Scommettere sulla vita - Liceo B.Rambaldi-L.Valeriani

Transcript

Scommettere sulla vita - Liceo B.Rambaldi-L.Valeriani
Marcellio MALAGUTTI (cl. 4a C)
Mario Calabresi:
«Scommettere sulla vita»
Dialogo a cura della redazione di “Sedie vuote”
“Ho scommesso sulla vita, cos'altro potevo fare a venticinque anni con due bambini piccoli tra
le mani e un terzo in arrivo? Mi sono data da fare tutti i giorni, unico antidoto alla
depressione, e ho cercato di vaccinarvi all'accidia, dall'odio, dalla condanna ad essere vittime
rabbiose. Questo non significa essere arrendevoli o mettere la testa sotto la sabbia. Significa
battersi per avere verità e giustizia e continuare a vivere rinnovando ogni giorno la memoria.
Fare diversamente significherebbe piegarsi totalmente al gesto dei terroristi, laciar vincere la
cultura della morte.”
(Gemma Capra)
MARIO CALABRESI (Milano, 17 febbraio 1970) è un giornalista e scrittore italiano, direttore del
quotidiano La Stampa.
Figlio del commissario Luigi Calabresi, assassinato nel 1972 (quando Mario aveva solo due anni),
si iscrive presso l'Università Statale di Milano al corso di laurea in Giurisprudenza e poi a quello
in Storia. In seguito frequenta l'Istituto per la formazione al giornalismo «Carlo de Martino» di
Milano. Nel 1998 è all'ANSA come cronista parlamentare, nel 1999 passa a la Repubblica, nella
redazione politica.
Dal 2000 al 2002 è a La Stampa, per la quale, da inviato speciale, racconta gli attentati dell'11
settembre 2001. Nel 2002 torna a la Repubblica, come caporedattore centrale vicario, e dal 2007 è
corrispondente per il giornale da New York, da dove racconta le elezioni presidenziali statunitensi
del 2008. Il 22 aprile 2009, a 39 anni, è nominato direttore de La Stampa in sostituzione di Giulio
Anselmi.
È autore di “Spingendo la notte più in là” (2007), libro dedicato alle vittime del terrorismo (dal
quale è stato tratto uno spettacolo teatrale interpretato da Luca Zingaretti). Nel 2002 insieme a
Francesca Senette e Andrea Galdi è stato insignito del Premio Ischia di giornalismo in ricordo di
Angelo Rizzoli, riservato ai giornalisti under 35 e nel 2003 di quello intitolato a Carlo Casalegno.
Il 18 gennaio 2011 gli è stato assegnato il Premio "È giornalismo".
► «Sedie vuote»
In seguito al riaccendersi del dibattito sugli anni di piombo e sulla scia della profonda impressione suscitata
dal libro di Mario Calabresi, “Spingendo la notte più in là” è nato, dalla proposta fatta dei tre curatori
(Alberto Conci, Paolo Grigolli e Natalina Mosna) a ragazzi delle scuole superiori e dell’università di Trento,
il libro “Sedie vuote - Gli anni di piombo: dalla parte delle vittime”. Una quindicina di ragazzi ha, così,
avviato un lungo e approfondito cammino conoscitivo attraverso gli eventi dolorosi e inquietanti degli anni
1
‘70. Al centro di questo percorso, che ha impegnato i ragazzi tutte le domeniche per un anno intero, è stato
posto l'incontro con i familiari delle vittime, con coloro che a causa della violenza hanno dovuto convivere
con la presenza di una sedia vuota nella loro casa.
In particolare questi giovani hanno indagato con rispetto e delicatezza le storie dei familiari delle vittime di
quegli anni incontrandoli di persona. Ne sono nati dialoghi sinceri e potenti riproposti nel libro. In essi sono
state toccate non solo le questioni più delicate e cruciali della storia recente della nostra democrazia, ma
anche dimensioni fondamentali per la memoria collettiva, quali quelle del dolore, della verità, della giustizia,
del perdono, del silenzio e delle parole, della violenza, della responsabilità, della solitudine, della solidarietà
umana, delle condizioni per la costruzione di una cittadinanza attiva.
Il percorso, nato attraverso un metodo di lavoro rigoroso, ha imposto ai ragazzi un grande impegno di lettura
e di approfondimento che traspare dalla densità dei dialoghi e dalla pregnanza delle questioni in essi
proposte. Nell'ordine, dialoghi con: Mario Calabresi, Benedetta Tobagi, Silvia Giralucci, Manlio Milani,
Giovanni Ricci, Alfredo Bazoli, Agnese Moro, Giovanni Bachelet, Vittorio Bosio, Sabina Rossa. In questo
modo si è voluto fossero presenti le testimonianze non solo dei familiari delle vittime del terrorismo, ma
anche di coloro che sono stati colpiti dallo stragismo (Brescia e Bologna). A questi, va aggiunto il dialogo
con Giancarlo Caselli, attraverso il quale si è inteso approfondire il ruolo della magistratura nel periodo
degli anni di piombo.
E’ indubbio, quindi, che il testo rappresenta una testimonianza importante per la ricostruzione della storia
recente. Ciò è certo vero per noi giovani che per la prima volta ci avviciniamo con profondità a vicende di
cui prima, al più, avevamo percepito lontani “echi”, spesso volutamente soffocati, ma non di meno lo è per i
nostri genitori, ovvero quegli adulti che, dopo avere assistito negli anni della giovinezza a quotidiani terribili
resoconti, erano stati indotti a pensare, una volta attenuato il fenomeno, che il meglio da fare per
“esorcizzarlo” fosse seppellirlo, obliarlo. Questa via, in vero, non è mai quella da seguire tanto nelle vicende
personali quanto in quelle collettive: un problema può dirsi “superato” non certo perché ignorato, bensì
perché affrontato, analizzato, “penetrato” fino a giungere attraverso un cammino di rielaborazione, spesso
assai doloroso, a quel distacco necessario per un giudizio oggettivo ed onesto. E d’altra parte come potrebbe
la storia essere “maestra di vita” se se ne obliassero le sue parti “buie”?
Il primo dei dialoghi presentati in “Sedie Vuote” è quello con lo stesso Mario Calabresi, dal cui libro aveva
“dato il via” al percorso intrapreso dai ragazzi. Tale dialogo è stato riportato con il titolo “Scommettere sulla
vita”.
► «Scommettere sulla vita»
Per anni Mario Calabresi ricercando nelle librerie documentazioni sugli anni ’70, sul terrorismo, sugli anni di
piombo, sulle stragi, aveva riscontrato che i libri inerenti tali argomenti erano stati scritti quasi tutti da exterroristi, prendendo, così, consapevolezza che non solo mancava una storia complessiva di quegli anni, ma
persino era presente un solo punto di vista: quello di coloro che avevano scelto la lotta armata. E’ stato
questo a spingere Calabresi a scrivere per “offrire” un altro punto di vista.
Egli, però, non ha operato in un'ottica di contrapposizione, non ha voluto “affermare una verità contro
un'altra”. Bensì ha compiuto un grande sforzo per la conquista di “uno sguardo dall’alto”, per raccontare
nella maniera più asciutta possibile, così che il suo lavoro risulta “una fotografia di ciò che è successo in
quegli anni e di coloro che vennero colpiti, rimettendo al centro le persone che erano state ammazzate, le
loro famiglie, il disastro del dolore, la devastazione che quegli atti portarono con sé”.
D’altra parte, scegliendo di “mettere da parte la rabbia”, Calabresi ha sortito l’effetto di spezzare
l’automatismo, invalso per anni, di domandare per ogni cosa un commento a un ex-terrorista. Come afferma
l’autore stesso, si può affermare che oggi “il tono del dibattito sia cambiato e che il libro sia sicuramente
servito a questo”.
Oggi Mario Calabresi dichiara :
“… ricevo tantissime mail tutti i giorni e quelle che mi fanno più piacere sono scritte da persone che mi
raccontano di aver pensato che mio padre era un assassino, di averlo gridato in piazza e di aver pensato che
meritava di morire così. E oggi mi dicono: «Ho letto il suo libro e mi sono reso conto che per tutta la vita
ho preferito coltivare un preconcetto ideologico e non mi sono mai informato, non mi sono mai curato di
niente». Per me questo è il più grosso dei risarcimenti.”
2
● Chi era Luigi Calabresi?
Dice Mario Calabresi di suo padre:
“Sì, era una persona molto diversa dall'immagine che gli venne attribuita e secondo me la sua diversità
spiega anche perché venne scelto come simbolo. Mio padre era il più giovane in questura, era il più vicino,
almeno come età, ai ragazzi protagonisti della contestazione, anche se non ne condivideva le idee. E infatti
era l'unico che andava a chiacchierare con loro durante le manifestazioni, come ha raccontato Marco
Pannella, ed era anche l'unico che parlava con i giornalisti perché gli altri funzionari pensavano che con i
giornalisti non si dovesse parlare se non alle conferenze stampa. Insomma, mio padre era l'uomo
maggiormente visibilità della questura.
Giampaolo Pansa mi ha raccontato che mentre tutti gli altri funzionari uscivano dalla questura sulle
macchine blu, lui usciva a piedi. Se a mezzanotte gli si diceva «dai, commissario, ci racconta cosa avete
fatto oggi? Andiamo un attimo al bar, prendiamo qualcosa ... » lui non era capace di dire di no. Questo suo
modo di essere lo portò spesso sui giornali, e il suo nome cominciò a circolare molto più di quello degli
altri funzionari di polizia.
L’idea che mi sono fatto, ricostruendo la sua storia, è questa: quando nello scontro tra la contestazione - che
cominciava ad assumere tratti violenti - e lo Stato - che invece mostrava un volto repressivo - c'era bisogno
di un simbolo, mio padre era a portata di mano proprio a causa di questa sua visibilità. E finì schiacciato in
questo scontro.”
Luigi Calabresi, nato a Roma il 14 novembre 1937 in una famiglia medio-borghese, dopo aver frequentato il
licei classico, nel 1964 si laureatosi in giurisprudenza. Alla carriera forense preferisce quella nella polizia:
nel 1965, vince il concorso per vice commissario di pubblica sicurezza e quindi frequenta il corso di
formazione nell'Istituto superiore di polizia per prendere poi servizio a Milano nel 1967. A Milano viene
inserito nell'ufficio politico (quello che si chiamerà Digos) che è ancora un ufficio unico: ci si occupa sia di
estremismi di sinistra che di destra. A capo dell’ufficio politico vi è Antonino Allegra. Nel 1968 Calabresi
diventa commissario capo. E’ il più all’interno della questura, il più disponibile al dialogo sia con i
manifestanti che con i giornalisti, il meno legato ai formalismi, pur nel rigore del mantenimento dell’ordine.
Dopo il 12 dicembre 1969, l’ufficio deve iniziare a occuparsi delle indagini sulla strage di Piazza Fontana.
Calabresi, che ha già in corso inchieste su attentati da bombe, viene incaricato delle indagini sul caso. E’
proprio nel corso delle prime indagini sulla bomba a Piazza Fontana che ha luogo il tragico e evento inerente
l’anarchico Giuseppe Pinelli (questi è già noto a Calabresi per via di indagini precedenti nell'ambiente degli
anarchici e pare fra i due sussiste un rapporto di reciproco rispetto). Pinelli, convocato in questura nelle
prime ore seguenti all'attentato insieme ad altri 84 sospettati, e tenuto in stato di fermo per più di due giorni
per essere interrogato riguardo al suo alibi, precipita alle 23.57 del 15 dicembre da una finestra del quarto
piano, dell'edificio della Questura di Milano. La mancanza di chiarezza da parte dello Stato riguardo questa
morte contribuisce a concentrare tutte le responsabilità sul commissario Calabresi. Infatti il questore di
Milano Marcello Guida, presentandosi ai giornalisti, invece di mostrarsi conscio della gravità dell’accaduto e
dichiarare la volontà di fare chiarezza, si limita ad affermare che Pinelli, consapevole di avere responsabilità
nella strage di Piazza Fontana si è suicidato. Inoltre alla domando dei giornalisti su dove sia avvenuto il fatto,
il questore risponde che l’anarchico è precipitato dalla finestra dell’ufficio di Calabresi, senza precisare che
nella stanza al momento della tragedia non era presente il commissario. L’esito di tutto ciò è che l’intera
responsabilità dell’accaduto viene addossata a Calabresi. E di lì parte una campagna mostruosa di
disinformazione, di bugie costruite sul nulla, di falsità (servizi segreti americani, colpi di karatè, endovene
con “siero della verità”, …) spacciate per verità assolute: reazione figlia del clima e dello scontro di questi
anni. La campagna durerà per due anni e culminerà nell’assassino del commissario. In vero nessuno di quelli
che portano avanti la campagna contro Calabresi si preoccupano di ricostruire esattamente la dinamica dei
fatti e di individuare le responsabilità: hanno bisogno di un capro espiatorio e l’hanno trovato.
La campagna di diffamazione iniziata in verità da quotidiani e settimanali della sinistra “istituzionale”, con
tanto di lettera aperta accusatoria firmata da quasi ottocento di intellettuali, diventa poi il cavallo di battaglia
di “Lotta continua” che sposa la causa.
Le prime indagine sulla morte di Pinelli, condotte piuttosto velocemente, dal giudice Antonio Amati, si
conclusasi nel maggio 1970 con la dichiarazione di morte accidentale, ma questa sentenza ha l’effetto di
accrescere la rabbia e la confusione.
La vedova di Pinelli chiese che venisse riaperta l'indagine, che questa volta venne affidata al giudice
D'Ambrosio. Questi, per rendere credibile le indagini, apre l’inchiesta come “ipotesi di omicidio”. Iil
risultato fu davvero importante poiché D'Ambrosio appura, lui dice «al di là di ogni ragionevole dubbio»,
3
che alla momento della morte di Pinelli il commissario non era nella stanza. Nel far luce su questi eventi
D'Ambrosio smonta piano piano anche le altre calunnie addossate all’ispettore.
Ma l’azione di “Lotta continua” continua più violenta e intensa con attacchi quasi quotidiani, anche perchè
Calabresi, nell’aprile de 1970, spinto dalla questura, ha querelato “Lotta continua” come privato cittadino:
lo Stato ha messo in questo modo il commissario in una situazione difficilissima e pericolosa, e non fa nulla
per “tirarlo fuori”. Durante il processo inerente questa querela è ben presto Calabresi a finire sul banco degli
imputati: in pratica si riapre il processo Spinelli e quindi “Lotta continua” ha raggiunto il suo scopo. La
redazione del quotidiano spiega anche che non le interessava l’esito del processo dentro l’aula del tribunale,
il proletariato emetterà il proprio verdetto e lo eseguirà in piazza: «Sappiamo che l'eliminazione di un
poliziotto non libererà gli sfruttati. Ma è questa, sicuramente, una tappa fondamentale dell'assalto dei
proletari contro lo Stato assassino». Davanti a quella promessa di morte, Calabresi si scopre inerme, anche
perché dopo la sua querela, ben quarantaquattro redazioni di riviste politiche e culturali di svariati
orientamenti, hanno sottoscrissero un documento di solidarietà a “Lotta Continua”. Calabresi e la sua
famiglia si trovano sottoposti ad una vera “lapidazione”: manifesti su tutti i muri di Milano e di molte città
italiane (“Calabresi wanted” con l'indicazione della somma che toccherà in premio a chi lo cattura),
promesse di morte urlate nei cortei (“Calabresi sarai suicidato”), insulti (“il commissario Finestra”, “il
commissario Cavalcioni”), una moltitudine di lettere anonime spedite all'indirizzo di casa, telefonate orribili,
...
Infine il 17 maggio 1972, alle ore 9.15,il commissario di polizia Luigi Calabresi viene assassinato, davanti
alla sua abitazione, mentre si avviava alla sua auto (una Cinquescento) per andare in ufficio, da un
commando composto da almeno due sicari che gli spararono alle spalle.
«Da due anni vivo sotto questa tempesta. Lei non può immaginare che cosa ho passato e che cosa sto
passando. Se non fossi cristiano, se non credessi in Dio non saprei come resistere…». Parlava così il
commissario Luigi Calabresi qualche settimana prima di essere ucciso.
Domandai a Calabresi se avesse paura. Lui rispose: «Paura no perché ho la coscienza tranquilla. Ma quel
che mi fanno è terribile. Potrei farmi trasferire da Milano, però non voglio andarmene. Comunque non ho
paura. Ogni mattina esco di casa e vado al lavoro sulla mia Cinquecento, senza pistola e senza la
protezione di una scorta. Perché dovrei proteggermi? Sono un commissario di polizia e il mio compito è di
proteggere gli altri, i cittadini.»
[Gianpaolo Pansa]
 Il linciaggio mediatico
Una delle azioni più gravi della campagna diffamatoria contro il commissario Calabresi si ebbe con la
“Lettera aperta a L'Espresso sul caso Pinelli”, nota anche come “Appello (o manifesto) contro il
commissario Calabresi” . Eccone il testo integrale:
« Il processo che doveva far luce sulla morte di Giuseppe Pinelli si è arrestato davanti alla bara del
ferroviere ucciso senza colpa. Chi porta la responsabilità della sua fine, Luigi Calabresi, ha trovato nella
legge la possibilità di ricusare il suo giudice. Chi doveva celebrare il giudizio, Carlo Biotti, lo ha inquinato
con i meschini calcoli di un carrierismo senile. Chi aveva indossato la toga del patrocinio legale, Michele
Lener, vi ha nascosto le trame di una odiosa coercizione.
Oggi come ieri - quando denunciammo apertamente l'arbitrio calunnioso di un questore, Michele Guida, e
l'indegna copertura concessagli dalla Procura della Repubblica, nelle persone di Giovanni Caizzi e Carlo
Amati - il nostro sdegno è di chi sente spegnersi la fiducia in una giustizia che non è più tale quando non
può riconoscersi in essa la coscienza dei cittadini. Per questo, per non rinunciare a tale fiducia senza la
quale morrebbe ogni possibilità di convivenza civile, noi formuliamo a nostra volta un atto di ricusazione.
Una ricusazione di coscienza - che non ha minor legittimità di quella di diritto - rivolta ai commissari
torturatori, ai magistrati persecutori, ai giudici indegni. Noi chiediamo l'allontanamento dai loro uffici di
coloro che abbiamo nominato, in quanto ricusiamo di riconoscere in loro qualsiasi rappresentanza della
legge, dello Stato, dei cittadini. »
Sottoscritta e divulgata inizialmente il 10 giugno 1971 da primi dieci firmatari, la lettera aperta fu pubblicata
sul settimanale L'Espresso il 13 giugno, a margine di un articolo di Camilla Cederna (esperta di costume e
scrittrice brillante) intitolato “Colpi di scena e colpi di karatè. Gli ultimi incredibili sviluppi del caso Pinelli”.
4
Le settimane successive, il 20 e il 27 giugno, la lettera venne ripubblicata, con l'adesione di centinaia di
personalità, anche di “spicco”, del mondo politico e intellettuale italiano, fino a giungere a 757 firme. [Vedi:
“Appendice A”]
Ha detto in proposito il giornalista, saggista e scrittore italiano Gianpaolo Pansa:
«… Mi ero ben guardato dal firmarla, anche se le insistenze dei promotori mi pungolavano a farlo. Avevo
scritto su piazza Fontana sin dal primo giorno. E in qualche modo rappresentavo la Stampa a Milano.
Però mi ripugnava il ritratto che veniva dipinto di Calabresi. Lo ritenevo falso da cima a fondo. Inoltre
volevo sottrarmi all’aria pessima che tirava a Milano.
Era un’aria che puzzava di faziosità sfrenata, di furibondo partito preso, di certezze proclamate con il
sangue agli occhi, di dubbi rifiutati con disprezzo. In quel clima, se non partecipavi al linciaggio di
Calabresi una penale la pagavi. Ti accusavano di schierarti con i fascisti, cercavi i favori della polizia,
facevi un giornalismo prezzolato, stavi al servizio della Direzione affari riservati del Viminale.»
Mario Calabresi ha affermato in merito a quei quasi ottocento intellettuali:
“Devo dire che non amo le demonizzazioni. […] Peraltro, ho parlato con alcuni di quegli ottocento
intellettuali e spesso mi è capitato di incontrarli, anche in ragione del lavoro che faccio.
Molti di quelli con cui ho parlato mi hanno fatto capire che avevano firmato senza pensarci troppo, con un
po' di leggerezza. E questo mi ha così impressionato che non ho mai firmato nessun appello […] la vicenda
di quelle ottocento firme mi ha segnato: credo che ognuno abbia la responsabilità di quello che dice e di
quello che scrive e che non possa nascondersi nel gruppo, pensando "va beh, tiro la pietra ma poi, in
ottocento, chi l'ha tirata?"
Il male italiano di allora - che mi sembra sia anche il male di oggi - è il conformismo. Il problema è che
l'intellettuale dovrebbe essere una persona che non è conformista, che pensa con la propria testa, che ha la
capacità delle idee. …”
Condivido pienamente la posizione di Mario Calabresi: ciò che mi sconcerta maggiormente è che ad
adeguarsi a un tale deprecabile conformismo sia stato un numero tanto elevato di esponenti di coloro, gli
intellettuali, la cui caratteristica preponderante dovrebbe essere, dinanzi ad ogni aspetto della vita umana, la
volontà di indagare, comprendere, penetrare a fondo per poi rielaborare in senso costruttivo e propositivo,
ovvero un atteggiamento antitetico all’accettazione superficiale di quanto è detto da altri. A ciò si aggiunge
l’aggravante dell’entità delle accuse e della sicurezza ostentata nel farle, come emerge dalla testimonianza di
Pansa.
In realtà, l’agire di quei firmatari tradì quello che dovrebbe essere uno dei compiti primari dell’intellettuale:
ricondurre alla razionalità il pensiero dei cittadini in tempi in cui la concitazione collettiva induce a
comportamenti convulsi ed esasperati, ovvero guidare nel superamento degli stati di irrazionalità.
L’intellettuale, in vero, dovrebbe adoprarsi per l’attuazione di una società in cui le relazioni non si fondino
sullo scontro violento, ma sulla dialettica, con domande e risposte ponderate, non aprioristiche. Infatti egli
dovrebbe essere motivato nel suo operare dal convincimento che ogni certezza è rivedibile alla luce del
dubbio: il che non significa non “prendere posizione”, ma farlo solo dopo una profonda, elaborata indagine
svolta con “mente libera”. Ne consegue che l’atteggiamento dei 757 firmatari non fu da intellettuali, ma da
“corpaccio” di manzoniana memoria.
D’altra la campagna diffamatoria contro il commissario Calabresi non fu alimentata solo dai giornali
dell’estrema sinistra, come affermato da Mario Calabresi:
“No, non c'era solo Lotta continua e nemmeno solo gli ottocento intellettuali… Diciamo così: gli articoli
che uno poteva leggere sul colpo di karate e tutto il resto si potevano trovare sull’“Avanti!", sull’“Unità",
sui giornali studenteschi. sul “Giorno" … si trovavano insomma in luoghi molto diversi. Il punto è che
Lotta continua aveva fatto di quella vicenda il suo campo di battaglia di quel periodo. Cerano tante
occasioni di scontro, ma Lotta continua aveva sposato questa causa, era la sua campagna. Ma quella
decisione alla fine ha condotto alla morte di mio padre (*) .”
(*) NOTA
[ - Su “Lotta Continua” del 6 giugno 1970 si leggeva:
«Questo marine dalla finestra facile dovrà rispondere di tutto. Gli siamo alle costole, ormai, ed è inutile che si dibatta
come un bufalo inferocito [...] Qualcuno potrebbe esigere la denuncia di Calabresi per falso in atto pubblico. Noi, che
più modestamente di questi nemici del popolo vogliamo la morte... »
- Il 18 maggio 1972 il giornale “Lotta Continua” titolò: «Ucciso Calabresi, il maggior responsabile dell'assassinio
Pinelli». Nell'articolo l'omicidio Calabresi era definito «atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di
giustizia».]
5
In vero il primo passo della campagna stampa contro Calabresi non venne compiuto dal giornale di “Lotta
continua”, bensì da due quotidiani della sinistra storica: l’“Avanti!” del Psi e l’“Unità” del Pci, affiancati dal
settimanale comunista “Vie Nuove”. Poi entrò in scena: “L’Espresso” con la sua firma più famosa, Camilla
Cederna. Subito dopo si mosse “Lotta continua”, di Adriano Sofri, e da quel momento la vita del
commissario divenne una via crucis.
Un’estesa testimonianza documentale del “linciaggio” mediatico a cui fu sottoposto il commissario Calabresi
può essere trovata in un brano tratto dal testo “Mio Marito il commissario Calabresi”(1990) scritto da
Gemma Calabresi (moglie del commissario e madre di Mario), riportato nell’“Appendice B”.
Oggi Mario Calabresi dichiara :
“… ricevo tantissime mail tutti i giorni e quelle che mi fanno più piacere sono scritte da persone che mi
raccontano di aver pensato che mio padre era un assassino, di averlo gridato in piazza e di aver pensato che
meritava di morire così. E oggi mi dicono: «Ho letto il suo libro e mi sono reso conto che per tutta la vita
ho preferito coltivare un preconcetto ideologico e non mi sono mai informato, non mi sono mai curato di
niente». Per me questo è il più grosso dei risarcimenti.”
► “Piccoli passi”
In vero una serie di piccoli, preziosi passi compiuti in questi ultimi anni ha favorito la riflessione collettiva su
uno dei periodi più violenti della nostra storia.
- Nel 2004 (mentre era presidente della Repubblica Carlo Azelio Ciampi) il parlamento ha approvato
all'unanimità una legge in favore delle vittime del terrorismo e delle stragi che prevede misure
assistenziali e l'erogazione di benefici economici, nonché il risarcimento delle spese sostenute nel corso
dei procedimenti penali.
- Il 28 maggio 2005, nel corso di una cerimonia ufficiale, è stata affissa una targa a ricordo del
giornalista Walter Tobagi nella via in cui fu assassinato: un gesto, arrivato con venticinque anni di
ritardo, che ha permesso alla figlia Benedetta di tornare a passare per quella strada con un diverso stato
d'animo.
Vi sono vari altri sono i segni del risveglio da una sorta di amnesia collettiva: targhe, medaglie,
francobolli, cippi a ricordo di diverse vittime. Si tratta di iniziative importanti, soprattutto per i parenti,
bersagliati a lungo da scritte che bollavano i loro figli, i mariti o le mogli, i padri come “complici del
sistema” o “ignobili servi dello Stato”. Ma più dei busti commemorativi e delle celebrazioni di rito, conta il percorso intrapreso per unificare la memoria degli italiani con iniziative di ampio respiro.
- Il 9 maggio 2008 è stato celebrato per la prima volta il "Giorno della memoria" (istituito il 4 maggio
dell'anno precedente dal parlamento e fortemente voluta dal presiedente Napolitano) a ricordo di tutte le
vittime del terrorismo e delle stragi. In quella occasione, una rappresentanza di associazioni dei
familiari è stata accolta con calore dal presidente Napolitano al Quirinale.
- Nel 2007 Mario Calabresi (figlio di commissario Luigi Calabresi) ha pubblicato il libro “Spingendo la
notte più in là”, ricostruendo in modo lucido e toccante il dramma di una famiglia bersagliata dall’odio
politico così da richiamare l’attenzione su una immagine inquietante del nostro recente passato.
- Nel 2008 è uscito il libro “Sedie vuote - Gli anni di piombo: dalla parte delle vittime”, risultato di un
approfondito percorso di ricerca attraverso le vicende drammatiche e complesse degli “anni di piombo”
compiuto da un gruppo di studenti liceali e universitari di Trento, a partire dalla lettura del libro di
Mario Calabresi. Si tratta di un libro che non accusa con violenza, ma chiarisce. Un testo che dà voce a
chi di solito non ne ha: i familiari delle vittime.
- Il 03/11/2009 è stato pubblicato il libro “Come mi batte forte il tuo cuore” della giornalista Benedetta
Tobagi, figlia del giornalista Walter Tobagi, assassinato nel 1980 dai terroristi della «Brigata XXVIII
marzo». Nel testo l’autrice, che aveva solo tre anni alla morte del padre, con forza, con delicatezza,
ricostruisce la figura pubblica e privata del padre in un racconto che intreccia vibrazioni intime ad
analisi storiche lucide e rigorose.
- Nel 2009 Gemma Capra, vedova del commissario Luigi Calabresi, e Licia Rognini, vedova
dell'anarchico Giuseppe Pinelli, hanno avuto modo di incontrarsi, si sono finalmente guardate negli
occhi, si sono strette la mano.
- Nel 2011 è uscito il libro “Non dimenticare, non odiare” di Eugenio Occorsio, figlio del giudice
Vittorio, vittima del terrorismo di estrema destra nel 1976. L'autore, che aveva sempre rifiutato di
parlare, spiega di essersi deciso a scrivere la sua storia dopo aver sentito il proprio figlio pieno di
6
rancore verso gli assassini. Per indurlo a ragionare, vincendo quel desiderio di vendetta che spesso è più
intenso negli adolescenti, gli sembrava importante raccontargli la storia propria e del nonno, una figura
luminosa di esemplare dedizione alla legge e alle istituzioni democratiche.
- Più di recente sono usciti altre opere letterarie sugli “anni di piombo”, quali, per esempio, il saggio
“Ending Terrorism in Italy” di Anna Cento Bull e Philip Cooke (Routledge, 2013), in cui si analizza
come sia stata condotta e gestita la lotta al terrorismo sul piano legislativo e politico e le relative
conseguenze che hanno reso problematica la chiusura della sua stagione.
- Sul primo canale della RAI è stata messa in programmazione nel mese di gennaio del 2014 una
miniserie intitolata “Anni spezzati” su uomini che “caddero” durante gli anni ’70, quali il commissario
Luigi Calabresi e il procuratore Mario Sossi.
- Nella Legge di stabilità per l’anno 2014 è stata recepita la concessione dei vitalizi ai familiari dei
gravissimi invalidi vittime del terrorismo, a completamento della legge 3 agosto 2004.
“Restituire un volto e una storia a persone ridotte a simboli da colpire, senza rinunciare a cercare i
frammenti di verità rimasti nascosti, è ciò che si deve a loro e a quanti altri sono nelle loro stesse
condizioni.” Infatti ciò che in primis vogliono i parenti delle vittime è “fare memoria”, ovvero non solo
ricordare, bensì “discendere sì nella profondità della propria vita”, ma anche “tramandare agli altri un
messaggio autentico” così da non permettere la dispersione della memoria storica degli eventi.
Un’attenzione particolare va rivolta all’AIVITER (Associazione Vittime del Terrorismo) che, fondata
nel 1984, ha sempre svolto una continua azione di sensibilizzazione e di informazione sia verso la
cittadini, sia verso pubblici amministratori e politici, e si è sempre battuta, e continua a farlo, per
testimoniare la validità e il valore del sacrificio compiuto da cittadini e servitori dello Stato per
difendere la libertà e l'ordinamento democratico (riscontrando, purtroppo, talvolta un'attenzione minore
verso le vittime che verso i loro carnefici).
7
Appendice A
Segue l'elenco dei 757 firmatari della lettera in ordine alfabetico.
Ezio Adami
Mario Agatoni
Clelia Agnini
Nando Agnini
Enzo Enriques
Agnoletti
Giorgio Agosti
Alberto Ajello
Nello Ajello
Gianmario Albani
Vando Aldovrandi
Elio Aloisio
Marina Altichieri
Anselmo Amadigi
Laura Ambesi
Giorgio Amendola
Sergio Amidei
Luigi Anderlini
Antonio Andreini
Franco Antonicelli
Filippo Arcuri
Giulio Carlo Argan
Giorgio Arlorio
Annamaria Arisi
Anna Arnati
Aldo Assetta
Gae Aulenti
Orietta Avernati
Ferruccio Azzani
Giorgio Backaus
Franco Baiello
Anna Baldazzi
Nanni Balestrini
Aurelio Balich
Carlo Ballicu
Aldo Ballo
Pietro Banas
Julja Banfi
Arialdo Banfi
Marcello Baraghini
Mario Baratto
Andrea Barbato
Mario Bardella
Giovanna Bartesaghi
Campanari
Ada Bartolotti
Mirella Bartolotti
Carla Bartolucci
Franco Basaglia
Vittorio Basaglia
Andrea Basili
Eugenia Bassani
Aldo Bassetti
Marisa Bassi
Emanuele Battain
Giovanni Battigi
Betty Bavastro
Renato Bazzoni
Marco Bellocchio
Piergiorgio
Bellocchio
Aroldo Benini
Giorgio Benvenuto
Marino Berengo
Gualtiero Bertelli
Giorgio Bertemo
Alberto Berti
Bernardo Bertolucci
Mario Besana
Laura Betti
Alberto Bevilacqua
Bruno Bianchi
Luciano Bianciardi
Mario Biason
Walter Binni
Renzo Biondo
Mercedes Bo
Norberto Bobbio
Giorgio Bocca
Gaetano Boccafine
Cini Boeri
Renato Boeri
Rodolfo Bollini
Pietro Bolognesi
Ermanna Bombonati
Laura Bonagiunti
Agostino Bonalumi
Angela Bonanomi
Giuseppe Bonazzi
Mario Boneschi
Luciana Bonetti
Arrigo Bongiorno
Vittorio Borachia
Giuliana Borda
Giampiero Borella
Angelo Borghi
Giampaolo Borghi
Sergio Borsi
Carlo Bosoni
Angela Braga
Aldo Braibanti
Rina Bramè in
Zanetti
Tinto Brass
Claudio Brazzola
Nerina Breccia
Maria Luisa Brenner
Fulvia Breschi
Anna Maria Brizio
Vanna Brocca
Laura Bruno
Franco Brusati
Giampaolo Bultrini
Giorgio Cabibbe
Corrado Cagli
Mauro Calamandrei
Alba Cella Calamida
Leonida Calamida
Giuseppe Caldarola
Giacomo Calì
Vittoria Calvan
Maurizio Calvesi
Floriano Calvino
Riccardo Calzeroni
Valeria Calzeroni
Giovanna Campi
Nino Cannata
Michele Canonica
Teodolinda Caorlin
Elena Caporaso
Ettore Capriolo
Umberto Carabella
Cosmo Carabellese
Giulia Carabellese
Tommaso Caraceni
Tullio Cardia
Pierre Carniti
Tommaso Carnuto
Fabio Carpi
Armando Carpignano
Dino Cartia
Bruno Caruso
Paolo Caruso
Amedeo Casavecchia
Andrea Cascella
Alessandro Casillin
Lucia Casolini
Giorgio Catalano
Giuseppe Catalano
Liliana Cavani
Paolo Cavara
Camilla Cederna
Giamprimo Cella
Carla Cerati
Roberto Cerati
Mario Ceroli
Lorenzo Certaldi
Miriam Certi
Bianca Ceva
Sandra Cheinov
Francia Chemollo
Alfredo Chiappoli
Francesco Ciafaloni
Vincenzo Ciaffi
Lidia Ciani
Umberto Cinti
Mariella Codignola
Ezio Cogliati
Lucio Colletti
Enrica Collotti
Pischel
Furio Colombo
Luigi Comencini
Franco Contorbia
Gianni Corbi
Sergio Corbucci
Elisabetta Corona
Teresa Corsi
Luigi Cortesi
Giulio Cortini
Giuseppe Cosentino
Luigi Cosenza
Radames Costa
Gastone Cottino
Gabriella Covagna
Bruno Crimi
Paolo Crivelli
Virgilio Crocco
Roberto D'Agostino
Sandra Dal Pozzo
Enzo D'Amore
Guido Davico
Bonino
Maria Teresa De
Laurentis
Fausto De Luca
Giorgio De Luca
Giorgio De Marchis
Giorgio De Maria
Giovanni De Martini
Tullio De Mauro
Stefano De Seta
Vincenzo De Toma
Stefano De Vecchi
Sergio De Vio
Vittoria De Vio
Giuseppe Del Bo
Giuseppe Della
Rocca
Giampiero
Dell'Acqua
Luigi Dell'Oro
Anna Maria
Demartini
Bibi Dentale
Fabrizio Dentice
Luca D'Eramo
Stefano Di Donat
Sara Di Salvo
Tommaso Di Salvo
Luciano Doddoli
Delia Dominella
Piero Dorazi
Gillo Dorfles
Umberto Dragone
Guglielmo Dri
Susan Dubiner
Antonio Duca
Umberto Eco
Giulio Einaudi
Ingrid Enbom
Angelo Ephrikian
Maria Concetta
Epifani
Sergio Erede
Bruno Ermini
Franco Ermini
Vincenzo Eulisse
Gianni Fabbri
Marisa Fabbri
Bruno Fabretto
Mario Fabretto
Elvio Fachinelli
Vittorio Fagone
Carlo Falconi
Annagiulia Fani
Teresa Fanigarda
Alberto Farassino
Luciana Farinella
Franco Fayenz
Federico Fellini
Inge Feltrinelli
Marina Feraci
Mario Ferrantelli
Alberto Ferrari
Ernesto Ferrero
Arnaldo Ferroni
Pierluigi Ficoneri
Gaetana Filippi
Giampaolo Filotico
Piero Filotico
Marco Fini
Paola Fini
Roberto Finzi
Milva Fiorani
Elio Fiore
Leonardo Fiori
Giosuè Fittipaldi
Dario Fo
Luciano Foà
Domenico Foderaro
Carla Fontana
Manuele Fontana
Massimiliano
Fontana
Ada Fonzi
Bruno Fonzi
Franco Fornari
Carla Forta
Franco Fortini
Paolo Fossati
Gennaro Fradusco
Bruna Franci
Aldo Franco
Giuseppe Franco
Bice Fubini
Marisetta Fubini
Alberto Fuga
8
Mario Fumero
Maria Grazia
Furlani Marchi
Floriana Fusco
Benedetta Galassi
Beria
Giancarlo Galassi
Beria
Silvia Galaverni
Aldo Galbiati
Virginia
Galimberti
Mario Gallo
Severino Gambato
Lucio Gambi
Renato Gambier
Antonio Gambino
Maria Teresa
Gardella
Edoardo Garrone
Emilio Garroni
Giustino Gasbarri
Cristiano
Gasparetto
Maria Gasparetto
Schiavon
Luciano Gaspari
Bruna Gasparini
Nuccia Gasparotto
Mario Gatti
Anna Gattinoni
Camillo Gattinoni
Emilio Gavazzotti
Ugo Gazzini
Mariella Genta
Mauro Gentili
Alessandro Gerbi
Francesco Ghiretti
Anna Ghiretti
Magaldi
Bona Ghisalberti
Giobattista
Gianquinto
Natalia Ginzburg
Giovanni Giolitti
Vincenzo Giordano
Fabio Giovagnoli
Giovanni Giudici
Marinella Giusti
Enzo Golino
Letizia Gonzales
Vittorio Gorresio
Delia Grà
Romano Stefano
Granata
Paola Grano
Franco Graziosi
Armando Greco
Carlo Gregoretti
Ugo Gregoretti
Augusta Gregorini
Laura Grisi
Laura Griziotti
Anna Gualtieri
Franca Gualtieri
Luciano Guardigli
Pierluciano
Guardigli
Ruggero Guarini
Augusto Guerra
Salvatore
Guglielmino
Armanda Guiducci
Roberto Guiducci
Renato Guttuso
Margherita Hack
Ulrica Imi
Delfino Insolera
Gabriele Invernizzi
Renato Izozzi
Alberto Jacometti
Lino Jannuzzi
Emilio Jona
Pietro La Gioiosa
Vittorio La Gioiosa
Rosamaria La
Gioiosa in
Giovagnoli
Oliviero La Stella
Riccardo Landau
Liliana Landi
Giuseppe Lanza
Marina Laterza
Vito Laterza
Gustavo Latis
Marta Latis
Giorgio Lattes
Giuliana Lattes
Felice Laudadio
Marcella Laurenzi
Mario Lazzaroni
Giorgio Leandro
Franco Lefevre
Ettore Lenzini
Marcello Lenzini
Franco Leonardi
Irene Leonardi
Rita Leonardi
Francesco Leonetti
Isabella Leonetti
Ugo Leonzio
Laura Lepetit
Carlo Levi
Primo Levi
Bruno Libello
Laura Lilli
Claudio Lillini
Marino Livolsi
Carlo Lizzani
Daniela Lizzi
Maurizio Lizzi
Germano
Lombardi
Riccardo Lombardi
Giordano Loprieno
Mariella Loriga
Giuseppe Loy
Nanni Loy
Nico Luciani
Franca Lurati
Clara Lurig
Giulio A.
Maccacaro
Marisa Macerollo
Mario Macola
Manuela Magro
Carlo Mainoldi
Susjanna Majella
Carlo Majer
Giancarlo
Majorino
Thomas
Maldonado
Maria Vittoria
Malvano
Piero Malvezzi
Mauro Mancia
Bruno Manghi
Eleonora Mantese
Manlio Maradei
Adriana Marafioti
Dacia Maraini
Elio Maraone
Laura Marasso
Paladina
Aldo Marchi
Enzo Mari
Giovanni Mariotti
Giancarlo Marmori
Lilly E. Marx
Carlo Mascetti
Francesco Maselli
Vitilio Masiello
Ennio Mattias
Augusto Mattioli
Clara Maturi Egidi
Achille Mauri
Fabio Mauri
Carlo Mazzarella
Giovanna Mazzetti
Lorenza Mazzetti
Cosimo Marco
Mazzoni
Alceste Mazzotti
Carmine Mecca
Marina Meltzer
Lodovico
Meneghetti
Mino Menegozzi
Giorgio Menghi
Giuliano Merlo
Aldo Messasso
Giuseppe Mezzera
Lidya Micheli
Paolo Mieli
Mieke Mijnlieff
Paolo Milano
Carla Milgiarini
Giovanna Minotti
Annabella
Miscuglio
Enrico Mistretta
Ludovica
Modugno
Paolo Modugno
Franco Mogari
Franco Mogni
Davide Moisio
Francesco Moisio
Maria Vittoria
Molinari
Francesco Molone
Arnaldo Momo
Cecilia Moneti
Furio Monicelli
Mino Monicelli
Giuliano Montaldo
Adolfo Montefusco
Grazia Montesi
Pio Montesi
Maria Monti
Morando
Morandini
Alberto Moravia
Guido Morello
Diego Moreno
Salvatore Morgia
Alba Morino
Berto Morucchio
Salvatore Morvillo
Franco Mulas
Mimi Mulas
Adriana Mulassano
Ezio Muraro
Paolo Murialdi
Cesare Musatti
Mariuccia Musazzi
Sergio Muscetta
Carlo Mussa Ivaldi
Franca Mussa
Ivaldi
Gianna Navoni
Benedetto Negri
Toni Negri
Grazia Neri
Annamaria Nicora
Hribar
Riccardo Nobile
Luigi Nono
Mimma Noriglia
Guido Nozzoli
Luigi Odone
Annamaria Olivi
Pietro Omodeo
Giulio Onici
Fabrizio Onofri
Valentino Orsini
Silvana Ottieri
Giulio Pace
Enzo Paci
Luciano Pacino
Zulma Paggi
Walter Pagliero
Giancarlo Pajetta
Aldo Paladini
Giannantonio
Paladini
Luciana Paladini
Conti
Salvatore Palladino
Ettore Pancini
Pietro Pandiani
Francesco Panichi
Alcide Paolini
Piergiorgio Paoloni
Letizia Paolucci
Ivo Papadia
Luca Paranelli
Roberto Paris
Silvia Parmeggiani
Scatturin
Ferruccio Parri
Giordano Pascali
Pier Paolo Pasolini
Daniela Pasquali
Ernesto Pasquali
Luca Pavolini
Giorgio Pecorini
Rossana Pelà
Alessandro
Pellegrini
Baldo Pellegrini
Carla Pellegrini
Lorenzo Pellizzari
Dario Penne
Andrea Penso
Giovanni Pericoli
Maria Pericoli
Paolo Pernici
Irene Peroni
Mario Perosillo
Nico Perrone
Romano Perusini
Carla Petrali
Elio Petri
Domenico
Pezzinga
Leopoldo Piccardi
Mario Picchi
Cristina Piccioli
Giuseppe Picone
Ugo Pierato
Maria Novella
Pierini
Piero Pierotti
Ettore Pietriboni
9
Bice Pinnacoli
Elsa Piperno
Giosuè Pirola
Ida Pirola
Ugo Pirro
Ugo Pisani
Paola Pitagora
Fernanda Pivano
Luciano Pizzo
Giovanna Platone
Garroni
Franco Pluchino
Giancarlo Polo
Giò Pomodoro
Gillo Pontecorvo
Antonio Porta
Paolo Portoghesi
Domenico Porzio
Umberto Pozzana
Emilio Pozzi
Silvio Pozzi
Claudio Pozzoli
Serafino Pozzoni
Pasquale Prunas
Silvio Puccio
Giulia Putotto
Franco Quadri
Massimo Quaini
Sofia Quaroni
Guido Quazza
Folco Quilici
Giovanni Raboni
Emilia Raineri
Franca Rame
Dino Rausi
Carlo Ravasini
Luciano Redaelli
Enrico Regazzoni
Aloisio Rendi
Nelly Rettmeyer
Enzo Riboni
Tina Riccaldone
Aldo Ricci
Carlo Ripa di
Meana
Vittorio Ripa di
Meana
Angelo Maria
Ripellino
Claudio Risè
Nelo Risi
Giuseppe Riva
Carlo Rivelli
Françoise Marie
Rizzi
Oreste Rizzini
Giulia Rodelli
Luigi Rodelli
Carlo Rognoni
Piero Rognoni
Lalla Romano
Marco Romano
Gabriella Roncali
Guido Roncali
Maria Roncali
Luisa Ronchini
Roberto Ronchini
Alberto Ronelli
Gianluigi Rosa
Carlo Rossella
Giovanna Rosselli
Mario Rossello
Enrico Rossetti
Serena Rossetti
Gaetano Rossi
Orazio Rossi
Pietro Rossi
Ettore Rotelli
Maria Luisa
Rotondi
Irene Rovero
Giovanni Rubino
Maria Ruggieri
Luigi Ruggiu
Marisa Rusconi
Francesco Russo
Luisa Saba
Adele Saccavini
Giancarlo Sacconi
Carlo Salinari
Pietro Salmoiraghi
Alberto Samonà
Giuseppe Samonà
Salvatore Samperi
Carlo Santi
Natalino Sapegno
Carla Sartorello
Sergio Saviane
Angelica Savinio
Ruggero Savinio
Marina Saviotto
Claudio
Scaccabarozzi
Eugenio Scalfari
Nino Scanni
Carlo Scardulla
Luigi Scatturin
Vladimiro
Scatturin
Mario Scialoja
Toti Scialoja
Antonio
Scoccimarro
Gino Scotti
Giuliana Segre
Giorgi
Marialivia Serini
Enzo Siciliano
Luigi Simone
Ulderico Sintini
Mario Soldati
Sergio Solimi
Franco Solinas
Sandro Somarè
Romano Sorella
Libero Sosio
Corrado Sozia
Rosalba
Spagnoletti
Sergio Spina
Mario Spinella
Nadia Spreia
Paolo Spriano
Pasquale Squitieri
Giancarlo
Staffolani
Brunilde Storti
Antonino Suarato
Giuseppe Surrenti
Silvana Tacchio
Manfredo Tafuri
Aldo Tagliaferri
Carlo Taviani
Paolo Taviani
Vittorio Taviani
Marisa Tavola
Wladimir
Tchertkoff
Giorgio Tecce
Rubens Tedeschi
Maria Adele
Teodori
Massimo Teodori
Umberto Terracini
Angela Terzani
Tiziano Terzani
Duccio Tessari
Nazario Sauro
Tiberi
Giovanni Tochet
Rorò Toro
Emanuela
Tortoreto
Fedele Toscani
Oliviero Toscani
Marirosa Toscani
Ballo
Rita Trasei
Julienne Travers
Ernesto Treccani
Renato Treccani
Bruno Trentin
Giorgio Trentin
Picci Trentin
Giuseppe Turani
Saverio Tutino
Filomena Uda
Flavia Urbani
Marina Valente
Francesco
Valentini
Giovanna Valeri
De Santis
Aldo Valia
Laura Valia
Bernardo Valli
Nanny Van Velsen
Guido Vanzetti
Paolo Vascon
Luciano Vasconi
Domenica Vasi
Sergio Vazzoler
Emilio Vedova
Maria Venturini
Virgilio Vercelloni
Lea Vergine
Maura Vespini
Carlo Augusto
Viano
Vittorio Vidali
Lucio Villari
Sandro Viola
Giovanni
Virgadaula
Aldo Visalberghi
Massimo Vitali
Corrado Vivanti
Alessandra Volante
Giuseppe Voltolini
Gregor Von
Rezzori
Joachim Von
Schweinichen
Annapaola
Zaccaria
Livio Zanetti
Antonio Zanuso
Francesco Zanuso
Marco Zanuso
Ornella Zanuso
Domenico
Zappettini
Marvi Zappettini
Cesare Zavattini
Giorgio Zecchi
Sandro Zen
Alfredo Zennaro
Bruno Zevi
Alberto Zillocchi
Carla Zillocchi
Mario Zoppelli
Fulvio Zoppi
Nicoletta Zoppi
Giovan Battista
Zorzoli
10
Appendice B
Il linciaggio del commissario Calabresi
Tratto da Mio Marito il commissario Calabresi, ed. Paoline Milano 1990
Il commissario di PS Luigi Calabresi fu accusato della morte dell'anarchico Pinelli, indiziato della strage di piazza
Fontana avvenuta a Milano il 12 dicembre 1969. Il commissario, come stabilì la magistratura, era innocente ma Lotta
Continua e Adriano Sofri, con tutta la sinistra al seguito imbastirono un vergognoso linciaggio, una vera e propria
istigazione all'assassinio...
di Gemma Capra
«Lotta Continua» allo scoperto
Quando sento ancora oggi affermare, da personaggi come Lanfranco Bolis o Marco Boato, che «Calabresi lo volevamo
vivo per sapere come e perché era morto Pinelli», e che «cercavamo le sue denunce, volevamo un processo pubblico»,
devo concludere che queste persone hanno la memoria corta.
Dichiarazioni come queste contengono tra l'altro l'implicita accusa a Gigi di essere stato il responsabile della morte di
Pinelli, quando è stato accertato, al di là di ogni possibile dubbio, che, al momento del fatto, egli neppure si trovava
nella stanza.
Può darsi che Bolis e Boato abbiano voluto davvero un processo a Calabresi, ma in questo caso essi non possono oggi
parlare a nome di Lotta Continua, bensì soltanto a titolo personale. Il processo lo volle la controparte, lo vollero i
giudici che raccolsero la denuncia sottoscritta da Licia Pinelli, ma Lotta Continua ne auspicò, fin dal primo istante, una
cosa soltanto: la morte. Ciò è provato mille volte.
Dopo la serie di vignette dedicate a Gigi, Lotta Continua uscì allo scoperto con un suo ritratto dal titolo Un uomo di
successo. L'articolo riassumeva e faceva proprie le insinuazioni già diffuse con le istanze alla Procura e con gli articoli
dei quotidiani del PSI e del PCI: il segno di agopuntura, l'ambulanza che sarebbe stata chiamata prima della caduta di
Pinelli, il particolare della versione della scarpa rimasta in mano al brigadiere, inventato dall'Avanti!'. Accompagnato
dalla battuta: «A meno che questi anarchici non abbiano addirittura tre piedi: gente strana, d'altronde, da cui ci si può
aspettare qualsiasi cosa». Tutte queste falsità venivano naturalmente presentate come verità assolute. Di loro iniziativa, i
redattori di Lotta Continua aggiungevano una novità che, fino a quel momento, era stata anticipata, ma soltanto
marginalmente, da l'Unità: l'appartenenza di Gigi alla CIA, la sua «formazione» negli Stati Uniti, dove mio marito non
si era mai recato, i servigi che egli avrebbe reso «al generale Edwin A. Walker, uomo di Barry Goldwater». Il tutto
condito con due fotografie: una di Gigi e una dell'attore Gianmaria Volente, protagonista del film Un cittadino al di
sopra di ogni sospetto. E la dicitura: «Due commissari: uno ha già confessato».
Fu l'articolo per il quale Gigi presentò la sua prima querela per diffamazione. La risposta di Lotta Continua non si fece
attendere. Nel numero del 14 maggio 1970, sotto il titolo: Gli assassini di Pinelli escono allo scoperto — La querela del
commissario finestra contro LC —- CALABRESI, SEI TU L'ACCUSATO, si poteva leggere: «Le nostre armi sono altre,
più difficili, più faticose, più pericolose, ma infinitamente più efficaci. E l'organizzazione della forza e dell'autonomia
del proletariato che farà giustizia di tutti i suoi nemici. Dell'assassinio di Pinelli abbiamo detto a chiare lettere che il
proletariato sa chi sono i responsabili e saprà fare vendetta della sua morte».
Ben presto questo lugubre auspicio divenne volontà esplicita, minaccia inequivocabile urlata a squarciagola nelle
assemblee e nelle piazze, promessa scritta e ossessivamente ripetuta sul giornale del movimento.
«Questo marine dalla finestra facile», scrive Lotta Continua il 6 giugno 1970 «dovrà rispondere di tutto. Gli siamo alle
costole, ormai, ed è inutile che si dibatta come un bufalo inferocito (...) Qualcuno potrebbe esigere la denuncia di
Calabresi per falso in atto pubblico. Noi, che più modestamente di questi nemici del popolo vogliamo la morte...».
Il primo ottobre, nell'imminenza del processo, esce l'articolo dal titolo Pinelli un rivoluzionario, Calabresi un assassino.
L'articolo ripropone dapprima il repertorio delle «torture» ai giovani anarchici, quindi la ormai consueta versione della
morte di Pinelli: «Intorno alla mezzanotte viene spinto giù dalla finestra dopo che un colpo di karaté gli ha procurato
una lesione bulbare». Infine, la più esplicita delle minacce: «Siamo stati troppo teneri con il commissario di PS Luigi
Calabresi. Egli si permette di continuare a vivere tranquillamente, di continuare a fare il suo mestiere di poliziotto, di
continuare a perseguitare Ì compagni. Facendo questo, però, si è dovuto scoprire, il suo volto è diventato abituale e
conosciuto per i militanti che hanno imparato ad odiarlo; la sua funzione di sicario è stata denunciata alle masse che
hanno incominciato a conoscere i propri nemici di persona, con nome, cognome e indirizzo. E chiaro a tutti, infatti, che
sarà Luigi Calabresi a dover rispondere pubblicamente del suo delitto contro il proletariato. E il proletariato ha già
emesso la sua sentenza: Calabresi è responsabile dell'assassinio di Pinelli e Calabresi dovrà pagarla cara. (...) È per
questo motivo che nessuno, e tantomeno Calabresi, può credere che quanto diciamo siano facili e velleitarie minacce.
Siamo riusciti a trascinarlo in tribunale, e questo è certamente il pericolo minore per lui, ed è solo l'inizio. Il terreno, la
sede, gli strumenti della giustizia borghese, infatti, sono giustamente del tutto estranei alle nostre esperienze, alle nostre
lotte, alle nostre idee, e non è certamente dalla legge dello Stato capitalista che ci attendiamo la punizione di un suo
servo zelante; non dai giudici "progressisti e onesti"; non da un dibattimento i cui codici, norme e regole, creati dalla
borghesia per controllare gli sfruttati, non possono essere utilizzati dai proletari, ma solo da questi distrutti. (...) Ma
dentro l'aula della prima sezione, dentro il tribunale, attorno ad esso, nelle strade e nelle piazze, II proletariato emetterà
11
il suo verdetto, lo comunicherà, e ancora là, nelle piazze e nelle strade, lo renderà esecutivo. Calabresi ha paura ed
esistono validi motivi perché ne abbia sempre di più. Quando gli sfruttati rompono le catene dell'ideologia borghese e
praticano le proprie idee, la forza dell'esempio diventa dirompente; i proletari di Trento che hanno rifiutato la legalità
borghese per assumere quella rivoluzionaria, hanno compiuto il primo processo e la prima esecuzione. L'imputato e
vittima del secondo è già da tempo designato: un commissario aggiunto di PS, torturatore e assassino: Luigi Calabresi».
E affinché non possano più sussistere dubbi, il giornale aggiunge: «Sappiamo che l'eliminazione di un poliziotto non
libererà gli sfruttati; ma è questo, sicuramente, un momento e una tappa fondamentale dell'assalto del proletariato contro
lo Stato assassino».
«La sentenza esiste già»
Piovono le lettere di approvazione.
Il fascicolo del 30 ottobre pubblica questa lettera di un «compagno carcerato»: «L'articolo su Calabresi mi ha ricordato
che la sentenza esiste già nel cuore di tutti i proletari: manca solo che la si esegua».
Del resto, quale verità poteva attendere, Lotta Continua, da un tribunale di giudici che disprezzava e rifiutava? Sotto il
tìtolo Chi sono i magistrati, ecco che cosa scriveva il 15 ottobre 1970:
«Sono quegli squallidi avanzi dell'umanità che si fanno pagare fior dì quattrini per continuare a condannare i proletari.
Selezionati in base al censo e al ruffianismo, sono scagnozzi chiamati dai padroni ad amministrare la giustizia contro il
popolo. Al processo borghese, ai suoi riti giuridici, alla sua conclusione, siamo e ci sentiamo profondamente estranei.
La chiarezza, la verità sulla morte di Pino Pinelli, del proletario assassinato perché aveva potuto capire troppe cose, non
ce l'aspettiamo sicuro né dal dibattimento, né dalla conclusione, quale che sia, dì quella lugubre farsa, recitata in toga
nel chiuso di un palazzo fascista. La chiarezza, la verità sulla strage di Stato, come ogni chiarezza e verità che conti, non
può trovare spazio alcuno nei palazzi di giustizia, nelle aule dei tribunali borghesi. In quei luoghi, su quel terreno, tale
chiarezza o verità può solo rimanere mortificata, distorta, stravolta in menzogna e complotto».
In un'altra occasione, il 6 giugno, aveva scritto: «Quando si tratta di magistrati e poliziotti, dobbiamo sempre andare
oltre nell' ipotizzarne e prevederne il comportamento criminale». E il 24 novembre ribadirà:
«Questo processo serve solo a dimostrare il totale e assoluto antagonismo tra noi, la nostra pratica, le nostre idee, e la
giustizia dei padroni. A riaffermare ancora una volta che non esiste possibilità alcuna di uso alternativo del tribunale,
che non sia la sua distruzione. La coscienza della nostra assoluta estraneità alle regole della giustizia borghese diventa
sempre più radicale e lucida: è questo il dato formidabile. La nostra volontà di opporre a questo processo la pratica della
giustizia proletaria, di restituire al popolo la possibilità materiale di applicare la sua legge, è anche l'unico modo
concreto di spezzare la criminale catena della strage di Stato».
Perciò, non si chiede giustizia a magistrati che si ritengono incapaci di farla, non sì attende da terzi, per di più sospetti,
il giudizio su un uomo che si è già condannato. Anche se, per avventura, fosse innocente. Come afferma questo brano di
Lotta Continua, pubblicato nel già ricordato articolo del 14 maggio 1970 sotto il titolo: Calabresi, sei tu l'accusato:
«Abbiamo scritto più volte che Calabresi è un assassino. Era giusto farlo e oggi lo ribadiamo con più forza e
convinzione, e non sarà una querela per diffamazione che ce lo impedirà. E questo anche se, per caso, il colpo di karaté
non fosse stato lui a darlo, ma, mettiamo, l'agente Mucilli, o se, per ipotesi, non fosse stato Calabresi a buttare il corpo
di Pinelli dalla finestra, ma, mettiamo, Vito Panessa. È lui l'organizzatore e quindi è lui l'assassino».
La campagna di Lotta Continua contro Gigi prosegue lungo tutto il 1971. Naturalmente, non basterebbe un volume per
documentarla tutta, per cui mi limiterò a qualche cenno. Il 6 maggio 1971, sotto il titolo L'assassino alle corde —
Calabresi tenta il tutto per tutto: «...Calabresi, assassino, stia attento. Il suo nome è uno dei primi della lista». II 25
maggio, dopo la ricusazione del presidente del Tribunale: «Questo processo non ha più storia, se mai ne ha avuta.
L'assassinio di Pinelli è qualcosa di cui i padroni non riescono a controllare gli effetti a catena, al punto da non trovare
più neppure uno straccio di servo disposto a condannarci». Il 26 giugno, in un articolo in difesa di Braschi, Faccioli e
Pella Savia, appena condannati grazie alle prove fornite dalla questura: «La fine di questa storia sarà il proletariato a
scriverla: un tribunale popolare e soprattutto una giuria che non potrà essere assolutamente ricusata. E questo vale
naturalmente anche per Calabresi».
«Ci vuole la calibro 38 special»
Gli attacchi riesplodono dopo la morte di Franco Serantini, un anarchico di Pisa morto in carcere per malore, «a
seguito», scrive Lotta Continua, nel frattempo divenuta quotidiano da mercoledì 12 aprile 1972, «del pestaggio subito
dalla polizia».
Nell'articolo di fondo del 9 maggio: «Così, tutta la capacità di odio e di violenza vigliacca di un pugno di poliziotti,
uomini come Calabresi, si è congiunta con le decisioni e i programmi dei potenti, dei padroni e dei ministri, di quelli
che dosano la quantità di furia omicida dei loro dipendenti a seconda dei tempi». Il titolo dell'articolo di fondo è
esplicito: Da Pinelli a Serantini. In un vistoso riquadro di prima pagina, una frase di Antonio Granisci, dall’'Avanti! del
7 giugno 1910: «Un questurino vale oggi politicamente più di un deputato: un deputato è una finzione giuridica, un
questurino è una parte del potere».
Il 13 maggio (mancano cinque giorni all'uccisione di Gigi), Adriano Sofri tiene a Pisa un comizio per commemorare
Serantini. Le sue parole sono pubblicate in prima pagina nel quotidiano del 16 maggio (manca un giorno all'uccisione di
Gigi):
12
«Siamo venuti a dire che, come il ferroviere anarchico Pinelli non era solo, così lo studente rivoluzionario Serantini,
figlio di nessuno, non è solo... A dire che noi strumentalizziamo Pinelli e Serantini, perché Pinelli e Franco, e ogni altro
compagno rivoluzionario, sono, da vivi e da morti, strumento cosciente e volontario di una lotta collettiva: la lotta per il
comunismo... Al contrario che nel 1921-22, lo squadrismo irregolare è oggi la truppa di rincalzo nei confronti della
truppa decisiva, formata dalla polizia... I militanti, i proletari, si trovano immediatamente contro la violenza squadrista
dell'apparato statale e la individuano come il nemico principale». Tale nemico, «proletari del PCI e proletari delle
organizzazioni extraparlamentari» devono affrontarlo uniti «con tutta la loro forza, politica e militare».
La mattina del delitto, Pinelli e Calabresi scompaiono dalle pagine di Lotta Continua. Negli Stati Uniti hanno sparato a
George Wallace, candidato democratico alla presidenza. Il quotidiano ne da notizia in prima pagina scrivendo:
«George Wallace, bianco, 53 anni, fascista, criminale, assassino, forse sopravviverà. Peccato. Tutti i criminali che
ordinano i bombardamenti dei popoli indocinesi, quando viene toccato uno della loro cricca, un porco dello stesso
porcile, allora piangono e parlano, come il boia Nixon, di violenza. All'attentatore suggeriamo, per la prossima volta, di
non usare una pistola calibro 22. Come dicono i compagni rivoluzionari neri, che lo hanno imparato a proprie spese, per
ammazzare il porco ci vuole la calibro 38 Special».
«Sa, eravamo tutti giovani e scatenati»
Su Panorama del 21 agosto 1988, Enrico Deaglio, ex direttore di Lotta Contìnua e ora redattore di Epoca, ebbe a
dichiarare, in un'intervista: «Sandro Pertini ci prese in simpatia per un nostro titolo sulla sua elezione a presidente della
Repubblica e invitava ogni tanto al Quirinale Sofri e altri di LC».
Su L'Espresso del 4 settembre 1988, Gad Lerner, ex vicedirettore di Lotta Continua e ora redattore di quel settimanale,
scriveva: «Bompressi? L'ultima volta insieme è stato nientemeno che al Quirinale, quando andammo in visita al neo
eletto presidente Pertini»,
Su una facciata di un «45 giri» stampato e venduto da Lotta Continua in 50 mila esemplari era incisa una canzone dal
titolo Scade la ferma, «parole e musica del proletariato». La strofa d'inizio diceva: «Scade la ferma al Quirinale / ogni
sette anni cambia maiale».
Sull'altra facciata era incisa La ballata del Pinelli: «Quella sera a Milano era caldo / Calabresi nervoso fumava. / "Tu
Lograno apri un po' la finestra". / Ad un tratto Pinelli cascò. / "Poche storie, confessa, Pinelli, / c'è Valpreda che ha già
parlato. / È l'autore di questo attentato / ed il complice è certo sei tu". / "Impossibile — grida Pinelli — /un compagno
non può averlo fatto. / E l'autore di questo delitto / tra i padroni bisogna cercar"./ "Stai attento indiziato Pinelli. / Questa
stanza è già piena di fumo. / Se tu insisti apriam la finestra: / quattro piani son duri da far". / Calabresi e tu Guida
assassini / se un compagno avete ammazzato / questa lotta non avete fermato / la vendetta più dura sarà».
Altri «45 giri» stampati e diffusi da Lotta Continua erano «La violenza» («E ho visto le autoblindo / rovesciate e poi
bruciate / tanti e tanti baschi neri / con le teste fracassate»), «L'ora del fucile» («Cosa vuoi di più compagno per capire /
che è suonata l'ora del fucile?»), «Trenta luglio alla Ignis» («Cari compagni quella gran forca / dovremo farla ben
resistente / per impiccarci assieme ai fascisti / il padron Borghi porco fetente»),
II 18 ottobre 1971 il procuratore della Repubblica di Torino citò un gruppo di militanti sorpresi a vendere questi dischi,
e i sei direttori di Lotta Continua, per istigazione a delinquere. Cinquanta intellettuali (artisti, saggisti, romanzieri e
registi) firmarono un manifesto di solidarietà dichiarando di condividere gli incitamenti di Lotta Continua alla lotta
armata contro lo Stato, e facendo capire al procuratore «che un'eventuale condanna avrebbe dovuto passare sul loro
corpo».
Nella lettera aperta al procuratore sì poteva leggere: «Testimoniamo pertanto che, quando i cittadini da lei imputati
affermano che in questa società "l'esercito è strumento del capitalismo, mezzo di repressione delle lotte di classe", noi
Io affermiamo con loro. Quando essi dicono "se è vero che i padroni sono dei ladri, è giusto andarci a riprendere quello
che hanno rubato", lo diciamo con loro. Quando essi gridano "lotta di classe, armiamo le masse", lo gridiamo con loro.
Quando essi si impegnano a "combattere un giorno con le armi in pugno contro lo Stato fino alla liberazione dai padroni
e dallo sfruttamento", ci impegniamo con loro».
Seguivano le firme: Enzo Paci, Giulio A. Maccacaro, Elvio Fachinelli, Lucio Gambi, Marino Barengo, Umberto Eco,
Paolo Portoghesi, Vladimiro Scatturin, Alberto Samonà, Lucio Colletti, Tinto Brass, Paolo Pernici, Giancarlo
Maiorino, Francesco Leonetti, Manfredo Tafuri, Carlo Gregoretti, Giorgio Pecorini, Michele Canonica, Paolo Mieli,
Giuseppe Catalano, Mario Scialoja, Saverio Tutine, Giampaolo Bultrini, Sergio Saviane, Serena Rossetti, Franco
Lefevre, Elio Aloisio, Alfredo Zennaro, Renato Izozzi, Giovan Battista Zorzoli, Cesare Zavattini, Bruno Caruso, Mario
Ceroli, Franco Mulas, Emilie Garroni, Nelo Risi, Valentino Orsini, Giovanni Raboni, Luciano Guardigli, Franco
Mogni, Giulio Carlo Argan, Alessandro Casillin, Domenico Porzio, Giovanni Giolitti, Marmele Fontana, Giuseppe
Samonà, Salvatore Samperi, Pasquale Squitieri, Natalia Ginzburg, Tullio De Mauro, Francesco Valentini.
L'Europeo, che diciassette anni dopo ripescò questo documento, andò a chiedere ad alcuni degli autori perché lo
avessero firmato. Le risposte sono state pubblicate dal settimanale il 12 agosto 1988. Il 17 agosto cosi le ha commentate
il filosofo Saverìo Vertone in un corsivo di prima pagina sul Corriere della Sera: «[Dalle loro risposte] è uscito un
nuovo manifesto, più frammentario e meno curato, ma se possibile ancora più stupefacente dell'altro. Sempre sensitivi,
come quelli dei cani da caccia, questa volta i nasi hanno fiutato un'aria diversa, ed esposti tra una corrente e l'altra si
sono raffreddati. Samperi, ad esempio, ha sommessamente aspirato con una narice e sonoramente starnutito con l'altra:
13
"Ognuno ha diritto di sostenere che bisogna prendere le armi, senza che questo significhi prenderle". Argan ha
arricciato le sue con severità: "Non ricordo più nulla. Firmai il documento, ma non vorrei tornarci sopra". Natalia
Ginzburg sì è turata occhi e bocca: "Non capisco che cosa si vuole da me. Non ho niente da dichiarare". Domenico
Porzio, che all'epoca doveva avere almeno 45 anni, ha fatto una smorfia sbarazzina: "Sa, eravamo tutti giovani e
scatenati". Altri, compuntamente, hanno definito "metafore" (di che?) quelle dichiarazioni, quelle grida, quegli impegni.
Tutti hanno usato il tono di chi abbia nascosto alla dogana tutt'al più una bottiglia di whisky o una stecca di Marlboro.
Samperi ha battuto tutti in acrobazia, rivelando allo stato puro la prudente vocazione italiana a stipulare patti col diavolo
senza rinunciare alla protezione dell'acqua santa. È una tradizione che vanta nobili precedenti e sostanziose ragioni e
che consente di mettere d'accordo coscienza e incoscienza, tasche e vessilli, carriere ben protette e glorie ribelli.
«Siamo abituati a condannare il linguaggio, l'irresponsabilità e l'arroganza della nostra classe politica. Bisogna
riconoscere che l'irresponsabilità e l'arroganza di questo linguaggio potrebbero fare ombra a quelle del peggior
sottosegretario ai Lavori Pubblici. In compenso ci aiutano a capire quel che è successo in un decennio tra i più singolari
della nostra storia, durante il quale nulla è stato vero, non la repressione, non la rivoluzione, non i governi, non
l'opposizione, e però un poderoso schieramento di idee, parole, atteggiamenti non veri ha prodotto pistolettate vere.
L'unica cosa reale degli anni Settanta sono stati purtroppo i morti. Tutto il resto, come dimostra questo documento, era
finto».
14