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ANNO XIV NUMERO 221 - PAG 3
EDITORIALI
Obama a mente fredda
Predicare il bene ai finanzieri non basta e forse è anche fiato sprecato
I
l discorso pronunciato dal presidente
americano a un anno dallo scoppio
della crisi finanziaria è stato accolto
con ossequi di prammatica, ma in sostanza è stato deludente. Dalla massima
autorità del paese guida dell’occidente
era lecito aspettarsi una definizione abbastanza precisa delle cause della crisi,
un bilancio sincero della situazione attuale, la prospettazione di una linea e di
una visione che permettesse di inquadrare i fenomeni che si sono determinati in una prospettiva che consenta di
superarli, mobilitando energie e risorse
reali e ben identificate. E’ difficile dire
che l’allocuzione di Barack Obama abbia risposto a questi requisiti. L’analisi
delle cause della crisi, che avrebbe potuto sviluppare con la massima libertà,
visto che ovviamente non poteva essere
attribuita alla sua Amministrazione, si
è rattrappita in una deprecazione moralistica degli eccessi di avidità del capitalismo, eccessi che per la verità ci sono sempre stati, sia in fasi critiche sia in
quelle espansive e delle quali comunque sarebbe interessante definire i limiti e le conseguenze. Sull’attitudine
dell’America a crescere a debito, fattore alla base della crisi, si sono innestate bolle speculative di ogni genere, ma
se non si capisce in che modo la massi-
ma economia mondiale sia caduta nella
trappola di una crescita così profondamente drogata, si confondono le conseguenze e gli episodi di sciacallaggio con
le cause più profonde e naturalmente
più difficili da correggere.
E’ abbastanza naturale che da questo difetto di impostazione nell’analisi
conseguisse la genericità predicatoria
delle terapie annunciate, che consistono prevalentemente in un appello al
buon cuore e al senso di responsabilità
degli operatori finanziari. E’ del tutto
giusto richiamare ciascuno al rispetto
dei propri obblighi di coscienza, ma
questo spetta alle chiese e alle altre autorità morali. Un’autorità politica,
quando dice: “Non vi sarà permesso di
ricadere nel peccato”, deve aggiungere
le misure che intende adottare per realizzare questo obiettivo. Possono essere
misure coercitive o anche solo politiche, ma devono essere atti concreti. Ora
il Tesoro americano ha acquisito miliardi di dollari di titoli tossici o di derivati ad alto rischio, in cambio ha partecipazioni più o meno dirette nei maggiori agglomerati finanziari. Può agire
e decidere, anche direttamente, se sa
quello che vuole. Ma quel che non può
fare è limitarsi di predicare il bene ai
finanzieri, è fiato sprecato.
Il vortice protezionista
Statalismi e cambi manipolati sono i propellenti dell’anticoncorrenza
L
a vertenza fra gli Stati Uniti e la Cina – per il dazio applicato da Washington sugli pneumatici cinesi e per
quello applicato da Pechino sulle auto e
sul pollame made in Usa – è soltanto
uno degli episodi, seppure non secondario, del neoprotezionismo che sta montando nelle varie nazioni del mondo. Secondo un rapporto dell’Organizzazione
mondiale del commercio, i governi dei
paesi membri hanno approvato di recente 130 misure protezioniste. Fra queste, tariffe doganali e ostacoli non tariffari all’import, sussidi all’export, aiuti di
stato, restrizioni all’immigrazione e agli
appalti per imprese estere. Il Giappone
ad esempio riscrive le norme sanitarie
per ostacolare le importazioni di alimentari, che competono con quelli domestici. Il Sud Africa modifica i regolamenti sugli acquisti statali per favorire
le imprese locali. La Russia crea una
nuova rete di dazi di importazione.
Secondo il Global Trade Alert, alla
testa dei paesi più protezionisti vi è la
Cina con 55 misure, seguita dagli Stati
Uniti con 49, dal Giappone con 46 e dalla Germania e dalla Francia con 29 ciascuna. Contrariamente a quel che ci si
potrebbe aspettare, il settore industriale più protetto non è quello alimentare,
ma quello dei macchinari, con 44 misure contro 22, e fra i settori che sono subito dopo nella graduatoria vi è quello
dei servizi finanziari, con 21 provvedimenti, seguito dai prodotti agricoli non
alimentari con 20, mentre il tessile ne
ha 18 come l’industria dei trasporti, incluse le auto. Ovviamente la causa prossima di questo insorgere – o risorgere –
del protezionismo è la crisi economica
con i salvataggi dei governi per difendere industrie e occupazione. Ma c’è anche una causa latente indiretta, che è il
disordine monetario, dovuto alle manipolazioni dei cambi, i quali mentre facilitano artificiosamente le esportazioni di alcuni paesi, come la Cina, generano reazioni protezioniste nei paesi
con cambio di mercato, per i beni che
sono più esposti a tale concorrenza e a
quelli caratterizzati dalle imprese e dai
sindacati più influenti.
Insomma, la globalizzazione procede,
ma il mercato mondiale nonostante gli
sforzi della Wto non è ancora governato
dalle leggi della concorrenza. Occorre,
purtroppo, prenderne atto.
Tremonti il pacificatore
Sarà pure un po’ accademica, ma la sua analisi è molto al di sopra del fango
N
el bailamme che si è scatenato nel
Popolo della libertà serve un pacificatore, capace di riportare il confronto sul piano politico, risollevandolo dalla melma in cui sta scivolando, e
Giulio Tremonti prova a farlo con argomenti e posizioni non prive di potenziale efficacia. Non si limita a un
appello a una duplice tregua – all’interno della maggioranza e con l’opposizione – ma ne delinea le basi possibili. A Gianfranco Fini offre un confronto interno sui temi che ha sollevato,
una discussione “dove vince chi convince”, quindi senza una predeterminazione di ruoli maggioritari o di recinti minoritari. A Umberto Bossi ripete che la questione meridionale è “oggi più che mai questione nazionale”,
ma con l’aggiunta che la chiave della
soluzione sta nel federalismo fiscale.
Conferma che il programma di governo
è un impegno per tutti e, anche quando
vanta la tenuta sostanziale dell’Italia
nella crisi internazionale, ha l’accortezza di attribuirla non all’azione specifica del suo ministero, ma a fattori og-
gettivi, come la scarsità di debito privato e l’abbondanza di risparmio, e alla coesione sociale che si va rafforzando. Da qui parte per offrire al Pd che
uscirà dal congresso un ruolo preminente come un interlocutore responsabile, mentre risponde alla sparata di
Pierferdinando Casini sulla nuova
maggioranza da fare in “dieci minuti”
osservando che un governo basato su
quella maggioranza durerebbe altrettanto. Tremonti, insomma, propone
una piattaforma politica di pacificazione che considera basata sui dati della
realtà italiana. Un po’ semplicisticamente dipinge come ombre della caverna platonica le immagini e gli scenari di conflitti insanabili e di catastrofi imminenti. L’idea che la realtà
sia tutta e sola quella che si avverte
nelle stanze del governo, mentre al di
fuori ci sarebbero “stereotipi, imitazioni della realtà”, è suggestiva ma un
po’ troppo accademica. E tuttavia certi
vezzi cattedratici non fanno poi così
ombra al rango politico sempre più alto del professor Tremonti.
IL FOGLIO QUOTIDIANO
MERCOLEDÌ 16 SETTEMBRE 2009
Custodia e guerra santa. La conversione di Rifqa agita l’America
Roma. “Voi non capite, l’islam è molto
diverso da come pensate. Loro devono uccidermi. Se amano Dio più di me, devono
fare questo. E io sto combattendo per salvarmi la vita, voi non capite. Non capite”.
Cosa ti ha detto tuo padre? “Ha detto che
mi avrebbe uccisa. O che mi avrebbe fatta tornare in Sri Lanka dove mi avrebbero messa in un manicomio...”. La supplica
di Rifqa Bary sta facendo il giro dell’America. I commentatori repubblicani lo
hanno definito “un crimine d’onore che si
svolge in slow motion sotto i nostri occhi”.
Rifqa Bary, ragazza di 17 anni nativa
dell’Ohio, è scappata di casa verso la Florida perché minacciata dalla sua famiglia di religione islamica a causa della
conversione al cristianesimo. Rifqa tramite un gruppo di preghiera su Facebook
aveva contattato il reverendo Blake Lorenz, il pastore di Orlando della Global
Revolution Church. Dalla famiglia di predicatori è poi passata all’affidamento ai
servizi sociali. Il giudice deve decidere se
Rifqa corre dei pericoli in un eventuale
ritorno a casa. Le autorità della Florida
si sono ritrovate con un caso molto difficile fra le mani, un conflitto fra il diritto
di famiglia e quello di una ragazza che rischia la sua incolumità per quello che ha
fatto. Il peccato di apostasia, il più grave
nell’islam.
Il mondo conservatore si è schierato
per la custodia a terzi di Rifqa, che dice:
“Se fossi rimasta in Ohio, non sarei viva.
Se faccio ritorno lì, sarò morta in una settimana. In 150 generazioni della mia famiglia nessuno aveva conosciuto Gesù. Sono la prima. Immaginate l’onore nell’uccidermi”. I gruppi cristiani si sono intanto mobilitati per “salvare” la ragazza da
un eventuale ritorno in Ohio, ne hanno
fatto una bandiera della libertà religiosa,
e i politici locali chiedono che le autorità
guardino prima di tutto alla libertà di culto di Rifqa. Nei giorni scorsi ci sono state
manifestazioni di fronte al tribunale. L’avvocato di Bary, John Stemberger, è presidente del Florida Family Policy Council,
associato al movimento pro life e cristiano Focus on the Family di James Dobson.
Rifqa ha origini nello Sri Lanka, dove
domina la giurisprudenza della scuola
islamica Shaf’i. Un manuale di questa
corrente recita che “quando una persona
ha raggiunto la povertà e volontariamente fa apostasia dall’islam, merita di essere uccisa”. Al cristianesimo Rifqa si è avvicinata a Columbus, nell’Ohio, frequentando una chiesa metodista e partecipando ai picchetti pro life davanti alle cliniche abortiste. Il governatore della Florida
Charlie Crist ha già ricevuto oltre diecimila e-mail su Rifqa.
Il Wall Street Journal scrive che “il timore di un delitto d’onore non è irrazionale”. Neppure negli Stati Uniti. In Texas
un anno fa un padre egiziano ha ucciso le
due figlie, Amina e Sarah, perché fre-
quentavano non musulmani. Le Nazioni
Unite stimano che cinquemila donne in
tutto il mondo vengano assassinate annualmente in questi delitti d’onore. Il caso di Rifqa è complicato dal fatto che le
minacce di morte ricevute, che il sistema
legale non riconosce come intimamente
legate alla religione islamica, non possono essere provate e sono essenzialmente
parola dell’uno contro parola dell’altro.
Proprio Amina e Sarah sono indicate da
Rifqa come un esempio di quel che le accadrebbe se tornasse nell’Ohio. “Ci sono
centinaia di casi come il mio. Amina e Sarah sono state uccise dal padre. Queste
non sono minaccie. Questa è la realtà. Questa è la verità. Quanti altri casi volete che
accadano? C‘è un caso dopo l’altro. Io sono
una tra centinaia. Devono farlo. Voi semplicemente non capite. Devono farlo. Non
so cos’altro dire, ma loro lo devono fare. Se
volete prove, ci sono centinaia di casi che
possono confermare la mia storia”.
Obama fa colpire in Somalia il capo dei jihadisti americani
Nairobi. Sei elicotteri in formazione, Ah6 Little Birds, minuscoli e maneggevoli, con
operatori armati appesi all’esterno. Due si
sono abbassati sulla strada per il villaggio
somalo di Barawe e hanno sparato contro
un’automobile. Gli abitanti del villaggio –
nella parte meridionale del paese, è la zona
dei campi di addestramento della guerriglia filo al Qaida – hanno visto soldati bianchi prendere due feriti e ripartire subito in
volo. Il Pentagono non conferma, con una
procedura ormai consolidata: dopotutto si
tratta di un raid militare nello spazio di un
altro paese. La stessa cosa succede con i
bombardamenti missilistici sulle aree di
confine del Pakistan, cominciati da Bush,
aumentati per ordine dell’Amministrazione
Obama e mai riconosciuti.
Gli americani hanno ucciso (ma non è
confermato) e preso il corpo del kenyota Saleh Ali Saleh Nabhan. L’intelligence seguiva i suoi spostamenti con sicurezza da una
settimana, da quando – secondo Fox News
– il presidente americano, Barack Obama,
ha firmato l’Ordine esecutivo che ha autorizzato l’incursione. Obama ha fatto con
Nabhan quello che il predecessore Bush
non era riuscito a fare con due lanci di missili Tomahawk da una nave americana al
largo della costa somala nell’aprile 2008.
Nabhan era un membro chiave di al Qaida in Africa. Nel 2002 ha organizzato l’attacco al resort turistico di Mombasa frequentato da turisti occidentali con un camion bomba, 15 morti, seguito dal lancio di
un missile terra aria a ricerca di calore contro un aereo passeggeri della compagnia
israeliana El Al in fase di decollo dall’aeroporto della capitale africana. Ci potrebbero
essere ragioni anche più impellenti per l’attacco americano, che porta tutti i segni di
un’azione del gruppo misto di forze speciali Jscom assegnato a dare la caccia ai capi
terroristi. Nabhan è stato prelevato o perché era morto, e in questo caso agli americani serve il dna per confermare l’uccisione
– negli anni passati dopo i bombardamenti
hanno mandato squadre speciali sul posto,
in operazioni rischiosissime –, oppure perché sperano di chiedergli informazioni cruciali. Il kenyota comandava i campi d’addestramento dei volontari occidentali che arrivano in Somalia per combattere il jihad a
fianco della milizia locale, al Shabab. Molti
di questi volontari arrivano dalla Gran Bretagna, almeno cento dal 2004, e dagli Stati
Uniti. In particolare, dalla comunità somala di Minneapolis. “Al Shabab era una milizia paramilitare ignorata da tutti, seduta da
qualche parte ad accumulare granate e munizioni – dice Bruce Hoffman, analista antiterrorismo della Georgetown University –
ora raggiunge direttamente gli Stati Uniti”.
L’Fbi sta indagando sul reclutamento di giovani americani a partire dall’ottobre 2007,
sui campi da basket e nelle moschee della
città del Minnesota. Incontri segreti con reduci dai campi di battaglia contro l’esercito
etiope, video di propaganda “di gran lunga
più espliciti e violenti di quelli di al Qaida”,
un mediatore di nome Maruf che secondo le
famiglie dei reclutati sarebbe morto il mese scorso in combattimento. Secondo la radio pubblica del Minnesota, che segue la
storia, sarebbero già sei gli americani morti in Somalia combattendo con al Shabab.
L’ultimo, Troy Kastigar, era diverso dagli altri cinque: non era nato da parenti somali,
ma da genitori americani, e si era poi convertito all’islam, prima di partire per la Somalia. Naturalmente l’ordine esecutivo è
stato firmato da Obama per il timore del
percorso inverso: giovani radicalizzati sui
campi di battaglia somali, ma con passaporto americano e capaci di muoversi con
perfetta naturalezza dentro gli Stati Uniti.
Il mese scorso il segretario di stato, Hillary Clinton, ha promesso al governo somalo 40 tonnellate di armi per combattere i
guerriglieri. Ma alcune di queste armi sarebbero già finite sul mercato nero e da lì
nelle mani di al Shabab.
Questa volta Putin e Medvedev litigano per davvero
CANDIDATURA CONTRO CANDIDATURA. OLIGARCHI CONTRO OLIGARCHI. IN GIOCO NON C’È SOLO IL CREMLINO 2012
Mosca. Gli abitanti di Yakutsk, una città
caserma nel cuore della Siberia, non avrebbero mai pensato di assistere all’inizio di
una campagna presidenziale. Ma pare proprio che il capo del Cremlino, Dmitri Medvedev, e il suo potente premier, Vladimir
Putin, abbiano scelto questo angolo di Russia per il primo capitolo di una sfida inedita. Medvedev ha detto ieri che non esclude
di partecipare alle elezioni del 2012; Putin
ha fatto un annuncio identico venerdì pomeriggio e ha aggiunto un particolare decisivo: al prossimo voto “non ci sarà alcun testa a testa” fra i due leader. A quanto sembra, il presidente non ha intenzione di
scommettere sulla profezia del premier. Lo
scambio avviene in questi giorni al Valdai
Club, un meeting pensato per rilanciare
l’immagine del paese in occidente. Con Putin e Medvedev ci sono ministri del governo, i rappresentanti dell’economia russa
(spesso queste due categorie coincidono) e
una cinquantina fra analisti e reporter internazionali. Il settimanale Economist dedica al Club una rubrica speciale, un diario
quotidiano scritto dal responsabile del desk Europa. Il Valdai è stato organizzato per
la prima volta nel 2004 e si tiene ogni anno
in una regione diversa, da Rostov alla Repubblica autonoma del Tatarstan passando
per la Cecenia. Questa è la volta di Yakutsk, un vecchio forte di cosacchi che potrebbe diventare presto un centro mondiale
dell’energia.
Putin è stato il primo a parlare. Lo scorso
fine settimana, durante un confronto con la
platea di esperti, ha detto che sceglierà il
nome del prossimo candidato assieme a
Medvedev: analizzeranno la situazione del
paese, i loro piani personali e le richieste
che arrivano dal partito più grande, Russia
Unita, che lui stesso presiede. Putin ha seduto al Cremlino per due mandati consecutivi e soltanto la Costituzione gli ha impedito di correre per il terzo. Nel 2008 gli è succeduto un abile collaboratore, Dmitri Medai ‘Ragazzi della via Pal’ è passato a
‘Super Eroica’ e si è innamorato delD
l’avventura, del cameratismo e del mestiere del soldato. Roberto Minini è nato
a Buenos Aires, quasi cinquant’anni fa,
ma la sua vita l’ha passata sotto le armi.
Colonnello del 5° Reggimento Rigel di Casarsa della Delizia, ha descritto la sua prima missione in Somalia dando alle stampa ‘Il pitone e la bambina’. Da anni nel
panorama letterario italiano mancano libri che raccontano la guerra attraverso
l’esperienza umana, il minimalismo dei
sentimenti privati, il senso del dovere e lo
spirito di sacrificio, che in tutto il mondo
e tutte le epoche contraddistinguono i soldati”. Queste parole della prefazione di
Gianandrea Gaiani spiegano la particolarità di questo libro. Il reggimento di Minini è quello dei Mangusta, gli elicotteri
d’attacco, che seminano il panico fra i talebani in Afghanistan. L’autore, capace di
volare fra i pericoli delle missioni militari, dimostra la stessa abilità con la penna.
“Il pitone e la bambina” ci porta alla
selvaggia Africa orientale stritolata dalla
guerra e allo stesso tempo all’innocenza
di un popolo, che oggi più che mai avrebbe bisogno di un robusto intervento internazionale. Nel 1993 Minini è un giovane
tenente al suo battesimo del fuoco, che
parte verso l’ignoto lasciando a casa una
bimba piccola. In una via di mezzo fra diario di guerra e romanzo le sue pagine fanno rivivere la missione Ibis, che non fu
vedev, che ha vinto le elezioni con il settanta per cento dei voti. Pochi mesi più tardi, la
Duma ha approvato una legge che permette
al premier di tornare presidente: se vinces-
grandi magazzini di Mosca e rimproveri agli
industriali, tacciati di essere avidi e di sfruttare gli operai. Lo scorso weekend, dopo le
parole di Putin sulle elezioni del 2012, diver-
Il premier vuole tornare presidente sognando di restare fino al 2024.
Ma il presidente fa capire al premier che i patti tra loro due, semmai ci
sono stati, non valgono più. Due mondi diversi che vengono da San
Pietroburgo e si dividono anche su Teheran
se le elezioni del 2012, potrebbe restare in
carica sino al 2024.
Putin e Medvedev vengono da Pietroburgo
ma sono cresciuti in due mondi diversi: Putin è il figlio di un marinaio arruolato presto
nei servizi segreti, Medvedev è nato nella famiglia di un professore del Politecnico e si è
laureato in Giurisprudenza; il primo adora
gli Abba, l’altro i Deep Purple; uno è convinto che lo stato debba avere il controllo sull’economia, l’altro appartiene alla scuola liberale. Nel 1999, quando è diventato premier, Putin ha voluto il giovane avvocato nel
proprio staff. Lui l’ha seguito nella campagna presidenziale del 2000 ed è stato scelto
per occupare una posizione di primo piano
nell’agenzia energetica più importante del
paese, Gazprom. La parola più frequente alle elezioni del 2008 era “continuità”: Medvedev era considerato l’uomo ideale per proseguire il lavoro di Putin in attesa che il comandante tornasse alla guida della nazione.
Il primo anno e mezzo in tandem sono trascorsi serenamente, ma questo non significa
che siano mancati gli equivoci. Nel 2008, Putin ha guidato sul campo le operazioni militari contro la Georgia mentre Medvedev, rimasto a Mosca, incontrava i rappresentanti
diplomatici europei. In primavera, nel momento peggiore della crisi economica, il premier ha preso il controllo della situazione
con un paio di manovre molto popolari (aiuti di stato a banche e fabbriche), visite nei
LIBRI
Roberto Minini
IL PITONE E LA BAMBINA
184 pp., Studio LT2, euro 14
una passeggiata. I soldati italiani venivano regolarmente bersagliati dalle granate
di mortaio o dalle fucilate dei cecchini.
Basta “confidare nella puntualità che ha
sempre caratterizzato i somali nello spararci, ogni sera alla stessa ora” scrive Minini. A Moga, come viene chiamata in gergo la capitale somala, “è dura”. Caldo
soffocante, polvere, sistemazione alla buona e pure lo splendido oceano nasconde
il pericolo degli squali, che hanno fatto a
pezzi più di un militare della missione internazionale battezzata dall’Onu.
Per non parlare delle scarse tecnologie
dell’epoca. Niente cellulare o Skype che
oggi ti permette di fare ciao ciao alla famiglia via Internet. In Somalia ci si inventava di tutto per rubare qualche secondo in più ai dieci minuti alla settimana di telefonate a casa. Con il satellitare
che ripete la voce in ritardo rendendo ancora più difficili i momenti di intimità telefonica con i propri cari.
si quotidiani russi hanno pubblicato un intervento di Medvedev nel quale si afferma
che “ogni leader dovrebbe avere il proprio
piano per lo sviluppo del paese”. Non è tut-
to. Ieri, il presidente ha rotto con la dottrina
Putin sull’Iran, che prevede una posizione
morbida nei confronti della Repubblica islamica, accusata dagli Stati Uniti e da Israele
di costruire illegalmente armi atomiche. Washington ha chiesto ripetutamente alle Nazioni Unite di alzare le sanzioni nei confronPagina dopo pagina Minini ci fa sentire
gli odori forti, vedere i colori caldi e gli
umori dell’Africa e dei clan somali regolati da leggi apparentemente assurde, ma
antiche. Non è uno dei tanti ufficiali imbalsamati, che hanno paura della propria
ombra. Spiega, senza infingimenti, che i
nostri in Somalia si sono trovati in mezzo
a una guerra. Ieri, come oggi in Afghanistan, mascherata da missione di pace in
nome del politicamente corretto. Il giovane ufficiale ha visto la Somalia dall’alto:
“Ci si può abbassare fino a sfiorare la linea degli alberi che segna la strada imperiale e si dipana verso nord toccando
gli agglomerati di case che chiamano città
come Balad, Jalalaxi, Jowhar, Bulo Burti,
Belet Uen”. Dal passato coloniale riappare un vecchio ascaro, con la divisa di allora, che viene adottato come “guardia” all’ambasciata italiana. Della guerra Minini
ricorda l’arrivo dei Ranger americani,
mandati da Bill Clinton a dare la caccia al
generale Aidid. Duri e un po’ arroganti,
che nei dedali di Mogadiscio hanno pagato un alto tributo di sangue lasciando
sul terreno corpi orribilmente mutilati.
Battaglie durissime rese in maniera
esemplare dal film “Black Hawk Down”.
Anche 15 militari italiani sono caduti in
Somalia rientrando in patria avvolti dal
Tricolore ed altri hanno subito gravi ferite. Non è un caso che l’ultimo capitolo del
libro ha un titolo sentito da tutti i soldati:
“Si torna sempre a casa!”.
ti degli ayatollah, ma il Cremlino ha spesso
negato il proprio sostegno al progetto. “Le
sanzioni non sono efficaci nel loro insieme,
ma qualche volta devono essere assunte e
possono fornire risultati positivi”, ha detto
Medvedev. Pochi giorni fa, un fedelissimo di
Putin come il ministro degli Esteri, Sergei
Lavrov, aveva usato parole assolutamente opposte. Ora anche la Casa Bianca spera di allargare il consenso internazionale intorno al
piano contro l’atomica iraniana.
Il club Valdai
Al Valdai dicono che Medvedev è più tranquillo e più sicuro di sé rispetto al passato.
Governare la Russia non è un lavoro semplice e lo deve essere ancora meno se hai un
premier tosto e molto popolare. Secondo i
sondaggi del Levada Center, un istituto di ricerca con base a Mosca, la maggior parte del
paese è dalla parte di Putin: se le elezioni
fossero domani, il presidente sarebbe di
nuovo lui. Medvedev ha ancora un paio d’anni per mostrare che le riforme liberali promesse nel 2007 – e non ancora realizzate –
contribuiranno al benessere della nazione.
Ma deve soprattutto vincere il sostegno dei
gruppi di potere che siedono al Cremlino,
perché è lì, e non alle urne, che Putin intende affrontare il delfino. Il presidente potrebbe avere qualche vantaggio nei rapporti
con alcune società energetiche controllate
dallo stato, ma il premier è forte fra i siloviki,
gli uomini che rappresentano gli apparati
militari. Gli analisti russi credono che le differenze tra i due siano troppo scarse per
emergere: l’ipotesi di un confronto è ancora
distante. Medvedev ha il solo compito di proseguire sulla strada di Putin, dice Yulia Latynina della radio Echo Moskvy; secondo Lilia
Shevtsova del Carnegie Center di Mosca,
“questa discussione serve semplicemente a
distrarre il paese. Chi partecipa al forum di
Valdai avrebbe dovuto chiedere loro che fine ha fatto la riforma economica e quando
avremo la pace nel Caucaso”.
IL FOGLIO
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