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ANNO XIV NUMERO 221 - PAG 3 EDITORIALI Obama a mente fredda Predicare il bene ai finanzieri non basta e forse è anche fiato sprecato I l discorso pronunciato dal presidente americano a un anno dallo scoppio della crisi finanziaria è stato accolto con ossequi di prammatica, ma in sostanza è stato deludente. Dalla massima autorità del paese guida dell’occidente era lecito aspettarsi una definizione abbastanza precisa delle cause della crisi, un bilancio sincero della situazione attuale, la prospettazione di una linea e di una visione che permettesse di inquadrare i fenomeni che si sono determinati in una prospettiva che consenta di superarli, mobilitando energie e risorse reali e ben identificate. E’ difficile dire che l’allocuzione di Barack Obama abbia risposto a questi requisiti. L’analisi delle cause della crisi, che avrebbe potuto sviluppare con la massima libertà, visto che ovviamente non poteva essere attribuita alla sua Amministrazione, si è rattrappita in una deprecazione moralistica degli eccessi di avidità del capitalismo, eccessi che per la verità ci sono sempre stati, sia in fasi critiche sia in quelle espansive e delle quali comunque sarebbe interessante definire i limiti e le conseguenze. Sull’attitudine dell’America a crescere a debito, fattore alla base della crisi, si sono innestate bolle speculative di ogni genere, ma se non si capisce in che modo la massi- ma economia mondiale sia caduta nella trappola di una crescita così profondamente drogata, si confondono le conseguenze e gli episodi di sciacallaggio con le cause più profonde e naturalmente più difficili da correggere. E’ abbastanza naturale che da questo difetto di impostazione nell’analisi conseguisse la genericità predicatoria delle terapie annunciate, che consistono prevalentemente in un appello al buon cuore e al senso di responsabilità degli operatori finanziari. E’ del tutto giusto richiamare ciascuno al rispetto dei propri obblighi di coscienza, ma questo spetta alle chiese e alle altre autorità morali. Un’autorità politica, quando dice: “Non vi sarà permesso di ricadere nel peccato”, deve aggiungere le misure che intende adottare per realizzare questo obiettivo. Possono essere misure coercitive o anche solo politiche, ma devono essere atti concreti. Ora il Tesoro americano ha acquisito miliardi di dollari di titoli tossici o di derivati ad alto rischio, in cambio ha partecipazioni più o meno dirette nei maggiori agglomerati finanziari. Può agire e decidere, anche direttamente, se sa quello che vuole. Ma quel che non può fare è limitarsi di predicare il bene ai finanzieri, è fiato sprecato. Il vortice protezionista Statalismi e cambi manipolati sono i propellenti dell’anticoncorrenza L a vertenza fra gli Stati Uniti e la Cina – per il dazio applicato da Washington sugli pneumatici cinesi e per quello applicato da Pechino sulle auto e sul pollame made in Usa – è soltanto uno degli episodi, seppure non secondario, del neoprotezionismo che sta montando nelle varie nazioni del mondo. Secondo un rapporto dell’Organizzazione mondiale del commercio, i governi dei paesi membri hanno approvato di recente 130 misure protezioniste. Fra queste, tariffe doganali e ostacoli non tariffari all’import, sussidi all’export, aiuti di stato, restrizioni all’immigrazione e agli appalti per imprese estere. Il Giappone ad esempio riscrive le norme sanitarie per ostacolare le importazioni di alimentari, che competono con quelli domestici. Il Sud Africa modifica i regolamenti sugli acquisti statali per favorire le imprese locali. La Russia crea una nuova rete di dazi di importazione. Secondo il Global Trade Alert, alla testa dei paesi più protezionisti vi è la Cina con 55 misure, seguita dagli Stati Uniti con 49, dal Giappone con 46 e dalla Germania e dalla Francia con 29 ciascuna. Contrariamente a quel che ci si potrebbe aspettare, il settore industriale più protetto non è quello alimentare, ma quello dei macchinari, con 44 misure contro 22, e fra i settori che sono subito dopo nella graduatoria vi è quello dei servizi finanziari, con 21 provvedimenti, seguito dai prodotti agricoli non alimentari con 20, mentre il tessile ne ha 18 come l’industria dei trasporti, incluse le auto. Ovviamente la causa prossima di questo insorgere – o risorgere – del protezionismo è la crisi economica con i salvataggi dei governi per difendere industrie e occupazione. Ma c’è anche una causa latente indiretta, che è il disordine monetario, dovuto alle manipolazioni dei cambi, i quali mentre facilitano artificiosamente le esportazioni di alcuni paesi, come la Cina, generano reazioni protezioniste nei paesi con cambio di mercato, per i beni che sono più esposti a tale concorrenza e a quelli caratterizzati dalle imprese e dai sindacati più influenti. Insomma, la globalizzazione procede, ma il mercato mondiale nonostante gli sforzi della Wto non è ancora governato dalle leggi della concorrenza. Occorre, purtroppo, prenderne atto. Tremonti il pacificatore Sarà pure un po’ accademica, ma la sua analisi è molto al di sopra del fango N el bailamme che si è scatenato nel Popolo della libertà serve un pacificatore, capace di riportare il confronto sul piano politico, risollevandolo dalla melma in cui sta scivolando, e Giulio Tremonti prova a farlo con argomenti e posizioni non prive di potenziale efficacia. Non si limita a un appello a una duplice tregua – all’interno della maggioranza e con l’opposizione – ma ne delinea le basi possibili. A Gianfranco Fini offre un confronto interno sui temi che ha sollevato, una discussione “dove vince chi convince”, quindi senza una predeterminazione di ruoli maggioritari o di recinti minoritari. A Umberto Bossi ripete che la questione meridionale è “oggi più che mai questione nazionale”, ma con l’aggiunta che la chiave della soluzione sta nel federalismo fiscale. Conferma che il programma di governo è un impegno per tutti e, anche quando vanta la tenuta sostanziale dell’Italia nella crisi internazionale, ha l’accortezza di attribuirla non all’azione specifica del suo ministero, ma a fattori og- gettivi, come la scarsità di debito privato e l’abbondanza di risparmio, e alla coesione sociale che si va rafforzando. Da qui parte per offrire al Pd che uscirà dal congresso un ruolo preminente come un interlocutore responsabile, mentre risponde alla sparata di Pierferdinando Casini sulla nuova maggioranza da fare in “dieci minuti” osservando che un governo basato su quella maggioranza durerebbe altrettanto. Tremonti, insomma, propone una piattaforma politica di pacificazione che considera basata sui dati della realtà italiana. Un po’ semplicisticamente dipinge come ombre della caverna platonica le immagini e gli scenari di conflitti insanabili e di catastrofi imminenti. L’idea che la realtà sia tutta e sola quella che si avverte nelle stanze del governo, mentre al di fuori ci sarebbero “stereotipi, imitazioni della realtà”, è suggestiva ma un po’ troppo accademica. E tuttavia certi vezzi cattedratici non fanno poi così ombra al rango politico sempre più alto del professor Tremonti. IL FOGLIO QUOTIDIANO MERCOLEDÌ 16 SETTEMBRE 2009 Custodia e guerra santa. La conversione di Rifqa agita l’America Roma. “Voi non capite, l’islam è molto diverso da come pensate. Loro devono uccidermi. Se amano Dio più di me, devono fare questo. E io sto combattendo per salvarmi la vita, voi non capite. Non capite”. Cosa ti ha detto tuo padre? “Ha detto che mi avrebbe uccisa. O che mi avrebbe fatta tornare in Sri Lanka dove mi avrebbero messa in un manicomio...”. La supplica di Rifqa Bary sta facendo il giro dell’America. I commentatori repubblicani lo hanno definito “un crimine d’onore che si svolge in slow motion sotto i nostri occhi”. Rifqa Bary, ragazza di 17 anni nativa dell’Ohio, è scappata di casa verso la Florida perché minacciata dalla sua famiglia di religione islamica a causa della conversione al cristianesimo. Rifqa tramite un gruppo di preghiera su Facebook aveva contattato il reverendo Blake Lorenz, il pastore di Orlando della Global Revolution Church. Dalla famiglia di predicatori è poi passata all’affidamento ai servizi sociali. Il giudice deve decidere se Rifqa corre dei pericoli in un eventuale ritorno a casa. Le autorità della Florida si sono ritrovate con un caso molto difficile fra le mani, un conflitto fra il diritto di famiglia e quello di una ragazza che rischia la sua incolumità per quello che ha fatto. Il peccato di apostasia, il più grave nell’islam. Il mondo conservatore si è schierato per la custodia a terzi di Rifqa, che dice: “Se fossi rimasta in Ohio, non sarei viva. Se faccio ritorno lì, sarò morta in una settimana. In 150 generazioni della mia famiglia nessuno aveva conosciuto Gesù. Sono la prima. Immaginate l’onore nell’uccidermi”. I gruppi cristiani si sono intanto mobilitati per “salvare” la ragazza da un eventuale ritorno in Ohio, ne hanno fatto una bandiera della libertà religiosa, e i politici locali chiedono che le autorità guardino prima di tutto alla libertà di culto di Rifqa. Nei giorni scorsi ci sono state manifestazioni di fronte al tribunale. L’avvocato di Bary, John Stemberger, è presidente del Florida Family Policy Council, associato al movimento pro life e cristiano Focus on the Family di James Dobson. Rifqa ha origini nello Sri Lanka, dove domina la giurisprudenza della scuola islamica Shaf’i. Un manuale di questa corrente recita che “quando una persona ha raggiunto la povertà e volontariamente fa apostasia dall’islam, merita di essere uccisa”. Al cristianesimo Rifqa si è avvicinata a Columbus, nell’Ohio, frequentando una chiesa metodista e partecipando ai picchetti pro life davanti alle cliniche abortiste. Il governatore della Florida Charlie Crist ha già ricevuto oltre diecimila e-mail su Rifqa. Il Wall Street Journal scrive che “il timore di un delitto d’onore non è irrazionale”. Neppure negli Stati Uniti. In Texas un anno fa un padre egiziano ha ucciso le due figlie, Amina e Sarah, perché fre- quentavano non musulmani. Le Nazioni Unite stimano che cinquemila donne in tutto il mondo vengano assassinate annualmente in questi delitti d’onore. Il caso di Rifqa è complicato dal fatto che le minacce di morte ricevute, che il sistema legale non riconosce come intimamente legate alla religione islamica, non possono essere provate e sono essenzialmente parola dell’uno contro parola dell’altro. Proprio Amina e Sarah sono indicate da Rifqa come un esempio di quel che le accadrebbe se tornasse nell’Ohio. “Ci sono centinaia di casi come il mio. Amina e Sarah sono state uccise dal padre. Queste non sono minaccie. Questa è la realtà. Questa è la verità. Quanti altri casi volete che accadano? C‘è un caso dopo l’altro. Io sono una tra centinaia. Devono farlo. Voi semplicemente non capite. Devono farlo. Non so cos’altro dire, ma loro lo devono fare. Se volete prove, ci sono centinaia di casi che possono confermare la mia storia”. Obama fa colpire in Somalia il capo dei jihadisti americani Nairobi. Sei elicotteri in formazione, Ah6 Little Birds, minuscoli e maneggevoli, con operatori armati appesi all’esterno. Due si sono abbassati sulla strada per il villaggio somalo di Barawe e hanno sparato contro un’automobile. Gli abitanti del villaggio – nella parte meridionale del paese, è la zona dei campi di addestramento della guerriglia filo al Qaida – hanno visto soldati bianchi prendere due feriti e ripartire subito in volo. Il Pentagono non conferma, con una procedura ormai consolidata: dopotutto si tratta di un raid militare nello spazio di un altro paese. La stessa cosa succede con i bombardamenti missilistici sulle aree di confine del Pakistan, cominciati da Bush, aumentati per ordine dell’Amministrazione Obama e mai riconosciuti. Gli americani hanno ucciso (ma non è confermato) e preso il corpo del kenyota Saleh Ali Saleh Nabhan. L’intelligence seguiva i suoi spostamenti con sicurezza da una settimana, da quando – secondo Fox News – il presidente americano, Barack Obama, ha firmato l’Ordine esecutivo che ha autorizzato l’incursione. Obama ha fatto con Nabhan quello che il predecessore Bush non era riuscito a fare con due lanci di missili Tomahawk da una nave americana al largo della costa somala nell’aprile 2008. Nabhan era un membro chiave di al Qaida in Africa. Nel 2002 ha organizzato l’attacco al resort turistico di Mombasa frequentato da turisti occidentali con un camion bomba, 15 morti, seguito dal lancio di un missile terra aria a ricerca di calore contro un aereo passeggeri della compagnia israeliana El Al in fase di decollo dall’aeroporto della capitale africana. Ci potrebbero essere ragioni anche più impellenti per l’attacco americano, che porta tutti i segni di un’azione del gruppo misto di forze speciali Jscom assegnato a dare la caccia ai capi terroristi. Nabhan è stato prelevato o perché era morto, e in questo caso agli americani serve il dna per confermare l’uccisione – negli anni passati dopo i bombardamenti hanno mandato squadre speciali sul posto, in operazioni rischiosissime –, oppure perché sperano di chiedergli informazioni cruciali. Il kenyota comandava i campi d’addestramento dei volontari occidentali che arrivano in Somalia per combattere il jihad a fianco della milizia locale, al Shabab. Molti di questi volontari arrivano dalla Gran Bretagna, almeno cento dal 2004, e dagli Stati Uniti. In particolare, dalla comunità somala di Minneapolis. “Al Shabab era una milizia paramilitare ignorata da tutti, seduta da qualche parte ad accumulare granate e munizioni – dice Bruce Hoffman, analista antiterrorismo della Georgetown University – ora raggiunge direttamente gli Stati Uniti”. L’Fbi sta indagando sul reclutamento di giovani americani a partire dall’ottobre 2007, sui campi da basket e nelle moschee della città del Minnesota. Incontri segreti con reduci dai campi di battaglia contro l’esercito etiope, video di propaganda “di gran lunga più espliciti e violenti di quelli di al Qaida”, un mediatore di nome Maruf che secondo le famiglie dei reclutati sarebbe morto il mese scorso in combattimento. Secondo la radio pubblica del Minnesota, che segue la storia, sarebbero già sei gli americani morti in Somalia combattendo con al Shabab. L’ultimo, Troy Kastigar, era diverso dagli altri cinque: non era nato da parenti somali, ma da genitori americani, e si era poi convertito all’islam, prima di partire per la Somalia. Naturalmente l’ordine esecutivo è stato firmato da Obama per il timore del percorso inverso: giovani radicalizzati sui campi di battaglia somali, ma con passaporto americano e capaci di muoversi con perfetta naturalezza dentro gli Stati Uniti. Il mese scorso il segretario di stato, Hillary Clinton, ha promesso al governo somalo 40 tonnellate di armi per combattere i guerriglieri. Ma alcune di queste armi sarebbero già finite sul mercato nero e da lì nelle mani di al Shabab. Questa volta Putin e Medvedev litigano per davvero CANDIDATURA CONTRO CANDIDATURA. OLIGARCHI CONTRO OLIGARCHI. IN GIOCO NON C’È SOLO IL CREMLINO 2012 Mosca. Gli abitanti di Yakutsk, una città caserma nel cuore della Siberia, non avrebbero mai pensato di assistere all’inizio di una campagna presidenziale. Ma pare proprio che il capo del Cremlino, Dmitri Medvedev, e il suo potente premier, Vladimir Putin, abbiano scelto questo angolo di Russia per il primo capitolo di una sfida inedita. Medvedev ha detto ieri che non esclude di partecipare alle elezioni del 2012; Putin ha fatto un annuncio identico venerdì pomeriggio e ha aggiunto un particolare decisivo: al prossimo voto “non ci sarà alcun testa a testa” fra i due leader. A quanto sembra, il presidente non ha intenzione di scommettere sulla profezia del premier. Lo scambio avviene in questi giorni al Valdai Club, un meeting pensato per rilanciare l’immagine del paese in occidente. Con Putin e Medvedev ci sono ministri del governo, i rappresentanti dell’economia russa (spesso queste due categorie coincidono) e una cinquantina fra analisti e reporter internazionali. Il settimanale Economist dedica al Club una rubrica speciale, un diario quotidiano scritto dal responsabile del desk Europa. Il Valdai è stato organizzato per la prima volta nel 2004 e si tiene ogni anno in una regione diversa, da Rostov alla Repubblica autonoma del Tatarstan passando per la Cecenia. Questa è la volta di Yakutsk, un vecchio forte di cosacchi che potrebbe diventare presto un centro mondiale dell’energia. Putin è stato il primo a parlare. Lo scorso fine settimana, durante un confronto con la platea di esperti, ha detto che sceglierà il nome del prossimo candidato assieme a Medvedev: analizzeranno la situazione del paese, i loro piani personali e le richieste che arrivano dal partito più grande, Russia Unita, che lui stesso presiede. Putin ha seduto al Cremlino per due mandati consecutivi e soltanto la Costituzione gli ha impedito di correre per il terzo. Nel 2008 gli è succeduto un abile collaboratore, Dmitri Medai ‘Ragazzi della via Pal’ è passato a ‘Super Eroica’ e si è innamorato delD l’avventura, del cameratismo e del mestiere del soldato. Roberto Minini è nato a Buenos Aires, quasi cinquant’anni fa, ma la sua vita l’ha passata sotto le armi. Colonnello del 5° Reggimento Rigel di Casarsa della Delizia, ha descritto la sua prima missione in Somalia dando alle stampa ‘Il pitone e la bambina’. Da anni nel panorama letterario italiano mancano libri che raccontano la guerra attraverso l’esperienza umana, il minimalismo dei sentimenti privati, il senso del dovere e lo spirito di sacrificio, che in tutto il mondo e tutte le epoche contraddistinguono i soldati”. Queste parole della prefazione di Gianandrea Gaiani spiegano la particolarità di questo libro. Il reggimento di Minini è quello dei Mangusta, gli elicotteri d’attacco, che seminano il panico fra i talebani in Afghanistan. L’autore, capace di volare fra i pericoli delle missioni militari, dimostra la stessa abilità con la penna. “Il pitone e la bambina” ci porta alla selvaggia Africa orientale stritolata dalla guerra e allo stesso tempo all’innocenza di un popolo, che oggi più che mai avrebbe bisogno di un robusto intervento internazionale. Nel 1993 Minini è un giovane tenente al suo battesimo del fuoco, che parte verso l’ignoto lasciando a casa una bimba piccola. In una via di mezzo fra diario di guerra e romanzo le sue pagine fanno rivivere la missione Ibis, che non fu vedev, che ha vinto le elezioni con il settanta per cento dei voti. Pochi mesi più tardi, la Duma ha approvato una legge che permette al premier di tornare presidente: se vinces- grandi magazzini di Mosca e rimproveri agli industriali, tacciati di essere avidi e di sfruttare gli operai. Lo scorso weekend, dopo le parole di Putin sulle elezioni del 2012, diver- Il premier vuole tornare presidente sognando di restare fino al 2024. Ma il presidente fa capire al premier che i patti tra loro due, semmai ci sono stati, non valgono più. Due mondi diversi che vengono da San Pietroburgo e si dividono anche su Teheran se le elezioni del 2012, potrebbe restare in carica sino al 2024. Putin e Medvedev vengono da Pietroburgo ma sono cresciuti in due mondi diversi: Putin è il figlio di un marinaio arruolato presto nei servizi segreti, Medvedev è nato nella famiglia di un professore del Politecnico e si è laureato in Giurisprudenza; il primo adora gli Abba, l’altro i Deep Purple; uno è convinto che lo stato debba avere il controllo sull’economia, l’altro appartiene alla scuola liberale. Nel 1999, quando è diventato premier, Putin ha voluto il giovane avvocato nel proprio staff. Lui l’ha seguito nella campagna presidenziale del 2000 ed è stato scelto per occupare una posizione di primo piano nell’agenzia energetica più importante del paese, Gazprom. La parola più frequente alle elezioni del 2008 era “continuità”: Medvedev era considerato l’uomo ideale per proseguire il lavoro di Putin in attesa che il comandante tornasse alla guida della nazione. Il primo anno e mezzo in tandem sono trascorsi serenamente, ma questo non significa che siano mancati gli equivoci. Nel 2008, Putin ha guidato sul campo le operazioni militari contro la Georgia mentre Medvedev, rimasto a Mosca, incontrava i rappresentanti diplomatici europei. In primavera, nel momento peggiore della crisi economica, il premier ha preso il controllo della situazione con un paio di manovre molto popolari (aiuti di stato a banche e fabbriche), visite nei LIBRI Roberto Minini IL PITONE E LA BAMBINA 184 pp., Studio LT2, euro 14 una passeggiata. I soldati italiani venivano regolarmente bersagliati dalle granate di mortaio o dalle fucilate dei cecchini. Basta “confidare nella puntualità che ha sempre caratterizzato i somali nello spararci, ogni sera alla stessa ora” scrive Minini. A Moga, come viene chiamata in gergo la capitale somala, “è dura”. Caldo soffocante, polvere, sistemazione alla buona e pure lo splendido oceano nasconde il pericolo degli squali, che hanno fatto a pezzi più di un militare della missione internazionale battezzata dall’Onu. Per non parlare delle scarse tecnologie dell’epoca. Niente cellulare o Skype che oggi ti permette di fare ciao ciao alla famiglia via Internet. In Somalia ci si inventava di tutto per rubare qualche secondo in più ai dieci minuti alla settimana di telefonate a casa. Con il satellitare che ripete la voce in ritardo rendendo ancora più difficili i momenti di intimità telefonica con i propri cari. si quotidiani russi hanno pubblicato un intervento di Medvedev nel quale si afferma che “ogni leader dovrebbe avere il proprio piano per lo sviluppo del paese”. Non è tut- to. Ieri, il presidente ha rotto con la dottrina Putin sull’Iran, che prevede una posizione morbida nei confronti della Repubblica islamica, accusata dagli Stati Uniti e da Israele di costruire illegalmente armi atomiche. Washington ha chiesto ripetutamente alle Nazioni Unite di alzare le sanzioni nei confronPagina dopo pagina Minini ci fa sentire gli odori forti, vedere i colori caldi e gli umori dell’Africa e dei clan somali regolati da leggi apparentemente assurde, ma antiche. Non è uno dei tanti ufficiali imbalsamati, che hanno paura della propria ombra. Spiega, senza infingimenti, che i nostri in Somalia si sono trovati in mezzo a una guerra. Ieri, come oggi in Afghanistan, mascherata da missione di pace in nome del politicamente corretto. Il giovane ufficiale ha visto la Somalia dall’alto: “Ci si può abbassare fino a sfiorare la linea degli alberi che segna la strada imperiale e si dipana verso nord toccando gli agglomerati di case che chiamano città come Balad, Jalalaxi, Jowhar, Bulo Burti, Belet Uen”. Dal passato coloniale riappare un vecchio ascaro, con la divisa di allora, che viene adottato come “guardia” all’ambasciata italiana. Della guerra Minini ricorda l’arrivo dei Ranger americani, mandati da Bill Clinton a dare la caccia al generale Aidid. Duri e un po’ arroganti, che nei dedali di Mogadiscio hanno pagato un alto tributo di sangue lasciando sul terreno corpi orribilmente mutilati. Battaglie durissime rese in maniera esemplare dal film “Black Hawk Down”. Anche 15 militari italiani sono caduti in Somalia rientrando in patria avvolti dal Tricolore ed altri hanno subito gravi ferite. Non è un caso che l’ultimo capitolo del libro ha un titolo sentito da tutti i soldati: “Si torna sempre a casa!”. ti degli ayatollah, ma il Cremlino ha spesso negato il proprio sostegno al progetto. “Le sanzioni non sono efficaci nel loro insieme, ma qualche volta devono essere assunte e possono fornire risultati positivi”, ha detto Medvedev. Pochi giorni fa, un fedelissimo di Putin come il ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, aveva usato parole assolutamente opposte. Ora anche la Casa Bianca spera di allargare il consenso internazionale intorno al piano contro l’atomica iraniana. Il club Valdai Al Valdai dicono che Medvedev è più tranquillo e più sicuro di sé rispetto al passato. Governare la Russia non è un lavoro semplice e lo deve essere ancora meno se hai un premier tosto e molto popolare. Secondo i sondaggi del Levada Center, un istituto di ricerca con base a Mosca, la maggior parte del paese è dalla parte di Putin: se le elezioni fossero domani, il presidente sarebbe di nuovo lui. Medvedev ha ancora un paio d’anni per mostrare che le riforme liberali promesse nel 2007 – e non ancora realizzate – contribuiranno al benessere della nazione. Ma deve soprattutto vincere il sostegno dei gruppi di potere che siedono al Cremlino, perché è lì, e non alle urne, che Putin intende affrontare il delfino. Il presidente potrebbe avere qualche vantaggio nei rapporti con alcune società energetiche controllate dallo stato, ma il premier è forte fra i siloviki, gli uomini che rappresentano gli apparati militari. Gli analisti russi credono che le differenze tra i due siano troppo scarse per emergere: l’ipotesi di un confronto è ancora distante. Medvedev ha il solo compito di proseguire sulla strada di Putin, dice Yulia Latynina della radio Echo Moskvy; secondo Lilia Shevtsova del Carnegie Center di Mosca, “questa discussione serve semplicemente a distrarre il paese. Chi partecipa al forum di Valdai avrebbe dovuto chiedere loro che fine ha fatto la riforma economica e quando avremo la pace nel Caucaso”. IL FOGLIO quotidiano ORGANO DELLA CONVENZIONE PER LA GIUSTIZIA Direttore Responsabile: Giuliano Ferrara Vicedirettore Esecutivo: Daniele Bellasio Vicedirettore: Alessandro Giuli Coordinamento: Claudio Cerasa Redazione: Michele Arnese, Annalena Benini, Maurizio Crippa, Stefano Di Michele, Giulio Meotti, Paola Peduzzi, Daniele Raineri, Marianna Rizzini, Christian Rocca, Paolo Rodari, Nicoletta Tiliacos, Vincino. Giuseppe Sottile (responsabile dell’inserto del sabato) Editore: Il Foglio Quotidiano società cooperativa Via Carroccio 12 - 20123 Milano Tel. 02/771295.1 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 Presidente: Giuseppe Spinelli Direttore Generale: Michele Buracchio Redazione Roma: Lungotevere Raffaello Sanzio 8/c 00153 Roma - Tel. 06.589090.1 - Fax 06.58335499 Registrazione Tribunale di Milano n. 611 del 7/12/1995 Telestampa Centro Italia srl - Loc. 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