la globalizzazione
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LA GLOBALIZZAZIONE Introduzione Per affrontare un argomento complesso e ricco di sfaccettature, come quello della globalizzazione, si è ritenuto opportuno partire da una definizione del fenomeno stesso, tracciare un percorso storico per individuarne le origini ed infine soffermarsi sugli aspetti che la globalizzazione maggiormente coinvolge: l’economia, la politica, la società in generale. Una volta completato questo excursus, tratteremo il fenomeno da tre diverse prospettive derivanti da tre diverse locazioni geografiche: la Cina, l’India ed il Medio Oriente. Globalizzazione: cos’è e come nasce Con il termine globalizzazione viene indicato il fenomeno di crescita progressiva delle relazioni e degli scambi a livello mondiale in diversi ambiti, il cui effetto principale è una decisa convergenza economica e culturale tra i Paesi del mondo. Per la prima volta nella storia, l’economia di mercato e il sistema di divisione del lavoro capitalistico, hanno assunto dimensioni mondiali; questo ha portato le grandi aziende ad espandersi oltre i loro confini statali e a trasferire lavoro e stabilimenti dove più conviene. Tutto ciò ha causato un’intensificazione dei rapporti commerciali a livello globale, grazie alla creazione di un enorme mercato basato sul libero-scambio, che ha portato le organizzazioni transnazionali, sia economiche che politiche, ad assumere un’importanza crescente. “Globalizzazione” è un termine di uso recente che nel 1981 veniva utilizzato prevalentemente dagli economisti per riferirsi agli aspetti economici delle relazioni fra popoli e grandi aziende. Il fenomeno, invece, va inquadrato nel contesto dei cambiamenti sociali, tecnologici, politici e delle complesse interazioni su scala mondiale che, a partire dagli partire dagli anni Ottanta, hanno subito una sensibile accelerazione. Nell’immaginario collettivo la globalizzazione è spesso percepita come un fenomeno progressivo sviluppatosi negli ultimi decenni, in realtà il fenomeno può esser fatto risalire a diverso tempo addietro. L'errore di percezione che identifica la globalizzazione con la fine del ventesimo secolo è dovuto al periodo storico cui si fa riferimento. Paragonando il 2000 al 1950 si tende a favorire l'affermazione che la globalizzazione sia un fenomeno esclusivo della fine del ventesimo secolo, dato che l’utilizzo del termine globalizzazione è entrato nel linguaggio comune, anche grazie ai mass media, proprio in questi anni. Ma andando indietro nel tempo, fino al 1870, tale affermazione perde forza. Proprio intorno al 1870, infatti, si verificarono una serie di innovazioni tecnologiche cruciali per la diffusione internazionale del processo di industrializzazione: la costruzione di navi più robuste e veloci, ridusse enormemente i tempi di navigazione; l'apertura del canale di Suez, nel 1869, dimezzò la durata del viaggio da Londra a Bombay; ma soprattutto l'inaugurazione del sevizio telegrafico transatlantico, tra Londra e New York (1866), Melbourne (1872) e Buenos Aires (1874), permise alle comunicazioni transcontinentali di passare dalle settimane ai minuti. La riduzione dei tempi di percorrenza e dei costi, determinò quell’ accelerazione nei flussi commerciali internazionali, nei movimenti di capitale e nei flussi migratori che abbiamo identificato come caratteristiche della globalizzazione. Le peculiarità individuate del fenomeno sono, invece, l’apertura dei mercati, la tecnologia e la politica commerciale. Ovviamente è la tecnologia ad essere considerata una delle caratteristiche più rilevanti della globalizzazione. Globalizzazione, politica e Welfare Ciò che caratterizza l' attuale globalizzazione è la centralità del capitale umano, il confronto non è tanto tra paesi e settori, ma all' interno dei paesi e dei settori. La nuova competizione globale si gioca, soprattutto, sul terreno della disponibilità di lavoratori più o meno qualificati, più o meno mobili, più o meno motivati e disposti a mettersi in gioco per dare forma concreta al cambiamento. Il capitale umano gioca un ruolo centrale insieme alle nuove tecnologie di comunicazione, di un flusso continuo di progresso tecnico. Ma il capitale umano è fatto di persone, prima che di saperi e di competenze. Le persone lavorano meglio se possono vivere in un sistema che le aiuta a gestire e a superare le incertezze e i rischi della vita lavorativa e sociale. In questo quadro, un nesso positivo concretamente lega globalizzazione e Welfare. Globalizzazione e società Con globalizzazione ci si riferisce oltre che allo sviluppo di mercati globali, anche alla diffusione dell'informazione e dei mezzi di comunicazione come internet, che oltrepassano le vecchie frontiere nazionali. Nello stesso campo il termine indica la progressiva diffusione dei notiziari locali su temi internazionali. Il termine è utilizzato anche in ambito culturale ed indica genericamente il fatto che nell'epoca contemporanea ci si trova spesso a rapportarsi con le altre culture, sia a livello individuale a causa di migrazioni stabili, sia nazionale nei rapporti tra gli stati. La globalizzazione può favorire lo sviluppo economico di alcuni stati, in particolare quelli industrializzati e sviluppati, attraverso guadagni e profitti provenienti da un modo di agire: il decentramento. Esso consiste nel spostare le industrie in paesi sottosviluppati, dove la manodopera ha un costo inferiore. Così facendo si offre un lavoro nei paesi più poveri; questo è vero, ma le multinazionali decentrano le loro industrie in paesi in via di sviluppo che non possono così svilupparsi. In ogni caso la globalizzazione "ferisce" le tradizioni popolari, diffondendo alcune feste che appartengono a quelle di un popolo, ad esempio Halloween. Ciò non accade solo per le feste, ma anche per il modo di vestire, soprattutto quello giovanile, il modo di parlare, i cibi consumati, etc. Ad esempio prima degli anni '40 era impossibile trovare in Italia e in Europa persone che indossassero le T-shirt, ora è comunissimo. Oramai anche i cibi che mangiamo sono diffusi in tutto il mondo: la pizza, la cucina e i vini italiani e quelli francesi, il sushi, etc. Globalizzazione economica In campo economico il termine globalizzazione indica la forte integrazione degli scambi commerciali internazionali e la crescente dipendenza dei paesi gli uni dagli altri. L'economista Giancarlo Pallavicini1 asserisce che, anche per effetto della tecnologia informatica, essa può definirsi come "uno straordinario sviluppo delle possibili relazioni, non soltanto economicofinanziarie, pur preminenti, tra le diverse aree del globo, con modalità e tempi tali da far si che ciò che avviene in un'area si ripercuota anche in tempo reale sulle altre aree, pure le più lontane, con esiti che i tradizionali modelli interpretativi dell'economia e della società non sono in grado di valutare correntemente, anche per la simultaneità tra l'azione ed il cambiamento che esso produce". La nuova economia e la globalizzazione hanno portato a una straordinaria diffusione delle nuove tecnologie. Si è trasformato in profondità il modo di lavorare, di consumare, di informarsi nella nostra società. Le gerarchie tradizionali, gli equilibri economici internazionali, si stanno trasformando continuamente ; in questo scenario si aprono nuove problematiche e si impone alla società un aggiornamento urgente di valori e di progetti. La globalizzazione è fonte di varie opportunità, pur restando una delle sfide più importanti che l'Unione europea è chiamata ad affrontare attualmente. Per sfruttare pienamente il potenziale di crescita collegato a tale fenomeno e garantire una ripartizione equa dei suoi vantaggi, l'Unione si adopera per dare attuazione ad un modello di sviluppo sostenibile volto a conciliare crescita economica, coesione sociale e protezione dell'ambiente. Nell’economia mondiale si sta verificando un cambiamento fondamentale. Ci stiamo allontanando da un mondo in cui le economie nazionali erano entità relativamente indipendenti, isolate da barriere al commercio e all’investimento internazionale, dalla distanza, dai fusi orari, dalla lingua e dalle differenze nazionali nelle norme governative, nella cultura e nel sistema commerciale. E ci stiamo muovendo verso un mondo in cui le barriere al commercio e all’investimento internazionale si stanno riducendo, la distanza percepita si sta restringendo grazie al progresso nelle tecnologie di trasporti e delle telecomunicazioni. La cultura materiale sta iniziando a mostrarsi simile in tutto il mondo e l’economie nazionali si stanno unendo in un sistema economico globale interdipendente ed integrato. Il processo attraverso cui sta avvenendo ciò viene comunemente chiamato globalizzazione. In questa economia globale interdipendente, un cittadino statunitense, per andare a lavoro potrebbe guidare un’ auto progettata in Germania, che è stata assemblata in Messico dalla Daimler Chrysler con componenti realizzati negli Stati Uniti ed in Giappone, prodotte con acciaio coreano e gomma malese. Potrebbe aver fatto rifornimento di benzina all’automobile alla stazione di servizio BP, di proprietà di un’impresa multinazionale britannica. La benzina potrebbe essere stata prodotta dal petrolio estratto da un pozzo vicino alle coste dell’Africa da una compagnia petrolifera francese che lo ha trasportato negli Stati Uniti in una nave di proprietà di una linea di navigazione greca. Mentre guida per recarsi a lavoro lo statunitense potrebbe parlare con il suo mediatore di borsa con un telefono cellulare Nokia che è stato progettato in Finlandia ed assemblato in Texas, usando un’insieme di circuiti integrati prodotti a Taiwan e progettati da ingegneri indiani che lavorano per la Texas Instruments. Potrebbe dire al suo mediatore di borsa di acquistare azioni dalla Deutsche Telekom, un’impresa tedesca di telecomunicazioni che da ex monopolio di stato è divenuta un’impresa globale grazie ad un energico direttore generale israeliano. Potrebbe accendere l’autoradio, che è stata prodotta in Malesia da un’impresa giapponese, per ascoltare una popolare canzone hip-hop, composta da uno svedese e cantata in inglese da un gruppo di danesi che ha firmato un contratto di registrazione con un’azienda discografica francese per promuovere il proprio disco negli Stati Uniti. Il guidatore potrebbe fermarsi ad un chiosco gestito da un immigrato coreano e ordinare un cappuccino con latte scremato e biscotti ricoperti di cioccolato. I chicchi di caffé vengono dal Brasile ed il cioccolato dal Perù mentre i biscotti sono stati prodotti localmente usando un’antica ricetta italiana. Alla fine della canzone, un’annunciatrice potrebbe informare l’ascoltare statunitense che le proteste antiglobalizzazione al meeting dei capi di stato Davos, in Svizzera, sono diventate violente. Un manifestante è stato ucciso. L’annunciatrice passa quindi all’argomento successivo, una storia su come la paura di aumenti del tasso di interesse negli Stati Uniti abbia spinto l’indice di borsa giapponese Nikkei ai nuovi minimi dell’anno. Questo è il mondo in cui viviamo. È il mondo dove il volume di beni, servizi ed investimenti che attraversano i confini nazionali è aumentato più velocemente della produzione mondiale per più di mezzo secolo. È un mondo in cui si realizzano ogni giorno 1,2 miliardi di dollari di transazioni in valuta estera, in cui nel 2006 sono stati venduti oltre i confini nazionali 11,76 mila miliardi di beni e 2,71 mila miliardi di servizi. È un mondo dove i simboli della cultura materiale e popolare sono sempre più globali: dalla Coca Cola alla Sony, dai programmi di Mtv ai film della Disney. È un mondo in cui una crisi economica in Asia può causare una recessione negli Stati Uniti. Le imprese possono aumentare i propri ricavi vendendo in tutto il mondo e ridurre i propri costi producendo in paesi in cui l’input chiave, tra cui il lavoro, costano meno. Dal crollo del comunismo, alla fine degli anni Ottanta quasi tutti i paesi si sono ispirati a politiche di liberalismo economico. Le barriere normative sono diminuite, i mercati sono stati liberalizzati permettendo ad imprese sia grandi che piccole, sia di paesi avanzi, sia di paesi in via di sviluppo, di espandersi a livello internazionale. Il braccio delle politiche economiche nazionali è notevolmente piccolo rispetto all’economia di mercato che domina la scena mondiale, provocando la sterilità delle manovre nazionali per controbattere la recessione mondiale. Motivo per cui l’uscita dall’attuale recessione è notevolmente più difficile e più lenta dell’uscita dalla crisi degli anni Trenta, dove le politiche keynesiane furono un forte acceleratore economico dell’economie nazionali. Sicuramente la globalizzazione economica ha portato delle prospettive inimmaginabili fino a qualche decennio fa, ma ha anche reso la struttura economica mondiale molto più fragile. È proprio il caso di dire che il battito d’ali di una farfalla potrebbe provocare un uragano dall’altra parte del mondo (Teoria del caos). CINA I NUMERI DELLA CINA Il settore primario La Cina è il primo produttore mondiale di frumento (86,1 milioni di tonnellate nel 2006), è in testa alla classifica per produzione di riso (167,6 milioni di tonnellate) ed ha anche il primato per le patate (66,8 milioni). Inoltre il Paese possiede oltre 1/3 degli allevamenti mondiali di suini, ed è ai primi posti per la pesca. Il settore secondario La Cina ha attirato sul proprio territorio le industrie dei paesi in cerca di manodopera a buon mercato, diventando così l'officina manifatturiera del mondo, in particolar modo delle imprese asiatiche. Il paese è riuscito a mantenere ritmi sostenuti per un arco di tempo molto lungo e nonostante una popolazione estremamente numerosa. Li Gongyou [16] ha sintetizzato quattro fasi lo sviluppo dell'economia del suo Paese nel secolo che fa seguito alla caduta dell'Impero Cinese (1911). La prima fase, precomunista, fino alla proclamazione della Repubblica Popolare Cinese avvenuta nel 1949, viene definita a economia semicoloniale e semifeudale. La seconda, comunista vera e propria e ispirata alle idee guida della Rivoluzione culturale, fino alle riforme di Deng Xiaoping, è stata caratterizzata dal tentativo di realizzare un'economia pianificata centralizzata (il primo piano quinquennale, di stampo sovietico, fu quello 1953-1957). La terza fase, partita con il programma delle "quattro modernizzazioni" (agricoltura, industria, scienza e tecnica, forze armate), è durata fino metà degli anni Novanta, e coincide con l'apertura a un'economia socialista "quasi di mercato". Infine, la quarta fase sarebbe cominciata nel 1995-1996, con la 5a sessione plenaria del XIV Comitato centrale del Partito comunista cinese, la quale ha stabilito la necessità di due fondamentali trasformazioni socioeconomiche, da realizzare entro l'anno 2010: trasformare il tradizionale sistema pianificato cinese in un sistema di "economia socialista di mercato" (senza quasi, stavolta), funzionante con regole di libero mercato, e trasformare lo sviluppo economico da estensivo a intensivo. Il che, nei termini occidentali ormai largamente mutuati anche in Cina, significa anche puntare implicitamente allo sviluppo sostenibile, o almeno ispirarsi idealmente a questo traguardo. Oggi in Cina sono presenti tutte le maggiori produzioni industriali, sia di base (acciaio, alluminio, petrolio, chimica industriale, cemento) che manifatturiere (mezzi di trasporto, elettronica di consumo, microelettronica, informatica, telefoni, giocattoli, armi, abbigliamento, chimica fine, lavorazione del legno, prodotti alimentari). Inoltre le varie attività vanno incontro ad un rapido ammodernamento ed alla crescente competitività internazionale, specie grazie ai bassi costi di produzione, dovuti in gran parte alla manodopera a basso costo. Attualmente le industrie cinesi sono in mano a grandi aziende private e statale; in gran parte sono situate sulle coste e nelle cosiddette "zone economiche speciali", nel Sud-Ovest. Questo è stato il principale fattore competitivo dell'economia cinese, che ha reso possibile la grande crescita del PIL, dovuto principalmente alle esportazioni, piuttosto che a un vero e proprio sviluppo del mercato interno. I prodotti costruiti e/o assemblati in Cina a basso costo (infatti in Cina non sono ammessi i sindacati), sono ora più presenti nei mercati europei e mondiali, a scapito delle aziende indigene che per ovvie ragioni possono sempre meno confrontarsi con una concorrenza così fatta. Molte di queste sono state costrette a chiudere i propri stabilimenti, o a trasferire la produzione appunto in Cina. La svolta di piazza Tian'anmen Il fenomeno Cina è estremamente interessante perché permette di affrontare gran parte delle questioni fondamentali nel campo dell’economia internazionale e della geopolitica. Il punto di svolta di questo fenomeno si può far risalire all’epoca degli episodi di piazza Tian'anmen a Pechino (aprile-maggio-giugno 1989): in quell’occasione un gruppo di studenti occupò la piazza al grido di “Abbasso la rivoluzione, viva la democrazia, viva la Cina”. Dopo qualche settimana gran parte della popolazione era scesa in piazza, nonostante il regime avesse istituito il coprifuoco e la legge marziale, e per le strade ci fossero già i carri armati. Poi, agli inizi di giugno, l’esercito spara: seguono giorni di lotta nelle strade ma, alla fine, il regime riconquista la piazza, seppur con migliaia di morti e un’immagine internazionale bruciata. Dopo questo episodio, per tutti gli anni ’90 la Cina ha intrapreso a tappe forzate la via del capitalismo attraverso uno sviluppo rapidissimo, supportato sia dai massicci investimenti statali, specialmente nei settori dell’energia e delle materie prime, sia dagli investimenti sempre maggiori da parte delle multinazionali di tutto il mondo, le quali, dall’apertura del mercato cinese vedevano e vedono tuttora un immenso serbatoio di occasioni per produrre a basso costo e con estreme semplificazioni dal lato del mercato del lavoro. Tutto questo è avvenuto e avviene ancora con tassi di incremento del PIL compresi fra il 7 e il 10 per cento e, ad oggi, la Cina è la seconda economia del mondo, avendo già superato Italia, Francia e Regno unito, e anche la Germania. Cina e WTO L’adesione della Cina all’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO)[17] avvenuta nel dicembre del 2001 rappresenta senza dubbio una pietra miliare per la Cina e per il commercio internazionale. La Cina è riuscita a persuadere gli altri Stati membri della WTO che senza la propria partecipazione, la WTO non può essere davvero considerata un’organizzazione mondiale. Tuttavia, questo grande traguardo ha portato con sé conseguenze giuridiche, politiche e sociali di rilevante impatto per il mercato globale, che deve integrare un paese con numerose diversità strutturali, culturali e comportamentali. Fin da prima della sua adesione alla WTO il Governo cinese aveva avviato riforme significative del proprio sistema giuridico interno. Ciò nonostante, molte questioni devono essere ancora affrontate e risolte per garantire un pieno ed effettivo rispetto degli accordi su tutto il territorio della Repubblica Popolare di Cina (RPC). Durante il negoziato per l’adesione alla WTO, erano già chiare le difficoltà del governo cinese a garantire il rispetto del principio di trasparenza e delle condizioni implicite nell’adesione. Era dunque diffusa fra tutti gli Stati membri, Stati Uniti e Unione Europea in primis, la consapevolezza della situazione del mercato e della necessità di una profonda riforma dell’ordinamento giuridico cinese per garantire nel lungo periodo il buon funzionamento del sistema WTO. Come nel caso dell’adesione all’UE dei nuovi dieci Paesi avvenuta nel maggio del 2004, è stata fatta una precisa scelta politica. Si è ritenuto che un’integrazione, anche prematura, della Cina all’interno della WTO, oltre a rafforzare le posizioni della parte più riformista della classe dirigente cinese, avrebbe indirettamente accelerato il processo di riforme in atto, con il pretesto del rispetto degli impegni previsti dall’Organizzazione Mondiale del Commercio. I negoziati duravano da quasi quindici anni e non si è voluto rinviarne nuovamente la conclusione in attesa di ulteriori miglioramenti del contesto interno cinese. Investimenti stranieri Tra i paesi in via di sviluppo la Cina si trova al primo posto per quanto riguarda il flusso degli investimenti esteri, che negli ultimi anni è in costante aumento. La materia degli investimenti stranieri è attualmente regolata dal "Foreign Investment Industrial Guidance Catalogue" e dalle "Directory of Foreign Investment Tentative Provisions" del 1995, i quali suddividono gli investimenti stranieri in incoraggiati, permessi, limitati o vietati. Le forme previste per gli investimeni stranieri sono: 1. la società mista, per la cui costituzione è necessaria l'approvazione del MOFTEC e la registrazione presso l'ufficio SAIC. Per questo tipo di società la legge prevedel'obbligo per il partner straniero di sottoscrivere una quota minima del 25% del capitale dell'impresa. 2. La società cooperativa o contrattuale, assimilabile alla precedente, sebbene più semplice e caratterizzata da maggiore flessibilità operativa e giuridica. 3. La società a capitale interamente straniero, prevista a condizione che la società risulti prevalentemente a vocazione all'export o impieghi tecnologie avanzate. Le agevolazioni previste per gli investitori stranieri sono di varia natura, sebbene prevalentemente di carattere fiscale, mentre particolari agevolazioni esistono per le imprese che si insediano nelle aree economiche speciali. Infrastrutture e Trasporti La rete stradale si estende per una lunghezza complessiva di 1,87 mln/km, sviluppandosi maggiormente lungo la zona costiera e comprende 34.300 km di strade a scorrimento veloce. La rete ferroviaria operativa ha raggiunto 73.100 km di cui 23.700 km di ferrovie a più binari e 18.500 km di ferrovie elettriche. Per quanto riguarda il trasporto marittimo nella costruzione dei porti è stato recentemente ottimizzato il sistema dei cointainer. Tutti i maggiori porti (Hong Kong, Shanghai, Shenzhen, Qingdao, Tianjin, Canton, Xiamen, Ningbo, Dalian) fanno parte del circuito dei primi 50 containers-ports del mondo, dove ogni anno transitano anche più di 100 milioni di tonnellate di merci. Alfabetizzazione Tasso di alfabetizzazione: 98% (sopra i 15 anni; uomini: 99,2%; donne: 96,7%) (stime 2001). Studenti universitari: 1,4%; 18 milioni (2003). LA STORIA DELLA CINA DAL '900 AD OGGI. Il 25 ottobre 1971, l'ONU (Organizzazione della Nazioni Unite) riconosceva finalmente il governo di Pechino come unico e legittimo rappresentante del popolo cinese. Si poneva così fine ad una situazione assurda: dal 1949 una nazione di oltre un miliardo di abitanti su una superficie di 9 Nel 1971 l'ONU riconosce il governo di Pechino come solo rappresentante del popolo cinese milioni e mezzo di kmq, la Repubblica Popolare Cinese, era ufficialmente ignorata, mentre il popolo cinese era rappresentato in seno all'ONU dal governo di Taiwan, o Formosa, o Cina nazionalista, che esercitava la sovranità su venti milioni di abitanti, su un territorio di 36.000 kmq. Era l'atto finale di un dramma iniziato sessant'anni prima, nell'ottobre del 1911, quando l'ormai agonizzante Impero Cinese cadeva sotto i colpi della rivoluzione scatenata dal Kuo-min tang (partito nazionale del popolo), partito cinese fondato nel 1900 da Sun Yat-sen sotto il nome di Associazione per la rigenerazione della Cina, divenuta Lega dell'unione dei rivoluzionari (1908), poi, nel 1911, Kuo-min tang. L'Impero, in continua alternanza tra conservazione di un regime feudale e arci-classista e cauti tentativi di modernizzazione, era in agonia da tempo, e il colpo di grazia era venuto dopo la violenta repressione internazionale della rivolta dei boxers, membri di una società segreta xenofoba, che, nell'indifferenza della corte imperiale, avevano posto sotto assedio diverse legazioni occidentali (giugno 1900). Le truppe di Regno Unito, Francia, Germania, Russia erano intervenute, nell'agosto di quello stesso anno, avevano sconfitto i rivoltosi, saccheggiato Pechino, imponendo poi al governo cinese, complice quanto meno passivo dei boxers, il pagamento di forti indennità, che avevano messo in crisi le già vacillanti finanze cinesi. La morte, nel 1908, dell'imperatrice Tzü Hsi, una donna di ferro che aveva tentato di tenere assieme una costruzione che ormai si andava disgregando, segnò la fine dell'Impero. Il Kuo-min tang, in fondo, uccise un cadavere. Ma qui converrà sostare un attimo e rivolgere lo sguardo al secolo precedente, per meglio capire cos'era la politica occidentale nei confronti della Cina. La violenza xenofoba dei boxers non nasceva dal nulla; la Cina, vista fondamentalmente come un enorme potenziale mercato, aveva subìto nel corso dell'800 la politica cosiddetta delle concessioni: porzioni di territorio cinese, in genere città costiere con vasto entroterra, venivano cedute in concessione alle nazioni occidentali, per i loro traffici di merci, prevedendo sovente anche l'esenzione dal rispetto delle leggi cinesi per i cittadini degli stati titolari delle concessioni. Più che di concessioni, sarebbe corretto parlare di imposizioni, non avendo la Cina, debole militarmente e divisa al suo interno da mille discordie, la forza di opporsi alle potenze europee, alla Russia, al Giappone e agli Stati Uniti. Questo genere di politica che, pur favorendo una modernizzazione della Cina, con l'avvicinamento della stessa all'Occidente, altro non era che una brutale imposizione, in nome della sacra convenienza commerciale, della legge del più forte, ebbe il suo culmine di immoralità nelle guerre scatenate per il commercio dell'oppio. Si potrebbe pensare che una nazione civile muova guerra contro i trafficanti dell'oppio, per stroncare un sordido guadagno e tutelare le popolazioni dall'uso di una droga che non conduce che alla distruzione psichica e fisica. Nossignori: la guerra dell'oppio si fece per tutelare il diritto dei mercanti inglesi ad importare oppio in Cina (importazione peraltro severamente vietata nei territori di Sua Maestà). Nel 1839 il governo di Pechino decise di rimettere in vigore un antico editto che proibiva l'importazione dell'oppio, e il commissario di Canton, Lin Tse-hsü, applicandolo in senso stretto, confiscò e distrusse un carico d'oppio indiano, scaricato da navi inglesi. Londra rispose con l'invio di una spedizione navale che bombardò Canton (1841), occupò facilmente Sciangai e risalì lo Yangtze fino a Nanchino, dove fu firmato nel 1842 un trattato che apriva cinque porti (Treaty Ports, porti del Trattato) al commercio con l'Inghilterra, alla quale veniva anche ceduta l'isola di HongKong, e che fissava i diritti di dogana a non più del 5% del valore della merce. Ma l'avidità del mondo civile non era ancora soddisfatta. Era facile peraltro trovare buoni motivi per altre azioni militari; la difficile comprensione tra due mondi, quello cinese e quello occidentale, creava spesso incidenti. Quando, terminata la guerra di Crimea che aveva tenuto impegnate Inghilterra e Francia, una nave che batteva bandiera inglese, l'Arrow, fu presa a Canton dai Cinesi e un missionario cattolico francese fu ucciso (1856), si offrì a Londra e a Parigi l'occasione per una spedizione congiunta, che permettesse di migliorare le rispettive posizioni in Cina. Canton fu bombardata ancora una volta e i forti di Taku, presso Tianjin, occupati, finché nel 1858 Francesi e Inglesi ottennero la firma di trattati che concedevano loro nuovi privilegi (accordati dai Cinesi, subito dopo, anche alla Russia e agli Stati Uniti). Sorsero però ulteriori difficoltà e un nuovo corpo di spedizione franco- inglese si impadronì di Pechino (1860), che fu incendiata, mentre il palazzo d'Estate veniva saccheggiato per rappresaglia contro la tortura di alcuni prigionieri inglesi. I trattati imposti a Pechino nel 1860 portarono all'apertura di altri undici porti e riconobbero agli stranieri il diritto di insediarvisi senza soggiacere alla legislazione locale e di compiere viaggi. Un'altra attività commerciale occidentale era la tratta dei coolies, lavoratori cinesi reclutati con il sistema che oggi chiameremmo del caporalato, e destinati alle grandi piantagioni americane e australiane. Le condizioni inumane con cui venivano trattati questi uomini, su vere e proprie navi schiaviste, faceva sì che la mortalità in viaggio toccasse punte superiori al 40 per cento. Torniamo quindi alla rivolta dei boxers, nel giugno del 1900. Se il senso morale impedisce di approvare la violenza selvaggia che caratterizzò il comportamento dei rivoltosi, e l'acquiescenza della corte imperiale, riflettiamo però un attimo sull'assoluta immoralità che caratterizzò la politica occidentale. In Cina avevano fatto irruzione le cannoniere occidentali, non per portare la giustizia, ma per equilibrare la bilancia dei pagamenti, oltretutto a tutela di commerci, come quelli dell'oppio o degli schiavi, degni di veri criminali. Di questa realtà non si può non tener conto, se si vuole capire la diffidenza cinese verso l'Occidente, che perdurerà ben oltre quegli anni, caratterizzando la politica cinese di tutto il Novecento. E, ci permettiamo di aggiungere, di questa realtà dobbiamo tenere conto noi occidentali, se vogliamo fare un sano esercizio, poco diffuso, che si chiama esame di coscienza. La caduta dell'Impero e la proclamazione della Repubblica non portò la pace in Cina. Il generale Yüan Shih-k'ai, incaricato dalla Corte di effettuare la repressione dei disordini causati dal Kuo-min tang, consigliò invece l'abdicazione (febbraio 1912), che segnò la fine della dinastia imperiale Manciù. Sun Yat- sen, il fondatore del Kuo-min tang, ritornato dall'esilio alla notizia della rivolta nel dicembre 1911, fu acclamato al suo sbarco a Sciangai presidente provvisorio della repubblica. Confermato in tale carica dall'assemblea riunitasi il 1° gennaio 1912 a Nanchino, accettò con la riserva di rinunciare a favore di Yüan Shih-k'ai (con cui era intanto segretamente in trattative) se questi, che comunque deteneva il controllo di gran parte dell'esercito, si fosse impegnato a sostenere la repubblica. Dopo l'abdicazione dell'imperatore (dichiarata da un consiglio di reggenza, perché l'ultimo imperatore, P'u-yi, era un bimbo di sette anni), Yüan divenne così presidente (marzo 1912). Ma Yuan soprattutto mirava ad accrescere il suo potere personale e nel 1913 sciolse il Kuo-min tang, che nel frattempo gli si era rivoltato contro. Nel 1916 la sua scomparsa fu seguita da una lotta confusa, e disastrosa per il paese, tra i generali (i Signori della guerra, di fatto a capo di eserciti personali) e i dirigenti repubblicani. All'inizio del 1918, la Cina del Sud (fino al fiume Yangtze), controllata dal Kuo-min tang che, ricostituitosi, aveva formato un governo rivale a Canton sotto Sun Yat-sen, si oppose a quella del Nord, che era nelle mani del governo di Pechino. Quest'ultimo, pur reso instabile dai contrasti sorti fra i Signori della Guerra, poteva contare sull'aiuto finanziario del Giappone, che mirava già da tempo a estendere la propria zona d'influenza in Cina, e che in Nel 1918 la Cina del Sud si oppose a quella del Nord che era guidata dal governo di Pechino base alle clausole del trattato di Versailles era subentrato alla Germania nelle concessioni dello Shandong, suscitando la reazione dei delegati cinesi. Nell'ambito della conferenza di Washington (1921-1922) tale problema venne ridiscusso e la Cina ottenne infine la restituzione delle ex concessioni tedesche e il ritiro delle truppe giapponesi dallo Shandong: ciò rappresentava il primo passo verso la graduale abolizione dei privilegi di cui godevano le nazioni straniere nel territorio cinese. Nel Sud, Sun Yat- sen riorganizzò nel 1923 il Kuo-min tang con l'aiuto di consiglieri inviati in Cina dal Politburo sovietico. Gli iscritti al partito comunista cinese, fondato nel 1921 ed entrato nel 1922 nel Comintern, furono ammessi quali membri nel Kuo-min tang. La morte di Sun Yat-sen, nel 1925 provocò però nel suo partito una frattura tra radicali, favorevoli all'unione con i comunisti, e moderati, che miravano invece ad espellere questi ultimi dal Kuo-min tang e in genere dalla direzione della vita nazionale. Fu da questo momento che iniziò l'ascesa di due uomini che avrebbero determinato i successivi destini della Cina: Mao Tse-tung e Chiang Kai-shek. Quest'ultimo, capo dell'ala moderata del Kuomin tang, riuscì a imporre la propria autorità e alla testa dell'esercito nazionalista del Sud iniziò da Canton l'avanzata verso il Nord. In seguito al verificarsi di eccessi contro le popolazioni locali e i residenti stranieri, imputati a estremisti comunisti, durante l'occupazione di alcune città, Chiang Kai-shek la notte del 12 aprile 1927 (dimostrando come sia relativo in politica il significato della parola moderato), fece sopprimere a Sciangai un gran numero di dirigenti comunisti, disorganizzando il loro movimento, e in seguito ruppe con la missione sovietica. L'eliminazione fisica degli esponenti dell'estrema sinistra proseguì sistematicamente anche in altre regioni, e a Nanchino, già occupata nel marzo 1927, venne stabilito il governo nazionalista cinese. Chiang Kaishek marciò quindi verso il Nord ed entrò, nel giugno 1928, a Pechino appena abbandonata dal generale Chang Tso-lin. La feroce repressione aveva costretto i comunisti a rifugiarsi nella regione montuosa del Jianxi, dove nel 1927 costituirono, sotto la guida di Mao Tse-tung, Chou En-lai e Chu-teh, una Repubblica Sovietica Cinese, che poteva contare su un forte esercito a base popolare, intensificando con successo la loro propaganda tra i contadini, attratti dalla prospettiva di una riforma agraria. E qui è opportuno fare un'altra sosta, per chiedersi quale spazio potesse trovare in Cina, paese con una forte carica spirituale, una dottrina materialista come il marxismo. Una rigida suddivisione in classi caratterizzava da sempre la società cinese, e le stesse dottrine di Confucio (che elaborò, si badi bene, una filosofia morale e non una religione), nonché quelle di Mozi (da cui la parola moismo), pure moralista, con un riferimento trascendente puramente strumentale, queste stesse dottrine, dicevamo, predicavano elevati sentimenti umani (fratellanza, giustizia, operosità, senso del dovere ecc.), ma senza porre in discussione l'ordine fondamentale della società. Le virtù morali, insomma, andavano esercitate tenendo ben salde le differenze intellettuali e sociali. La speculazione filosofica era del resto patrimonio di pochi, ed è significativo il fatto che in Cina esistessero, fino alla definitiva instaurazione del regime comunista (1949), due linguaggi, nonché due alfabeti e due letterature. I letterati erano assolutamente staccati dal popolo, e l'opera letteraria o filosofica aveva come finalità l'ammaestramento morale. Il testo scritto in lingua volgare (per usare un'espressione nostra) era considerato opera rozza e non degna di attenzione. In una società prevalentemente agricola, l'uomo del popolo, quasi sempre contadino, non aveva accesso ad attività intellettuali, sia perché gli mancava lo stesso linguaggio, sia perché la sua condizione normale non gliene lasciava il tempo materiale: era quella di assoluto vassallaggio verso la grande proprietà, secondo un collaudato schema di salari bassissimi, che obbligavano il contadino a indebitarsi col padrone, restandogli poi legato per rimborsarlo col lavoro. La condizione operaia nell'attività più diffusa, la filatura e la tessitura della seta, era ancora peggiore. In quest'attività erano impiegate molte donne (circa il 95% della forza lavoro), essendo gli uomini per lo più al lavoro sui campi; ma anche i bambini, già all'età di sei - sette anni, entravano in stabilimento, sottoposti agli stessi ritmi e allo stesso orario degli adulti. Il lavoro si svolgeva in condizioni inumane, al caldo umido, con l'aria impregnata del fetore dei bozzoli sfruttati. Orario di lavoro: dodici ore al giorno. Giorni di lavoro settimanale: sette. Non migliori erano le condizioni nei cotonifici, dove il lavoro prevedeva anche turni di notte (esclusi invece nelle seterie, perché la sottigliezza del filo è tale da divenire invisibile alla luce artificiale). Attenzione: non vi stiamo parlando solo della condizione popolare nel periodo imperiale: i dati impressionanti sopra esposti provengono da un'inchiesta condotta a Shanghay dal colonnello inglese L'Estrange Malone, deputato laburista alla Camera dei Comuni. L'anno dell'inchiesta è il 1926, quattordici anni dopo la fine dell'impero. Insomma, tornando alla domanda che ci ponevamo sopra, la risposta è una sola: lo spazio al marxismo veniva offerto da una consuetudine di sfruttamento totale, che non conobbe variazioni col passaggio dal regime imperiale a quello repubblicano. E' da chiedersi quanto potesse e volesse agire in campo sociale il governo nazionalista. Abbiamo visto che la Cina repubblicana fu da subito travagliata da lotte interne, prima tra Yuan e il Kuo-min tang, poi tra la Cina del Sud e quella del Nord e i Signori della Guerra, poi tra il Kuo-min tang e il partito comunista. In questa situazione torbida si inserì anche il Giappone, le cui mire continentali non si erano mai sopite. Nel 1931, prendendo pretesto da certi incidenti locali, i Giapponesi invasero la Manciuria e ne fecero uno Stato indipendente con il nome di Man-chu-kuo (marzo 1932). Si trattava però in realtà di un protettorato, alla testa del quale figurava nominalmente P'u-yi, ultimo imperatore mancese in Cina. La Cina reagì con il boicottaggio delle merci giapponesi; i Giapponesi attaccarono allora Sciangai (1932), mentre la Società delle Nazioni si mostrava impotente a modificare la situazione. I Giapponesi penetrarono nella Cina del Nord nel 1933, e nel 1935 si infiltrarono fino alla regione di Pechino. In questa condizione di perpetuo disordine il governo nazionalista non poteva certo elaborare una politica sociale, né peraltro questa rientrava nei suoi programmi, perché il Kuo-min tang, con l'affermazione definitiva dell'ala moderata di Chiang Kai-shek, si era fatto piuttosto corifeo di una difesa della tradizione che inevitabilmente si traduceva in una difesa anche di uno status quo sociale. D'altra parte l'uomo del popolo in Cina, imbevuto di quella parte di confucianesimo strumentale alle esigenze delle classi dominanti, difficilmente poteva concepire l'idea della rivolta. Ci volle un uomo della statura e della personalità di Mao Tse-tung per iniziare un processo che avrebbe cambiato radicalmente la faccia della Cina. Nato nel 1893 in una famiglia di contadini relativamente benestanti, Mao, dopo un anno di servizio volontario nell'esercito repubblicano di Sun Yat-sen, si dedicò agli studi di istitutore. Dopo essersi diplomato alla scuola normale di Changsha nel 1918, trascorse un breve soggiorno a Pechino per seguire alcuni corsi universitari e qui ebbe i suoi primi contatti con il nascente movimento marxista L'Armata Rossa della Repubblica Sovietica cinese manteneva stretti legami col mondo contadino cinese e in particolare con l'economista Li Ta-chao e il futuro segretario del Partito comunista Ch'en Tu-hsiu. Partecipò attivamente all'organizzazione del movimento rivoluzionario dello Hunan e nel 1920 fondò i primi circoli marxisti locali, dai quali fu poi delegato al congresso costitutivo del partito comunista cinese, che si tenne a Sciangai nel 1921. Per due anni lavorò come segretario dell'organizzazione del partito dello Hunan, quindi, dal 1923, essendo stato allontanato dallo Hunan, come funzionario del partito a Sciangai. In seguito alla confluenza del PCC nel Kuo-min tang (1924), fu, nel 1926, nominato membro del comitato centrale della nuova organizzazione e rinviato nello Hunan quale esperto dei problemi rurali. L'anno successivo, come vedevamo sopra, iniziò la repressione anticomunista operata da Chiang Kai-shek, cui seguì la proclamazione della Repubblica Sovietica cinese nella regione montuosa del Jianxi. La carica rivoluzionaria del Partito Comunista Cinese, sostenuta da un'elaborazione dottrinaria semplice, operata da Mao per adattare le teorie marxiste, nate in una realtà industriale, al mondo prevalentemente agricolo cinese, era un pericolo troppo grande per la supremazia del Kuo-min tang, e l'eliminazione fisica del maggior numero possibile di comunisti rientrava nell'antica tradizione cinese di guerra totale e feroce. Mentre Chiang Kai-shek basava il suo potere anzitutto sulla forza militare e sulla potenza finanziaria (con l'appoggio determinante dei capitali americani che volevano tutelare i propri interessi in Cina), Mao Tse-tung aveva capito l'enorme importanza della partecipazione popolare. La neo costituita Armata Rossa della Repubblica Sovietica cinese manteneva stretti legami col mondo contadino. I suoi soldati erano addestrati anche per aiutare nel lavoro dei campi, avevano ordine di trattare sempre con gentilezza la popolazione, di non abbandonarsi mai a quei sequestri ingiustificati, saccheggi, abusi, che erano pratica corrente dei militari nei confronti dei civili delle classi più umili. Nel 1933 la guerra tra nazionalisti e comunisti ebbe le sue punte massime. Quest'ultimi furono costretti a una penosa e lunghissima ritirata verso lo Shaanxi, nota come Lunga marcia (19341935). Frattanto però l'ala sinistra del Kuo-min tang si batteva per una conciliazione nazionale in vista della lotta antigiapponese. Chiang Kai-shek, nel 1936, fu attirato a Xi'an in un agguato, organizzato dal capo comunista Chou En-lai, e liberato solo dietro l'impegno di una tregua con i comunisti. Il fronte comune antigiapponese non fu in verità mai totale e compatto e iniziò una strana guerra in cui spesso l'alleato era trattato come nemico, in un gioco di reciproche diffidenze che non poteva che fare le fortune del comune nemico. Nell'agosto 1937 infatti le truppe nipponiche si impossessarono di Pechino, scesero verso sud, sbarcarono a Sciangai e cacciarono da Nanchino Chiang Kai-shek, che si installò ad Hankou. Le milizie comuniste erano ancora esigue, ma la loro azione era molto efficace, soprattutto nella guerriglia, in cui eccellevano. Esse impegnarono le truppe giapponesi rendendole incerte sull'opportunità di addentrarsi ulteriormente nel paese. I Nipponici si limitarono quindi per allora a controllare le coste e le grandi città, le ferrovie e le frontiere della Cina, ma lo scoppio della guerra nel Pacifico contro gli Americani (7 dicembre 1941) assorbì ben presto la maggior parte delle loro energie. La cessazione delle ostilità, con la disfatta del Giappone, tolse l'unico elemento che univa i comunisti del PCC ai nazionalisti del Kuo-min tang. Il generale americano Marshall, inviato in missione straordinaria, tentò allora una formula di compromesso per favorire l'integrazione dei comunisti in una Cina unificata e guidata da Chiang Kai-shek, al quale gli Stati Uniti continuavano a dimostrare fiducia; ma dopo una serie di tregue precarie la guerra civile riprese nel 1946; i nazionalisti persero a poco a poco terreno, soprattutto nella Manciuria, sottratta ai Giapponesi dalle forze sovietiche; i comunisti all'inizio del 1947 si allinearono con l'URSS. Il capo del Kuo-min tang acuì allora la propria intransigenza: sciolse la Lega democratica, di carattere moderato e di origine recente, ma nella quale confluivano sempre più numerosi gli scontenti. Mentre nelle regioni controllate dai nazionalisti regnava l'anarchia, aggravata dalla miseria e da una grave inflazione, Mao Tse-tung propose ai propri seguaci un programma di rinnovamento, pura dottando drastici sistemi. Dopo lunghi e sanguinosi scontri che sconvolsero il paese, le forze comuniste, occupata nell'aprile del 1949 la capitale nazionalista Nanchino, costituirono nell'agosto un governo popolare del Nord- Est e poco dopo quello della Cina del Nord. La partita era ormai perduta per Chiang Kai-shek, che l'8 dicembre 1949 si rifugiò nell'isola di Formosa (Taiwan), stabilendo a Taipei la capitale della Cina nazionalista. Il 1º ottobre 1949, Mao Tse-tung annunciò a Pechino, ridivenuta capitale, la presa del potere da parte del partito comunista e la proclamazione della Repubblica Popolare Cinese. Egli ne fu eletto presidente da un'Assemblea nazionale; Liu Shao-chi, Chu-teh e Sung Ch'ing-ling (vedova di Sun Yat-sen) diventarono vicepresidenti e Chou En-lai presidente del consiglio e ministro degli esteri. Iniziava un'opera radicale di riforma della società, con l'intento di attuare un passaggio morbido al socialismo. La politica agraria, basata inizialmente sull'abolizione del latifondo e la distribuzione delle terre ai contadini, non diede però i frutti sperati, perché le porzioni di terra erano troppo esigue e coltivate ancora con sistemi agricoli primitivi. Iniziò così, nel 1953, la costituzione delle comuni agricole, fattorie collettive nelle quali venne introdotta anche la meccanizzazione dei sistemi di coltura. Ma nel frattempo si erano attuate altre importanti riforme, nel campo del diritto di famiglia (con il riconoscimento della parità dei diritti tra coniugi), come in quello dell'istruzione, con intense campagne contro l'analfabetismo. La costituzione cinese, che sanciva il principio del PCC come guida del paese, prevedeva anche garanzie per le minoranze nazionali e una certa libertà religiosa. Si trattava però di garanzie molto più teoriche che pratiche, perché il regime di Mao accentuava sempre più il proprio carattere autoritario. Hong-Kong e Cina Nazionalista iniziarono così a conoscere il fenomeno dei profughi, non così numerosi come la propaganda anticomunista voleva, ma neanche rappresentati solo da elementi antisociali, come pretendeva il governo di Pechino. Aldilà della disapprovazione, ovvia, per qualsiasi sistema autoritario, non si può però disconoscere che la politica del PCC e di Mao portò ad un enorme miglioramento di vita la gran massa della popolazione cinese; tratteggiavamo, qualche pagina prima, le condizioni miserabili in cui vivevano contadini e operai sotto il regime imperiale, e come queste condizioni non conobbero miglioramenti con la Repubblica diretta dai nazionalisti. Il prezzo da pagare per questo miglioramento era la perdita della libertà: ma era forse libero l'operaio che lavorava (come abbiamo visto) sette giorni la settimana, con un orario di lavoro di dodici ore quotidiane? O era libero il contadino che si trovava in una posizione di dipendenza, vita natural durante, con il padrone delle terre? La grande arretratezza della situazione sociale cinese era stato il vero motore della vittoria comunista; il miglioramento di vita avrebbe però portato, poco a poco, a mettere in discussione il sistema autoritario. Ma non anticipiamo i tempi. Cerchiamo piuttosto di fare ora un rapido excursus sulle vicende interne della nuova realtà politica che abbiamo visto nascere, la Repubblica Popolare Cinese. Inizialmente assistita dall'URSS, che inviò numerosi tecnici, la Cina tendeva però ad una autonomia da Mosca, ponendosi sempre più come paese guida del socialismo reale in Asia e nel Terzo Mondo. L'aiuto "fraterno" dell'URSS peraltro aveva sempre più le caratteristiche di ingerenza. I rapporti con l'URSS si spezzarono definitivamente dopo il 1960, dividendo il blocco comunista in due tronconi, uno in prevalenza europeo stretto attorno a Mosca e uno in prevalenza asiatico, che guardava invece a Pechino. Tale spaccatura in certo modo si istituzionalizzò quando nel luglio 1963 a Mosca una conferenza tra i partiti comunisti sovietico e cinese, convocata per comporre il dissidio, si chiuse senza raggiungere alcun risultato. Né le dimissioni di Mao da presidente della repubblica (pur conservando la carica di presidente del partito) né la caduta di Krusciov (ottobre 1964) Consolidata la supremazia del PCC, la Cina iniziava a conoscere le lotte interne per il potere attenuarono la polemica tra i due centri del movimento comunista, anche perché il contrasto rispondeva, oltretutto, a profondi motivi storici che superavano le contingenze ideologiche. L'accusa di revisionismo, lanciata dai cinesi contro la politica riformista (molto timidamente) di Kruscev nasceva dal fatto che i due paesi vivevano momenti storici diversi. La Cina, che praticamente ricominciava da zero, aveva la necessità di mantenere una tensione interna per far fronte agli impegni assunti nei piani economici, e questo portò all'esasperazione della linea politica del comunismo cinese che si atteggiò a un rigido dogmatismo. L'URSS era ben più avanti della Cina e Kruscev, senza minimamente pensare a riforme in senso democratico, si rendeva conto però che bisognava iniziare ad allentare, seppur con molta prudenza, le mille limitazioni che opprimevano la vita del cittadino sovietico. Ricordavamo in precedenza anche una sfiducia cronica, e storicamente fondata, dei cinesi nei confronti degli europei e degli occidentali in generale. Anche questa sfiducia giocò la sua parte nello spingere la Cina al distacco dall'URSS e alla costruzione di un proprio modello di comunismo. Né si può scordare che l'URSS intratteneva rapporti costanti con gli USA, che si erano resi garanti, anche con cospicui aiuti militari, dell'indipendenza di Taiwan, da loro considerata come unica legittima rappresentante del popolo cinese. Internamente la Cina iniziava a conoscere, consolidata ormai la supremazia del PCC, le lotte interne per il potere. L'appannarsi del mito di Mao in seguito al raggiungimento solo parziale degli obiettivi economici pianificati aveva spinto il timoniere a rinunciare alla carica di presidente della repubblica, mantenendo solo la direzione del partito. Ma non per questo Mao era deciso a cedere il potere effettivo. Proprio la frattura che si manifestò in seno al partito tra i teorici della rivoluzione permanente e i revisionisti fu l'occasione per Mao per scatenare la rivoluzione culturale, che interessò la Cina per il periodo 1966-1969 con conseguenze negli anni Settanta, e che sin dagli inizi assunse aspetti contraddittori; soprattutto non fu chiara la distinzione tra opposte fazioni, in quanto nessuno osava attaccare apertamente Mao. Gli alti funzionari di partito si difendevano ricorrendo alla tattica descritta come "sventolare la bandiera rossa per opporsi alla bandiera rossa" e organizzando gruppi che usavano gli stessi slogan della rivoluzione culturale. Le forze su cui Mao si appoggiò per lanciare questa "rivoluzione nella rivoluzione" furono dapprima gli studenti, poi l'esercito popolare di liberazione. Dapprima furono gli studenti delle maggiori università e anche delle scuole secondarie che, organizzati nel movimento delle guardie rosse e in altri gruppi rivoluzionari, sferrarono pesanti attacchi contro le autorità accademiche e gli alti funzionari di partito e dello Stato "impegnati nella via capitalista". Principali bersagli furono il presidente Liu Shao-chi e i suoi seguaci. Nella prima metà del 1967, quando ai militari venne ordinato di appoggiare la sinistra, la rivoluzione culturale raggiunse il suo momento culminante e ottenne come risultato l'effettiva distruzione dell'apparato del partito. Anche i rappresentanti dell'amministrazione governativa, che faceva capo al primo ministro Chou En-lai, vennero attaccati dall'ultrasinistra. Tuttavia la vittoria dell'ala sinistra estremista, rappresentata dalle guardie rosse alla base e, al vertice, da alcuni alti esponenti politici, fra cui la moglie di Mao, Chiang Ch'ing, fu di breve durata, in quanto essa si dimostrò incapace di proporre un modello di organizzazione alternativa. Nel frattempo la lotta tra fazioni e organizzazioni rivoluzionarie non accennava a placarsi, cosicché all'esercito venne affidato il compito di restaurare l'ordine e di fornire amministratori competenti. Venne lanciato un movimento per l'organizzazione di comitati rivoluzionari, ai quali doveva essere affidato il potere amministrativo. La situazione di caos e di incertezza si prolungò fino all'agosto del 1968, quando Mao in persona espresse la sua insoddisfazione nei confronti degli studenti e approvò la costituzione delle "squadre di lavoro di operai e contadini", che furono mandate nelle università a restaurare l'ordine con l'appoggio dell'esercito. Di conseguenza si accelerò la costituzione dei comitati rivoluzionari, a tutti i livelli, in cui i rappresentanti dell'esercito detenevano posti chiave, e venne lanciata una campagna contro l'ultrasinistra. Nel settembre 1968 Chou En-lai proclamò la "vittoria completa e definitiva della rivoluzione culturale" e nell'ottobre una sessione plenaria del comitato centrale del PCC destituì ufficialmente Liu Shao-chi. La convocazione del 9° congresso del partito comunista, nell'aprile 1969, a undici anni di distanza dal precedente, segnava il trionfo della linea maoista e il riassetto organizzativo del partito. LinPiao, ministro della difesa e protagonista della rivoluzione culturale, venne ufficialmente designato come successore di Mao Tse-tung. La situazione parve essersi stabilizzata a favore dei militari rispetto ai civili. Ma nel 1971 l'improvvisa scomparsa dalla scena politica di Lin Piao e di altri alti esponenti dello stato maggiore, accompagnata da voci di complotto, dimostrava come fosse precario l'equilibrio raggiunto. La lotta tra le diverse fazioni riprese e a essa non fu estranea la nuova politica estera, voluta da Chou En-lai, di apertura all'Occidente, contro il riavvicinamento all'Unione Sovietica, perseguito dai seguaci di Lin Piao. Nell'agosto 1973 il 10° congresso del partito decretò la definitiva condanna postuma di Lin Piao e sancì la vittoria del gruppo che si identificava con il primo ministro Chou En-lai, cioè dei civili rispetto ai militari, del partito ricostituito rispetto all'esercito e alle forze sociali spontaneiste (studenti), di una linea pragmatica e centrista rispetto alla sinistra radicale. Per quanto riguarda la politica estera, dopo una paralisi dell'iniziativa cinese nel periodo della rivoluzione culturale, una nuova fase si aprì nel marzo 1971, quando la squadra cinese di ping-pong, in apertura dei campionati del mondo, invitò i giocatori statunitensi a recarsi in Cina: era il primo segno della distensione fra i due paesi. La ripresa dell'attività diplomatica di Pechino coincideva da un lato con la stabilizzazione interna, dall'altro con gli importanti cambiamenti sopraggiunti nel contesto sia asiatico sia mondiale (progressivo disimpegno americano nel Sud- Est asiatico, rinascita politica e militare del Giappone, minaccia sovietica alle frontiere e pericolo di una collaborazione tecnica ed economica russo-giapponese in Siberia). E arriviamo così all'ammissione della Cina all'ONU (che comportò l'espulsione di Taiwan) il 25 ottobre 1971, che ponevamo come punto di partenza del nostro studio. Il progressivo miglioramento dei rapporti con il Giappone, fino al riconoscimento diplomatico (settembre 1972), il viaggio del presidente americano Nixon in Cina nel febbraio del 1972 furono importanti successi della nuova linea di politica estera di Pechino e portarono al riconoscimento della posizione internazionale di grande potenza assunta ormai dalla Cina. Ci siamo volutamente dilungati sul periodo della rivoluzione culturale perché ci appare come estremamente significativo: il regime di Pechino iniziava a conoscere le lotte interne per il potere. E qui ci si consenta una breve parentesi. Parlavamo in apertura di sessantottini con poche idee, ma ben confuse. E' difficile non sorridere, oggi, rileggendo gli avvenimenti cinesi di quel periodo e riflettendo sul fatto che i manifestanti inneggiavano al comunismo in versione maoista, inteso come il più puro dei puri, esempio di progressismo, mentre all'interno della Cina si scatenava una violenta lotta per il potere che alla fine vedeva la vittoria della parte moderata dell'apparato. Il mito è certo più affascinante, la strada della rivoluzione permanente (anche se resta da capire contro chi vada fatta… ) è più consolante, rispetto al riconoscere che la tradizione delle violente lotte tra i Signori della Guerra non si era ancora spenta, bensì aveva solo cambiato abito e localizzazione. La Cina ha superato indenne la tempesta provocata dalla caduta del Muro di Berlino, ma... Insomma, neanche il socialismo reale riusciva a portare quella concordia che sembra l'eterna grande assente nella storia umana, anche (e tanto meno) quando la si vuole imporre dall'alto. Non desidero però essere frainteso: sarebbe fazioso non riconoscere il cambiamento radicale, in positivo, che la rivoluzione comunista portò nella vita cinese. Ma l'esercizio del potere, una volta risolti i maggiori problemi interni, diventa sempre fonte di lotta tra chi ha preso gusto ad esercitarlo e tra chi ritiene che sia venuto il suo turno, né la Cina ha fatto eccezione a questa regola, della quale la Storia ci fornisce innumerevoli esempi. Potremmo qui esaminare le ulteriori vicissitudini interne cinesi, che si acuirono con la morte di Mao, nel 1976, e il cui denominatore comune fu comunque lo scontro tra le due opposte fazioni del gruppo dirigente, l'una tendente a continuare la politica di apertura all'occidente e di allentamento morbido del regime, l'altra legata ad una stretta ortodossia. Ma credo che tedierei gli amici lettori con un elenco interminabile di nomi, illustri o meno, di uomini succedutisi al potere. Chi volesse nel dettaglio approfondire questi particolari, potrà far riferimento ai testi che indichiamo in bibliografia e, quantomeno per l'ultimo decennio, soprattutto sfogliare giornali su giornali. Ci sembra piuttosto utile fermare la nostra riflessione su un altro aspetto: la Cina ha superato indenne la tempesta che, dalla caduta del Muro di Berlino, ha scosso tutto il mondo comunista, facendolo crollare in pochi mesi. Ovviamente anche in Cina la dissidenza ha iniziato a serpeggiare: nessun popolo sopporta a lungo, esaurita una fase di emergenza rivoluzionaria (che può durare anche diversi anni) un regime dittatoriale. Già nel 1979 si era verificata una fase di leggera apertura verso la dissidenza, peraltro rapidamente frenata quando questa iniziò a prendere le connotazioni di aperta contestazione del sistema politico. La risposta del governo di Pechino fu flessibile: repressione dei dissidenti, ma contemporaneamente emanazione di provvedimenti di legge sull'elezione delle assemblee locali, per dare almeno uno strumento di dialettica, seppur rigidamente inquadrata nel sistema socialista. Successivamente la costituzione del 4 dicembre 1982, la quarta nella storia della Repubblica Popolare Cinese, ha ribadito il predominio del partito comunista sulla società e sullo Stato. La Costituzione ha inoltre confermato che la Cina Popolare è uno Stato socialista di dittatura del proletariato e ha affermato che essa è uno Stato unitario plurinazionale. Nel 1993 è stato inscritto il principio dell'economia socialista di mercato. Quest'ultima è una contraddizione in termini solo apparente: diciamo meglio che è un escamotage per prendere atto di una realtà che è comunque in evoluzione, senza per questo abiurare d'un colpo i principi fondamentali di un sistema. Chi oggi ha rapporti d'affari con la Cina conosce una figura che meno di un decennio fa era inesistente, l'imprenditore cinese, che agisce entro limiti fissati dalla legge e sottoposto a numerosi controlli, ma che comunque è un imprenditore privato che opera in un paese che si proclama, come abbiamo visto, Stato socialista di dittatura del proletariato. Non crediamo che la fedeltà della dirigenza cinese al marxismo-leninismo-pensiero di Mao e la conservazione di un regime comunque dittatoriale siano originate da cecità politica o da testarda ortodossia. Piuttosto vediamo tornare a galla un'antica saggezza, unita ad una sana diffidenza verso il mondo occidentale, quello stesso che diede così belle prove nel XIX secolo, con lo sfruttamento, la guerra dell'oppio, la tratta dei coolies. La Cina è un enorme mercato potenziale e ad essa guarda, con interesse, tutto il mondo. Un allentamento improvviso dei freni, un'apertura totale e immediata alle, pur legittime, richieste di libertà e di democrazia politica, si risolverebbe, con ogni probabilità, in uno sfascio non dissimile da quello che ha travolto il l'URSS e i suoi satelliti, che Gorbacev si illuse di poter frenare, a cui Eltsin diede furibondi colpi di acceleratore. I risultati di questo sfascio sono sotto gli occhi di tutti, con la nascita di nuove ricchezze e nuove miserie regolate principalmente dalla legge della giungla, con un disordine totale che mette a rischio anche le libertà politiche riconquistate. Quando, nel maggio del 1989, abbiamo visto le terribili immagini della rivolta di piazza Tienamen, dove le dimostrazioni studentesche vennero brutalmente schiacciate dai cingoli dei carri armati, nella nostra ottica di occidentali abituati a vivere nella libertà e nel benessere, ci siamo commossi e profondamente indignati. Tuttavia, dopo aver ricordato questa tragedia, vorrei chiudere questo studio, che non ha la pretesa di esaurire argomenti così impegnativi ma piuttosto di fornire spunti di riflessione, con una domanda: cosa poteva fare il governo cinese, se non reprimere quella dissidenza, che comunque metteva in discussione le fondamenta stesse della società? Poteva autoliquidarsi, certamente, e forse sotto un profilo unicamente morale questo sarebbe stato giusto. Ma se la morale non sa confrontarsi con la realtà, non è più al servizio dell'uomo. E allora il quesito finale è questo: era giusto autoliquidarsi e, forse, dare la libertà, ma, di sicuro, consegnare oltre un miliardo di nuovi clienti alla logica spietata e inumana del mercato e del profitto? E' una domanda alla quale è duro e difficile rispondere ma, se vogliamo ragionare seriamente, responsabilmente e scientificamente di storia, non possiamo rifiutare di farcela. CULTURA E SOCIETÀ Per decenni la tendenza generale negli studi sulla Cina contemporanea è stata quella di pensare la Cina, di osservarla e di rappresentarla come un'entita' monolitica e di utilizzare il paradigma della "differenza" nella disperata, e vana, ricerca di un'assolutezza definitoria. Il vento dell'Orientalismo così come quello dell'Occidentalismo hanno costruito l'idea della "Cina" e del cosiddetto "Occidente" come due sistemi di rappresentazione distinti e incomunicabili in quanto dominati da imperativi, prospettive e pregiudizi ideologici, razziali e religiosi, funzionali al mantenimento di un codice binario di visione del mondo. Recentemente, il criterio della "differenza", sia come referente concettuale che come categoria descrittiva, è stato assorbito e sviscerato tanto dagli "Studi post-coloniali" quanto da quelli Culturali: partendo dalle formulazioni di studiosi quali, tra gli altri, Derrida e Lyotard, si è arrivati a riconoscere le enormi differenze tra le modalità di indagine critica dell'Oriente rispetto all'Occidente. Tuttavia, questa nuova visione, se non analizza COME questa "differenza" si è prodotta e COME si configura all'interno dei rispettivi universi epistemologici, rischia di riprodurre un'altra versione della dicotomia proiettiva tra un Oriente creato ad uso e consumo dell'Occidente e il suo alterego. Marie Louise Pratt sostiene che la globalizzazione, così come la democratizzazione e la decolonizzazione, costituisce uno dei tre processi storici che stanno cambiando il nostro modo di studiare la letteratura e la cultura. Nel caso della Cina, la narrativa del "villaggio globale", la cui visione era stata anticipata da Marshall McLuhan negli anni Sessanta, fornisce, a nostro avviso, un interessante campo d'indagine, che consente al contempo di sfatare lo stereotipo della Cina "Impero immobile" e di indagare il terreno dialettico tra le diverse posizioni del Governo cinese e degli intellettuali. 1 - Il Lessico della globalizzazione In Occidente la globalizzazione viene solitamente presentata, da un punto di vista storicogeopolitico, come il nuovo ordine mondiale che ha sostituito il periodo della guerra fredda e, nell'immaginario collettivo, la parola globalizzazione evoca immediatamente tre capisaldi: vittoria del modello capitalista, rapidità della comunicazione tecnologica e internet. A cavallo del XXI secolo, il capitale è divenuto l'icona suprema della globalizzazione e si è diffusa una visione che celebra la crescita degli scambi del capitale globale e l'integrazione di tutti i paesi (ma proprio tutti?) nel commercio internazionale. Sembra che la globalizzazione, con il conseguente corollario dell'onnipresenza e onnipotenza del mercato a livello planetario, abbia reso irrilevante la consistenza degli stati nazionali. Ma è proprio vero che la globalizzazione, che non è solamente un fenomeno economico ma ha assunto sempre più una forte e precisa valenza politica e culturale, comporterebbe una nemesi storica dei governi nazionali e un loro superamento grazie alla costruzione di un'unica e universale identità sovranazionale? L'analisi del discorso sulla globalizzazione in Cina, a partire dalla decostruzione semantica, sembrerebbe indicare esattamente il contrario. In Cina il termine che è stato coniato all'inizio degli anni Novanta per tradurre il concetto di "globalizzazione" è quanqiuhua. Si tratta di un neologismo con un'apparente vaga e forse sinistra risonanza taoista che, ad un'analisi piu' accurata, rivela in realtà una precisa connotazione di stampo confuciano. è un composto di tre caratteri, il primo dei quali significa "tutto (quan)", il secondo "globo terrestre (qiu)", accompagnati dal suffisso finale equivalente all'italiano -zione (hua in cinese). Questo composto sembra fare da contraltare al concetto della "Cina intera", espresso nella lingua cinese come quanzhongguo che significa letteralmente "tutto il Paese di mezzo" ma anche "tutto il centro del mondo (civile)". Quest'analisi lessicale ci riconduce, in maniera inequivocabile, a quello che rappresenta l'altro polo per eccellenza dell'acceso dibattito innescato negli anni Novanta sul tema della globalizzazione: l'idea dell'individualità nazionale che, nel caso della Cina, assume una precisa valenza nei termini di integrità culturale e politica. Ma vediamo innanzitutto la posizione ufficiale: dal 1998 a oggi il Presidente della Repubblica Popolare cinese (nonchè Segretario generale del PCC) Jiang Zemin e il Primo Ministro Zhu Rongji hanno trattato il tema della globalizzazione in numerose occasioni, associando il termine "quanqiuhua" alla controversa questione dell'ingresso della Cina nell'Organizzazione Mondiale per il Commercio (OMC/WTO) e sottolineando la necessità di prepararsi per adeguarsi alla non meglio precisata "nuova situazione". Nei discorsi ufficiali, la globalizzazione è presentata sempre e in ogni caso nell'ambito del programma di "riforme e apertura (gaige kaifang)", iniziato a seguito dello storico III Plenum del dicembre 1978, come se fosse il suo approdo naturale e obbligato. Nel linguaggio ufficiale, il termine globalizzazione sembra essere il degno sostituto dell'ormai obsoleto e logoro "modernizzazione", anche se poi entrambi sembrano poter essere identificati con l'introduzione di capitali stranieri e tecnologie all'avanguardia, considerati necessari per creare una Cina moderna, prospera, forte e, soprattutto, stabile (wending). "L'Occidentalismo" della leadership post-maoista sembra aver sposato la tesi del pensiero economico dominante (ma dominato da Washington) secondo la quale la globalizzazione dei mercati garantirà alle imprese i benefici delle accresciute economie di scala e porterà a un diffuso miglioramenti dei redditi medi. Tuttavia, la globalizzazione é un'arma a doppio taglio soprattutto perché la Cina rimane a tutt'oggi un paese con 1.286.000.000 di abitanti, caratterizzato da un'economia in transizione, che dovrà affrontare nei prossimi anni una serie di sfide di carattere sociale (in primis la crescita della diseguaglianza) e politico (la corruzione innanzitutto) celate, malcelate ormai, dietro le vaghe raccomandazioni di "riforme sistemiche" di tipo puramente economico. 2 - I linguaggi della globalizzazione Gli intellettuali della "nuova sinistra (xin zuopai o xin Maopai)" condannano la globalizzazione associandola a un'idea di capitalismo sfrenato e identificandola, sostanzialmente, con l'occidentalizzazione o, ancor peggio, l'americanizzazione (quanqiuhua jiushi meiguohua).Alcuni di loro, tra i quali emerge Han Yuhai, denunciano quella che definiscono una globalizzazione capitalista che porterà alla restaurazione del capitalismo in Cina, mettendo l'intero paese sotto il controllo delle multinazionali. L'elemento più interessante di questa posizione è che proprio dinanzi alla sfida della globalizzazione questi intellettuali mostrano di condividere una visione liberale che presuppone un rispetto e una pratica concreta dei principi fondamentali della giustizia sociale e della democrazia politica, anche e soprattutto nel campo economico. Questi intellettuali esprimono, in sintonia con le tesi emerse in altre parti del pianeta, una dura condanna di un mondo dominato e controllato dalle oligarchie finanziarie e politiche. "Il consenso di Washington", che vede nella duplice ricetta della presunta riduzione del ruolo dello stato e dell'internazionalizzazione dei liberi mercati la chiave per il superamento delle differenze economiche, sembra un tentativo volontario di trascurare le prove che indicano come la globalizzazione aumenti, anzichè diminuire, il divario tra paesi ricchi e paesi poveri. Wang Hui, editore della rivista Dushu (Studiare), si domanda se sia possibile creare una società moderna in una forma storica che si allontani dal capitalismo o seguire un percorso di modernizzazione che possa riflettersi sulla modernità. La sua risposta è univoca: recuperare l'eredità di Mao. Wang Hui sostiene, in un saggio pubblicato nel maggio 1997, che il pensiero socialista di Mao incarna una teoria della modernità in aperta e compiuta antitesi rispetto alla modernizzazione di stampo capitalista. Le posizioni espresse da Wang Hui e da Han Yuhai hanno dato il via, negli ultimi anni, a un accesso dibattito scatenato tra i campioni del "liberismo (ziyouzhuyi)" e la "nuova sinistra" su diversi modelli di modernizzazione. I pensatori liberisti sono particolarmente numerosi all'interno dell'Accademia Cinese delle Scienze sociali: esultanti dinanzi alle politiche riformiste di stampo liberista intraprese dalla leadership politica post-maoista, specialmente negli anni Novanta, questi intellettuali le sostengono e propongono un'ulteriore espansione (anche in senso politico) ritenendo che questa modernizzazione - alias globalizzazione - porterà l'economia cinese alla completa integrazione nel mercato globale e la Cina a far parte della cosiddetta civiltà universale. Gli intellettuali "liberisti" procedono da una rivalutazione dell'espansione del capitale internazionale, contestualizzandola nello sviluppo storico degli ultimi quattro secoli, e presentano la vittoria del capitale globale come la vittoria della civiltà sull'ignoranza nella lotta tra le forze della modernizzazione e quelle del sottosviluppo. Dall'altra parte della barricata, la tesi di Wang Hui non costituisce un caso isolato, ma al contrario si trova in linea con altri esponenti della "nuova sinistra", alcuni dei quali lavorano anch'essi all'interno dell'Accademia Cinese delle Scienze sociali. La principale accusa mossa nei confronti dei "liberisti" è quella di eludere i punti salienti della discussione sull'adozione di un modello di sviluppo sociale ed economico liberista che genera numerosi problemi a livello locale, in particolare la diseguaglianza sociale. Li Tuo, per esempio pone una provocatoria serie di domande: "Di fronte alla 'globalizzazionè, in quale tipo di contesto si deve posizionare lo sviluppo del nostro paese? Come deve (la Cina) trattare la questione della 'globalizzazionè? Come deve rispondere (la Cina) ai vari quesiti sollevati dal processo di modernizzazione? Come devono essere trattate le diverse teorie sulla modernizzazione e sviluppo? Dobbiamo formulare una posizione di auto-coscienza dopo un'analisi critica di queste teorie cosicché possiamo decidere quale di esse meglio risponde alle nostre necessità? O dobbiamo formulare gradualmente una nostra personale teoria dello sviluppo?" La resistenza all'influenza della Globalizzazione (con la G maiuscola) rappresenta certamente un agente catalizzatore e, sul finire degli anni Novanta, sembrerebbe avere accomunato su posizioni sostanzialmente analoghe neo-maoisti e nazionalisti radicali. Tuttavia, all'interno del discorso sulla globalizzazione si raccolgono numerose sotto-tematiche, sfaccettature che richiedono un'analisi più approfondita e sulle quali le posizioni di questi intellettuali si trovano in disaccordo. Li Tuo, per esempio, è stato più' volte criticato in quanto ritenuto portavoce di una posizione elitistica e autoreferenziale, considerata, dai suoi detrattori, tipica di intellettuali che risiedono e lavorano a Pechino o all'estero. Dopo aver destrutturato i valori dell'Illuminismo, Li Tuo, assorbito nel progetto di formulare un'idea unica ed esclusiva della "Cinesità", sembra in questo modo ripercorrere gli stilemi della "differenza" ad ogni costo e, quando giunge a teorizzare l'unicità del percorso cinese alla modernità e allo sviluppo, rischia di creare la visione di un nuovo assoluto: l'unico (nuovo) "corretto" illuminismo. 3 - Globalizzazione e/o globalizzazioni possibili Così come accade in molti articoli ufficiali, anche nelle posizioni di numerosi intellettuali il termine quanqiuhua viene utilizzato per riferirsi a quella che potremmo definire "globalizzazione economica", limitata all'idea della creazione di un mercato globale che sembrerebbe avere una specificità e un'assolutezza meramente economico-finanziaria. Tuttavia, altri intellettuali, quali ad esempio Han Shaogong, sembrano suggerire una distinzione tra il termine quanqiuhua che si riferisce alla sfera economica e l'espressione quanqiuyitihua, utilizzata per indicare una globalizzazione integrale che comporta un'omogeneizzazione economico-politico e culturale. Artisti, quali Ren Jian e Wang Jin, con le loro opere, puntano anch'essi il dito contro la perdita di identità culturale e denunciano la seduzione del consumismo sfrenato e del materialismo individualista che la modernizzazione globale (e globalizzante) ha portato con sè, rischiando di "McDonaldizzare" ogni aspetto della vita pubblica e culturale. Nel dibattito aperto tra gli intellettuali meno legati all'establishment, il termine quanqiuhua giunge a toccare il nodo del rapporto tra globalizzazione del mercato e quella che è la sua forza motrice, la conditio sine qua non per la sua esistenza e il raggiungimento dei suoi obiettivi: la globalizzazione dell'informazione. Quest'ultima richiede a sua volta libertà di stampa, di pubblicazione, libertà d'accesso alle nuove tecnologie multimediali; si è allora cominciato a parlare anche di "istruzione internazionale (guoji jiaoyu)" e alcuni intellettuali hanno sottolineato come la globalizzazione debba necessariamente prevedere un cambiamento del sistema giuridico e delle istituzioni politiche in senso democratico. Un tratto comune alle varie posizioni - ufficiale e non - è rappresentato dall'enfasi posta sul "comportamento": per non perdere il treno della "quarta ondata della globalizzazione" occorre "congiungersi e muoversi in sintonia con le norme internazionali (yu guoji jiegui)", come recita uno degli slogan più in voga degli ultimi anni. Globalizzazione significa quindi internazionalizzazione? E se così fosse, che cosa significa "internazionalizzazione" in una Cina nella quale il nazionalismo rappresenta ormai l'unico collante dopo il vuoto creato dalla progressiva de-ideologizzazione e depoliticalizzazione della vita sociale? Su questo punto esiste probabilmente una scollatura tra la posizione ufficiale e la tensione soggettiva rappresentata da alcuni intellettuali. Nel mese d'aprile 2001 a Shanghai, la città internazionale per eccellenza, nonché sede nell'ottobre dello stesso anno del vertice APEC, venne lanciata una vera e propria campagna di "educazione civica". L'obiettivo dichiarato era quello di preparare i cittadini alla "nuova civiltà" (xin wenming), in altre parole di "propagare e promuovere" (questo è il significato etimologico del termine cinese xuanchuan da noi volgarmente tradotto "propaganda") i "valori" necessari per accogliere il "nuovo soffio" che avrebbe investito il paese ora entrato a pieno titolo nell'OMC. Soffio, così come tutta l'ampia gamma di agenti atmosferici, nel machiavellico glossario politico cinese significa "linea politica" più' adatta al momento e, in questo caso, sta per "globalizzazione" alla cinese. Ma per alcuni - pochi - pensatori liberali questo tipo di "globalizzazione" rappresenta un limite: essi propongono una "globalizzazione a tutto campo (quanfangweide quanqiuhua)" e si fanno promotori dei cosiddetti "valori globali (quanqiu jiazhi)", teoricamente condivisi da tutte le nazioni del mondo. Questi intellettuali sembrano andare aldilà del preteso sillogismo "norme internazionali" = "alta tecnologia e riforme economiche", così come riescono ad andare oltre la critica e il ripudio dei cosiddetti "valori occidentali (xifang jiazhi)", alimentata dal crescente trend nazionalista da loro considerato "irrazionale" (feilixing minzhuzhuyi). Dall'altra parte della barricata - ma in una specie di continuum tipicamente cinese che consente la quadratura del cerchio - troviamo altri intellettuali (assai più numerosi) che sottolineano la vicinanza del concetto di "globalizzazione" con l'ideale confuciano del raggiungimento della "Grande armonia (datong)". Quella che era la "preoccupazione finale (zhongji guanhuai)" secondo il confucianesimo, viene associata da questi esponenti del "liberalismo confuciano (rujia ziyouzhuyi)" ai concetti occidentali di libertà e democrazia. La globalizzazione, sostenuta e diretta dall'ideale della "grande armonia" e dai "valori asiatici (yazhou jiazhi)" è diventata, in questo modo, una globalizzazione dalle caratteristiche cinesi, finalizzata a garantire la "stabilità e armonia" interna e, al contempo, tesa (quantomeno fino al fatidico 11 settembre 2001) a segnare il nuovo mainstream per la cultura mondiale del XXI secolo, opportunamente, ma forse prematuramente, ribattezzato il "secolo cinese". La sfida della globalizzazione è aperta, e le recenti decisioni di approvare l'ingresso della Cina nell'OMC e di destinare a Pechino le Olimpiadi del 2008 forniranno nei prossimi anni nuovi interessanti elementi di indagine per valutare l'attendibilità dell'una o dell'altra posizione. Non dimentichiamoci, tuttavia, che la posta in gioco è molto alta: si tratta del costo sociale che la globalizzazione comporterà per un paese che sta assumendo sempre maggior peso nel panorama internazionale ma che rimane governato da un Partito unico, la cui legittimità poggia su una strenua difesa dell'individualità nazionale in funzione stabilizzatrice. CONCLUSIONE DEI SOCIOLOGI La sociologia della globalizzazione si può rappresentare come un insieme disorganico, in sè contraddittorio, di dissidenti della sociologia dell'ordine nazional-statale. Si tratta di teorie, impostazioni e direzioni di ricerca piuttosto divergenti che sono emerse in contesti culturali diversissimi. La letteratura sulla globalizzazione è attraversata da una controversia di fondo. Riguardo alla domanda "che cosa spinge avanti la globalizzazione?" si fronteggiano due tipi di risposte. Un primo gruppo di autori sottolinea l'esistenza di una logica dominante, altri individuano invece complesse logiche multicausali della globalizzazione. Nel campo della sociologia della globalizzazione si ripete la controversia Marx-Weber tra una preponderanza della prospettiva economica e un pluralismo teorico che combina l'approccio economico con quello sociale e culturale. Secondo il sociologo e filosofo Zygmunt Bauman la globalizzazione divide quanto unisce; divide mentre unisce - scrive il sociologo e filosofo Bauman - e le cause della divisione sono le stesse che, dall'altro lato promuovono l'uniformità del globo. Secondo lo studioso italiano di sociologia del lavoro Domenico De Masi la globalizzazione di cui si parla oggi è l'esito di una perenne tendenza umana ad esplorare e poi colonizzare tutto il territorio. Domenico De Masi ha individuato dieci principali diverse forme di globalizzazione. Sul tema della globalizzazione dei flussi comunicativi un importante contributo si può ricavare dalle analisi condotte dal sociologo inglese Anthony Giddens. La globalizzazione per Anthony Giddens rappresenta uno dei tratti dominanti della modernità ed è frutto della separazione dello spazio e del tempo. La globalizzazione viene definita come "l'intensificazione di relazioni sociali mondiali che collegano tra loro località distanti facendo in modo che gli eventi locali vengano modellati dagli eventi che si verificano a migliaia di chilometri di distanza e viceversa". Diversi autori hanno evidenziato l'estensione universale di alcuni modelli. Secondo l'approccio di Theodor Levitt l'era della globalizzazione è l'epoca della omogeneizzazione dei bisogni e della standardizzazione dei prodotti. K.Ohmae, discutendo del sistema economico dei consumi, ha descritto la convergenza dei gusti e delle preferenze delle giovani generazioni, dall'America Latina all'Estremo Oriente, come un processo di "californizzazione". L'analisi della proliferazione su scala mondiale di catene di fast-food, parchi divertimento, club-vacanze, ecc., ha suggerito a George Ritzer di identificare la globalizzazione con la "Mc Donaldizzazione". Armand Mattelart, docente di scienze dell'informazione e della comunicazione, focalizza la propria attenzione sul sistema di comunicazione. Obiettivo del suo studio è ricercare le tracce dell'attuale configurazione "comunicazione mondo", ripercorrendo le tappe storiche della creazione del reticolo tecnologico e informativo planetario. La sua analisi si sviluppa lungo i concetti fondamentali della guerra, del progresso e della cultura che sono considera elementi cruciale dell'attuale configurazione comunicazione-mondo. Lo studioso americano Marshall Mc Luhan, studioso delle comunicazioni di massa, ha introdotto il concetto di "villaggio globale". Il villaggio globale è un ossimoro usato da Marshall Mc Luhan per descrivere la situazione contraddittoria in cui viviamo. I due termini dell'enunciato si contraddicono a vicenda; il "villaggio" esprime qualcosa di piccolo, mentre "globale" sta a significare l'intero pianeta. Marshall Mc Luhan afferma che per creare un mondo globale c'è bisogno di una fusione organica tra tutte le funzioni frammentarie e lo spazio totale. Roland Robertson, uno dei padri della teroia della ricerca sulla globalizzazione culturale, propone di sostituire il concetto di globalizzazione culturale con quello di glocalizzazione che sintetizza i concetti di globalizzazione e localizzazione. Globalizzazione non vuol dire che il mondo diviene omogeneo ma per globalizzazione si intende un processo complesso in cui non si può contrappore il locale al globale. La globalizzazione, per Robertson, non comporta una riduzione della cultura perchè la produzione di massa di simboli e informazioni culturali non conduce al sorgere di quella che potrebbe definirsi "cultura globale" ma, semmai, ad un mondo di merci. Nel suo quadro di riferimento, globalizzazione significa che l'umanità ha lasciato l'epoca delle relazioni internazionali, epoca in cui gli Stati nazionali dominavano e monopolizzavano lo scenario internazionale. Per J. Rosenau esistono due arene: una è la società degli Stati, l'altra è il mondo della subpolitica transnazionale. R. Gilpin sottolinea che la globalizzazione ha luogo perchè e il prodotto di un ordine globale permissivo. D. Held rimarca come con gli accordi internazionali, con l'internazionalizzazione dei processi politici, con il traffico di merci e la divisione del lavoro su scala internazionale, la politica nazional-statale perde l'essenza costitutiva del suo potere: la sua sovranità. Per Amartya Sen, premio nobel nel 1998, la questione più importante è come usare bene i grandi benefici derivanti dai rapporti economici e dal progresso tecnologico, in maniera da prestare la dovuta attenzione agli interessi dei più poveri. Questo chiedono i movimenti di protesta, anche se in sostanza la questione non riguarda affatto la globalizzazione. Non basta convenire sul fatto che i poveri del mondo hanno bisogno della globalizzazione almeno quanto i ricchi, bisogna anche assicurarsi che ottengano ciò di cui hanno bisogno. Le teorie sugli effetti a breve termine dei media sul pubblico si dividono sostanzialmente in tre fasi ovvero nella fase dei media potenti, nella fase dell'influenza mediata ed in quella in cui predomina la visione funzionalista secondo cui si ha una concezione ottimistica delle conseguenze sociali e individuali delle comunicazioni di massa. Nelle teorie sugli effetti a lungo termine dei media sul pubblicol'esposizione prolungata e continuativa dei media porta all'esigenza di studiare i media come elemento di comunicazione globale. Lo storico americano Immanuel Wallerstein sostituisce radicalmente l'immagine di singole società separate l'una dall'altra con l'immagine di un unico sistema-mondo, nel quale tutti devono collocarsi e affermarsi in una divisione del lavoro. Questo unico sistema-mondo si impone, secondo Immanuel Wallerstein, con il capitalismo Nel sistema-mondo si moltiplicano e si acuiscono i conflitti perchè questo sistema non produce solo enormi ricchezze ma anche grandi povertà. Il panorama teorico occidentale è oggi dominato dai seguenti due paradigmi portanti: - il liberalismo economico ritiene essenziale la libera iniziativa individuale per il funzionamento di un sistema economico, poiché gli interessi dei singoli si armonizzano nel mercato tramite la libera concorrenza e il libero scambio, portando alle condizioni di massimo benessere generale; - il neocomunitarismo è una tendenza di pensiero politico affermatosi negli Usa a partire dagli anni ’70 che invoca il ritorno alla comunità come veicolo di valori condivisi per rafforzare i legami sociali che mettono in relazione gli individui tra loro e si oppone al liberalismo di cui critica l’individualismo come teoria sociale.