaghe dell'amministrazione nel Regno d ’Italia, “Nuova antologia”, 1 gennaio 1873. 9 Luigi Musella, Individui, amici, clienti. Relazioni personali e circuiti politici in Italia meridionale tra Otto e Novecento, Bologna, Il Mulino, 1994. 8 Guido Melis doppiato dall’altro circuito, sindaco-deputato locale-parlamento-governo, sicché (come mostrava egregiamente già qualche anno fa uno studio di Sidney Tarrow), in presenza di una forte frammentazione della società, da noi la comunicazione politico-parlamen tare tese precocemente a supplire quella poli tico-amministrativa 1°. Ne derivò una prassi amministrativa in molti casi ambigua. E vero che la burocrazia (così come per altri versi la scuola e l’esercito) costituì, nell’Italia uscita dal Risorgimento, un potente fattore di unificazione, imponen do ovunque procedure, linguaggi, immagini “ forti” del potere (si pensi solo all’influsso unificante dell’edilizia amministrativa). Que sta azione uniformatrice, tuttavia, fu subito temperata, o meglio condizionata, dall’in flusso determinante dei contesti locali. La vo cazione astrattamente centralistica dell’ordi namento contrastava con le condizioni di fat to: una relazione del ministero delFInterno lamentava già nel 1866 la presenza di “distin ti regolamenti di polizia urbana, rurale, edili tà, igiene, che ora si fanno con un giro assai lungo e complicato di operazioni burocrati che e sotto la competenza di tre M inisteri” ed auspicava che fosse limitata “ questa ma nìa di statuti locali” e che si realizzasse “un regolamento unico municipale” 1011. L’ipotesi razionalistica dell’uniformità si scontrava dunque con la insopprimibile presenza della diversità. Era una contraddizione in più, che venne ad aggiungersi all’altra per cui una classe dirigente, liberale per idee e auto nomista per simpatie culturali, aveva dovuto concepire il proprio progetto di costruzione dell’Italia giacobinamente dall’alto. Veniva no al pettine, insomma, i nodi di quella pecu liare condizione che Raffaele Romanelli ha sintetizzato con l’espressione di “ comando impossibile” 12. Ulteriori elementi di diversificazione vennero come conseguenza delle nuove politiche di in tervento pubblico messe in opera a cavallo dei due secoli. Non solo si ruppe allora, per la prima volta, l’uniformità legislativa, sosti tuendosi il mito della legge universale ed astratta con la realtà di legislazioni particola ri e concrete, volte a soddisfare domande provenienti da specifiche aree periferiche (co me fu tutta la nuova legislazione per il Mez zogiorno) o da gruppi sociali e interessi deter minati (come in parte furono la legislazione operaia del periodo giolittiano o la nuova le gislazione sulle bonifiche e sulle acque pub bliche intorno alla prima guerra mondiale); ma si diede luogo ad apparati speciali (com missariati civili, uffici speciali, aziende ed enti autonomi), si differenziarono i poteri dei pre fetti a seconda delle regioni e delle province, si operò una distinzione tra comuni a secon da che fossero o no implicati nel nuovo inter vento (sicché nel Mezzogiorno si configurò un vero e proprio intervento sostitutivo dello Stato che invece restò estraneo ad altre regio ni del paese), si conferirono all’amministra zione peculiari poteri di intervento (come av venne, ad esempio a favore del ministero dei Lavori pubblici e dei suoi corpi tecnici con la ricorrente legislazione di emergenza seguita alle altrettanto frequenti calamità naturali, specie nel Sud). Quello che Roberto Ruffilli ha chiamato “ decentramento burocratico giolittiano” si risolse dunque anche in una profonda (sebbe ne non sempre visibile) trasformazione del l’amministrazione e in generale del rapporto tra l’amministrazione e gli interessi che ad es- 10 Sidney Tarrow, Tra centro e periferia. // ruolo degli amministratori locali in Italia e in Francia, Bologna, Il Mulino, 1979 [Between center and periphery, New Haven, Yale University Press, 1977], 11 Relazione sull’andamento delle amministrazioni dipendenti dal Ministero dell’Interno nell'anno 1866 presentata dal M i nistro al Parlamento il 22 dicembre, Firenze, Eredi Botta tipografi della Camera dei Deputati, 1866, pp. 21-22. 12 R. Romanelli, Il comando impossibile. Stato e società nell'Italia liberale, Bologna, Il Mulino, 1988, p. 10. L’amministrazione tra centro e periferia sa cominciavano in quell’epoca a rivolgersi. Sicché, al tradizionale tema del rapporto tra il centro (i ministeri) e la periferia (i comuni e le province), si doveva adesso aggiungere quello delle fitte relazioni tra interessi locali, interessi ormai a dimensione nazionale e am ministrazione dello Stato. Sotto questo profi lo l’articolazione per apparati speciali, espro priando delle rispettive prerogative comuni e province (che infatti talvolta protestavano vi vacemente), poteva anche servire a dare a gruppi capitalistici, ormai organizzati su base non solo sovracomunale e sovraprovinciale ma sovraregionale, degli interlocutori istitu zionali più affidabili, cioè degli uffici in grado di gestire le politiche pubbliche locali nella loro interezza, senza più le frammentazioni di responsabilità che costituivano il portato più tipico della divisione in ministeri e le frammentazioni di competenza territoriale implicite nell’articolazione degli enti locali e nello stesso sistema prefettizio. Così il Magi strato alle acque per le province venete e di M antova del 1907 poteva, sì, rappresentare una risposta alla domanda delle élites locali venete, tanto influenti in parlamento attra verso i loro rappresentanti; ma forse era an che un modo per “governare” l’intera politi ca di riassetto idrico, di bonifica e razionaliz zazione delle risorse, in risposta a una do manda nuova (quella dei primi gruppi indu striali elettrici) che richiedeva allo Stato unità di comportamenti e di moduli organizzativi. L’apparire sulla scena di grandi interessi in via di organizzazione sul piano nazionale se gnava un punto di svolta, che la guerra mon diale (con la stretta integrazione tra econo 9 mia, politica e amministrazione realizzatasi negli apparati di guerra) avrebbe presto con fermato. Anche le autonomie locali, nel nuo vo contesto, andavano assumendo un ruolo diverso, sebbene le norme restassero sostan zialmente le stesse. Lo sviluppo di grandi cit tà quali Roma, Milano, Firenze, Torino (Na poli e Palermo erano già delle “metropoli” a metà dell’Ottocento) generò nuove domande di servizi, che vennero scaricandosi sull’ente locale. Furono i comuni, nell’ultimo scorcio dell’Ottocento e poi nella prima parte del Novecento, a rispondere in prima battuta al la nuova richiesta di servizi pubblici (specie nel triplice campo dei bisogni di acqua, luce e gas, e poi sul terreno dei trasporti urbani, con le prime reti di tramways). Nel 1903 la nuova legge sulle municipalizzazioni13 fornì le amministrazioni (specie quelle del Cen tro-Nord, che ne profittarono più frequente mente) di uno strumento di intervento asso lutamente impensabile nel passato e favori l’avvento di politiche sociali direttamente promosse e gestite dai comuni attraverso la figura inedita dell’azienda municipalizzata. Ciò si inseriva nella tacita ripartizione di compiti tra Stato e enti locali in base alla quale furono questi ultimi, in prima istanza, a fronteggiare le conseguenze dei processi di inurbamento connessi al primo decollo indu striale del Paese14. L’ulteriore compressione delle autonomie e la proliferazione degli enti pubblici di settore furono i due fenomeni caratteristici del perio do fascista. Si deve tuttavia osservare come il regime, pur nell’ambito di una revisione 13 La legge 29 marzo 1903, n. 103 (“Assunzione diretta dei pubblici servizi da parte dei Comuni”) stabili la facoltà, per i comuni, di assumere “1’impianto e l’esercizio diretto dei pubblici servizi”. Sull’argomento cfr. soprattutto Fabio Rugge, Gli esordi della municipalizzazione in Italia. Appunti su Stato, autonomie, "socialismo municipale", “Jus”, XXXI (1984), n. 1, pp. 191 sg.; Id., Alla periferia del Rechtsstaat. Autonomie e municipalizzazione nell'Italia di inizio secolo, “Quaderni sardi di storia”, 1983-1984, n. 4, pp. 159 sg.; Id., All'origine dell’impresa pubblica: l ’esordio della municipa lizzazione, “Amministrare” , XVI (1986), n. 2, pp. 231 sg.; Id., Introduzione, in F. Rugge (a cura di), I regimi della città. Il governo municipale in Europa tra '800 e '900, Milano, Angeli, 1992, pp. 9 sg. 14 Sabino Cassese, Guido Melis, Lo sviluppo dell’amministrazione italiana (1880-1920), “ Rivista trimestrale di diritto pubblico”, 1990, pp. 333 sg. 10 Guido Melis autoritaria dell’ordinamento che tra l’altro avrebbe abolito l'elettività del sindaco, non volle o non seppe cancellare drasticamente il regime “autarchico” (come allora si diceva) degli enti locali, che rimase in piedi, nono stante la morsa centralizzatrice cui fu sotto posta la finanza locale. Quanto agli enti, spe cie quelli di settore, o “enti corporativi” (co me li definì la dottrina), essi realizzarono nel corso del ventennio una sostanziale integra zione verticale di interessi, spesso dalla peri feria verso il centro, in corrispondenza con il primo processo di nazionalizzazione della società italiana. Il fenomeno merita, mi pare, qualche pa rola di spiegazione. La politica autarchica e il dirigismo economico dominante in quegli anni incoraggiarono infatti il riconoscimento della qualifica di ente pubblico a favore di as sociazioni di produttori o di gruppi partico lari di consumatori, ai quali lo Stato conferì di volta in volta compiti di autonoma regola zione della produzione e del mercato, con trolli sulla qualità dei prodotti (spesso con la facoltà di attribuire un marchio di qualità), funzioni di rappresentanza dell’intero setto re, gestione di albi professionali, ecc. Per un verso tutto ciò comportò la para dossale conseguenza che, proprio mentre il fascismo proclamava la monumentalità dello Stato ed il monolitismo dell’organizzazione del potere pubblico, la fortezza veniva pene trata per più brecce dagli interessi organizza ti, che negli enti trovavano l’ideale canale di autorappresentanza presso l’amministrazio ne. Per un altro verso, e cioè nel campo spe cifico dei rapporti centro-periferia, ne venne un’ulteriore spinta all’integrazione. La pro vincia, che lungo tutto il periodo liberale era stata una realtà sostanzialmente separata dal centro, cui la univano tu tt’al più legami istituzionali e burocratici (il sistema — si po trebbe dire — era stato a lungo propriamente dualistico: un centro e una periferia), venne ora investita dalle politiche di nazionalizza zione messe in atto dal regime (non solo le nuove politiche economiche ma più in gene rale la mobilitazione di massa, la diffusione della propaganda specie attraverso i nuovi mezzi tecnici, un’edilizia pubblica anche peri ferica carica di messaggi “ imperiali” ). Alla burocrazia ministeriale si affiancarono le nuove burocrazie del regime: quella del parti to, quella sindacale, quella corporativa, quel la degli enti di previdenza o di propaganda. Un fascio di terminali l’uno distinto dall’al tro avvolse la provincia e, per così dire, la “ nazionalizzò” , attirandola in un ambito nel quale la sua separatezza si fondeva nella partecipazione, sia pure subordinata, alla vi ta del regime. E vero che — come ci ha inse gnato Carlo Levi — tutto questo poteva an che “ fermarsi ad Eboli” , cioè che larghi set tori della società italiana, intere regioni del paese, ne restavano esclusi; ma in molti altri casi, specie nelle realtà urbane, l’integrazione avvenne, almeno parzialmente. La stessa composizione della classe politica fascista (pur restando le élites del grande potere eco nomico sempre, più o meno, le stesse, espres sione delle stesse famiglie) tendeva a cambia re, arricchendosi di componenti provinciali più di quanto non fosse accaduto nel mondo della politica liberale15. Alla caduta del fascismo, esauritosi quasi su bito il vento del Nord e consumatosi il rituale dell’epurazione, la ricostruzione dell’appara to amministrativo centrale fu incentrata an cora una volta sul sistema dei prefetti (sinto matiche le scelte, sin dal 1944, contro i prefet ti “politici” e a favore di quelli di carriera) e sul depotenziamento di quella che è stata chiamata, con riferimento alle tensioni di 15 Sull’integrazione della classe dirigente settentrionale (homines novi) attraverso il partito e le sue organizzazioni ha insistito con convincenti argomenti Mariuccia Salvati, Il regime e gli impiegati. La nazionalizzazione piccolo-borghese nel ventennio fascista, Roma-Bari, Laterza, 1992. L’amministrazione tra centro e periferia quegli anni, l’“alternativa delle autonomie” . Tuttavia apparve chiaro da subito come il si stema dei partiti (in parte erede dell’unità ciellenistica) dovesse ormai occupare per in tero il campo del rapporto tra centro e perife ria, costituendo — ben inteso — per la prima volta la nervatura di una partecipazione dal basso la cui mancanza aveva a lungo costitui to la debolezza della legittimazione delle isti tuzioni in Italia. In un eloquente documento del febbraio-marzo 1948, il ministero dell’In terno lamentava per esempio “le frequenti gi te a Roma” , dalle rispettive province, di varie commissioni, rappresentative di interessi lo cali, “per sollecitare la definizione di pratiche ed ottenere particolari provvidenze presso le competenti Amministrazioni Centrali” . Nell’invitare i prefetti, comunque, a non accom pagnare né incoraggiare quelle “gite” , l’am ministrazione dellTnterno era costretta a chiedere, tuttavia, che “ gli organi centrali [...], dopo ricevute dette commissioni, voglia no dare dirette notizie ai Prefetti stessi di quanto concordato e discusso con le commis sioni stesse. Accade infatti di frequente — si aggiungeva — che le commissioni nel ritor nare in sede diffondano esagerate notizie di lusinghieri risultati ottenuti dal loro diretto intervento e di prossime favorevoli soluzioni dei problemi prospettati” 16. Era, in pratica, l’ammissione che il canale di collegamento centro-periferia rappresen tato dai prefetti era entrato definitivamente in crisi dinanzi al contatto diretto, per lo più mediato dalle rappresentanze politiche locali per il tramite dei rispettivi partiti di appartenenza1718. La tendenza sarebbe stata 11 nell’Italia del dopoguerra tanto radicata da risultare praticam ente incontrastabile. Non è forse casuale se l’attuale crisi di legit timazione delle istituzioni centrali corri sponde alla crisi dei partiti politici e della loro rappresentatività sociale: un sistema istituzionale debole, che ai partiti aveva chiesto un ruolo di supplenza, non è oggi in grado di fronteggiare con le proprie autonom e risorse il ridimensionamento di quella supplenza. Secondo quello che resta forse il documento di sintesi più importante sullo stato dell’am ministrazione italiana negli anni novanta (il Rapporto Cassese, reso noto quando Sabino Cassese divenne ministro della Funzione pubblica), al luglio 1993 l’amministrazione italiana era articolata in 22 ministeri, 4 dipar timenti, circa 10 autorità amministrative in dipendenti, oltre 1.000 enti pubblici naziona li, 20 regioni di cui 5 a statuto speciale, 104 province, 8.103 comuni, 337 comunità mon tane, circa 700 consorzi di enti locali, 65 uni versità, 67.000 sedi di istituti scolastici, quasi 650 unità sanitarie locali, non meno di 800 aziende municipalizzate, e molte altre unità amministrative . La mappa dell’amministrazione, che sino agli anni settanta era stata caratterizzata dal la incombente presenza di una predominante organizzazione ministeriale, sia pure corpo samente affiancata da enti locali, enti pubbli ci e varie amministrazioni “parallele” , aveva assunto, specialmente nello spazio di un de cennio (tra la fine degli anni settanta e gli an ni novanta) una articolazione ed una com• • • 18 16 Gabinetto del ministero dell’Interno alla Presidenza del Consiglio, Gabinetto, riservata dell’11 febbraio 1948, in ACS, Pesidenza del Consiglio dei ministri, Gabinetto, 1948-1950, 1.1.2, 6857. 17 Una testimonianza diretta del fenomeno è nelle memorie di Aldo Buoncristiano (che fu prefetto a Matera, Potenza e Firenze oltre che commissario di governo in Basilicata e Toscana): “mi apparve subito — scrive Buoncristiano della sua prima missione come prefetto a Matera nel 1969 — che la posizione del prefetto era molto diversa da come era da at tendersi: perché il tessuto connettivo della società non erano più le istituzioni ma ¡ partiti” (Aldo Buoncristiano, Un prefetto testimonia. Problemi delle autonomie e della sicurezza, Firenze, Noccioli, 1995, p. 17). 18 Presidenza del Consiglio dei ministri, Dipartimento per la funzione pubblica, Rapporto sulle condizioni delle pubbli che amministrazioni, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 1993, p. 33. 12 Guido Melis plessità tali da dimostrarsi irriducibile a qua lunque tentativo di riordinamento unitario. Non solo si erano moltiplicati gli esempi di altri modelli organizzativi (amministrazioni indipendenti, servizi nazionali, figure orga nizzative regolate dal diritto privato)19, ma si erano estesi enormemente i casi di utilizza zione di privati in funzione ausiliaria di pub bliche amministrazioni (sempre più, cioè, l’amministrazione delegava al di fuori le pro prie funzioni, riducendosi a “passare carte” o semplicemente ad erogare spesa). In più era no sorte nuove amministrazioni sovranazionali, comunitarie e non. Il disegno lineare dell’Ottocento si era definitivamente sfarina to in un pulviscolo amministrativo: l’ammi nistrazione era “in briciole”20. Sarebbe davvero arduo voler classificare questa galassia istituzionale con gli schemi tradizionali del rapporto tra un centro e una periferia. Al posto della piramide di un tempo si è ormai costituito un reticolo appa rentemente disordinato, nel quale i “pubblici poteri” (di “pubblici poteri” , e non di “pub blica amministrazione” , aveva parlato Mas simo Severo Giannini in un illuminante scrit to di qualche anno prima21) dialogano (o per meglio dire “contrattano”) tra di loro, ognu no in relazione e come portavoce di interessi esterni22. Rispetto a questo stato di fatto l’attuale di battito sul federalismo (per altro denso di equivoci non risolti: sarebbe da compiere un’indagine lessicale sui significati, spesso contrastanti, che il termine ha assunto nel l’ambito delle varie proposte) sembra sostan zialmente non dare risposte soddisfacenti. L’ipotesi di un radicale trasferimento verso la periferia di funzioni e poteri oggi control lati al centro (a cominciare da quel potere di borsa che costituisce forse il vero nucleo resistente del centralismo, e che ha sede prin cipalmente nell’asse Banca d’Italia-Ragioneria generale dello stato) non è di per sé idonea a risolvere i problemi dell’interconnessione reciproca tra livelli istituzionali diversi (na zionale, sovranazionale, subnazionale) e tra soggetti organizzativi di tanto varia natura: pubblica, privata, mista. La complessità or ganizzativa delle società contemporanee ri chiede probabilmente un di più di flessibilità e di pragmatismo, un ragionare per funzioni e non per modelli organizzativi, che al con trario il dibattito attuale — carico com’è di condizionamenti ideologici e allo stesso tem po politico-contingenti — non sembra in gra do di apprezzare. Sotto questo profilo le grandi riforme istituzionali potranno forse, se si faranno, rilegittimare classi politiche in difetto di legittimazione; difficilmente po tranno risolvere da sole i problemi di funzio nalità evidenziati nella crisi dell’amministra zione italiana. Guido Melis 19 Presidenza del Consiglio dei ministri, Dipartimento per la funzione pubblica, Rapporto sulle condizioni delle pubbli che amministrazioni, cit., pp. 34-35. Cfr. anche Alberto Massera, La crisi del sistema ministeriale e lo sviluppo degli enti pubblici e delle autorità amministrative indipendenti, in Sabino Cassese, Claudio Franchini (a cura di), L'amministrazione pubblica italiana. Un profilo, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 34; e, da ultimo, S. Cassese, C. Franchini (a cura di), ¡garanti delle regole. Le autorità indipendenti, Bologna, Il Mulino, 1996. 20 L’espressione è la traduzione letterale dal francese: cfr. François Dupuy, Jean-Claude Thoemig, L ’administration en miettes, Paris, Fayard, 1985. Il riferimento vale anche a segnalare le dimensioni non solo italiane del fenomeno, per quanto in Italia, per effetto del “centralismo debole” , assuma una evidenza assai maggiore che non altrove. 21 Massimo Severo Giannini, I pubblici poteri negli Stati pluriclasse, “ Rivista trimestrale di diritto pubblico” , 1979, pp. 389 sg. 22 S. Cassese, Le basi del diritto amministrativo, Einaudi, Torino, 1989 [la ed.].