la globalizzazione

Transcript

la globalizzazione
LA GLOBALIZZAZIONE
Introduzione
Per affrontare un argomento complesso e ricco di sfaccettature, come quello della globalizzazione,
si è ritenuto opportuno partire da una definizione del fenomeno stesso, tracciare un percorso storico
per individuarne le origini ed infine soffermarsi sugli aspetti che la globalizzazione maggiormente
coinvolge: l’economia, la politica, la società in generale. Una volta completato questo excursus,
tratteremo il fenomeno da tre diverse prospettive derivanti da tre diverse locazioni geografiche: la
Cina, l’India ed il Medio Oriente.
Globalizzazione: cos’è e come nasce
Con il termine globalizzazione viene indicato il fenomeno di crescita progressiva delle relazioni e
degli scambi a livello mondiale in diversi ambiti, il cui effetto principale è una decisa convergenza
economica e culturale tra i Paesi del mondo. Per la prima volta nella storia, l’economia di mercato e
il sistema di divisione del lavoro capitalistico, hanno assunto dimensioni mondiali; questo ha
portato le grandi aziende ad espandersi oltre i loro confini statali e a trasferire lavoro e stabilimenti
dove più conviene. Tutto ciò ha causato un’intensificazione dei rapporti commerciali a livello
globale, grazie alla creazione di un enorme mercato basato sul libero-scambio, che ha portato le
organizzazioni transnazionali, sia economiche che politiche, ad assumere un’importanza crescente.
“Globalizzazione” è un termine di uso recente che nel 1981 veniva utilizzato prevalentemente dagli
economisti per riferirsi agli aspetti economici delle relazioni fra popoli e grandi aziende. Il
fenomeno, invece, va inquadrato nel contesto dei cambiamenti sociali, tecnologici, politici e delle
complesse interazioni su scala mondiale che, a partire dagli partire dagli anni Ottanta, hanno subito
una sensibile accelerazione.
Nell’immaginario collettivo la globalizzazione è spesso percepita come un fenomeno progressivo
sviluppatosi negli ultimi decenni, in realtà il fenomeno può esser fatto risalire a diverso tempo
addietro. L'errore di percezione che identifica la globalizzazione con la fine del ventesimo secolo è
dovuto al periodo storico cui si fa riferimento. Paragonando il 2000 al 1950 si tende a favorire
l'affermazione che la globalizzazione sia un fenomeno esclusivo della fine del ventesimo secolo,
dato che l’utilizzo del termine globalizzazione è entrato nel linguaggio comune, anche grazie ai
mass media, proprio in questi anni. Ma andando indietro nel tempo, fino al 1870, tale affermazione
perde forza.
Proprio intorno al 1870, infatti, si verificarono una serie di innovazioni tecnologiche cruciali per la
diffusione internazionale del processo di industrializzazione: la costruzione di navi più robuste e
veloci, ridusse enormemente i tempi di navigazione; l'apertura del canale di Suez, nel 1869,
dimezzò la durata del viaggio da Londra a Bombay; ma soprattutto l'inaugurazione del sevizio
telegrafico transatlantico, tra Londra e New York (1866), Melbourne (1872) e Buenos Aires (1874),
permise alle comunicazioni transcontinentali di passare dalle settimane ai minuti. La riduzione dei
tempi di percorrenza e dei costi, determinò quell’ accelerazione nei flussi commerciali
internazionali, nei movimenti di capitale e nei flussi migratori che abbiamo identificato come
caratteristiche della globalizzazione. Le peculiarità individuate del fenomeno sono, invece,
l’apertura dei mercati, la tecnologia e la politica commerciale. Ovviamente è la tecnologia ad
essere
considerata
una
delle
caratteristiche
più
rilevanti
della
globalizzazione.
Globalizzazione, politica e Welfare
Ciò che caratterizza l' attuale globalizzazione è la centralità del capitale umano, il confronto non
è tanto tra paesi e settori, ma all' interno dei paesi e dei settori. La nuova competizione globale si
gioca, soprattutto, sul terreno della disponibilità di lavoratori più o meno qualificati, più o meno
mobili, più o meno motivati e disposti a mettersi in gioco per dare forma concreta al cambiamento.
Il capitale umano gioca un ruolo centrale insieme alle nuove tecnologie di comunicazione, di un
flusso continuo di progresso tecnico. Ma il capitale umano è fatto di persone, prima che di saperi e
di competenze. Le persone lavorano meglio se possono vivere in un sistema che le aiuta a gestire e
a superare le incertezze e i rischi della vita lavorativa e sociale.
In questo quadro, un nesso positivo concretamente lega globalizzazione e Welfare.
Globalizzazione e società
Con globalizzazione ci si riferisce oltre che allo sviluppo di mercati globali, anche alla diffusione
dell'informazione e dei mezzi di comunicazione come internet, che oltrepassano le vecchie frontiere
nazionali. Nello stesso campo il termine indica la progressiva diffusione dei notiziari locali su temi
internazionali. Il termine è utilizzato anche in ambito culturale ed indica genericamente il fatto che
nell'epoca contemporanea ci si trova spesso a rapportarsi con le altre culture, sia a livello
individuale a causa di migrazioni stabili, sia nazionale nei rapporti tra gli stati. La globalizzazione
può favorire lo sviluppo economico di alcuni stati, in particolare quelli industrializzati e sviluppati,
attraverso guadagni e profitti provenienti da un modo di agire: il decentramento. Esso consiste nel
spostare le industrie in paesi sottosviluppati, dove la manodopera ha un costo inferiore. Così
facendo si offre un lavoro nei paesi più poveri; questo è vero, ma le multinazionali decentrano le
loro industrie in paesi in via di sviluppo che non possono così svilupparsi. In ogni caso la
globalizzazione "ferisce" le tradizioni popolari, diffondendo alcune feste che appartengono a quelle
di un popolo, ad esempio Halloween. Ciò non accade solo per le feste, ma anche per il modo di
vestire, soprattutto quello giovanile, il modo di parlare, i cibi consumati, etc. Ad esempio prima
degli anni '40 era impossibile trovare in Italia e in Europa persone che indossassero le T-shirt, ora è
comunissimo. Oramai anche i cibi che mangiamo sono diffusi in tutto il mondo: la pizza, la cucina e
i vini italiani e quelli francesi, il sushi, etc.
Globalizzazione economica
In campo economico il termine globalizzazione indica la forte integrazione degli scambi
commerciali internazionali e la crescente dipendenza dei paesi gli uni dagli altri. L'economista
Giancarlo Pallavicini1 asserisce che, anche per effetto della tecnologia informatica, essa può
definirsi come "uno straordinario sviluppo delle possibili relazioni, non soltanto economicofinanziarie, pur preminenti, tra le diverse aree del globo, con modalità e tempi tali da far si che ciò
che avviene in un'area si ripercuota anche in tempo reale sulle altre aree, pure le più lontane, con
esiti che i tradizionali modelli interpretativi dell'economia e della società non sono in grado di
valutare correntemente, anche per la simultaneità tra l'azione ed il cambiamento che esso produce".
La nuova economia e la globalizzazione hanno portato a una straordinaria diffusione delle nuove
tecnologie. Si è trasformato in profondità il modo di lavorare, di consumare, di informarsi nella
nostra società. Le gerarchie tradizionali, gli equilibri economici internazionali, si stanno
trasformando continuamente ; in questo scenario si aprono nuove problematiche e si impone alla
società un aggiornamento urgente di valori e di progetti. La globalizzazione è fonte di varie
opportunità, pur restando una delle sfide più importanti che l'Unione europea è chiamata ad
affrontare attualmente. Per sfruttare pienamente il potenziale di crescita collegato a tale fenomeno e
garantire una ripartizione equa dei suoi vantaggi, l'Unione si adopera per dare attuazione ad un
modello di sviluppo sostenibile volto a conciliare crescita economica, coesione sociale e protezione
dell'ambiente.
Nell’economia mondiale si sta verificando un cambiamento fondamentale. Ci stiamo allontanando
da un mondo in cui le economie nazionali erano entità relativamente indipendenti, isolate da
barriere al commercio e all’investimento internazionale, dalla distanza, dai fusi orari, dalla lingua
e dalle differenze nazionali nelle norme governative, nella cultura e nel sistema commerciale. E ci
stiamo muovendo verso un mondo in cui le barriere al commercio e all’investimento internazionale
si stanno riducendo, la distanza percepita si sta restringendo grazie al progresso nelle tecnologie di
trasporti e delle telecomunicazioni. La cultura materiale sta iniziando a mostrarsi simile in tutto il
mondo e l’economie nazionali si stanno unendo in un sistema economico globale interdipendente
ed integrato. Il processo attraverso cui sta avvenendo ciò viene comunemente chiamato
globalizzazione. In questa economia globale interdipendente, un cittadino statunitense, per andare
a lavoro potrebbe guidare un’ auto progettata in Germania, che è stata assemblata in Messico dalla
Daimler Chrysler con componenti realizzati negli Stati Uniti ed in Giappone, prodotte con acciaio
coreano e gomma malese. Potrebbe aver fatto rifornimento di benzina all’automobile alla stazione
di servizio BP, di proprietà di un’impresa multinazionale britannica. La benzina potrebbe essere
stata prodotta dal petrolio estratto da un pozzo vicino alle coste dell’Africa da una compagnia
petrolifera francese che lo ha trasportato negli Stati Uniti in una nave di proprietà di una linea di
navigazione greca. Mentre guida per recarsi a lavoro lo statunitense potrebbe parlare con il suo
mediatore di borsa con un telefono cellulare Nokia che è stato progettato in Finlandia ed
assemblato in Texas, usando un’insieme di circuiti integrati prodotti a Taiwan e progettati da
ingegneri indiani che lavorano per la Texas Instruments. Potrebbe dire al suo mediatore di borsa di
acquistare azioni dalla Deutsche Telekom, un’impresa tedesca di telecomunicazioni che da ex
monopolio di stato è divenuta un’impresa globale grazie ad un energico direttore generale
israeliano. Potrebbe accendere l’autoradio, che è stata prodotta in Malesia da un’impresa
giapponese, per ascoltare una popolare canzone hip-hop, composta da uno svedese e cantata in
inglese da un gruppo di danesi che ha firmato un contratto di registrazione con un’azienda
discografica francese per promuovere il proprio disco negli Stati Uniti. Il guidatore potrebbe
fermarsi ad un chiosco gestito da un immigrato coreano e ordinare un cappuccino con latte
scremato e biscotti ricoperti di cioccolato. I chicchi di caffé vengono dal Brasile ed il cioccolato
dal Perù mentre i biscotti sono stati prodotti localmente usando un’antica ricetta italiana. Alla fine
della canzone, un’annunciatrice potrebbe informare l’ascoltare statunitense che le proteste antiglobalizzazione al meeting dei capi di stato Davos, in Svizzera, sono diventate violente. Un
manifestante è stato ucciso. L’annunciatrice passa quindi all’argomento successivo, una storia su
come la paura di aumenti del tasso di interesse negli Stati Uniti abbia spinto l’indice di borsa
giapponese Nikkei ai nuovi minimi dell’anno.
Questo è il mondo in cui viviamo. È il mondo dove il volume di beni, servizi ed investimenti che
attraversano i confini nazionali è aumentato più velocemente della produzione mondiale per più di
mezzo secolo. È un mondo in cui si realizzano ogni giorno 1,2 miliardi di dollari di transazioni in
valuta estera, in cui nel 2006 sono stati venduti oltre i confini nazionali 11,76 mila miliardi di beni
e 2,71 mila miliardi di servizi. È un mondo dove i simboli della cultura materiale e popolare sono
sempre più globali: dalla Coca Cola alla Sony, dai programmi di Mtv ai film della Disney. È un
mondo in cui una crisi economica in Asia può causare una recessione negli Stati Uniti. Le imprese
possono aumentare i propri ricavi vendendo in tutto il mondo e ridurre i propri costi producendo in
paesi in cui l’input chiave, tra cui il lavoro, costano meno. Dal crollo del comunismo, alla fine
degli anni Ottanta quasi tutti i paesi si sono ispirati a politiche di liberalismo economico. Le
barriere normative sono diminuite, i mercati sono stati liberalizzati permettendo ad imprese sia
grandi che piccole, sia di paesi avanzi, sia di paesi in via di sviluppo, di espandersi a livello
internazionale. Il braccio delle politiche economiche nazionali è notevolmente piccolo rispetto
all’economia di mercato che domina la scena mondiale, provocando la sterilità delle manovre
nazionali per controbattere la recessione mondiale. Motivo per cui l’uscita dall’attuale recessione è
notevolmente più difficile e più lenta dell’uscita dalla crisi degli anni Trenta, dove le politiche
keynesiane furono un forte acceleratore economico dell’economie nazionali. Sicuramente la
globalizzazione economica ha portato delle prospettive inimmaginabili fino a qualche decennio fa,
ma ha anche reso la struttura economica mondiale molto più fragile. È proprio il caso di dire che il
battito d’ali di una farfalla potrebbe provocare un uragano dall’altra parte del mondo (Teoria del
caos).
CINA
I NUMERI DELLA CINA
Il settore primario
La Cina è il primo produttore mondiale di frumento (86,1 milioni di tonnellate nel 2006), è in testa
alla classifica per produzione di riso (167,6 milioni di tonnellate) ed ha anche il primato per le
patate (66,8 milioni). Inoltre il Paese possiede oltre 1/3 degli allevamenti mondiali di suini, ed è ai
primi posti per la pesca.
Il settore secondario
La Cina ha attirato sul proprio territorio le industrie dei paesi in cerca di manodopera a buon
mercato, diventando così l'officina manifatturiera del mondo, in particolar modo delle imprese
asiatiche. Il paese è riuscito a mantenere ritmi sostenuti per un arco di tempo molto lungo e
nonostante una popolazione estremamente numerosa.
Li Gongyou [16] ha sintetizzato quattro fasi lo sviluppo dell'economia del suo Paese nel secolo che
fa seguito alla caduta dell'Impero Cinese (1911). La prima fase, precomunista, fino alla
proclamazione della Repubblica Popolare Cinese avvenuta nel 1949, viene definita a economia
semicoloniale e semifeudale. La seconda, comunista vera e propria e ispirata alle idee guida della
Rivoluzione culturale, fino alle riforme di Deng Xiaoping, è stata caratterizzata dal tentativo di
realizzare un'economia pianificata centralizzata (il primo piano quinquennale, di stampo sovietico,
fu quello 1953-1957). La terza fase, partita con il programma delle "quattro
modernizzazioni" (agricoltura, industria, scienza e tecnica, forze armate), è durata fino metà degli
anni Novanta, e coincide con l'apertura a un'economia socialista "quasi di mercato". Infine, la quarta
fase sarebbe cominciata nel 1995-1996, con la 5a sessione plenaria del XIV Comitato centrale del
Partito comunista cinese, la quale ha stabilito la necessità di due fondamentali trasformazioni socioeconomiche, da realizzare entro l'anno 2010: trasformare il tradizionale sistema pianificato cinese in
un sistema di "economia socialista di mercato" (senza quasi, stavolta), funzionante con regole di
libero mercato, e trasformare lo sviluppo economico da estensivo a intensivo. Il che, nei termini
occidentali ormai largamente mutuati anche in Cina, significa anche puntare implicitamente allo
sviluppo sostenibile, o almeno ispirarsi idealmente a questo traguardo.
Oggi in Cina sono presenti tutte le maggiori produzioni industriali, sia di base (acciaio, alluminio,
petrolio, chimica industriale, cemento) che manifatturiere (mezzi di trasporto, elettronica di
consumo, microelettronica, informatica, telefoni, giocattoli, armi, abbigliamento, chimica fine,
lavorazione del legno, prodotti alimentari). Inoltre le varie attività vanno incontro ad un rapido
ammodernamento ed alla crescente competitività internazionale, specie grazie ai bassi costi di
produzione, dovuti in gran parte alla manodopera a basso costo. Attualmente le industrie cinesi sono
in mano a grandi aziende private e statale; in gran parte sono situate sulle coste e nelle cosiddette
"zone economiche speciali", nel Sud-Ovest. Questo è stato il principale fattore competitivo
dell'economia cinese, che ha reso possibile la grande crescita del PIL, dovuto principalmente alle
esportazioni, piuttosto che a un vero e proprio sviluppo del mercato interno. I prodotti costruiti e/o
assemblati in Cina a basso costo (infatti in Cina non sono ammessi i sindacati), sono ora più
presenti nei mercati europei e mondiali, a scapito delle aziende indigene che per ovvie ragioni
possono sempre meno confrontarsi con una concorrenza così fatta. Molte di queste sono state
costrette a chiudere i propri stabilimenti, o a trasferire la produzione appunto in Cina.
La svolta di piazza Tian'anmen
Il fenomeno Cina è estremamente interessante perché permette di affrontare gran parte delle
questioni fondamentali nel campo dell’economia internazionale e della geopolitica. Il punto di
svolta di questo fenomeno si può far risalire all’epoca degli episodi di piazza Tian'anmen a Pechino
(aprile-maggio-giugno 1989): in quell’occasione un gruppo di studenti occupò la piazza al grido di
“Abbasso la rivoluzione, viva la democrazia, viva la Cina”. Dopo qualche settimana gran parte della
popolazione era scesa in piazza, nonostante il regime avesse istituito il coprifuoco e la legge
marziale, e per le strade ci fossero già i carri armati. Poi, agli inizi di giugno, l’esercito spara:
seguono giorni di lotta nelle strade ma, alla fine, il regime riconquista la piazza, seppur con migliaia
di morti e un’immagine internazionale bruciata. Dopo questo episodio, per tutti gli anni ’90 la Cina
ha intrapreso a tappe forzate la via del capitalismo attraverso uno sviluppo rapidissimo, supportato
sia dai massicci investimenti statali, specialmente nei settori dell’energia e delle materie prime, sia
dagli investimenti sempre maggiori da parte delle multinazionali di tutto il mondo, le quali,
dall’apertura del mercato cinese vedevano e vedono tuttora un immenso serbatoio di occasioni per
produrre a basso costo e con estreme semplificazioni dal lato del mercato del lavoro. Tutto questo è
avvenuto e avviene ancora con tassi di incremento del PIL compresi fra il 7 e il 10 per cento e, ad
oggi, la Cina è la seconda economia del mondo, avendo già superato Italia, Francia e Regno unito, e
anche la Germania.
Cina e WTO
L’adesione della Cina all’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO)[17] avvenuta nel
dicembre del 2001 rappresenta senza dubbio una pietra miliare per la Cina e per il commercio
internazionale. La Cina è riuscita a persuadere gli altri Stati membri della WTO che senza la propria
partecipazione, la WTO non può essere davvero considerata un’organizzazione mondiale. Tuttavia,
questo grande traguardo ha portato con sé conseguenze giuridiche, politiche e sociali di rilevante
impatto per il mercato globale, che deve integrare un paese con numerose diversità strutturali,
culturali e comportamentali. Fin da prima della sua adesione alla WTO il Governo cinese aveva
avviato riforme significative del proprio sistema giuridico interno. Ciò nonostante, molte questioni
devono essere ancora affrontate e risolte per garantire un pieno ed effettivo rispetto degli accordi su
tutto il territorio della Repubblica Popolare di Cina (RPC). Durante il negoziato per l’adesione alla
WTO, erano già chiare le difficoltà del governo cinese a garantire il rispetto del principio di
trasparenza e delle condizioni implicite nell’adesione. Era dunque diffusa fra tutti gli Stati membri,
Stati Uniti e Unione Europea in primis, la consapevolezza della situazione del mercato e della
necessità di una profonda riforma dell’ordinamento giuridico cinese per garantire nel lungo periodo
il buon funzionamento del sistema WTO. Come nel caso dell’adesione all’UE dei nuovi dieci Paesi
avvenuta nel maggio del 2004, è stata fatta una precisa scelta politica. Si è ritenuto che
un’integrazione, anche prematura, della Cina all’interno della WTO, oltre a rafforzare le posizioni
della parte più riformista della classe dirigente cinese, avrebbe indirettamente accelerato il processo
di riforme in atto, con il pretesto del rispetto degli impegni previsti dall’Organizzazione Mondiale
del Commercio. I negoziati duravano da quasi quindici anni e non si è voluto rinviarne nuovamente
la conclusione in attesa di ulteriori miglioramenti del contesto interno cinese.
Investimenti stranieri
Tra i paesi in via di sviluppo la Cina si trova al primo posto per quanto riguarda il flusso degli
investimenti esteri, che negli ultimi anni è in costante aumento. La materia degli investimenti
stranieri è attualmente regolata dal "Foreign Investment Industrial Guidance Catalogue" e dalle
"Directory of Foreign Investment Tentative Provisions" del 1995, i quali suddividono gli
investimenti stranieri in incoraggiati, permessi, limitati o vietati. Le forme previste per gli
investimeni stranieri sono:
1. la società mista, per la cui costituzione è necessaria l'approvazione del MOFTEC e la
registrazione presso l'ufficio SAIC. Per questo tipo di società la legge prevedel'obbligo per il partner
straniero di sottoscrivere una quota minima del 25% del capitale dell'impresa.
2. La società cooperativa o contrattuale, assimilabile alla precedente, sebbene più semplice e
caratterizzata da maggiore flessibilità operativa e giuridica.
3. La società a capitale interamente straniero, prevista a condizione che la società risulti
prevalentemente a vocazione all'export o impieghi tecnologie avanzate. Le agevolazioni previste
per gli investitori stranieri sono di varia natura, sebbene prevalentemente di carattere fiscale, mentre
particolari agevolazioni esistono per le imprese che si insediano nelle aree economiche speciali.
Infrastrutture e Trasporti
La rete stradale si estende per una lunghezza complessiva di 1,87 mln/km, sviluppandosi
maggiormente lungo la zona costiera e comprende 34.300 km di strade a scorrimento veloce. La
rete ferroviaria operativa ha raggiunto 73.100 km di cui 23.700 km di ferrovie a più binari e 18.500
km di ferrovie elettriche. Per quanto riguarda il trasporto marittimo nella costruzione dei porti è
stato recentemente ottimizzato il sistema dei cointainer. Tutti i maggiori porti (Hong Kong,
Shanghai, Shenzhen, Qingdao, Tianjin, Canton, Xiamen, Ningbo, Dalian) fanno parte del circuito
dei primi 50 containers-ports del mondo, dove ogni anno transitano anche più di 100 milioni di
tonnellate di merci.
Alfabetizzazione
Tasso di alfabetizzazione: 98% (sopra i 15 anni; uomini: 99,2%; donne: 96,7%) (stime 2001).
Studenti universitari: 1,4%; 18 milioni (2003).
LA STORIA DELLA CINA DAL '900 AD OGGI.
Il 25 ottobre 1971, l'ONU (Organizzazione della Nazioni Unite) riconosceva finalmente il governo
di Pechino come unico e legittimo rappresentante del popolo cinese. Si poneva così fine ad una
situazione assurda: dal 1949 una nazione di oltre un miliardo di abitanti su una superficie di 9
Nel 1971 l'ONU
riconosce il governo
di Pechino come
solo rappresentante
del popolo cinese
milioni e mezzo di kmq, la Repubblica Popolare Cinese,
era ufficialmente ignorata, mentre il popolo cinese era
rappresentato in seno all'ONU dal governo di Taiwan, o
Formosa, o Cina nazionalista, che esercitava la sovranità
su venti milioni di abitanti, su un territorio di 36.000
kmq.
Era l'atto finale di un dramma iniziato sessant'anni prima, nell'ottobre del 1911, quando l'ormai
agonizzante Impero Cinese cadeva sotto i colpi della rivoluzione scatenata dal Kuo-min tang
(partito nazionale del popolo), partito cinese fondato nel 1900 da Sun Yat-sen sotto il nome di
Associazione per la rigenerazione della Cina, divenuta Lega dell'unione dei rivoluzionari (1908),
poi, nel 1911, Kuo-min tang. L'Impero, in continua alternanza tra conservazione di un regime
feudale e arci-classista e cauti tentativi di modernizzazione, era in agonia da tempo, e il colpo di
grazia era venuto dopo la violenta repressione internazionale della rivolta dei boxers, membri di una
società segreta xenofoba, che, nell'indifferenza della corte imperiale, avevano posto sotto assedio
diverse legazioni occidentali (giugno 1900). Le truppe di Regno Unito, Francia, Germania, Russia
erano intervenute, nell'agosto di quello stesso anno, avevano sconfitto i rivoltosi, saccheggiato
Pechino, imponendo poi al governo cinese, complice quanto meno passivo dei boxers, il pagamento
di forti indennità, che avevano messo in crisi le già vacillanti finanze cinesi.
La morte, nel 1908, dell'imperatrice Tzü Hsi, una donna di ferro che aveva tentato di tenere assieme
una costruzione che ormai si andava disgregando, segnò la fine dell'Impero. Il Kuo-min tang, in
fondo, uccise un cadavere.
Ma qui converrà sostare un attimo e rivolgere lo sguardo al secolo precedente, per meglio capire
cos'era la politica occidentale nei confronti della Cina. La violenza xenofoba dei boxers non
nasceva dal nulla; la Cina, vista fondamentalmente come un enorme potenziale mercato, aveva
subìto nel corso dell'800 la politica cosiddetta delle concessioni: porzioni di territorio cinese, in
genere città costiere con vasto entroterra, venivano cedute in concessione alle nazioni occidentali,
per i loro traffici di merci, prevedendo sovente anche l'esenzione dal rispetto delle leggi cinesi per i
cittadini degli stati titolari delle concessioni. Più che di concessioni, sarebbe corretto parlare di
imposizioni, non avendo la Cina, debole militarmente e divisa al suo interno da mille discordie, la
forza di opporsi alle potenze europee, alla Russia, al Giappone e agli Stati Uniti.
Questo genere di politica che, pur favorendo una modernizzazione della Cina, con l'avvicinamento
della stessa all'Occidente, altro non era che una brutale imposizione, in nome della sacra
convenienza commerciale, della legge del più forte, ebbe il suo culmine di immoralità nelle guerre
scatenate per il commercio dell'oppio.
Si potrebbe pensare che una nazione civile muova guerra contro i trafficanti dell'oppio, per
stroncare un sordido guadagno e tutelare le popolazioni dall'uso di una droga che non conduce che
alla distruzione psichica e fisica. Nossignori: la guerra dell'oppio si fece per tutelare il diritto dei
mercanti inglesi ad importare oppio in Cina (importazione peraltro severamente vietata nei territori
di Sua Maestà).
Nel 1839 il governo di Pechino decise di rimettere in vigore un antico editto che proibiva
l'importazione dell'oppio, e il commissario di Canton, Lin Tse-hsü, applicandolo in senso stretto,
confiscò e distrusse un carico d'oppio indiano, scaricato da navi inglesi. Londra rispose con l'invio
di una spedizione navale che bombardò Canton (1841), occupò facilmente Sciangai e risalì lo
Yangtze fino a Nanchino, dove fu firmato nel 1842 un trattato che apriva cinque porti (Treaty Ports,
porti del Trattato) al commercio con l'Inghilterra, alla quale veniva anche ceduta l'isola di HongKong, e che fissava i diritti di dogana a non più del 5% del valore della merce.
Ma l'avidità del mondo civile non era ancora soddisfatta. Era facile peraltro trovare buoni motivi
per altre azioni militari; la difficile comprensione tra due mondi, quello cinese e quello occidentale,
creava spesso incidenti. Quando, terminata la guerra di Crimea che aveva tenuto impegnate
Inghilterra e Francia, una nave che batteva bandiera inglese, l'Arrow, fu presa a Canton dai Cinesi e
un missionario cattolico francese fu ucciso (1856), si offrì a Londra e a Parigi l'occasione per una
spedizione congiunta, che permettesse di migliorare le rispettive posizioni in Cina. Canton fu
bombardata ancora una volta e i forti di Taku, presso Tianjin, occupati, finché nel 1858 Francesi e
Inglesi ottennero la firma di trattati che concedevano loro nuovi privilegi (accordati dai Cinesi,
subito dopo, anche alla Russia e agli Stati Uniti). Sorsero però ulteriori difficoltà e un nuovo corpo
di spedizione franco- inglese si impadronì di Pechino (1860), che fu incendiata, mentre il palazzo
d'Estate veniva saccheggiato per rappresaglia contro la tortura di alcuni prigionieri inglesi. I trattati
imposti a Pechino nel 1860 portarono all'apertura di altri undici porti e riconobbero agli stranieri il
diritto di insediarvisi senza soggiacere alla legislazione locale e di compiere viaggi.
Un'altra attività commerciale occidentale era la tratta dei coolies, lavoratori cinesi reclutati con il
sistema che oggi chiameremmo del caporalato, e destinati alle grandi piantagioni americane e
australiane. Le condizioni inumane con cui venivano trattati questi uomini, su vere e proprie navi
schiaviste, faceva sì che la mortalità in viaggio toccasse punte superiori al 40 per cento.
Torniamo quindi alla rivolta dei boxers, nel giugno del 1900. Se il senso morale impedisce di
approvare la violenza selvaggia che caratterizzò il comportamento dei rivoltosi, e l'acquiescenza
della corte imperiale, riflettiamo però un attimo sull'assoluta immoralità che caratterizzò la politica
occidentale. In Cina avevano fatto irruzione le cannoniere occidentali, non per portare la giustizia,
ma per equilibrare la bilancia dei pagamenti, oltretutto a tutela di commerci, come quelli dell'oppio
o degli schiavi, degni di veri criminali. Di questa realtà non si può non tener conto, se si vuole
capire la diffidenza cinese verso l'Occidente, che perdurerà ben oltre quegli anni, caratterizzando la
politica cinese di tutto il Novecento. E, ci permettiamo di aggiungere, di questa realtà dobbiamo
tenere conto noi occidentali, se vogliamo fare un sano esercizio, poco diffuso, che si chiama esame
di coscienza.
La caduta dell'Impero e la proclamazione della Repubblica non portò la pace in Cina. Il generale
Yüan Shih-k'ai, incaricato dalla Corte di effettuare la repressione dei disordini causati dal Kuo-min
tang, consigliò invece l'abdicazione (febbraio 1912), che segnò la fine della dinastia imperiale
Manciù. Sun Yat- sen, il fondatore del Kuo-min tang, ritornato dall'esilio alla notizia della rivolta
nel dicembre 1911, fu acclamato al suo sbarco a Sciangai presidente provvisorio della repubblica.
Confermato in tale carica dall'assemblea riunitasi il 1° gennaio 1912 a Nanchino, accettò con la
riserva di rinunciare a favore di Yüan Shih-k'ai (con cui era intanto segretamente in trattative) se
questi, che comunque deteneva il controllo di gran parte dell'esercito, si fosse impegnato a sostenere
la repubblica. Dopo l'abdicazione dell'imperatore (dichiarata da un consiglio di reggenza, perché
l'ultimo imperatore, P'u-yi, era un bimbo di sette anni), Yüan divenne così presidente (marzo 1912).
Ma Yuan soprattutto mirava ad accrescere il suo potere personale e nel 1913 sciolse il Kuo-min
tang, che nel frattempo gli si era rivoltato contro. Nel 1916 la sua scomparsa fu seguita da una lotta
confusa, e disastrosa per il paese, tra i generali (i Signori della guerra, di fatto a capo di eserciti
personali) e i dirigenti repubblicani.
All'inizio del 1918, la Cina del Sud (fino al fiume Yangtze), controllata dal Kuo-min tang che,
ricostituitosi, aveva formato un governo rivale a Canton sotto Sun Yat-sen, si oppose a quella del
Nord, che era nelle mani del governo di Pechino.
Quest'ultimo, pur reso instabile dai contrasti sorti fra i
Signori della Guerra, poteva contare sull'aiuto
finanziario del Giappone, che mirava già da tempo a
estendere la propria zona d'influenza in Cina, e che in
Nel 1918 la Cina
del Sud si oppose
a quella del Nord
che era guidata dal
governo di Pechino
base alle clausole del trattato di Versailles era subentrato
alla Germania nelle concessioni dello Shandong, suscitando la reazione dei delegati cinesi.
Nell'ambito della conferenza di Washington (1921-1922) tale problema venne ridiscusso e la Cina
ottenne infine la restituzione delle ex concessioni tedesche e il ritiro delle truppe giapponesi dallo
Shandong: ciò rappresentava il primo passo verso la graduale abolizione dei privilegi di cui
godevano le nazioni straniere nel territorio cinese. Nel Sud, Sun Yat- sen riorganizzò nel 1923 il
Kuo-min tang con l'aiuto di consiglieri inviati in Cina dal Politburo sovietico. Gli iscritti al partito
comunista cinese, fondato nel 1921 ed entrato nel 1922 nel Comintern, furono ammessi quali
membri nel Kuo-min tang. La morte di Sun Yat-sen, nel 1925 provocò però nel suo partito una
frattura tra radicali, favorevoli all'unione con i comunisti, e moderati, che miravano invece ad
espellere questi ultimi dal Kuo-min tang e in genere dalla direzione della vita nazionale.
Fu da questo momento che iniziò l'ascesa di due uomini che avrebbero determinato i successivi
destini della Cina: Mao Tse-tung e Chiang Kai-shek. Quest'ultimo, capo dell'ala moderata del Kuomin tang, riuscì a imporre la propria autorità e alla testa dell'esercito nazionalista del Sud iniziò da
Canton l'avanzata verso il Nord. In seguito al verificarsi di eccessi contro le popolazioni locali e i
residenti stranieri, imputati a estremisti comunisti, durante l'occupazione di alcune città, Chiang
Kai-shek la notte del 12 aprile 1927 (dimostrando come sia relativo in politica il significato della
parola moderato), fece sopprimere a Sciangai un gran numero di dirigenti comunisti,
disorganizzando il loro movimento, e in seguito ruppe con la missione sovietica. L'eliminazione
fisica degli esponenti dell'estrema sinistra proseguì sistematicamente anche in altre regioni, e a
Nanchino, già occupata nel marzo 1927, venne stabilito il governo nazionalista cinese. Chiang Kaishek marciò quindi verso il Nord ed entrò, nel giugno 1928, a Pechino appena abbandonata dal
generale Chang Tso-lin.
La feroce repressione aveva costretto i comunisti a rifugiarsi nella regione montuosa del Jianxi,
dove nel 1927 costituirono, sotto la guida di Mao Tse-tung, Chou En-lai e Chu-teh, una Repubblica
Sovietica Cinese, che poteva contare su un forte esercito a base popolare, intensificando con
successo la loro propaganda tra i contadini, attratti dalla prospettiva di una riforma agraria.
E qui è opportuno fare un'altra sosta, per chiedersi quale spazio potesse trovare in Cina, paese con
una forte carica spirituale, una dottrina materialista come il marxismo.
Una rigida suddivisione in classi caratterizzava da sempre la società cinese, e le stesse dottrine di
Confucio (che elaborò, si badi bene, una filosofia morale e non una religione), nonché quelle di
Mozi (da cui la parola moismo), pure moralista, con un riferimento trascendente puramente
strumentale, queste stesse dottrine, dicevamo, predicavano elevati sentimenti umani (fratellanza,
giustizia, operosità, senso del dovere ecc.), ma senza porre in discussione l'ordine fondamentale
della società. Le virtù morali, insomma, andavano esercitate tenendo ben salde le differenze
intellettuali e sociali.
La speculazione filosofica era del resto patrimonio di pochi, ed è significativo il fatto che in Cina
esistessero, fino alla definitiva instaurazione del regime comunista (1949), due linguaggi, nonché
due alfabeti e due letterature. I letterati erano assolutamente staccati dal popolo, e l'opera letteraria o
filosofica aveva come finalità l'ammaestramento morale. Il testo scritto in lingua volgare (per usare
un'espressione nostra) era considerato opera rozza e non degna di attenzione.
In una società prevalentemente agricola, l'uomo del popolo, quasi sempre contadino, non aveva
accesso ad attività intellettuali, sia perché gli mancava lo stesso linguaggio, sia perché la sua
condizione normale non gliene lasciava il tempo materiale: era quella di assoluto vassallaggio verso
la grande proprietà, secondo un collaudato schema di salari bassissimi, che obbligavano il contadino
a indebitarsi col padrone, restandogli poi legato per rimborsarlo col lavoro. La condizione operaia
nell'attività più diffusa, la filatura e la tessitura della seta, era ancora peggiore. In quest'attività erano
impiegate molte donne (circa il 95% della forza lavoro), essendo gli uomini per lo più al lavoro sui
campi; ma anche i bambini, già all'età di sei - sette anni, entravano in stabilimento, sottoposti agli
stessi ritmi e allo stesso orario degli adulti. Il lavoro si svolgeva in condizioni inumane, al caldo
umido, con l'aria impregnata del fetore dei bozzoli sfruttati. Orario di lavoro: dodici ore al giorno.
Giorni di lavoro settimanale: sette.
Non migliori erano le condizioni nei cotonifici, dove il lavoro prevedeva anche turni di notte
(esclusi invece nelle seterie, perché la sottigliezza del filo è tale da divenire invisibile alla luce
artificiale).
Attenzione: non vi stiamo parlando solo della condizione popolare nel periodo imperiale: i dati
impressionanti sopra esposti provengono da un'inchiesta condotta a Shanghay dal colonnello inglese
L'Estrange Malone, deputato laburista alla Camera dei Comuni. L'anno dell'inchiesta è il 1926,
quattordici anni dopo la fine dell'impero.
Insomma, tornando alla domanda che ci ponevamo sopra, la risposta è una sola: lo spazio al
marxismo veniva offerto da una consuetudine di sfruttamento totale, che non conobbe variazioni col
passaggio dal regime imperiale a quello repubblicano. E' da chiedersi quanto potesse e volesse agire
in campo sociale il governo nazionalista. Abbiamo visto che la Cina repubblicana fu da subito
travagliata da lotte interne, prima tra Yuan e il Kuo-min tang, poi tra la Cina del Sud e quella del
Nord e i Signori della Guerra, poi tra il Kuo-min tang e il partito comunista. In questa situazione
torbida si inserì anche il Giappone, le cui mire continentali non si erano mai sopite. Nel 1931,
prendendo pretesto da certi incidenti locali, i Giapponesi invasero la Manciuria e ne fecero uno
Stato indipendente con il nome di Man-chu-kuo (marzo 1932). Si trattava però in realtà di un
protettorato, alla testa del quale figurava nominalmente P'u-yi, ultimo imperatore mancese in Cina.
La Cina reagì con il boicottaggio delle merci giapponesi; i Giapponesi attaccarono allora Sciangai
(1932), mentre la Società delle Nazioni si mostrava impotente a modificare la situazione. I
Giapponesi penetrarono nella Cina del Nord nel 1933, e nel 1935 si infiltrarono fino alla regione di
Pechino.
In questa condizione di perpetuo disordine il governo nazionalista non poteva certo elaborare una
politica sociale, né peraltro questa rientrava nei suoi programmi, perché il Kuo-min tang, con
l'affermazione definitiva dell'ala moderata di Chiang Kai-shek, si era fatto piuttosto corifeo di una
difesa della tradizione che inevitabilmente si traduceva in una difesa anche di uno status quo
sociale. D'altra parte l'uomo del popolo in Cina, imbevuto di quella parte di confucianesimo
strumentale alle esigenze delle classi dominanti, difficilmente poteva concepire l'idea della rivolta.
Ci volle un uomo della statura e della personalità di Mao Tse-tung per iniziare un processo che
avrebbe cambiato radicalmente la faccia della Cina.
Nato nel 1893 in una famiglia di contadini relativamente benestanti, Mao, dopo un anno di servizio
volontario nell'esercito repubblicano di Sun Yat-sen, si dedicò agli studi di istitutore. Dopo essersi
diplomato alla scuola normale di Changsha nel 1918, trascorse un breve soggiorno a Pechino per
seguire alcuni corsi universitari e qui ebbe i suoi primi contatti con il nascente movimento marxista
L'Armata Rossa
della
Repubblica
Sovietica
cinese manteneva
stretti legami col
mondo contadino
cinese e in particolare con l'economista Li Ta-chao e il
futuro segretario del Partito comunista Ch'en Tu-hsiu.
Partecipò attivamente all'organizzazione del movimento
rivoluzionario dello Hunan e nel 1920 fondò i primi
circoli marxisti locali, dai quali fu poi delegato al congresso costitutivo del partito comunista cinese,
che si tenne a Sciangai nel 1921. Per due anni lavorò come segretario dell'organizzazione del partito
dello Hunan, quindi, dal 1923, essendo stato allontanato dallo Hunan, come funzionario del partito
a Sciangai. In seguito alla confluenza del PCC nel Kuo-min tang (1924), fu, nel 1926, nominato
membro del comitato centrale della nuova organizzazione e rinviato nello Hunan quale esperto dei
problemi rurali. L'anno successivo, come vedevamo sopra, iniziò la repressione anticomunista
operata da Chiang Kai-shek, cui seguì la proclamazione della Repubblica Sovietica cinese nella
regione montuosa del Jianxi.
La carica rivoluzionaria del Partito Comunista Cinese, sostenuta da un'elaborazione dottrinaria
semplice, operata da Mao per adattare le teorie marxiste, nate in una realtà industriale, al mondo
prevalentemente agricolo cinese, era un pericolo troppo grande per la supremazia del Kuo-min tang,
e l'eliminazione fisica del maggior numero possibile di comunisti rientrava nell'antica tradizione
cinese di guerra totale e feroce. Mentre Chiang Kai-shek basava il suo potere anzitutto sulla forza
militare e sulla potenza finanziaria (con l'appoggio determinante dei capitali americani che
volevano tutelare i propri interessi in Cina), Mao Tse-tung aveva capito l'enorme importanza della
partecipazione popolare. La neo costituita Armata Rossa della Repubblica Sovietica cinese
manteneva stretti legami col mondo contadino. I suoi soldati erano addestrati anche per aiutare nel
lavoro dei campi, avevano ordine di trattare sempre con gentilezza la popolazione, di non
abbandonarsi mai a quei sequestri ingiustificati, saccheggi, abusi, che erano pratica corrente dei
militari nei confronti dei civili delle classi più umili.
Nel 1933 la guerra tra nazionalisti e comunisti ebbe le sue punte massime. Quest'ultimi furono
costretti a una penosa e lunghissima ritirata verso lo Shaanxi, nota come Lunga marcia (19341935). Frattanto però l'ala sinistra del Kuo-min tang si batteva per una conciliazione nazionale in
vista della lotta antigiapponese. Chiang Kai-shek, nel 1936, fu attirato a Xi'an in un agguato,
organizzato dal capo comunista Chou En-lai, e liberato solo dietro l'impegno di una tregua con i
comunisti.
Il fronte comune antigiapponese non fu in verità mai totale e compatto e iniziò una strana guerra in
cui spesso l'alleato era trattato come nemico, in un gioco di reciproche diffidenze che non poteva
che fare le fortune del comune nemico. Nell'agosto 1937 infatti le truppe nipponiche si
impossessarono di Pechino, scesero verso sud, sbarcarono a Sciangai e cacciarono da Nanchino
Chiang Kai-shek, che si installò ad Hankou. Le milizie comuniste erano ancora esigue, ma la loro
azione era molto efficace, soprattutto nella guerriglia, in cui eccellevano. Esse impegnarono le
truppe giapponesi rendendole incerte sull'opportunità di addentrarsi ulteriormente nel paese. I
Nipponici si limitarono quindi per allora a controllare le coste e le grandi città, le ferrovie e le
frontiere della Cina, ma lo scoppio della guerra nel Pacifico contro gli Americani (7 dicembre 1941)
assorbì ben presto la maggior parte delle loro energie. La cessazione delle ostilità, con la disfatta del
Giappone, tolse l'unico elemento che univa i comunisti del PCC ai nazionalisti del Kuo-min tang. Il
generale americano Marshall, inviato in missione straordinaria, tentò allora una formula di
compromesso per favorire l'integrazione dei comunisti in una Cina unificata e guidata da Chiang
Kai-shek, al quale gli Stati Uniti continuavano a dimostrare fiducia; ma dopo una serie di tregue
precarie la guerra civile riprese nel 1946; i nazionalisti persero a poco a poco terreno, soprattutto
nella Manciuria, sottratta ai Giapponesi dalle forze sovietiche; i comunisti all'inizio del 1947 si
allinearono con l'URSS. Il capo del Kuo-min tang acuì allora la propria intransigenza: sciolse la
Lega democratica, di carattere moderato e di origine recente, ma nella quale confluivano sempre più
numerosi gli scontenti. Mentre nelle regioni controllate dai nazionalisti regnava l'anarchia,
aggravata dalla miseria e da una grave inflazione, Mao Tse-tung propose ai propri seguaci un
programma di rinnovamento, pura dottando drastici sistemi. Dopo lunghi e sanguinosi scontri che
sconvolsero il paese, le forze comuniste, occupata nell'aprile del 1949 la capitale nazionalista
Nanchino, costituirono nell'agosto un governo popolare del Nord- Est e poco dopo quello della Cina
del Nord. La partita era ormai perduta per Chiang Kai-shek, che l'8 dicembre 1949 si rifugiò
nell'isola di Formosa (Taiwan), stabilendo a Taipei la capitale della Cina nazionalista.
Il 1º ottobre 1949, Mao Tse-tung annunciò a Pechino, ridivenuta capitale, la presa del potere da
parte del partito comunista e la proclamazione della Repubblica Popolare Cinese. Egli ne fu eletto
presidente da un'Assemblea nazionale; Liu Shao-chi, Chu-teh e Sung Ch'ing-ling (vedova di Sun
Yat-sen) diventarono vicepresidenti e Chou En-lai presidente del consiglio e ministro degli esteri.
Iniziava un'opera radicale di riforma della società, con l'intento di attuare un passaggio morbido al
socialismo. La politica agraria, basata inizialmente sull'abolizione del latifondo e la distribuzione
delle terre ai contadini, non diede però i frutti sperati, perché le porzioni di terra erano troppo esigue
e coltivate ancora con sistemi agricoli primitivi. Iniziò così, nel 1953, la costituzione delle comuni
agricole, fattorie collettive nelle quali venne introdotta anche la meccanizzazione dei sistemi di
coltura. Ma nel frattempo si erano attuate altre importanti riforme, nel campo del diritto di famiglia
(con il riconoscimento della parità dei diritti tra coniugi), come in quello dell'istruzione, con intense
campagne contro l'analfabetismo. La costituzione cinese, che sanciva il principio del PCC come
guida del paese, prevedeva anche garanzie per le minoranze nazionali e una certa libertà religiosa.
Si trattava però di garanzie molto più teoriche che pratiche, perché il regime di Mao accentuava
sempre più il proprio carattere autoritario. Hong-Kong e Cina Nazionalista iniziarono così a
conoscere il fenomeno dei profughi, non così numerosi come la propaganda anticomunista voleva,
ma neanche rappresentati solo da elementi antisociali, come pretendeva il governo di Pechino.
Aldilà della disapprovazione, ovvia, per qualsiasi sistema autoritario, non si può però disconoscere
che la politica del PCC e di Mao portò ad un enorme miglioramento di vita la gran massa della
popolazione cinese; tratteggiavamo, qualche pagina prima, le condizioni miserabili in cui vivevano
contadini e operai sotto il regime imperiale, e come queste condizioni non conobbero miglioramenti
con la Repubblica diretta dai nazionalisti. Il prezzo da pagare per questo miglioramento era la
perdita della libertà: ma era forse libero l'operaio che lavorava (come abbiamo visto) sette giorni la
settimana, con un orario di lavoro di dodici ore quotidiane? O era libero il contadino che si trovava
in una posizione di dipendenza, vita natural durante, con il padrone delle terre?
La grande arretratezza della situazione sociale cinese era stato il vero motore della vittoria
comunista; il miglioramento di vita avrebbe però portato, poco a poco, a mettere in discussione il
sistema autoritario. Ma non anticipiamo i tempi.
Cerchiamo piuttosto di fare ora un rapido excursus sulle vicende interne della nuova realtà politica
che abbiamo visto nascere, la Repubblica Popolare Cinese. Inizialmente assistita dall'URSS, che
inviò numerosi tecnici, la Cina tendeva però ad una autonomia da Mosca, ponendosi sempre più
come paese guida del socialismo reale in Asia e nel Terzo Mondo. L'aiuto "fraterno" dell'URSS
peraltro aveva sempre più le caratteristiche di ingerenza. I rapporti con l'URSS si spezzarono
definitivamente dopo il 1960, dividendo il blocco comunista in due tronconi, uno in prevalenza
europeo stretto attorno a Mosca e uno in prevalenza asiatico, che guardava invece a Pechino. Tale
spaccatura in certo modo si istituzionalizzò quando nel luglio 1963 a Mosca una conferenza tra i
partiti comunisti sovietico e cinese, convocata per
comporre il dissidio, si chiuse senza raggiungere alcun
risultato. Né le dimissioni di Mao da presidente della
repubblica (pur conservando la carica di presidente del
partito) né la caduta di Krusciov (ottobre 1964)
Consolidata
la supremazia del
PCC, la Cina iniziava
a conoscere le lotte
interne per il potere
attenuarono la polemica tra i due centri del movimento
comunista, anche perché il contrasto rispondeva, oltretutto, a profondi motivi storici che superavano
le contingenze ideologiche. L'accusa di revisionismo, lanciata dai cinesi contro la politica riformista
(molto timidamente) di Kruscev nasceva dal fatto che i due paesi vivevano momenti storici diversi.
La Cina, che praticamente ricominciava da zero, aveva la necessità di mantenere una tensione
interna per far fronte agli impegni assunti nei piani economici, e questo portò all'esasperazione della
linea politica del comunismo cinese che si atteggiò a un rigido dogmatismo. L'URSS era ben più
avanti della Cina e Kruscev, senza minimamente pensare a riforme in senso democratico, si rendeva
conto però che bisognava iniziare ad allentare, seppur con molta prudenza, le mille limitazioni che
opprimevano la vita del cittadino sovietico. Ricordavamo in precedenza anche una sfiducia cronica,
e storicamente fondata, dei cinesi nei confronti degli europei e degli occidentali in generale. Anche
questa sfiducia giocò la sua parte nello spingere la Cina al distacco dall'URSS e alla costruzione di
un proprio modello di comunismo. Né si può scordare che l'URSS intratteneva rapporti costanti con
gli USA, che si erano resi garanti, anche con cospicui aiuti militari, dell'indipendenza di Taiwan, da
loro considerata come unica legittima rappresentante del popolo cinese.
Internamente la Cina iniziava a conoscere, consolidata ormai la supremazia del PCC, le lotte interne
per il potere. L'appannarsi del mito di Mao in seguito al raggiungimento solo parziale degli obiettivi
economici pianificati aveva spinto il timoniere a rinunciare alla carica di presidente della
repubblica, mantenendo solo la direzione del partito. Ma non per questo Mao era deciso a cedere il
potere effettivo. Proprio la frattura che si manifestò in seno al partito tra i teorici della rivoluzione
permanente e i revisionisti fu l'occasione per Mao per scatenare la rivoluzione culturale, che
interessò la Cina per il periodo 1966-1969 con conseguenze negli anni Settanta, e che sin dagli inizi
assunse aspetti contraddittori; soprattutto non fu chiara la distinzione tra opposte fazioni, in quanto
nessuno osava attaccare apertamente Mao. Gli alti funzionari di partito si difendevano ricorrendo
alla tattica descritta come "sventolare la bandiera rossa per opporsi alla bandiera rossa" e
organizzando gruppi che usavano gli stessi slogan della rivoluzione culturale. Le forze su cui Mao
si appoggiò per lanciare questa "rivoluzione nella rivoluzione" furono dapprima gli studenti, poi
l'esercito popolare di liberazione. Dapprima furono gli studenti delle maggiori università e anche
delle scuole secondarie che, organizzati nel movimento delle guardie rosse e in altri gruppi
rivoluzionari, sferrarono pesanti attacchi contro le autorità accademiche e gli alti funzionari di
partito e dello Stato "impegnati nella via capitalista". Principali bersagli furono il presidente Liu
Shao-chi e i suoi seguaci. Nella prima metà del 1967, quando ai militari venne ordinato di
appoggiare la sinistra, la rivoluzione culturale raggiunse il suo momento culminante e ottenne come
risultato l'effettiva distruzione dell'apparato del partito. Anche i rappresentanti dell'amministrazione
governativa, che faceva capo al primo ministro Chou En-lai, vennero attaccati dall'ultrasinistra.
Tuttavia la vittoria dell'ala sinistra estremista, rappresentata dalle guardie rosse alla base e, al
vertice, da alcuni alti esponenti politici, fra cui la moglie di Mao, Chiang Ch'ing, fu di breve durata,
in quanto essa si dimostrò incapace di proporre un modello di organizzazione alternativa.
Nel frattempo la lotta tra fazioni e organizzazioni rivoluzionarie non accennava a placarsi, cosicché
all'esercito venne affidato il compito di restaurare l'ordine e di fornire amministratori competenti.
Venne lanciato un movimento per l'organizzazione di comitati rivoluzionari, ai quali doveva essere
affidato il potere amministrativo. La situazione di caos e di incertezza si prolungò fino all'agosto del
1968, quando Mao in persona espresse la sua insoddisfazione nei confronti degli studenti e approvò
la costituzione delle "squadre di lavoro di operai e contadini", che furono mandate nelle università a
restaurare l'ordine con l'appoggio dell'esercito. Di conseguenza si accelerò la costituzione dei
comitati rivoluzionari, a tutti i livelli, in cui i rappresentanti dell'esercito detenevano posti chiave, e
venne lanciata una campagna contro l'ultrasinistra. Nel settembre 1968 Chou En-lai proclamò la
"vittoria completa e definitiva della rivoluzione culturale" e nell'ottobre una sessione plenaria del
comitato centrale del PCC destituì ufficialmente Liu Shao-chi. La convocazione del 9° congresso
del partito comunista, nell'aprile 1969, a undici anni di distanza dal precedente, segnava il trionfo
della linea maoista e il riassetto organizzativo del partito. LinPiao, ministro della difesa e
protagonista della rivoluzione culturale, venne ufficialmente designato come successore di Mao
Tse-tung. La situazione parve essersi stabilizzata a favore dei militari rispetto ai civili. Ma nel 1971
l'improvvisa scomparsa dalla scena politica di Lin Piao e di altri alti esponenti dello stato maggiore,
accompagnata da voci di complotto, dimostrava come fosse precario l'equilibrio raggiunto. La lotta
tra le diverse fazioni riprese e a essa non fu estranea la nuova politica estera, voluta da Chou En-lai,
di apertura all'Occidente, contro il riavvicinamento all'Unione Sovietica, perseguito dai seguaci di
Lin Piao. Nell'agosto 1973 il 10° congresso del partito decretò la definitiva condanna postuma di
Lin Piao e sancì la vittoria del gruppo che si identificava con il primo ministro Chou En-lai, cioè dei
civili rispetto ai militari, del partito ricostituito rispetto all'esercito e alle forze sociali spontaneiste
(studenti), di una linea pragmatica e centrista rispetto alla sinistra radicale.
Per quanto riguarda la politica estera, dopo una paralisi dell'iniziativa cinese nel periodo della
rivoluzione culturale, una nuova fase si aprì nel marzo 1971, quando la squadra cinese di ping-pong,
in apertura dei campionati del mondo, invitò i giocatori statunitensi a recarsi in Cina: era il primo
segno della distensione fra i due paesi. La ripresa dell'attività diplomatica di Pechino coincideva da
un lato con la stabilizzazione interna, dall'altro con gli importanti cambiamenti sopraggiunti nel
contesto sia asiatico sia mondiale (progressivo disimpegno americano nel Sud- Est asiatico,
rinascita politica e militare del Giappone, minaccia sovietica alle frontiere e pericolo di una
collaborazione tecnica ed economica russo-giapponese in Siberia).
E arriviamo così all'ammissione della Cina all'ONU (che comportò l'espulsione di Taiwan) il 25
ottobre 1971, che ponevamo come punto di partenza del nostro studio. Il progressivo miglioramento
dei rapporti con il Giappone, fino al riconoscimento diplomatico (settembre 1972), il viaggio del
presidente americano Nixon in Cina nel febbraio del 1972 furono importanti successi della nuova
linea di politica estera di Pechino e portarono al riconoscimento della posizione internazionale di
grande potenza assunta ormai dalla Cina.
Ci siamo volutamente dilungati sul periodo della rivoluzione culturale perché ci appare come
estremamente significativo: il regime di Pechino iniziava a conoscere le lotte interne per il potere. E
qui ci si consenta una breve parentesi. Parlavamo in apertura di sessantottini con poche idee, ma ben
confuse. E' difficile non sorridere, oggi, rileggendo gli avvenimenti cinesi di quel periodo e
riflettendo sul fatto che i manifestanti inneggiavano al comunismo in versione maoista, inteso come
il più puro dei puri, esempio di progressismo, mentre all'interno della Cina si scatenava una violenta
lotta per il potere che alla fine vedeva la vittoria della parte moderata dell'apparato. Il mito è certo
più affascinante, la strada della rivoluzione permanente (anche se resta da capire contro chi vada
fatta… ) è più consolante, rispetto al riconoscere che la tradizione delle violente lotte tra i Signori
della Guerra non si era ancora spenta, bensì aveva solo cambiato abito e localizzazione.
La Cina ha superato
indenne la
tempesta
provocata dalla
caduta del Muro
di Berlino, ma...
Insomma, neanche il socialismo reale riusciva a portare
quella concordia che sembra l'eterna grande assente nella
storia umana, anche (e tanto meno) quando la si vuole
imporre dall'alto. Non desidero però essere frainteso:
sarebbe fazioso non riconoscere il cambiamento radicale,
in positivo, che la rivoluzione comunista portò nella vita
cinese. Ma l'esercizio del potere, una volta risolti i
maggiori problemi interni, diventa sempre fonte di lotta tra chi ha preso gusto ad esercitarlo e tra chi
ritiene che sia venuto il suo turno, né la Cina ha fatto eccezione a questa regola, della quale la Storia
ci fornisce innumerevoli esempi.
Potremmo qui esaminare le ulteriori vicissitudini interne cinesi, che si acuirono con la morte di
Mao, nel 1976, e il cui denominatore comune fu comunque lo scontro tra le due opposte fazioni del
gruppo dirigente, l'una tendente a continuare la politica di apertura all'occidente e di allentamento
morbido del regime, l'altra legata ad una stretta ortodossia. Ma credo che tedierei gli amici lettori
con un elenco interminabile di nomi, illustri o meno, di uomini succedutisi al potere. Chi volesse
nel dettaglio approfondire questi particolari, potrà far riferimento ai testi che indichiamo in
bibliografia e, quantomeno per l'ultimo decennio, soprattutto sfogliare giornali su giornali.
Ci sembra piuttosto utile fermare la nostra riflessione su un altro aspetto: la Cina ha superato
indenne la tempesta che, dalla caduta del Muro di Berlino, ha scosso tutto il mondo comunista,
facendolo crollare in pochi mesi. Ovviamente anche in Cina la dissidenza ha iniziato a serpeggiare:
nessun popolo sopporta a lungo, esaurita una fase di emergenza rivoluzionaria (che può durare
anche diversi anni) un regime dittatoriale. Già nel 1979 si era verificata una fase di leggera apertura
verso la dissidenza, peraltro rapidamente frenata quando questa iniziò a prendere le connotazioni di
aperta contestazione del sistema politico. La risposta del governo di Pechino fu flessibile:
repressione dei dissidenti, ma contemporaneamente emanazione di provvedimenti di legge
sull'elezione delle assemblee locali, per dare almeno uno strumento di dialettica, seppur rigidamente
inquadrata nel sistema socialista.
Successivamente la costituzione del 4 dicembre 1982, la quarta nella storia della Repubblica
Popolare Cinese, ha ribadito il predominio del partito comunista sulla società e sullo Stato. La
Costituzione ha inoltre confermato che la Cina Popolare è uno Stato socialista di dittatura del
proletariato e ha affermato che essa è uno Stato unitario plurinazionale. Nel 1993 è stato inscritto il
principio dell'economia socialista di mercato. Quest'ultima è una contraddizione in termini solo
apparente: diciamo meglio che è un escamotage per prendere atto di una realtà che è comunque in
evoluzione, senza per questo abiurare d'un colpo i principi fondamentali di un sistema. Chi oggi ha
rapporti d'affari con la Cina conosce una figura che meno di un decennio fa era inesistente,
l'imprenditore cinese, che agisce entro limiti fissati dalla legge e sottoposto a numerosi controlli, ma
che comunque è un imprenditore privato che opera in un paese che si proclama, come abbiamo
visto, Stato socialista di dittatura del proletariato.
Non crediamo che la fedeltà della dirigenza cinese al marxismo-leninismo-pensiero di Mao e la
conservazione di un regime comunque dittatoriale siano originate da cecità politica o da testarda
ortodossia. Piuttosto vediamo tornare a galla un'antica saggezza, unita ad una sana diffidenza verso
il mondo occidentale, quello stesso che diede così belle prove nel XIX secolo, con lo sfruttamento,
la guerra dell'oppio, la tratta dei coolies. La Cina è un enorme mercato potenziale e ad essa guarda,
con interesse, tutto il mondo. Un allentamento improvviso dei freni, un'apertura totale e immediata
alle, pur legittime, richieste di libertà e di democrazia politica, si risolverebbe, con ogni probabilità,
in uno sfascio non dissimile da quello che ha travolto il l'URSS e i suoi satelliti, che Gorbacev si
illuse di poter frenare, a cui Eltsin diede furibondi colpi di acceleratore. I risultati di questo sfascio
sono sotto gli occhi di tutti, con la nascita di nuove ricchezze e nuove miserie regolate
principalmente dalla legge della giungla, con un disordine totale che mette a rischio anche le libertà
politiche riconquistate.
Quando, nel maggio del 1989, abbiamo visto le terribili immagini della rivolta di piazza Tienamen,
dove le dimostrazioni studentesche vennero brutalmente schiacciate dai cingoli dei carri armati,
nella nostra ottica di occidentali abituati a vivere nella libertà e nel benessere, ci siamo commossi e
profondamente indignati. Tuttavia, dopo aver ricordato questa tragedia, vorrei chiudere questo
studio, che non ha la pretesa di esaurire argomenti così impegnativi ma piuttosto di fornire spunti di
riflessione, con una domanda: cosa poteva fare il governo cinese, se non reprimere quella
dissidenza, che comunque metteva in discussione le fondamenta stesse della società? Poteva
autoliquidarsi, certamente, e forse sotto un profilo unicamente morale questo sarebbe stato giusto.
Ma se la morale non sa confrontarsi con la realtà, non è più al servizio dell'uomo. E allora il quesito
finale è questo: era giusto autoliquidarsi e, forse, dare la libertà, ma, di sicuro, consegnare oltre un
miliardo di nuovi clienti alla logica spietata e inumana del mercato e del profitto? E' una domanda
alla quale è duro e difficile rispondere ma, se vogliamo ragionare seriamente, responsabilmente e
scientificamente di storia, non possiamo rifiutare di farcela.
CULTURA E SOCIETÀ
Per decenni la tendenza generale negli studi sulla Cina contemporanea è stata quella di pensare la
Cina, di osservarla e di rappresentarla come un'entita' monolitica e di utilizzare il paradigma della
"differenza" nella disperata, e vana, ricerca di un'assolutezza definitoria. Il vento dell'Orientalismo
così come quello dell'Occidentalismo hanno costruito l'idea della "Cina" e del cosiddetto
"Occidente" come due sistemi di rappresentazione distinti e incomunicabili in quanto dominati da
imperativi, prospettive e pregiudizi ideologici, razziali e religiosi, funzionali al mantenimento di un
codice binario di visione del mondo.
Recentemente, il criterio della "differenza", sia come referente concettuale che come categoria
descrittiva, è stato assorbito e sviscerato tanto dagli "Studi post-coloniali" quanto da quelli
Culturali: partendo dalle formulazioni di studiosi quali, tra gli altri, Derrida e Lyotard, si è arrivati a
riconoscere le enormi differenze tra le modalità di indagine critica dell'Oriente rispetto
all'Occidente. Tuttavia, questa nuova visione, se non analizza COME questa "differenza" si è
prodotta e COME si configura all'interno dei rispettivi universi epistemologici, rischia di riprodurre
un'altra versione della dicotomia proiettiva tra un Oriente creato ad uso e consumo dell'Occidente e
il suo alterego.
Marie Louise Pratt sostiene che la globalizzazione, così come la democratizzazione e la
decolonizzazione, costituisce uno dei tre processi storici che stanno cambiando il nostro modo di
studiare la letteratura e la cultura. Nel caso della Cina, la narrativa del "villaggio globale", la cui
visione era stata anticipata da Marshall McLuhan negli anni Sessanta, fornisce, a nostro avviso, un
interessante campo d'indagine, che consente al contempo di sfatare lo stereotipo della Cina "Impero
immobile" e di indagare il terreno dialettico tra le diverse posizioni del Governo cinese e degli
intellettuali.
1 - Il Lessico della globalizzazione
In Occidente la globalizzazione viene solitamente presentata, da un punto di vista storicogeopolitico, come il nuovo ordine mondiale che ha sostituito il periodo della guerra fredda e,
nell'immaginario collettivo, la parola globalizzazione evoca immediatamente tre capisaldi: vittoria
del modello capitalista, rapidità della comunicazione tecnologica e internet. A cavallo del XXI
secolo, il capitale è divenuto l'icona suprema della globalizzazione e si è diffusa una visione che
celebra la crescita degli scambi del capitale globale e l'integrazione di tutti i paesi (ma proprio
tutti?) nel commercio internazionale. Sembra che la globalizzazione, con il conseguente corollario
dell'onnipresenza e onnipotenza del mercato a livello planetario, abbia reso irrilevante la
consistenza degli stati nazionali. Ma è proprio vero che la globalizzazione, che non è solamente un
fenomeno economico ma ha assunto sempre più una forte e precisa valenza politica e culturale,
comporterebbe una nemesi storica dei governi nazionali e un loro superamento grazie alla
costruzione di un'unica e universale identità sovranazionale? L'analisi del discorso sulla
globalizzazione in Cina, a partire dalla decostruzione semantica, sembrerebbe indicare esattamente
il contrario.
In Cina il termine che è stato coniato all'inizio degli anni Novanta per tradurre il concetto di
"globalizzazione" è quanqiuhua. Si tratta di un neologismo con un'apparente vaga e forse sinistra
risonanza taoista che, ad un'analisi piu' accurata, rivela in realtà una precisa connotazione di stampo
confuciano. è un composto di tre caratteri, il primo dei quali significa "tutto (quan)", il secondo
"globo terrestre (qiu)", accompagnati dal suffisso finale equivalente all'italiano -zione (hua in
cinese). Questo composto sembra fare da contraltare al concetto della "Cina intera", espresso nella
lingua cinese come quanzhongguo che significa letteralmente "tutto il Paese di mezzo" ma anche
"tutto il centro del mondo (civile)". Quest'analisi lessicale ci riconduce, in maniera inequivocabile, a
quello che rappresenta l'altro polo per eccellenza dell'acceso dibattito innescato negli anni Novanta
sul tema della globalizzazione: l'idea dell'individualità nazionale che, nel caso della Cina, assume
una precisa valenza nei termini di integrità culturale e politica.
Ma vediamo innanzitutto la posizione ufficiale: dal 1998 a oggi il Presidente della Repubblica
Popolare cinese (nonchè Segretario generale del PCC) Jiang Zemin e il Primo Ministro Zhu Rongji
hanno trattato il tema della globalizzazione in numerose occasioni, associando il termine
"quanqiuhua" alla controversa questione dell'ingresso della Cina nell'Organizzazione Mondiale per
il Commercio (OMC/WTO) e sottolineando la necessità di prepararsi per adeguarsi alla non meglio
precisata "nuova situazione". Nei discorsi ufficiali, la globalizzazione è presentata sempre e in ogni
caso nell'ambito del programma di "riforme e apertura (gaige kaifang)", iniziato a seguito dello
storico III Plenum del dicembre 1978, come se fosse il suo approdo naturale e obbligato. Nel
linguaggio ufficiale, il termine globalizzazione sembra essere il degno sostituto dell'ormai obsoleto
e logoro "modernizzazione", anche se poi entrambi sembrano poter essere identificati con
l'introduzione di capitali stranieri e tecnologie all'avanguardia, considerati necessari per creare una
Cina moderna, prospera, forte e, soprattutto, stabile (wending). "L'Occidentalismo" della leadership
post-maoista sembra aver sposato la tesi del pensiero economico dominante (ma dominato da
Washington) secondo la quale la globalizzazione dei mercati garantirà alle imprese i benefici delle
accresciute economie di scala e porterà a un diffuso miglioramenti dei redditi medi.
Tuttavia, la globalizzazione é un'arma a doppio taglio soprattutto perché la Cina rimane a tutt'oggi
un paese con 1.286.000.000 di abitanti, caratterizzato da un'economia in transizione, che dovrà
affrontare nei prossimi anni una serie di sfide di carattere sociale (in primis la crescita della
diseguaglianza) e politico (la corruzione innanzitutto) celate, malcelate ormai, dietro le vaghe
raccomandazioni di "riforme sistemiche" di tipo puramente economico.
2 - I linguaggi della globalizzazione
Gli intellettuali della "nuova sinistra (xin zuopai o xin Maopai)" condannano la globalizzazione
associandola a un'idea di capitalismo sfrenato e identificandola, sostanzialmente, con
l'occidentalizzazione o, ancor peggio, l'americanizzazione (quanqiuhua jiushi meiguohua).Alcuni di
loro, tra i quali emerge Han Yuhai, denunciano quella che definiscono una globalizzazione
capitalista che porterà alla restaurazione del capitalismo in Cina, mettendo l'intero paese sotto il
controllo delle multinazionali. L'elemento più interessante di questa posizione è che proprio dinanzi
alla sfida della globalizzazione questi intellettuali mostrano di condividere una visione liberale che
presuppone un rispetto e una pratica concreta dei principi fondamentali della giustizia sociale e
della democrazia politica, anche e soprattutto nel campo economico. Questi intellettuali esprimono,
in sintonia con le tesi emerse in altre parti del pianeta, una dura condanna di un mondo dominato e
controllato dalle oligarchie finanziarie e politiche. "Il consenso di Washington", che vede nella
duplice ricetta della presunta riduzione del ruolo dello stato e dell'internazionalizzazione dei liberi
mercati la chiave per il superamento delle differenze economiche, sembra un tentativo volontario di
trascurare le prove che indicano come la globalizzazione aumenti, anzichè diminuire, il divario tra
paesi ricchi e paesi poveri.
Wang Hui, editore della rivista Dushu (Studiare), si domanda se sia possibile creare una società
moderna in una forma storica che si allontani dal capitalismo o seguire un percorso di
modernizzazione che possa riflettersi sulla modernità. La sua risposta è univoca: recuperare l'eredità
di Mao. Wang Hui sostiene, in un saggio pubblicato nel maggio 1997, che il pensiero socialista di
Mao incarna una teoria della modernità in aperta e compiuta antitesi rispetto alla modernizzazione
di stampo capitalista.
Le posizioni espresse da Wang Hui e da Han Yuhai hanno dato il via, negli ultimi anni, a un accesso
dibattito scatenato tra i campioni del "liberismo (ziyouzhuyi)" e la "nuova sinistra" su diversi
modelli di modernizzazione. I pensatori liberisti sono particolarmente numerosi all'interno
dell'Accademia Cinese delle Scienze sociali: esultanti dinanzi alle politiche riformiste di stampo
liberista intraprese dalla leadership politica post-maoista, specialmente negli anni Novanta, questi
intellettuali le sostengono e propongono un'ulteriore espansione (anche in senso politico) ritenendo
che questa modernizzazione - alias globalizzazione - porterà l'economia cinese alla completa
integrazione nel mercato globale e la Cina a far parte della cosiddetta civiltà universale. Gli
intellettuali "liberisti" procedono da una rivalutazione dell'espansione del capitale internazionale,
contestualizzandola nello sviluppo storico degli ultimi quattro secoli, e presentano la vittoria del
capitale globale come la vittoria della civiltà sull'ignoranza nella lotta tra le forze della
modernizzazione e quelle del sottosviluppo.
Dall'altra parte della barricata, la tesi di Wang Hui non costituisce un caso isolato, ma al contrario si
trova in linea con altri esponenti della "nuova sinistra", alcuni dei quali lavorano anch'essi
all'interno dell'Accademia Cinese delle Scienze sociali. La principale accusa mossa nei confronti dei
"liberisti" è quella di eludere i punti salienti della discussione sull'adozione di un modello di
sviluppo sociale ed economico liberista che genera numerosi problemi a livello locale, in particolare
la diseguaglianza sociale. Li Tuo, per esempio pone una provocatoria serie di domande: "Di fronte
alla 'globalizzazionè, in quale tipo di contesto si deve posizionare lo sviluppo del nostro paese?
Come deve (la Cina) trattare la questione della 'globalizzazionè? Come deve rispondere (la Cina) ai
vari quesiti sollevati dal processo di modernizzazione? Come devono essere trattate le diverse teorie
sulla modernizzazione e sviluppo? Dobbiamo formulare una posizione di auto-coscienza dopo
un'analisi critica di queste teorie cosicché possiamo decidere quale di esse meglio risponde alle
nostre necessità? O dobbiamo formulare gradualmente una nostra personale teoria dello sviluppo?"
La resistenza all'influenza della Globalizzazione (con la G maiuscola) rappresenta certamente un
agente catalizzatore e, sul finire degli anni Novanta, sembrerebbe avere accomunato su posizioni
sostanzialmente analoghe neo-maoisti e nazionalisti radicali. Tuttavia, all'interno del discorso sulla
globalizzazione si raccolgono numerose sotto-tematiche, sfaccettature che richiedono un'analisi più
approfondita e sulle quali le posizioni di questi intellettuali si trovano in disaccordo. Li Tuo, per
esempio, è stato più' volte criticato in quanto ritenuto portavoce di una posizione elitistica e
autoreferenziale, considerata, dai suoi detrattori, tipica di intellettuali che risiedono e lavorano a
Pechino o all'estero. Dopo aver destrutturato i valori dell'Illuminismo, Li Tuo, assorbito nel progetto
di formulare un'idea unica ed esclusiva della "Cinesità", sembra in questo modo ripercorrere gli
stilemi della "differenza" ad ogni costo e, quando giunge a teorizzare l'unicità del percorso cinese
alla modernità e allo sviluppo, rischia di creare la visione di un nuovo assoluto: l'unico (nuovo)
"corretto" illuminismo.
3 - Globalizzazione e/o globalizzazioni possibili
Così come accade in molti articoli ufficiali, anche nelle posizioni di numerosi intellettuali il termine
quanqiuhua viene utilizzato per riferirsi a quella che potremmo definire "globalizzazione
economica", limitata all'idea della creazione di un mercato globale che sembrerebbe avere una
specificità e un'assolutezza meramente economico-finanziaria. Tuttavia, altri intellettuali, quali ad
esempio Han Shaogong, sembrano suggerire una distinzione tra il termine quanqiuhua che si
riferisce alla sfera economica e l'espressione quanqiuyitihua, utilizzata per indicare una
globalizzazione integrale che comporta un'omogeneizzazione economico-politico e culturale.
Artisti, quali Ren Jian e Wang Jin, con le loro opere, puntano anch'essi il dito contro la perdita di
identità culturale e denunciano la seduzione del consumismo sfrenato e del materialismo
individualista che la modernizzazione globale (e globalizzante) ha portato con sè, rischiando di
"McDonaldizzare" ogni aspetto della vita pubblica e culturale.
Nel dibattito aperto tra gli intellettuali meno legati all'establishment, il termine quanqiuhua giunge a
toccare il nodo del rapporto tra globalizzazione del mercato e quella che è la sua forza motrice, la
conditio sine qua non per la sua esistenza e il raggiungimento dei suoi obiettivi: la globalizzazione
dell'informazione. Quest'ultima richiede a sua volta libertà di stampa, di pubblicazione, libertà
d'accesso alle nuove tecnologie multimediali; si è allora cominciato a parlare anche di "istruzione
internazionale (guoji jiaoyu)" e alcuni intellettuali hanno sottolineato come la globalizzazione debba
necessariamente prevedere un cambiamento del sistema giuridico e delle istituzioni politiche in
senso democratico.
Un tratto comune alle varie posizioni - ufficiale e non - è rappresentato dall'enfasi posta sul
"comportamento": per non perdere il treno della "quarta ondata della globalizzazione" occorre
"congiungersi e muoversi in sintonia con le norme internazionali (yu guoji jiegui)", come recita uno
degli slogan più in voga degli ultimi anni.
Globalizzazione significa quindi internazionalizzazione? E se così fosse, che cosa significa
"internazionalizzazione" in una Cina nella quale il nazionalismo rappresenta ormai l'unico collante
dopo il vuoto creato dalla progressiva de-ideologizzazione e depoliticalizzazione della vita sociale?
Su questo punto esiste probabilmente una scollatura tra la posizione ufficiale e la tensione
soggettiva rappresentata da alcuni intellettuali.
Nel mese d'aprile 2001 a Shanghai, la città internazionale per eccellenza, nonché sede nell'ottobre
dello stesso anno del vertice APEC, venne lanciata una vera e propria campagna di "educazione
civica". L'obiettivo dichiarato era quello di preparare i cittadini alla "nuova civiltà" (xin wenming),
in altre parole di "propagare e promuovere" (questo è il significato etimologico del termine cinese
xuanchuan da noi volgarmente tradotto "propaganda") i "valori" necessari per accogliere il "nuovo
soffio" che avrebbe investito il paese ora entrato a pieno titolo nell'OMC. Soffio, così come tutta
l'ampia gamma di agenti atmosferici, nel machiavellico glossario politico cinese significa "linea
politica" più' adatta al momento e, in questo caso, sta per "globalizzazione" alla cinese.
Ma per alcuni - pochi - pensatori liberali questo tipo di "globalizzazione" rappresenta un limite: essi
propongono una "globalizzazione a tutto campo (quanfangweide quanqiuhua)" e si fanno promotori
dei cosiddetti "valori globali (quanqiu jiazhi)", teoricamente condivisi da tutte le nazioni del
mondo. Questi intellettuali sembrano andare aldilà del preteso sillogismo "norme internazionali" =
"alta tecnologia e riforme economiche", così come riescono ad andare oltre la critica e il ripudio dei
cosiddetti "valori occidentali (xifang jiazhi)", alimentata dal crescente trend nazionalista da loro
considerato "irrazionale" (feilixing minzhuzhuyi). Dall'altra parte della barricata - ma in una specie
di continuum tipicamente cinese che consente la quadratura del cerchio - troviamo altri intellettuali
(assai più numerosi) che sottolineano la vicinanza del concetto di "globalizzazione" con l'ideale
confuciano del raggiungimento della "Grande armonia (datong)". Quella che era la "preoccupazione
finale (zhongji guanhuai)" secondo il confucianesimo, viene associata da questi esponenti del
"liberalismo confuciano (rujia ziyouzhuyi)" ai concetti occidentali di libertà e democrazia. La
globalizzazione, sostenuta e diretta dall'ideale della "grande armonia" e dai "valori asiatici (yazhou
jiazhi)" è diventata, in questo modo, una globalizzazione dalle caratteristiche cinesi, finalizzata a
garantire la "stabilità e armonia" interna e, al contempo, tesa (quantomeno fino al fatidico 11
settembre 2001) a segnare il nuovo mainstream per la cultura mondiale del XXI secolo,
opportunamente, ma forse prematuramente, ribattezzato il "secolo cinese".
La sfida della globalizzazione è aperta, e le recenti decisioni di approvare l'ingresso della Cina
nell'OMC e di destinare a Pechino le Olimpiadi del 2008 forniranno nei prossimi anni nuovi
interessanti elementi di indagine per valutare l'attendibilità dell'una o dell'altra posizione. Non
dimentichiamoci, tuttavia, che la posta in gioco è molto alta: si tratta del costo sociale che la
globalizzazione comporterà per un paese che sta assumendo sempre maggior peso nel panorama
internazionale ma che rimane governato da un Partito unico, la cui legittimità poggia su una strenua
difesa dell'individualità nazionale in funzione stabilizzatrice.
CONCLUSIONE DEI SOCIOLOGI
La sociologia della globalizzazione si può rappresentare come un insieme disorganico, in sè
contraddittorio, di dissidenti della sociologia dell'ordine nazional-statale. Si tratta di teorie,
impostazioni e direzioni di ricerca piuttosto divergenti che sono emerse in contesti culturali
diversissimi. La letteratura sulla globalizzazione è attraversata da una controversia di fondo.
Riguardo alla domanda "che cosa spinge avanti la globalizzazione?" si fronteggiano due tipi di
risposte. Un primo gruppo di autori sottolinea l'esistenza di una logica dominante, altri individuano
invece complesse logiche multicausali della globalizzazione. Nel campo della sociologia della
globalizzazione si ripete la controversia Marx-Weber tra una preponderanza della prospettiva
economica e un pluralismo teorico che combina l'approccio economico con quello sociale e
culturale.
Secondo il sociologo e filosofo Zygmunt Bauman la globalizzazione divide quanto unisce; divide
mentre unisce - scrive il sociologo e filosofo Bauman - e le cause della divisione sono le stesse che,
dall'altro lato promuovono l'uniformità del globo.
Secondo lo studioso italiano di sociologia del lavoro Domenico De Masi la globalizzazione di cui si
parla oggi è l'esito di una perenne tendenza umana ad esplorare e poi colonizzare tutto il territorio.
Domenico De Masi ha individuato dieci principali diverse forme di globalizzazione.
Sul tema della globalizzazione dei flussi comunicativi un importante contributo si può ricavare dalle
analisi condotte dal sociologo inglese Anthony Giddens. La globalizzazione per Anthony Giddens
rappresenta uno dei tratti dominanti della modernità ed è frutto della separazione dello spazio e del
tempo. La globalizzazione viene definita come "l'intensificazione di relazioni sociali mondiali che
collegano tra loro località distanti facendo in modo che gli eventi locali vengano modellati dagli
eventi che si verificano a migliaia di chilometri di distanza e viceversa".
Diversi autori hanno evidenziato l'estensione universale di alcuni modelli. Secondo l'approccio di
Theodor Levitt l'era della globalizzazione è l'epoca della omogeneizzazione dei bisogni e della
standardizzazione dei prodotti. K.Ohmae, discutendo del sistema economico dei consumi, ha
descritto la convergenza dei gusti e delle preferenze delle giovani generazioni, dall'America Latina
all'Estremo Oriente, come un processo di "californizzazione". L'analisi della proliferazione su scala
mondiale di catene di fast-food, parchi divertimento, club-vacanze, ecc., ha suggerito a George
Ritzer di identificare la globalizzazione con la "Mc Donaldizzazione".
Armand Mattelart, docente di scienze dell'informazione e della comunicazione, focalizza la propria
attenzione sul sistema di comunicazione. Obiettivo del suo studio è ricercare le tracce dell'attuale
configurazione "comunicazione mondo", ripercorrendo le tappe storiche della creazione del reticolo
tecnologico e informativo planetario. La sua analisi si sviluppa lungo i concetti fondamentali della
guerra, del progresso e della cultura che sono considera elementi cruciale dell'attuale configurazione
comunicazione-mondo.
Lo studioso americano Marshall Mc Luhan, studioso delle comunicazioni di massa, ha introdotto il
concetto di "villaggio globale". Il villaggio globale è un ossimoro usato da Marshall Mc Luhan per
descrivere la situazione contraddittoria in cui viviamo. I due termini dell'enunciato si contraddicono
a vicenda; il "villaggio" esprime qualcosa di piccolo, mentre "globale" sta a significare l'intero
pianeta. Marshall Mc Luhan afferma che per creare un mondo globale c'è bisogno di una fusione
organica tra tutte le funzioni frammentarie e lo spazio totale.
Roland Robertson, uno dei padri della teroia della ricerca sulla globalizzazione culturale, propone di
sostituire il concetto di globalizzazione culturale con quello di glocalizzazione che sintetizza i
concetti di globalizzazione e localizzazione. Globalizzazione non vuol dire che il mondo diviene
omogeneo ma per globalizzazione si intende un processo complesso in cui non si può contrappore il
locale al globale. La globalizzazione, per Robertson, non comporta una riduzione della cultura
perchè la produzione di massa di simboli e informazioni culturali non conduce al sorgere di quella
che potrebbe definirsi "cultura globale" ma, semmai, ad un mondo di merci.
Nel suo quadro di riferimento, globalizzazione significa che l'umanità ha lasciato l'epoca delle
relazioni internazionali, epoca in cui gli Stati nazionali dominavano e monopolizzavano lo scenario
internazionale. Per J. Rosenau esistono due arene: una è la società degli Stati, l'altra è il mondo
della subpolitica transnazionale. R. Gilpin sottolinea che la globalizzazione ha luogo perchè e il
prodotto di un ordine globale permissivo. D. Held rimarca come con gli accordi internazionali, con
l'internazionalizzazione dei processi politici, con il traffico di merci e la divisione del lavoro su
scala internazionale, la politica nazional-statale perde l'essenza costitutiva del suo potere: la sua
sovranità.
Per Amartya Sen, premio nobel nel 1998, la questione più importante è come usare bene i grandi
benefici derivanti dai rapporti economici e dal progresso tecnologico, in maniera da prestare la
dovuta attenzione agli interessi dei più poveri. Questo chiedono i movimenti di protesta, anche se in
sostanza la questione non riguarda affatto la globalizzazione. Non basta convenire sul fatto che i
poveri del mondo hanno bisogno della globalizzazione almeno quanto i ricchi, bisogna anche
assicurarsi che ottengano ciò di cui hanno bisogno.
Le teorie sugli effetti a breve termine dei media sul pubblico si dividono sostanzialmente in tre fasi
ovvero nella fase dei media potenti, nella fase dell'influenza mediata ed in quella in cui predomina
la visione funzionalista secondo cui si ha una concezione ottimistica delle conseguenze sociali e
individuali delle comunicazioni di massa.
Nelle
teorie sugli effetti a lungo termine dei media sul pubblicol'esposizione prolungata e
continuativa dei media porta all'esigenza di studiare i media come elemento di comunicazione
globale.
Lo storico americano Immanuel Wallerstein sostituisce radicalmente l'immagine di singole società
separate l'una dall'altra con l'immagine di un unico sistema-mondo, nel quale tutti devono collocarsi
e affermarsi in una divisione del lavoro. Questo unico sistema-mondo si impone, secondo Immanuel
Wallerstein, con il capitalismo Nel sistema-mondo si moltiplicano e si acuiscono i conflitti perchè
questo sistema non produce solo enormi ricchezze ma anche grandi povertà.
Il panorama teorico occidentale è oggi dominato dai seguenti due paradigmi portanti:
- il liberalismo economico ritiene essenziale la libera iniziativa individuale per il funzionamento di
un sistema economico, poiché gli interessi dei singoli si armonizzano nel mercato tramite la libera
concorrenza e il libero scambio, portando alle condizioni di massimo benessere generale;
- il neocomunitarismo è una tendenza di pensiero politico affermatosi negli Usa a partire dagli anni
’70 che invoca il ritorno alla comunità come veicolo di valori condivisi per rafforzare i legami
sociali che mettono in relazione gli individui tra loro e si oppone al liberalismo di cui critica
l’individualismo come teoria sociale.